[11111] Carlomagno, re dei Franchi imperatore romano, è considerato come una delle figure più significative per la storia dell’Europa e dei suoi miti. Nato nel 742 e morto ad Aquisgrana nell’814, fu il figlio primogenito di Pipino il Breve, re dei Franchi, e di Bertrada. Alla morte del padre (768) ebbe l’Austrasia e la Neustria al Nord dell’Oise, e l’Aquitania in comune col fratello minore Carlomanno re della Neustria a Sud dell’Oise, della Borgogna, e di altri territori; alla morte di Carlomanno (771), invase i suoi stati e nello stesso anno ripudiò la moglie, figlia di Desiderio re dei Longobardi, di nome forse Desiderata (Ermengarda). Desiderio allora accolse nella sua corte la vedova e i partigiani di Carlomanno. Carlomagno, sollecitato dal papa Adriano I, impose a Desiderio di abbandonare al papa le terre che aveva occupato nell’esarcato e nel ducato romano; avuto un rifiuto, attraversò (773) le Alpi col suo esercito, per i passi del Cenisio e del S. Bernardo, superò per aggiramento la chiusa di Val di Susa, s’impossessò di tutta l’Italia settentrionale e, occupata Pavia (774), si intitolò re dei Franchi e dei Longobardi. Ritornò (776) per reprimere la cospirazione dei duchi longobardi del Friuli, di Chiusi, Spoleto e Benevento; poi (780-781) per far consacrare dal pontefice, come re d’Italia, il figlio Carlomanno che fu ribattezzato col nome di Pipino. Contro i musulmani di Spagna condusse in questi anni una serie di spedizioni: quella del 778, dopo il fallimento dell’assedio di Saragozza, si concluse con il massacro della retroguardia franca al passo di Roncisvalle. Miglior successo ebbero le spedizioni del 785, 797, 801, 811, che permisero la creazione della Marca Hispanica, fra i Pirenei e l’Ebro, con capitale Barcellona, primo nucleo della riconquista cristiana della Spagna. Inoltre ad est, in trent’anni di guerre (772-804), riuscì a occupare le terre dei Sassoni, minacciosi per le loro incursioni continue: violenta fu particolarmente la guerra contro il capo sassone Vitichindo (778-785). La lotta per la sistemazione del confine orientale ebbe anche altri sviluppi: contro i Bavari e il loro duca Tassilone che, vinto nel 787, lasciò il paese in potestà di Carlomagno; e, dalla Baviera, contro gli Avari, di cui con una serie di spedizioni (791-96) distrusse l’impero. Affermato così il suo dominio dall’Elba all’Atlantico, al Tibisco, al Danubio, all’Ebro, a Roma, apparve egli allora il vero e solo capo della cristianità. Questa sua posizione, corroborata dalla sua attività nel campo religioso, come difensore e propagatore della fede, e nel campo della cultura (che conobbe una vera rinascita, detta appunto carolingia), ebbe la piena consacrazione ufficiale nel Natale dell’anno 800, a Roma: Carlomagno vi si era recato per esaminare le accuse contro papa Leone III, che, cacciato nell’aprile 799 da una congiura di nobili, da Carlomagno era già stato rimesso sul trono. Il papa, dopo la messa in S. Pietro, pose il diadema imperiale sul capo di Carlomagno, che fu acclamato dai presenti, evidentemente già informati, “imperatore”. Forse, il fatto che sul trono degli imperatori d’Oriente vi fosse una donna, Irene, che nel 798 aveva destituito il figlio Costantino VI, agevolò il gesto di Carlomagno. Più che la restaurazione dell’Impero romano d’Occidente era la creazione del nuovo Impero cristiano, quale lo concepivano gli uomini del Medioevo. L’elemento religioso vi era predominante; infatti più che uno stato vero e proprio, l’Impero era un ideale politico-religioso, che dava dignità e forza di difensore della cristianità al consacrato, strettamente unito perciò nel suo compito al papato. Il carattere dell’Impero, dopo un’offerta di matrimonio inviata da Carlomagno all’imperatrice Irene e caduta per la destituzione di quest’ultima, venne poi a determinarsi (802) per le reazioni di Niceforo, nuovo legittimo imperatore col quale veniva a cessare la vacanza imperiale, che era stata il pretesto per l’iniziativa di Leone III. Si venne a un conflitto con l’Impero bizantino, svoltosi nell’Adriatico (805-806) e terminato (812) con un accordo che mentre a Bisanzio lasciava Venezia, l’Istria e la Dalmazia, a Carlomagno riconosceva il titolo di imperatore dell’Impero romano-cristiano d’Occidente. Carlomagno attese così a riordinare i suoi vari stati con criteri unitari, dividendoli in circoscrizioni dette contee e, se di confine, marche, mentre, a reprimere ogni abuso, creava le visite periodiche di missi dominici. Riunioni generali o provinciali, dette placiti, ogni anno provvedevano alla legislazione, che si concretò principalmente in un’ottantina di capitolari; oltre a ciò l’opera legislativa di Carlomagno comprende la redazione scritta, da lui ordinata dove non vi si fosse già prima provveduto, delle svariate leggi popolari (barbariche) conservate in vigore nelle varie parti del suo impero. Prode e operoso, resistente alle fatiche e avido di cultura, dotato di eminenti capacità politiche e militari – così la tradizione –, Carlomagno apparve agli stessi contemporanei come il degno capo della società occidentale, romano-germanica e cristiana, onde l’appellativo di Magno e le leggende che lo fissarono nella poesia e nell’agiografia. [111111] Quella dei Carolingi è una dinastia francese, così denominata dal più illustre dei suoi membri, Carlomagno, successa nel regno dei Franchi ai Merovingi. D’origine malcerta, il primo personaggio storicamente accertato è sant’Arnolfo, militare e politico, poi vescovo di Metz (dal 614; morto tra il 640 e 643). Nipote di Arnolfo fu Pipino II (Pipino I, maggiordomo di Austrasia, fu suo nonno materno), detto di Héristal (m. 714), maggiordomo di Austrasia e di Neustria. Da questo nacque Carlo Martello, padre di Pipino il Breve, col quale la carica ormai tradizionale di maggiordomo fu sostituita dal titolo regio (752), ricco di prestigio nella nuova dinastia per la consacrazione religiosa introdotta nella cerimonia dell’incoronazione. Con Carlomagno, figlio di Pipino, si ebbe non solo l’unione nella sua persona dei vari regni sottomessi, ma la fondazione del Sacro Romano Impero. Dopo una serie di lotte fra gli eredi, col trattato di Verdun (843) si venne alla spartizione dell’Impero fra i tre rami carolingi discesi dal figlio di Carlomagno, Ludovico il Pio, i quali ebbero come loro regno, grosso modo, l’Italia, la Francia e la Germania. Le tre dinastie si estinsero rapidamente dopo che con Carlo il Grosso (m. nel 888) per pochi anni gli stati carolingi furono ancora riuniti tra loro. In Francia l’ultimo re carolingio fu Luigi (Ludovico) V, (m. nel 987), cui seguirono i Capetingi. In Germania finì nel 911 il ramo carolingio illegittimo con Ludovico il Fanciullo, figlio di Arnolfo (m. nel 899). In Italia fu considerato carolingio Berengario I, imparentato però solo per parte femminile con la grande dinastia. [11121] Sacro Romano Impero è la denominazione data usualmente all’impero che si costituì in Europa nel Medioevo a partire dalla data simbolica del 25 dicembre dell’800, quando Carlomagno ricevette la corona in S. Pietro dalle mani del papa Leone III. L’impero, oltre che una realtà territoriale – che in età carolingia (800-887) comprendeva la Francia, l’Italia tranne il Mezzogiorno, la Germania, la Spagna settentrionale o marca di Spagna e la zona mistilingue tra Francia e Germania –, nel corso del Medioevo finì per designare il potere (teorico) di governo sull’intera cristianità. A partire da Ottone I di Sassonia (962), dal punto di vista territoriale l’impero si ridusse al regno italico e a quello di Germania, estendendo però progressivamente la sua influenza sui nuovi stati slavi dell’est (Polonia, Boemia) e sull’Ungheria. La coscienza del proprio alto compito spirituale portò in seguito l’imperatore Enrico III (1039-56) a promuovere la riforma ecclesiastica nei territori dell’impero; ma lo stretto connubio tra istituzioni ecclesiastiche e strutture politiche, che era particolarmente forte in ambito imperiale e che non era stato eliminato dalla cosiddetta riforma imperiale promossa da Enrico, fu alla base dello scoppio (1075) della lotta delle investiture tra imperatore e papa, all’epoca di Enrico IV e Gregorio VII. L’esito della lotta, che ebbe fine con il concordato di Worms tra Enrico V e Callisto II (1122), segnò il forte indebolimento del potere imperiale in Germania e in Italia, di fronte al papato e alle nuove realtà comunali. D’altra parte, dalla contrapposizione con il papato l’impero aveva tratto una rinnovata coscienza delle proprie radici universalistiche (romane e cristiane) e questa nuova consapevolezza fruttificò con la dinastia degli Svevi (1137-1254). In particolare con Federico I Barbarossa, nella cancelleria tedesca si iniziò a definire “sacro” l’impero: la denominazione stessa di Sacro impero, con cui impropriamente si indica l’impero medievale fin dall’età di Carlomagno, è dunque una novità del 12° secolo, basata (oltre che sulla polemica antipapale, più volte rinnovatasi in questo periodo) su di una utilizzazione della terminologia imperiale romana tardo-antica, favorita anche dalla contemporanea riscoperta del diritto romano nella sua codificazione giustinianea; per cui, per es., le leggi degli imperatori tedeschi furono anch’esse dette sacre. Con gli Svevi, inoltre, l’impero cercò di assumere tratti politico-amministrativi che lo mettessero sullo stesso piano delle nascenti monarchie europee; ma questo programma di rafforzamento istituzionale dell’impero, nel quale oltre al Barbarossa si impegnò, soprattutto in Italia, il nipote di questi, Federico II (1210-50), fallì per la concorrente opposizione del papato, dei comuni italiani e, in Germania, della grande feudalità. Si aprì così, alla caduta degli Svevi (morte di Corrado IV, 1254), il “grande interregno”, che, dal punto di vista della vacanza del titolo imperiale, durò fino all’effimero tentativo di restaurazione di Enrico VII di Lussemburgo, che scese in Italia e fu incoronato imperatore nel 1312. Gli imperatori erano però divenuti, in questo periodo, figure di secondo piano della politica europea, dominata ormai dai nuovi poteri monarchici, che stavano prendendo il sopravvento sullo stesso papato. Morto Enrico VII nel 1313, la corona imperiale passò a Ludovico il Bavaro, per tornare poi, alla morte di questi, alla casa di Lussemburgo con Carlo IV (1346-78), che spostò più ad est (in Boemia) il nucleo territoriale del potere imperiale, prefigurando così quella dislocazione centro-orientale dell’impero che sarebbe divenuta stabile in seguito sotto la casa di Asburgo. Il Sacro Romano Impero si ridusse di fatto al Regno di Germania, elettivo, e al Regno d’Italia, sempre più nominale per l’enuclearsi delle signorie e poi dei principati e per la politica papale di alternative alleanze. La bolla d’oro di Carlo IV (promulgata alla Dieta di Metz nel 1356), che regolava l’elezione imperiale da parte di sette grandi elettori, vietava, fra l’altro, la divisione dei territori sottoposti ai principi elettori (allo scopo di impedire una moltiplicazione di voti) e proibiva la costituzione di leghe cittadine, senza specifica autorizzazione. Di fatto l’impero divenne una federazione di stati e la bolla d’oro fece dell’imperatore il capo onorario dei tanti stati germanici, sottoposti al controllo degli elettori. Dopo il concilio di Costanza (1414-18), nel quale Sigismondo apparve per l’ultima volta nell’esercizio delle sue funzioni internazionali, l’imperatore non fu che un monarca tedesco la cui forza dipendeva unicamente dalle fortune degli Asburgo, e dall’inizio del secolo 15° il titolo di imperatore divenne di fatto ereditario degli Asburgo, anche se fu mantenuta, almeno formalmente, l’elezione imperiale. Massimiliano I tentò di trasformare l’impero in uno stato forte e di accentrare i poteri (Dieta di Worms, 1495); ma il tentativo fallì per l’istituzione (Dieta di Augusta, 1500), su progetto del vescovo di Magonza Bertoldo di Hennebert, di un consiglio di reggenza con rappresentati i principi e le città. Proprio quando l’impero di Carlo V, per eredità e vicende politiche, pareva costituire una promessa di monarchia unitaria vastissima, l’unità religiosa del Sacro Romano Impero fu profondamente lacerata dalle guerre che videro opposti, dopo la Riforma, principi tedeschi protestanti e imperatore, conflitti che si conclusero, temporaneamente, nel 1555 con la pace di Augusta. La divisione dell’eredità di Carlo V riconfermò la corona imperiale nell’ambito tedesco, ma i conflitti religiosi e la guerra dei Trent’anni portarono al definitivo sgretolamento dell’impero; dopo la pace di Vestfalia (1648), si arrivò al riconoscimento della piena sovranità degli stati, che si sottrassero così al controllo dell’impero. Il Sacro Romano Impero appariva come un aggregato di stati quasi del tutto indipendenti, una confederazione, senza però un proprio esercito e un vero indirizzo politico, di principi tedeschi sotto la presidenza, formalmente elettiva, ma di fatto ereditaria, degli Asburgo d’Austria. E perciò l’assoggettamento di gran parte dell’Italia nel secolo 18° non significò affatto un riaffermarsi del Sacro Romano Impero, ma solo il predominio della casa d’Asburgo. Il Sacro Romano Impero, che non rappresentava ormai da tempo una consistente realtà politica, fu del tutto compromesso con lo staccarsi, per il trattato di Presburgo (1805), della Baviera, del Baden, del Württemberg e di altri stati minori che costituirono la Confederazione renana (1806) sotto la protezione francese. Di fronte alla dichiarazione di Napoleone di non riconoscerne più l’esistenza, Francesco II, che dal 1804 aveva cominciato a chiamarsi anche imperatore ereditario d’Austria, rinunciò (6 agosto 1806) alla corona del Sacro Romano Impero. [11131] “Difensore della cristianità” e imperatore “dei cristiani”: Carlomagno, col Sacro Romano Impero, rappresentò un nuovo concetto di imperatore posto alla testa di una nuova idea di impero. L’opera di Carlomagno fu in effetti grandiosa; egli, più che una restaurazione dell’Impero Romano d’Occidente, creò un nuovo Impero cristiano, quale lo concepivano gli uomini del Medioevo. L’elemento religioso vi era predominante; infatti più che uno stato vero e proprio, l’Impero era un ideale politico-religioso, che dava dignità e forza di difensore della cristianità al consacrato, strettamente unito perciò nel suo compito al papato. Dopo aver ottenuto il controllo di territori che andavano dall’Ebro all’Elba, dal Mare del Nord all’Adriatico, dal Danubio al Tevere, non era ingiustificato che si pensasse a un riconoscimento anche istituzionale di una tale potenza che, tranne i regni anglo-sassoni in Inghilterra e i principati longobardi superstiti nell’Italia del Sud, comprendeva ormai l’intera Europa romano-germanica. Lo si ebbe nella notte di Natale dell’800, quando il papa Leone III incoronò Carlo in Roma come imperatore romano. Fu iniziativa della corte franca, presso la quale si era formato un notevole gruppo di intellettuali, o della Chiesa di Roma, che intendeva così recidere ogni residuo legame con Costantinopoli e procurarsi un protettore e difensore, che però ne fosse anche il braccio temporale? La questione ha minore importanza dell’effetto, che fu di dar vita a una realtà politica intorno alla quale avrebbe gravitato la storia europea e dalla quale si sarebbe venuta svolgendo la successiva espansione di quello che si può riconoscere come momento di definitiva individuazione dell’Europa quale si è poi storicamente affermata. Dal canto suo, anche la figura di papa Leone III (successore, nel 795, di papa Adriano I, e poi divenuto santo) è significativa di tutta un’epoca storica. Nato a Roma, Leone fu innalzato alla cattedra pontificia dal clero romano in opposizione alla nobiltà laica. Appena eletto, partecipò la sua nomina a Carlomagno re dei Franchi, promettendogli obbedienza e fedeltà in cambio della sua protezione, proprio mentre il papato si andava nuovamente staccando da Bisanzio. Scampato, pur ferito, a una congiura nobiliare, Leone si rifugiò (799) a Paderborn presso Carlomagno, che lo fece riaccompagnare da soldati franchi a Roma, ma insieme dispose un’inchiesta sulla condotta del papa, accusato dalla nobiltà romana di adulterio e di spergiuro. Poco dopo lo stesso Carlomagno venne a Roma, e Leone, superata la difficile situazione, procedette alla famosa incoronazione imperiale con una cerimonia che, se pur non è ben chiaro se fosse stata predisposta in quella forma né da chi, segnò la rinnovazione dell’idea imperiale, costituendo un precedente della futura affermazione della concezione teocratica del papato. Leone rimase sempre soggetto alle decisioni di Carlomagno. Morto questo, riesplosero a Roma gli odi in congiure cui Leone rispose con drastiche rappresaglie, a tal punto che l’imperatore Ludovico volle una inchiesta del re d’Italia Bernardo; ma nel frattempo Leone morì. Leone III legò il suo nome a importanti affermazioni dogmatiche, con la condanna definitiva dell’adozianismo (sinodo del 799). [11141] Aquisgrana (in tedesco Aachen, in francese Aix-la-Chapelle) attualmente è una città tedesca (Renania Settentrionale-Vestfalia), situata al confine con il Belgio e i Paesi Bassi, poco distante da Maastricht e posta a 174 metri sul mare nella valle del fiume Würm. La città, di non molta importanza sotto i Romani (il nome latino Aquae Grani è stato spiegato col culto di [Apollo] Grannus), fu occupata nel 400 circa d. C. dai Galli Ripuari. Divenuta dominio dei Carolingi, questi la prescelsero spesso come loro residenza. Fu infatti nel 768 che Carlomagno la scelse come propria residenza ufficiale. Quindi fu sede d’importanti assemblee imperiali, come quella dell’817, nella quale fu deliberata la divisione dell’Impero. Fu anche sede di concili, tra cui vanno ricordati quelli tenuti dall’816 all’819, nei quali fu accolta la Regola di Aquisgrana, che riformò notevolmente la vita ecclesiastica. La città ebbe notevoli privilegi da Federico I (1166) e Federico II (1215), che ne fecero un vivace centro di commerci e (dal 1359) di grandi fiere annuali. Nella cappella palatina s’incoronarono i sovrani franchi e tedeschi sino a Ferdinando I (1531). Il ruolo e l’importanza storica della città sono testimoniati dai monumenti che fanno di Aquisgrana la sede del “primo monumento” della Germania (la cattedrale e il tesoro sono posti sotto tutela dell’Unesco). Tra i monumenti il maggiore è il duomo, uno dei più celebri edifici sacri della Germania: il nucleo è costituito dalla cappella palatina fatta costruire (796-805) da Carlomagno, un ottagono coperto a cupola e circondato da un deambulatorio sormontato dalla galleria, destinata alla corte; sull’ottagono s’innesta l’imponente corpo occidentale a tre torri che, al livello della galleria, costituisce la loggia imperiale con il trono. Il ridotto coro carolingio fu ampliato (1355-1414) in una grandiosa struttura gotica e, nei secoli successivi, furono aperte sui lati dell’edificio altre cappelle. Il duomo conserva preziose testimonianze artistiche: dalle porte e dalle transenne della galleria, bronzi carolingi, alla Pala d’oro di Ottone III, all’ambone di Enrico II, al lampadario di Federico Barbarossa, all’arca di Carlomagno, opera di oreficeria renana dell’inizio del secolo 13°, al sarcofago di Proserpina (2° secolo d. C.). Altre importanti opere di oreficeria, avori, manoscritti, ecc., sono conservati nel tesoro. Sul luogo del palazzo di Carlomagno fu eretto il municipio (14° secolo; Granusturm del periodo carolingio; successive modificazioni). [11151] Dopo alcuni interessanti inizi sotto Pipino, sotto Carlomagno e i suoi successori, nel quadro generale della “rinascita carolingia”, si assiste a un fiorire di scuole artistiche che, investendo tutto il complesso delle arti, si presenta come un periodo artistico definito, spesso in contrasto con l’età precedente. La tradizione degli scriptoria insulari, l’apporto della pittura ellenizzante bizantina, le pratiche costruttive degli architetti mediterranei, il cosciente riferimento ai monumenti antichi, specialmente costantiniani, la riforma liturgica more romano, concorrono a formare la fisionomia dell’arte carolingia. [111511] In architettura le chiese delle abbazie di St. Denis, di Sankt Emmeram, di Lorsch fissano lo schema della grande basilica a tre navate, solitamente con transetto, d’ispirazione costantiniana, con il corpo occidentale (Westwerk) consistente in un vestibolo sovrastato da un ambiente aperto sulla navata, affiancato da torri scalari. Assai significativo è l’aspetto di fortezza che assume tale parte dell’edificio, documentato da scavi e descrizioni per molte chiese e giuntoci quasi intatto in quella di Corvey (873-85). Altro gruppo assai importante di chiese è quello con cori contrapposti, a Est e ad Ovest, corrente rielaborazione del tipo di chiese biabsidate paleocristiane: si ricordano le chiese di Fulda (819), S. Gallo (820). In connessione con la diffusione del culto delle reliquie, particolari soluzioni furono date alle cripte (spesso esternamente addossate all’abside), dalla pianta anulare (Sankt Emmeram, S. Lucio a Coira, ecc.), a quella a galleria (Petersberg presso Fulda, St. Médard a Soissons), a forme più complesse (St. Germain di Auxerre). Westwerke e cripte richiedono abilità nella costruzione di volte, pienamente attestata nell’oratorio a pianta centrale di Germigny-des-Prés. Monumento sommo è la cappella palatina di Aquisgrana (805), idealmente ispirata al S. Vitale di Ravenna e alla S. Sofia di Costantinopoli, ma nuova nella chiara articolazione della struttura. Dell’architettura civile importanti testimonianze ci vengono dagli scavi del palazzo di Aquisgrana, dalla residenza di Ingelheim (ricostruita dagli Ottoni rispettando il piano originale), da una villa presso Ginevra (scoperta nel 1953). Nella plastica, accanto a stucchi (Müstair, Malles, Brescia, Disentis) che rielaborano gli intrecci geometrici di origine barbarica (ma con l’introduzione della figura umana), sono sorprendentemente classicheggianti le transenne e le porte bronzee della cappella di Aquisgrana, la piccola statua equestre (Carlomagno o Carlo il Calvo) al Louvre, il trono di Dagoberto, ivi. All’oreficeria (altare di Vuolvinio a S. Ambrogio a Milano; ciborio di Arnolfo nella Residenza di Monaco di Baviera) sono dovute alcune delle opere maggiori di plastica. Ma, legati sempre allo sviluppo delle arti suntuarie, si devono citare ancora per l’oreficeria il calice di Tassilone (Kremsmüster, tesoro dell’abbazia), il reliquario di Enger (Berlino, Staat. Mus.) e quello del dente (Monza, tesoro della cattedrale), la coperta del Codex Aureus di Monaco (Staatsbibl.) e, nell’ambito della vasta e differenziata produzione di avori, le coperte del Salterio di Dogulfo (Louvre), del Codex Aureus di Lorsch (Bibl. Apostolica Vaticana e Victoria and Albert Mus. di Londra), del Salterio di Carlo il Calvo (Parigi, Bibl. Nat.), il flabello conservato a Firenze (Mus. del Bargello). [111521] La pittura, salvo i cicli di affreschi di Müstair, Malles, Brescia (S. Salvatore) e i resti superstiti di Auxerre (S. Germano) e di Treviri (affreschi da S. Massimino, ora nel Museo diocesano), e a parte i mosaici di Germigny-des-Prés, è specialmente documentata dalla miniatura, l’arte più vicina al rinnovamento letterario e liturgico carolingio. Si distinguono varie scuole, fra cui le più importanti sono quella di corte (detta anche di Ada dal nome che compare in uno dei manoscritti del gruppo), il cui monumento principale è l’Evangeliario di Godescalco (Parigi, Bibl. Nat.) eseguito per Carlomagno nel 781-83; il gruppo di codici intorno all’Evangeliario dell’Incoronazione (Vienna, Tesoro) del 790 circa; lo scrittorio di Tours; i codici di Metz (Evangeliario di Drogone, figlio di Carlomagno); la scuola di Reims (cui appartiene il famoso Salterio di Utrecht); la scuola di Corbie; la scuola franco-sassone, ecc. Notevoli le copie di manoscritti tardo-antichi. [11211] Per feudalesimo si intende quella forma di aggregazione politica della aristocrazia affermatasi originariamente nella società franca nell’alto Medioevo. Il concetto, definitosi originariamente nell’ambito del diritto, si è poi evoluto e modificato sulla base di usi contingenti per lo più estranei all’indagine storiografica. Ecco perché, pur non rinunciando a impiegare un termine carico di implicazioni che le sono estranee, la storiografia tende a ricondurlo a limitati ambiti cronologici e geografici, negando comunque ormai che esso possa essere correttamente impiegato per definire un determinato periodo storico, come “etichetta” onnicomprensiva di una società (quella dell’età carolingia, o quella dei secoli centrali del Medioevo) e, magari, del suo modo di produzione (quello agrario: il mito del legame tra feudo e curtis). Le componenti fondamentali del problema “feudalesimo” sono rappresentate dal feudo e dal vassallaggio. Da quest’ultimo punto di vista, elementi per solito definiti “prefeudali” si possono cogliere durante il Basso Impero romano nel costituirsi, di fronte alla progressiva impotenza dello stato, di veri e propri patronati nei latifondi che disponevano perfino di milizie private; e così può dirsi prefeudale l’uso nel mondo germanico di farsi “compagni” d’un capo valoroso e anziano, legandosi a lui con giuramento di fedeltà. Ma fu specialmente nella Gallia merovingia della seconda metà del 7° secolo, quando l’aristocrazia regionale andò sempre più inserendosi nei conflitti che si aprivano ad ogni successione, che le clientele armate assunsero un grande rilievo ad ogni livello della gerarchia dei poteri. Spesso allora si sopperì alla necessità di ripagare una continuativa fedeltà militare fondata sulla figura del combattente a cavallo con donazioni fondiarie o con la concessione in “beneficio” (cioè senza la contropartita della corresponsione di un canone in natura o in denaro) di un possesso fondiario. È però con i carolingi che il mutuo rapporto di fedeltà e protezione tra il signore e il vassallo, il rapporto di vassallaggio, viene associato in maniera sempre più sistematica con la pratica della concessione vitalizia di un beneficio (o feudo) da parte del signore che, senza alienare le sue proprietà, poteva così assicurare il mantenimento del vassallo e compensarne la fedeltà militare. Quel compenso non comprendeva tuttavia il diritto di amministrare la giustizia sulla terra ricevuta, e il rapporto vassallatico-beneficiario si configura perciò al suo sorgere nel mondo franco non tanto come elemento base di un organico sistema politico, quello evocato dall’immagine della “piramide feudale” da riservarsi a casi più tardi e particolari come quello dell’Inghilterra normanna, ma come strumento di raccordo e coordinamento politico delle aristocrazie. Una funzione che manterrà anche dopo la crisi dell’età postcarolingia, nel quadro del frazionamento politico che mise in luce l’affermarsi di un potere basato sulla signoria fondiaria. Quella feudale è soltanto una delle componenti di questo processo che vede il serrarsi delle maglie della signoria fondiaria, la sua territorializzazione, l’incastellamento dei centri signorili, l’acquisizione dei poteri di banno (di coercizione e comando), fino al godimento di fatto di quelle immunità (nate in ambito ecclesiastico) che permettono alla signoria fondiaria di incorporare poteri di origine pubblica, di difesa militare e di esercizio giurisdizionale. Sarà poi proprio per il tramite degli istituti feudali, ormai molto modificati rispetto a quelli carolingi (divenuti, per esempio, ereditari e inalienabili: nell’877, con il capitolare di Quierzy, per quel che riguarda i feudi maggiori, e nel 1037, con le leggi di Corrado II, per i feudi minori; con il che il feudo entra a far parte del patrimonio familiare e del suo asse ereditario), che, tra 11° e 13° secolo, si affermerà la tendenza al costituirsi di organizzazioni politiche più ampie, gli stati feudali, o, più propriamente, di orientamento feudale, dato che stati completamente feudalizzati non ve ne furono mai. Ancora una volta, l’applicazione dei rapporti feudo-vassallatici avrà il ruolo di legittimazione a posteriori, di raccordo tra i poteri signorili sviluppatisi nei secoli precedenti e ora inseriti in una gerarchia di poteri facenti capo a quello regio o imperiale. Non a caso questi raccordi vassallatici torneranno ad essere numerosi e perfino sollecitati a partire dal 12° secolo. Con la formazione dello stato moderno il termine “feudalesimo” venne impiegato estensivamente per designare il regime caratterizzato dalla signoria rurale. I feudi diventavano spesso delle forme di assegni sulle entrate dello stato con cui i sovrani compensavano cortigiani e funzionari, o cercavano di provvedere ai loro bisogni straordinari, procurandosi, coll’investire finanziatori, introiti forti e immediati. Onde la diffusa irritazione, nei soggetti, per le richieste delle antiche prestazioni personali dei tributi da corrispondersi al feudatario, pesanti soprattutto per la differenza vistosa con le franchigie di cui invece godevano le borghesie cittadine, e per l’ormai avvenuta assunzione da parte dello stato di funzioni di protezione e di difesa. Sarà la Rivoluzione francese a spazzare via questa anacronistica sovrastruttura feudale: ma già prima l’assolutismo illuminato aveva avviato l’eversione dei feudi, incompatibili, per il loro carattere privatistico, con la concezione moderna dello stato, quale si andava realizzando. [11221] Simbolo di un’età storica, il castello feudale con le sue torri e le sue mura è forse l’edificio che meglio rappresenta alcuni tratti della società e della cultura del Medioevo. Se gli antichi romani denominavano generalmente castellum (diminutivo di castrum) fortificazioni di minore entità lungo i confini dell’Impero, disposte a intervalli regolari a sorveglianza di ponti o strade, al di qua e al di là delle frontiere, nel Medioevo il nome di castello passò alla residenza fortificata, che costituì la dimora del signore feudale. Dapprima fu un fortilizio isolato nel quale l’abitazione del feudatario si riduceva a pochi vasti ambienti ricavati all’interno delle torri e delle muraglie. Poi, quando la vita delle piccole corti feudali si volse a una maggiore ricerca di agi e di benessere, il castello divenne un organismo complesso, del quale fecero parte l’apparato difensivo, costituito dalla cinta muraria per la difesa esterna e dal mastio per la sorveglianza dell’intero edificio e l’eventuale estrema difesa, il nucleo abitato, costituito dal palazzo del signore, le abitazioni dei famigli e dei soldati, la cappella, magazzini e servizi comuni. Nel sistema fortificato (costituito da cortine talora in più ordini, rafforzate, specie in corrispondenza degli ingressi, da torri e difese esterne), le caratteristiche strutturali e tecniche delle varie parti seguirono i progressi dell’arte militare: si passò così dalle nude muraglie merlate dei primi fortilizi feudali alle ben studiate disposizioni difensive dei castelli dal ’200 al ’400, dominati dall’alta mole del mastio, coronati dalla serie delle merlature su caditoie del cammino di ronda aggettante, protetti dalle robuste torri distribuite nei punti più salienti. In questi già complessi e vasti organismi il palazzo del signore con i fabbricati annessi prese importanza e aspetto di dimora principesca e, pur conservando all’esterno le disposizioni necessarie per la difesa e la sicurezza degli abitanti, si arricchì, nell’interno, di cortili e di sale dalle amene architetture e leggiadre decorazioni. Nel secolo 16° il castello perdette il duplice carattere di fortezza e di dimora signorile. Il nome di castello rimase tuttavia in uso per indicare le grandi dimore di campagna, che, specialmente in Francia e nei paesi germanici, si sostituirono, sotto forma di fastosi palazzi circondati di vasti parchi, alle antiche residenze feudali. [11231] Carlomagno (768-814) aveva creato un dominio che si estendeva dall’Ebro all’Elba, dalla Frisia a parte dell’Italia, segnando profondamente la storia dell’Occidente europeo. Durante il suo regno promosse una vasta opera di riordino legislativo e giuridico e favorì un’importante, per quanto effimera, rinascita intellettuale. All’antico regnum Francorum, sempre sussistente, si sovrappose, con la consacrazione di Carlomagno a imperatore, da parte di Leone III (800), l’universalità del Sacro Romano Impero sorto in quell’occasione. La storia di questo supera di gran lunga gli stretti limiti di una storia di Francia. Una dimensione propriamente francese della storia dei Carolingi si rintraccia invece durante le lotte tra il successore di Carlomagno, Ludovico il Pio (814-840), che con l’Ordinatio imperii dell’871 aveva tentato di affermare il criterio dell’unità imperiale, e i figli che a ciò si ribellarono, e poi durante le lotte intestine tra quegli stessi figli. L’esito di questa lotta fu il trattato di Verdun (843), che sancì la divisione dell’Impero carolingio in tre zone che prefiguravano tre rispettive future entità politiche: mentre a Lotario restò il titolo imperiale, la Lotaringia e l’Italia, a Carlo il Calvo (843-877) toccò il territorio francese tranne le terre a Est della Mosa, Saône e Rodano, e a Ludovico il Germanico il regno orientale tra l’Elba e il Reno. Pochi anni dopo, a Meersen (870), l’individualità politica della Germania veniva confermata, pure se nominalmente essa faceva ancora parte dell’impero, la cui corona spettò nell’881 proprio al re dei Franchi orientali, Carlo III il Grosso. Con il trattato di Ribermont (880) il confine tra le future Francia e Germania venne spostato ad Ovest della Mosa e sulla Schelda. Carlo il Calvo venne riconosciuto come re dei Franchi occidentali e lui e i suoi successori, pur continuando a nutrire aspirazioni imperiali, assunsero di fatto una figura sempre meglio definita di sovrani di un determinato territorio. Il loro potere fu però ridotto sempre più a poca cosa. Mentre fin dall’840 la Francia veniva devastata dalle incursioni normanne (nell’885 i Normanni entravano a Rouen e assediavano Parigi) e non cessava la minaccia degli attacchi degli Slavi e degli Arabi, sul piano interno Carlo il Calvo veniva costretto nell’assemblea di Quierzy (877) ad acconsentire alla pratica di una trasmissione pressoché ereditaria dei feudi in linea di primogenitura maschile, riconoscendo così uno stato ormai di fatto. Incapace di far fronte alle incursioni vichinghe, Carlo il Grosso fu ben presto deposto (887); come re di Germania gli successe Arnolfo di Carinzia, imparentato con i Carolingi. Di fatto l’impero carolingio era finito, anche se lo stesso Arnolfo prese per breve tempo la corona imperiale. Deposto Carlo il Grosso, l’aristocrazia francese scelse come re un proprio pari, il difensore di Parigi dai Normanni Eude o Oddone (887-898), figlio di Roberto il Forte, conte di Parigi. Per un secolo la Francia oscillò fra gli ultimi rampolli della gloriosa dinastia carolingia e quelli della nuova dinastia dei conti di Parigi, mentre la stessa autonomia della Francia veniva messa più di una volta in forse dall’intervento degli imperatori tedeschi. Nel 987 la partita fu definitivamente vinta da Ugo Capeto (figlio e successore del potentissimo conte di Parigi Ugo), che i grandi riconobbero loro sovrano, ponendo le premesse per l’affermazione di una nuova monarchia, che sarà poi detta capetingia, tipicamente feudale. [11241] Mancano dati attendibili sulla popolazione europea prima del secolo 17°. Le stime dei demografi storici indicano per l’inizio dell’era volgare 30÷35 milioni di unità. Diminuita in età tardo-romana e nell’alto Medioevo, fin quasi a dimezzarsi nel 7° secolo, in seguito la popolazione tornò a crescere lentamente, superando di nuovo i 30 milioni di unità intorno al 1000 e i 60 nella prima metà del Trecento, per poi calare ancora a causa di ricorrenti pestilenze. Col Sacro Romano Impero il sistema feudale si precisò con la divisione del territorio in contee e marche periodicamente ispezionate da missi dominici, con una legislazione imperiale formulata in numerosi “capitolari”, con assemblee annuali dei dignitari e dei signori oltre che dell’alto clero. Si ebbe anche una certa rifioritura economica e, per qualche tempo, una vivacità culturale che ha fatto parlare di “rinascimento carolingio”. Naturalmente, avevano grande rilievo i rapporti con la Chiesa. Nella tradizione europea la prassi carolingia fu assunta a modello di un accordo e di una convergenza che, nella misura in cui vi furono, vanno riconosciuti come effetto più delle circostanze che di un programma definito. La grande costruzione di Carlomagno non si rivelò, tuttavia, duratura. Gli elementi interni ed esterni di crisi da lui affrontati continuarono ad operare. Se ne aggiunsero, anzi, di nuovi, fra cui, all’interno, l’espansione generalizzata del sistema feudale e un sistema di successione al trono per cui lo stato, considerato patrimonio della famiglia reale, poteva venire diviso fra più eredi del sovrano defunto. Ciò portò nell’843 ad una tripartizione tra un regno dei Franchi occidentali (che sarebbe stato la diretta matrice della Francia moderna), un regno dei Franchi orientali (che avrebbe segnato l’ambito iniziale del mondo germanico moderno) e una Lotaringia (o regno di Lotario, che oltre a comprendere l’Italia dalle Alpi al Tevere, anticipava la tendenza ad una realtà intermedia e autonoma fra Francia e Germania e lasciò, comunque, il suo nome alla Lorena). Nell’887, deposto l’ultimo diretto discendente di Carlomagno, la divisione si accentuò. Francia, Italia e Germania seguiranno ormai percorsi paralleli. Ma Italia e Germania verranno di nuovo unite sotto la corona imperiale ad opera di Ottone I dopo la metà del secolo 10°, formando quello che nella storia europea sarebbe rimasto ancora per molti secoli il Sacro Romano Impero (benché questo termine non appaia prima della metà del 13° secolo). Nello stesso tempo Vichinghi e Normanni, Slavi, Ungari, Saraceni, Bizantini avrebbero premuto ulteriormente sulle terre che Carlomagno aveva riunito sotto il suo scettro e su quelle vicine. Si è potuto parlare, quindi, per il 10° secolo di una “Europa assediata”. Non c’è dubbio che il nome Europa avesse preso intanto a circolare con un significato nuovo. Tra il secolo 8° e il 10° si parla non solo di Europa, bensì anche di europeenses, europei. Ma il sentimento di un’unità morale e civile delle genti europee è ancora lontano da una vera maturità. Per ora ciò che più lo sorregge o ne fa le veci è il legame con la Chiesa di Roma. Esso non è espresso del tutto ed esclusivamente né dall’Impero di Carlomagno, né da quello italo-germanico di Ottone I, mentre certamente contribuiscono a definirlo ancor di più le rotture della Chiesa romana con Costantinopoli, prima (nel secolo 7°) per la questione del culto delle immagini, poi (nel secolo 11°) con la separazione fra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Lo spessore di questi sviluppi è, anzi, tale che essi non soffrono molto né dell’eclisse imperiale dopo l’887, né della crisi che porta il papato a ridursi nel secolo 10° a oggetto di violente lotte tra le famiglie più potenti di Roma, né del dilagante particolarismo (essenzialmente feudale) che contemporaneamente disarticola, dopo l’Impero, anche le formazioni politiche sorte sul suo tronco e quelle dei territori contermini. L’“età di ferro” tra la fine del secolo 9° e gli inizi del secolo 11°, caratterizzata da questi elementi di lacerazione e di precarietà, si chiude dopo il Mille con un’Europa via via più consapevole e più sicura di sé. [11251] Le guerre combattute dai popoli cristiani d’Europa contro i musulmani nei secoli 11°-13° con l’intento di liberare il Santo Sepolcro sono state chiamate crociate; gli storici le hanno contraddistinte variamente in sette, otto o nove imprese, così periodizzate: prima crociata, 1096-99; seconda crociata, 1147-49; terza crociata, 1189-92; quarta crociata 1202-04; quinta crociata, 1228-29; sesta crociata, 1248-54; settima crociata, 1270. Le ultime crociate ebbero invece un carattere assai diverso dalle sette precedenti. Il concetto di guerra santa (bellum sacrum, il termine cruciata è tardo), in antitesi al primitivo pacifismo cristiano, aveva trovato espressione nel pensiero ufficiale della Chiesa già nel 9° secolo con papa Giovanni VIII, il quale aveva proclamato la santità della lotta che in Italia meridionale si combatteva allora contro i Saraceni, e si era venuto precisando nel suo significato etico-religioso attraverso le secolari guerre di liberazione delle popolazioni iberiche contro la dominazione araba, per influsso della concezione musulmana della hidad (la guerra perenne contro gli infedeli). La riscossa della cristianità, infiammata dal linguaggio di mistico rinnovamento dei monaci di Cluny, contro l’espansionismo del nuovo impero musulmano dei Turchi Selgiuchidi (dilaganti nel Medio Oriente per le grandi vittorie di Manazkert, 1071, e di Damasco, 1076, che avevano ormai sottratto alla dominazione bizantina Anatolia, Siria e Palestina), avviene sul finire del secolo 11° sotto la guida della Chiesa, ed è prova evidente della forza politica e del prestigio morale da essa raggiunti per l’azione riformatrice dei papi Alessandro II e Gregorio VII. Nello stesso tempo nelle crociate si esprime il rigoglio economico e demografico dell’Occidente, subentrato a secoli di decadenza o di stasi: tra le forze propulsive delle crociate incontriamo perciò, accanto al clero, l’irrequieta nobiltà feudale e le città marinare italiane. Le necessità della lotta contro Enrico IV avevano impedito a Gregorio VII di realizzare il progetto di una Lega generale cristiana per salvare l’Impero d’Oriente dall’invasione dei Turchi, toccò a papa Urbano II, che si giovò di una tregua nella lotta per le investiture, di darle pratica attuazione. Nel concilio di Clermont Ferrand (27 novembre 1095) il papa stabiliva con le finalità religiose anche i termini politico-organizzativi della crociata: i principi dovevano rivolgere le armi contro i nemici della fede, riscattare il Santo Sepolcro e liberare la cristianità d’Oriente dagli oppressori; ad essi la Chiesa garantiva con la remissione di ogni altra penitenza la protezione dei beni e delle famiglie; il papato si assumeva la responsabilità morale e diplomatica dell’impresa, delegando presso di essa un proprio rappresentante (Ademaro di Monteil). Il ritrovo dei crociati fu fissato per il 15 agosto 1096, a Costantinopoli: un evento che costituì la premessa per la prima crociata. [112511] Dopo le decisioni di papa Urbano II stabilite nel concilio di Clermont Ferrand del novembre 1095 – dove furono definite le finalità religiose e i termini politico-organizzativi della crociata – si ebbero due distinte imprese. La prima di queste, i cui capi furono Pietro l’Eremita e il cavaliere Gualtieri Senza Averi, fu iniziata in Francia e nella Germania sud-occidentale da masse disorganizzate di gente di umile condizione, ma, attraversato il Bosforo (dopo aver compiuto, specie nella regione renana, massacri di Ebrei e ovunque al loro passaggio, spinti dalla fame, saccheggi e devastazioni), i crociati furono totalmente annientati dai Turchi presso Nicea. La seconda spedizione si radunò per tre diversi itinerari a Costantinopoli, tra il dicembre 1096 e l’aprile successivo; ne facevano parte l’alta feudalità francese (Stefano di Blois, Ugo di Vermandois, Roberto duca di Normandia, Raimondo conte di Tolosa), fiammingo-renana (Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, Baldovino di Fiandra) e italonormanna (Boemondo di Taranto, suo nipote Tancredi). L’imperatore Alessio I Comneno impegnò i crociati a restituirgli i territori tolti ai Turchi; in cambio garantiva il trasporto sulla sponda asiatica del Bosforo. I crociati occuparono Nicea nel giugno 1097, vinsero nel luglio la grande battaglia di Dorileo; attraversato l’Antitauro posero l’assedio ad Antiochia di Siria, espugnata il 2 giugno 1098; sotto la guida di Raimondo di Tolosa e di Goffredo di Buglione (mentre si andavano delineando i contrasti tra l’Impero d’Oriente e le aspirazioni di conquista territoriale dei crociati: ad Antiochia si era insediato Boemondo di Taranto, come signore) proseguirono verso Gerusalemme, che fu conquistata d’assalto il 15 luglio 1099. La successiva vittoria di Ascalona (12 agosto) sull’esercito egiziano dei Fatimiti assicurava ai cristiani il possesso dei Luoghi Santi; Siria e Palestina furono allora sottoposte a una organizzazione feudale (della quale le contee di Edessa e di Tripoli e il principato di Antiochia furono i capisaldi più importanti dal punto di vista politico-militare) alle dipendenze del regno di Gerusalemme, di cui fu eletto primo titolare Goffredo di Buglione il “Difensore del Santo Sepolcro”. Anche le galee pisane avevano contribuito alla conquista di Gerusalemme, ottenendo il possesso di un quartiere e privilegi commerciali; successivamente la flotta veneziana decideva la presa di Haifa (1100), di Sidone (1110), di Tiro (1124), quella genovese espugnava Beirut e Tripoli di Siria (1109). Divenuti elemento essenziale della difesa militare del regno di Gerusalemme, i mercanti italiani imposero agevolmente il monopolio dei loro commerci con il Medio Oriente fino alla metà del secolo 13°. [112521] Nel 1144 `Imd ad-din Zinki, emiro di Mossul, s’impadroniva di Edessa, minacciando l’invasione della Palestina. Nell’impossibilità di fronteggiare la situazione con le proprie forze (basate, oltreché sul concorso navale delle repubbliche italiane, sugli ordini monastico-cavallereschi di nuova istituzione: così i Templari fondati nel 1118, i cavalieri teutonici nel 1143), il re di Gerusalemme invocò l’aiuto dell’Europa cristiana. Predicata da s. Bernardo, la crociata venne bandita nell’assemblea di Vézelay (31 marzo 1146) da Luigi VII re di Francia: nella successiva dieta di Spira (25 dicembre) anche l’imperatore Corrado III prendeva la croce. Ma giunti separatamente in Palestina, osteggiati dall’imperatore bizantino Manuele I, decimati dalle epidemie e dagli attacchi dei Turchi, gli eserciti dei due sovrani rinunziarono alla riconquista di Edessa e alla progettata occupazione di Damasco, cui tolsero l’assedio il 20 luglio 1148. Corrado III ripartì quasi subito per Costantinopoli. Luigi VII tornò in patria l’anno successivo. [112531] Negli anni della seconda crociata, le due potenze musulmane confinanti col regno di Gerusalemme, Siria ed Egitto, si erano fuse in un unico impero per opera del sultano di Aleppo Nur ed-din e del suo generale e successore Saladino; questi, dichiarata la guerra santa contro i cristiani, distruggeva a Hittin nel luglio 1187 l’esercito crociato; il 2 ottobre occupava Gerusalemme e successivamente, tranne alcune città della Siria, tutto il regno. Una nuova crociata fu allora bandita da papa Gregorio VIII, cui aderirono l’imperatore Federico Barbarossa e, troncati i contrasti dinastici che li dividevano, il re di Francia Filippo II Augusto e il re d’Inghilterra Enrico II (e alla sua morte, Riccardo Cuor di Leone). Mentre Guglielmo II, re normanno di Sicilia, con una flotta operava a Tripoli, ritardando efficacemente l’azione del Saladino in Siria, l’esercito imperiale (100.000 uomini circa, bene organizzati), superata con l’occupazione di alcune città l’opposizione dell’imperatore bizantino Isacco II Angelo, passava in Anatolia, dove nel maggio 1190 conquistava ai Turchi Konya; si dissolse però quando presso Seleucia, nell’attraversare a guado il fiume Salef, il vecchio imperatore annegò (9 giugno). Partita nel luglio 1190 dalla Francia, la spedizione di Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone (il quale si era prima impadronito di Cipro, togliendola al legittimo sovrano bizantino) raggiunse per mare la Palestina solo nella primavera del 1191. Se con la conquista (12 luglio) di S. Giovanni d’Acri i crociati trionfavano della biennale resistenza musulmana, le discordie franco-inglesi e il conseguente rimpatrio di Filippo Augusto rendevano vani i tentativi di ritogliere Gerusalemme al Saladino; cosicché, stipulata con questo una tregua, anche il re d’Inghilterra riprese (9 ottobre 1192) la via del ritorno. [112541] Innocenzo III, appena salito al trono pontificio (1197), riprese il progetto di un intervento cristiano in Oriente, con l’imposizione di tributi ai laici e allo stesso clero volle trovare i denari necessari alla crociata, ch’egli concepiva strumento della teocrazia. Ma fu appunto la mancata soluzione del problema finanziario (causa soprattutto la non partecipazione dell’Impero e dei regni di Francia e d’Inghilterra) a sottrarre la crociata alla direzione politico-spirituale della Chiesa: nell’impossibilità di versare la somma richiesta dai Veneziani per il loro trasporto in Oriente, i crociati riuniti a Venezia dall’agosto 1202 furono infatti costretti ad arrestarsi a Zara, per restaurarvi con le armi l’autorità della Repubblica, cui la città si era ribellata; conquistatala, accoglievano anche l’offerta di Alessio Angelo (appoggiata, nell’interesse veneziano, dal doge Enrico Dandolo) di 200.000 marchi d’argento, che li impegnava a rimettere sul trono d’Oriente il padre, l’imperatore deposto, Isacco II Angelo. Il 18 luglio 1203, dopo un assedio di due mesi, i crociati entravano a Costantinopoli (da cui era fuggito intanto l’usurpatore Alessio III). Ma i rapporti fra i crociati e i Greci, per il mancato pagamento della somma pattuita, si inasprirono; una rivoluzione popolare (nel gennaio 1204) portò sul trono Alessio V Ducas, capo dell’intransigente partito nazionalista. Veneziani e crociati decisero allora di impossessarsi dell’Impero, pattuendo la divisione del bottino (tre quarti a Venezia, un quarto ai crociati). Il 12 aprile Costantinopoli veniva presa e saccheggiata; Baldovino di Fiandra fu eletto imperatore e il marchese Bonifacio di Monferrato re di Tessalonica. Invece di togliere ai Turchi i Luoghi Santi, i crociati avevano abbattuto l’Impero bizantino dando vita, nell’interesse dell’espansione commerciale veneziana, all’Impero latino d’Oriente. [112551] Proclamata nel 1215 da Innocenzo III, la quinta crociata fu organizzata da Onorio III, suo successore. Nel settembre 1217 a S. Giovanni d’Acri affluirono i contingenti guidati dal re d’Ungheria, da Giovanni di Brienne, re titolare di Gerusalemme, dal re di Cipro e dal duca d’Austria; sbarcati nel delta del Nilo, i crociati riuscirono a impadronirsi dopo lungo assedio di Damietta (5 novembre 1219), ma, battuti presso al-Mansura (24 luglio 1221) nel tentativo di conquistare il Cairo, furono costretti ad abbandonare l’Egitto. Spettò invece a Federico II (che dopo aver più volte rinviato la promessa partenza si era imbarcato ad Otranto l’8 settembre 1227, ma con il pretesto di un’epidemia scoppiata a bordo, era ritornato a terra), partito scomunicato da papa Gregorio IX per la Palestina il 18 giugno 1228, la pacifica liberazione del Santo Sepolcro mediante un trattato concluso a Giaffa (11 febbraio 1229) con il sultano d’Egitto, che assicurava ai cristiani per 10 anni il possesso di Gerusalemme, Betlemme e Nazareth. Ma nel 1244 i musulmani d’Egitto, dopo averla sottoposta a saccheggio e a massacro, si impadronivano definitivamente di Gerusalemme. [112561] La sesta crociata fu organizzata e diretta da Luigi IX il Santo, re di Francia, unico sovrano europeo che rispondesse all’appello lanciato nel concilio di Lione (1245) da papa Innocenzo IV. Partito da Parigi nel giugno 1248, trascorso l’inverno a Cipro, sbarcò nel giugno 1249 in Egitto (dove intendeva fondare colonie di agricoltori), occupando Damietta. Ma il 6 aprile 1250 fu sconfitto ad al-Mansura nel delta del Nilo dai musulmani, e fatto prigioniero. Dovette, per riscattarsi, restituire Damietta e impegnarsi a versare un milione di scudi. [112571] La settima crociata, diretta anch’essa contro i domini musulmani dell’Africa settentrionale, come la precedente fu preparata e guidata da Luigi IX, indottovi dal papa francese Clemente IV e, nel quadro del suo programma di espansione mediterranea, dal fratello Carlo d’Angiò re di Sicilia. Partito da Aigues Mortes nel luglio 1270, il re sbarcò a Tunisi, donde intendeva proseguire per l’Egitto e la Palestina; ma la peste decimò l’esercito, e uccise lo stesso re (25 agosto). Carlo d’Angiò, prima di tornare in Sicilia con i resti della spedizione, concludeva un trattato col principe musulmano di Tunisi, per il quale otteneva il possesso di Malta e di Pantelleria. Alla fine del 13° secolo anche gli ultimi possedimenti cristiani in Terra Santa erano conquistati dai Turchi: Tripoli di Siria (1289) e infine San Giovanni d’Acri (1291). [112581] Il crollo del sistema politico-militare instaurato alla fine del secolo 11° dai Crociati a tutela dei Luoghi Santi, scoraggiò definitivamente le potenze cristiane d’Europa dal tentarne ancora la conquista. D’altronde la Francia, che nel tentativo di colpire i musulmani nei loro centri vitali della vallata del Nilo, aveva invano distrutto i suoi migliori eserciti nelle due ultime imprese crociate, era ormai interamente impegnata in una lotta vitale con l’Inghilterra, e quando Filippo VI di Valois, unico tra i successori di Luigi IX, volle prendere nuovamente la croce, lo scoppio della guerra dei Cent’anni (1336) eluse i propositi di liberazione del Santo Sepolcro. In effetti soltanto Pietro I di Lusignano, re di Cipro (1356-69), sollecitato dal suo cancelliere Philippe de Mézières, diede ancora pratica attuazione all’impresa: dopo una sua vana missione triennale (1362-65) in Europa in cerca di aiuti, fu costretto a intraprenderla con le sole sue forze, nel 1365 occupava temporaneamente Alessandria, nel 1367 riusciva a bloccare con la flotta la costa siriaca, ma una mano omicida ne troncava la generosa illusione (1369). Intanto, alla lezione dei fatti, il programma e il concetto stesso di crociata venivano sottoposti a revisione. Ma dalla metà del 14° secolo in poi la crociata verrà assumendo il nuovo aspetto di lotta difensiva della cristianità contro l’invasione turca in Europa. La prima impresa di guerra contro i Turchi Ottomani, condotta già nel 1344 da Veneziani, Ciprioti e cavalieri di Rodi alleati, ha quale unico, temporaneo successo la conquista di Smirne; predicata da papa Bonifacio IX e diretta da Giovanni Senza Paura, poi duca di Borgogna, una nuova crociata si propone di soccorrere l’Ungheria minacciata dal sultano, ma fallisce sanguinosamente nella rotta di Nicopoli (1396). Nel secolo 15° l’unione finalmente raggiunta, sotto l’incombente minaccia turca, al concilio di Firenze (1439) tra la Chiesa greca e quella di Roma, portò alla crociata che sotto la direzione politica del legato papale cardinale Cesarini e col concorso di Vladislao re di Polonia e di Giovanni Hunyadi principe di Transilvania costringeva dapprima il sultano Murad II alla tregua decennale di Seghedino; rotta questa per volere del cardinale legato, l’esercito crociato verrà invece distrutto, lo stesso anno, sui campi di Varna (1444). Caduta in mano ai Turchi anche Costantinopoli (1453), il papato tenta di suscitare in un estremo tentativo di rivincita gli ormai sopiti entusiasmi per la crociata. Se Callisto III la bandisce già il 15 maggio 1453 con una bolla, il fallimento della dieta convocata nel 1459 a Mantova da Pio II mostrerà il prevalere definitivo sull’ideale crociato dei problemi derivanti dal nuovo assetto politico-territoriale europeo. Nel secolo successivo, la crociata (ancora bandita da papa Alessandro VI il 1° giugno 1500 e fatta predicare l’ultima volta da Leone X nel 1518) vive soltanto nelle convenzioni diplomatiche internazionali: così viene invocata a giustificare, nel trattato di Granada, la iniqua spartizione del regno di Napoli tra Francia e Spagna (1500). [11261] La reconquista, termine spagnolo che significa “riconquista”, fu un insieme di guerre combattute dai regni cristiani della Penisola Iberica contro gli Arabi. Le imprese iniziarono con Pelagio, re delle Asturie, che sconfisse gli Arabi a Covadonga (circa 718), e proseguirono fino alla presa di Granada (1492). L’espressione corrisponde a un concetto storiografico sorto dopo il secolo 16° con la monarchia spagnola unitaria e cattolica, che interpretò tutta la storia dei regni iberici come una ininterrotta crociata contro gli infedeli: concetto che va attenuato, considerando anche i reciproci apporti culturali e le temporanee alleanze che si stabilirono in quei secoli fra cristiani e musulmani, al di là delle differenze religiose. La conquista araba della penisola iberica era iniziata tra il 710 e il 711. Penetrati dall’Africa settentrionale, essi furono inizialmente accolti assai bene dalla popolazione indigena, insofferente dell’esoso fiscalismo visigotico. L’avanzata verso il cuore dell’Europa, oltre i Pirenei, trovò però un ostacolo insormontabile nei Franchi di Carlo Martello (battaglia di Poitiers del 732). Il mai completamente superato spezzettamento politico degli Arabi permise agli stati cristiani del nord di procedere alla controffensiva per la riconquista. Questi stati si erano costituiti per il ritiro, al momento dell’invasione musulmana, di non pochi indigeni sui monti delle Asturie, dove, secondo una tradizione non del tutto sicura, il re Pelagio avrebbe battuto (718) gli Arabi a Covadonga e organizzato il primo regno cristiano di Oviedo, divenuto nel 740 regno delle Asturie. Ardite puntate offensive fatte dai successori di Pelagio, Alfonso I (739-56) e Alfonso II (792-842), aggiunsero la Galizia, e forse anche la città di León; nel 9° secolo la frontiera meridionale fu portata fino al fiume Duero e la capitale dello stato trasportata da Oviedo a León (dal 918 il regno assunse infatti il nome di regno di León). La vittoria di Ramiro II (931-51) sui musulmani a Simancas (939) ebbe risonanza europea. Nel periodo seguente però le lotte civili condussero anche qui a un notevole indebolimento dello stato: il conte di Castiglia si rese indipendente dal re di León; sul suo esempio altri potenti feudatari si mossero, sino al punto che il re Bermudo II (982-99) dovette invocare l’aiuto di al-Mansur, che mise a ferro e a fuoco tutto il paese. Il regno di León non era ormai, nel 10° secolo, l’unico regno cristiano in Spagna; l’offensiva condottavi da Carlomagno aveva creato la Marca Hispanica e, al disgregarsi di questa, era sorto il regno di Aragona con la contea di Barcellona. Sussisteva inoltre, d’incerta origine, il regno di Navarra, precedentemente detto di Pamplona. All’inizio dell’11° secolo tale era, dunque, la situazione degli stati cristiani, che, riunite le proprie forze, in un’arditissima incursione, avevano potuto spingersi fino a Cordova (1010). Legami di parentela, di matrimoni, ecc. resero possibile, in questo periodo, anche un primo raggruppamento di questi stati (riunione della Navarra, dell’Aragona, del León e della Castiglia sotto Sancio Garcés III di Navarra, circa 1000-1035), spezzatosi però poco dopo per la ripartizione del dominio tra i figli di Sancio III e le conseguenti, complicate lotte dinastiche. Dopo le prime vittorie, la penetrazione cristiana nella Spagna musulmana aveva subìto un arresto. Invocati dai re di Taifas, i Berberi almoravidi, guidati da Yusuf ibn Tashufin, erano passati in Spagna e avevano sconfitto Alfonso VI di Castiglia a Zallaqa (1086). Pochi anni dopo, si assisté al ritorno degli Almoravidi, che tra il 1091 e il 1110 riconquistarono gran parte delle antiche terre musulmane, compresa Saragozza, e instaurarono un nuovo regime di fanatica intolleranza religiosa. Una rivoluzione politico-religiosa, scoppiata nell’Alto Atlante per opera degli Almohadi, si ripercosse immediatamente nella Spagna, dove il dominio almoravida crollò di fronte alla spedizione dell’almohade `Abd al-Mù’min (iniziata nel 1146; Maiorca, ultimo baluardo degli Almoravidi, cadde nel 1202). Meno intolleranti dei loro predecessori, gli Almohadi riuscirono per qualche tempo a frenare l’avanzata dei re cristiani di Castiglia e di Aragona (1195, vittoria ad Alarcos); ma, indeboliti poi dal sopravvenire di lotte dinastiche, furono definitivamente battuti a Las Navas de Tolosa (1212). Apertasi la via del sud, le forze cristiane spazzarono in breve tempo i regni indipendenti almohadi, sorti in conseguenza della sconfitta (Valencia, Murcia, Niebla, ecc.), e verso il 1270 ridussero il dominio musulmano al solo regno di Granada, che durò tuttavia ancora fino al 1492. L’ultima fase della lotta contro i musulmani mostra chiaramente che la Penisola Iberica, nella quale bisogna considerare anche il Portogallo (staccatosi dalla Castiglia, contea dal 1097, regno dal 1143), è sotto l’effetto di due grandi forze motrici: l’Aragona e la Castiglia. L’Aragona, staccatasi dalla Navarra, aveva finito con l’aggregarsi nel 1076 la stessa Navarra, conservandola fino al 1134; nel 1137, infine, il matrimonio tra Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, e Petronilla, erede del trono di Navarra, aveva consentito l’unione fra Catalogna e Aragona in quella confederazione catalano-aragonese (generalmente nota, poi, sotto il semplice nome di regno d’Aragona), che successivamente fu, a volte, l’elemento più dinamico della storia della Spagna. Si condusse quindi una vigorosa politica di riconquista sui musulmani, specialmente sotto Raimondo Berengario IV (1131-62), Alfonso II (1162-96) e Giacomo I (1213-76): politica che portò alla conquista dei regni di Valencia, di Murcia, delle Baleari e alla sistemazione definitiva dei confini aragonesi. La monarchia di Castiglia e León, le cui due corone, unite dal 1037, si scissero nuovamente nel 1065-72 e nel 1157-1230, fu invece l’erede dell’opera della monarchia asturiana: raggiunta la linea del Tago, minacciò la Spagna meridionale e infine, sotto Ferdinando III (1217-52), conquistò Cordova, Jaén, Siviglia, l’Andalusia e si spinse fino a Cadice (1236-48); contemporaneamente il centro di gravità si spostava verso il sud (1085, trasferimento della capitale a Toledo) e, col 1230, l’unità era saldamente e per sempre costituita: poiché la Castiglia era ormai, e di gran lunga, la parte più importante del regno, questo fu ben presto chiamato, semplicemente, regno di Castiglia. A parte le frequenti alleanze contro i musulmani, non è una storia del tutto pacifica quella dei rapporti tra i regni di Aragona e di Castiglia fino all’unificazione spagnola: una vicenda che si intreccia intimamente con il completamento della reconquista sancito dalla presa di Granada nel 1492. [11271] L’età dei Comuni fu caratterizzata dall’affermazione di quella particolare forma di governo autonomo cittadino – il comune (in latino commune), appunto – apparsa nell’Europa occidentale dopo il Mille come risultato di un’associazione volontaria, temporanea e confermata da giuramento, fra cittadini o gruppi di essi, sviluppatasi poi gradualmente fino a ottenere riconoscimento giuridico-politico da un’autorità superiore (in Francia, per esempio, dal re, in Italia dall’imperatore), raggiungendo poi, in Italia, una vera e propria indipendenza di fatto (secolo 13°-14°), come ci conferma la definizione di Bartolo da Sassoferrato, per cui il comune era una “civitas superiorem non recognoscens”. Il permanere di istituti municipali romani, la cui importanza in relazione alla nota teoria della continuità non può comunque più essere oggi sopravvalutata, la tradizione cittadina dello scabinato durante la cosiddetta “età feudale”, l’incremento demografico notevole in Europa dopo il Mille, il sorgere di “città nuove”, particolarmente fuori d’Italia, ma fenomeno anche della nostra penisola (Ferrara non ha precedenti romani, ma è fiorente comune), il frazionamento del potere feudale su di una città e il successivo formarsi, tra i vari eredi di quello, di un vincolo associativo (comune consortile), la formazione di organismi collettivi di tutela degli interessi economici della nascente borghesia: questi fattori, insufficienti a spiegare uno per uno l’origine del comune, hanno potuto operare, variamente da città a città, per mutate condizioni politiche, economiche e sociali, alla formazione del comune. Fenomeno europeo come tendenza di vita della città, raggiunse però nel tempo e nei diversi paesi varie gradualità di sviluppo; così in Francia il comune si limita a liberarsi della tutela feudale con l’appoggio della monarchia, che trova a sua volta nella città un alleato prezioso contro la prepotenza feudale, raggiungendo invece un’autonomia maggiore nelle Fiandre e nelle città anseatiche della Germania. Quello comunale, in ogni caso, rimane, oltralpe, un fenomeno prevalentemente economico, anche se, subordinatamente a istanze di natura mercantile, conosce lotte per la conquista di immunità, privilegi e giurisdizioni in contrasto con le forze politiche prevalenti (feudalità più spesso, ma anche monarchia). Così il comune percorre tutta la sua linea di sviluppo fino a una sostanziale indipendenza politica soltanto in Italia. Per questo sviluppo, presupposto certo anche se variamente valutato e valutabile in ordine alla sua importanza in generale circa il fenomeno comunale, è la particolare funzione dei vescovi nei più importanti comuni dell’Italia centro-settentrionale. Il complesso dei diritti, a vario titolo acquisiti dai presuli (non si tratta che in pochi casi di vescovi conti, più diffuso e più rilevante il fenomeno delle signorie ecclesiastiche di origine immunitaria), nell’erosione del sistema feudale o nella conquista di fatto del potere, il crearsi di primi gruppi organizzati di funzionari e di milites (signiferi, vexilliferi, ecc.) intorno al vescovo, costituiscono i primi elementi per la caratterizzazione in senso politico della lotta di queste forze emergenti. Tappa storica fondamentale per quanto riguarda il riconoscimento dell’autonomia del potere superiore è in Italia la pace di Costanza (1183), in cui l’imperatore Federico I riconosceva al comune il diritto alle regalie (amministrazione autonoma della giustizia, libero godimento dei proventi d’imposte e tasse, facoltà di batter moneta), in cambio di una non impegnativa assicurazione di fedeltà e di tributi vari, in realtà poi mai corrisposti. Contemporaneamente, nella sua struttura interna, il comune italiano, sorto come comune consolare, il cui ceto dirigente ancora piuttosto ristretto, è espressione dei piccoli feudatari o dei vari funzionari feudali e vescovili (giudici, notai, ecc.) e gruppi di borghesi (mercanti più ricchi), trova i suoi governanti nei consoli (in numero variabile da città a città). A poco a poco la dialettica delle forze in gioco per la conquista del potere si allarga sino a comprendere, rappresentativamente, strati sempre più larghi di cittadini. Sorgono così due partiti in lotta fra loro, caratterizzati, per un richiamo alle contemporanee contese in Germania, dalla etichetta politica di ghibellini e guelfi, senza alcuna connotazione permanente a indicare i fautori dell’imperatore o del papa (come fu in un primo momento), ma valida comunque a distinguere fazioni o gruppi politici, e poi interi comuni, in lotta tra loro. Questi accaniti contrasti determinano la fine del comune consolare, con la nomina di un podestà, donde il nome di comune podestarile a questa fase di sviluppo della vita comunale. Il podestà infatti, forestiero e nominato solo per un anno, pur essendo naturalmente eletto dal gruppo politico più forte e in conformità ai propri interessi, non può sottrarsi dall’imporre un minimo di ordine e di disciplina ai moti delle passioni politiche cittadine. Il podestà inoltre ha parte fondamentale nella definizione degli statuti (cioè delle norme di diritto che regolano la vita del comune) e per l’attuazione delle direttive politiche della città. Insieme con il conseguimento dell’autonomia, i vari comuni infatti devono risolvere anche problemi di espansione territoriale in obbedienza a motivi strategici ed economici. Ne consegue il caratteristico fenomeno delle infinite piccole guerre e spedizioni militari, che richiedendo l’impiego di tutte le energie disponibili, chiamano via via gruppi nuovi di cittadini a partecipare alla vita politica: ed essi vi entrano già ordinati in associazioni di lavoratori (con vari nomi), riuscendo a mutare profondamente la struttura e la composizione politica del comune podestarile. Il quale (commune maius) vede infine sorgere contro di sé una nuova organizzazione politica autonoma e distinta, il commune minus, o commune populi o commune artium, che, riproducendo lo schema di governo offerto dall’istituto del podestà, nomina come suo capo un capitano del popolo (anch’egli forestiero e annuale); e deve infine soccombere di fronte ad esso, talvolta, come accadde per esempio a Firenze con gli Ordinamenti di Giustizia (1293, alquanto mitigati nel 1295), realizzando così il predominio del popolo in quella fase della vita del comune, che è il Comune delle Arti. Ma va notato che la definizione di magnati e di popolani, come già quella di guelfi e di ghibellini, non assume un carattere rigido, essendo continuamente strumentalizzata ai fini della polemica e della lotta di ceti dirigenti, più che di vere e proprie classi sociali. Dal continuo e confuso urto fra magnati (le classi politicamente dominanti il commune maius) e popolani da una parte, e popolo grasso e popolo minuto (organizzato nelle arti minori ancora escluse dal governo cittadino) dall’altra, sorgono lotte intestine asprissime, che finiscono con il consumare le energie cittadine e col diffondere un’esigenza di pace a ogni costo. All’interno del comune pertanto, la lotta per la conquista del potere si frantuma secondo lineamenti di forze che la storiografia più recente riconduce a quelli che avevano operato nel lungo travaglio della crisi della società feudale e del periodo precomunale. Questo favorisce l’instaurazione della signoria e il suo progressivo affermarsi, a scapito delle libertà comunali, nella vita politica cittadina. Lo stesso spirito associativo che spinse all’unione i cittadini, operò anche nei piccoli centri delle campagne, ove contribuì a formare i comuni rurali, con scarsissima differenziazione di classi sociali (consistendo di lavoratori della terra, piccoli proprietari e coloni), in vista d’un fine d’autonomia. Sorto verso il secolo 11°-12°, il comune rurale fiorì specialmente nell’Italia Settentrionale e Centrale, facendo consistere l’autonomia principalmente nella libera elezione del capo o in provvedimenti locali di polizia e di vita religiosa ed economica. Il fenomeno dei comuni rurali si presenta anche, sia pure meno vistosamente, in Francia, in Catalogna, in Castiglia e in Inghilterra, nel secolo 12°. [11281] Dopo la disgregazione dell’Impero carolingio e l’“età di ferro” che caratterizzò l’Europa tra la fine del secolo 9° e gli inizi del secolo 11°, la Chiesa si riprese con una grande azione di riforma, che la portò non solo a connotarsi come organismo spirituale autonomo da ogni condizionamento profano, ma anche a porsi come potere universale nella vita politica e civile dei paesi cattolici. La “lotta delle investiture”, combattuta tra il Papato e l'Impero dall'ultimo quarto del secolo XI fino al concordato di Worms (1122), fu la sanzione di questo duplice processo: da una parte, prende forma una gerarchia ecclesiastica che fa capo a Roma, una monarchia pontificia sulla Chiesa; dall'altra, l'Impero e gli Stati medievali in genere difendono il loro diritto storico e l'unità territoriale. Potere spirituale e potere temporale, dentro e fuori dei confini dell’Impero, si confrontano per lungo tempo: clero e laicato, separati l'uno dall'altro, tendono a costituire due mondi distinti, ciascuno con proprie ragioni, con interessi e scopi ben definiti. [112811] La Chiesa rivela in questi secoli fervidissimi una straordinaria forza e capacità nel riflettere, organizzare, assorbire, modellare, modificare le istanze che con uno slancio inesauribile provengono dal seno stesso della società europea. Essa combatte gli imperatori germanici da Enrico IV a Federico II, che ne contestano il primato e la rivendicazione di superiorità dello spirituale sul temporale, e, insieme, i movimenti religiosi che si allontanano dal modulo romano o si contrappongono a esso in un’ansia ricorrente di perfezione morale e di ascesa spirituale; sostiene la lotta delle forze autonomistiche e delle popolazioni contro i sovrani con i quali essa è in rotta e l’azione dei sovrani che la riconoscono e nei quali essa si riconosce per affermare il proprio potere; è promotrice delle crociate con cui l’Occidente rompe l’assedio dell’Europa e marcia contro gli infedeli oltre i confini della “piccola Europa” di Carlomagno nel Mediterraneo, in Spagna, nel Vicino Oriente, ad est e a nord; come pure si serve delle crociate per combattere dissidenti, avversari politici, poteri temporali, popoli da sottomettere e paesi da conquistare nell’ambito stesso della cristianità; è protagonista di una grandiosa stagione artistica e intellettuale; fa rinascere con la Scolastica la grande filosofia, che copre l’Europa di una “candida veste di chiese” e di innumerevoli opere d’arte religiose e civili, nel linguaggio prima del romanico e poi del gotico, di eguale dimensione europea; tiene a battesimo la nascita delle letterature europee e la rinascita, col diritto canonico, di un grande pensiero giuridico; è riconosciuta come autorità morale e culturale nelle università, la nuova istituzione in cui si prepareranno il pensiero e la scienza dell’Europa moderna; contrasta, da un lato, con l’inquisizione ciò che viene da essa dichiarato al di fuori della sua norma, dall’altro stimola potentemente la vita economica con l’amministrazione e la valorizzazione delle sue proprietà e con i movimenti finanziari richiesti dalla sua nuova struttura e dal suo ruolo; entra con i nuovi ordini religiosi del secolo 13°, soprattutto con i francescani e i domenicani, nelle città nascenti o rinascenti, numerosissime nell’Europa che cresce moralmente e materialmente; impone e depone sovrani e legittima titoli e poteri; riafferma l’inviolabilità delle coscienze e dello spirito rispetto a ogni pressione o violenza di forza o di potere, pur pretendendo per sé un magistero senza dialettica e senza alternativa. [112821] L’altra grande istituzione dell’Europa cattolica, l’Impero, non sembra presentare un bilancio corrispondente. A parte la sua riduzione all’ambito italo-germanico, esso appare continuamente eroso dall’insorgere di forze autonomistiche, particolaristiche, locali, che si affermano come nuovi centri di vita politica e sociale. Questo fermento contraddistingue, anzi, la vicenda del potere imperiale ben più che quella non meno travagliata delle monarchie feudali europee dentro e fuori dei suoi confini, così come assai più forte e radicale è nei suoi confronti la contestazione che Roma muove al potere temporale. Per fronteggiare una dinamica così complessa e dirompente gli imperatori si appoggiano allo stesso clero, oltre che a una parte dei loro vassalli contro quelli che sul momento appaiono i più renitenti. La sacralità della loro figura nella tradizione carolingia non impedisce che essi finiscano con l’apparire i capi di un partito più che dei sovrani. Nel secolo 13° nella contrapposizione tra guelfi e ghibellini ciò venne ad estrinsecarsi in una molteplice ostilità: dei fautori della Chiesa contro quelli dell’Impero, dei sostenitori dei diritti particolari e delle autonomie contro quelli dell’autorità imperiale, dei seguaci delle famiglie più legate volta per volta ad una delle due cause contro quelli delle famiglie rivali. Ma guelfismo e ghibellinismo, e in Italia assai prima e più che in Germania, si risolsero largamente in etichette sotto le quali erano fatti passare gli interessi immediati e specifici delle forze in campo, senza giovare neppur essi alla costituzione di forti centri politici egemonici, se non unitari. Meno che mai gli imperatori riuscirono a stabilire un principio dinastico ereditario se non per breve tempo. Sassonia nel secolo 10°, Franconia nei secoli 11° e 12°, Hohenstaufen nei secoli 12° e 13° fallirono egualmente nell’impresa, in questo contrastati sempre più spesso dal papato. Decisivo fu lo scontro tra Roma e Federico II (1214-50). Alla fine, dopo un interregno (1254-73) e un lungo periodo di nuove oscillazioni e lotte dinastiche, la successione si sarebbe consolidata dal 1437 nella casa d’Asburgo. Ma l’Impero era ormai solo una confederazione dai vincoli molto deboli, presieduta da un sovrano per il quale non meno che per tutti gli altri gli interessi dinastici venivano prima di quelli della istituzione. Con tutto ciò, l’esperienza imperiale non può essere considerata unicamente nei suoi aspetti caduchi o alla stregua del fatto che la Chiesa manifestò una ben diversa capacità di durata e di proiezione storica. L’Impero rappresentò una istanza alta del pensiero e del sentimento dell’Europa che, enucleatasi rispetto all’Oriente, usciva dall’“assedio” e si disponeva alla sua grande fioritura medievale e moderna. Rispetto alla Chiesa esso prefigurò in qualche modo, e sia pure retrospettivamente assai più che nell’attualità, l’idea dello stato laico e dell’autonomia dei valori civili e politici rispetto a quelli religiosi. Fu, inoltre, in rapporto a esso che si definì la personalità storica un po’ di tutti i paesi europei, anche al di là dell’ambito italo-germanico. Il principio che i re nei loro regni (e ogni potere sovrano) non potessero riconoscere un’istanza sovrana superiore era, anzi, un complemento e uno sviluppo delle rivendicazioni imperiali e laiche di autonomia rispetto alla Chiesa. Il concetto moderno di sovranità avrebbe trovato qui le sue scaturigini, rafforzate da una ripresa dei principi del diritto romano, a cui proprio l’Impero diede impulso, specie sotto alcuni sovrani e in determinati momenti. Infine, e più specificamente, Italia e Germania trovarono nell’Impero la matrice della loro specifica, rispettiva fisionomia storica, contrassegnata da un pluralismo statale e politico che avrebbe ricevuto una risoluzione unitaria solo dopo molti secoli. [112831] Rispetto sia alla Chiesa che all’Impero gli stati a base etnica o regionale, i principati ecclesiastici e feudali, le monarchie di più o meno antica ascendenza, le città che riuscirono ad affermare una loro corposa autonomia o addirittura indipendenza, le formazioni politiche più o meno durature a cui diedero vita combinazioni dinastiche o vicende politiche e militari, le leghe o confederazioni di città o di signori, i poteri che si affermarono tradizionalmente in ambiti più o meno larghi e notevoli furono, in effetti, in Europa le realtà del futuro. La varietà delle forme non deve far perdere di vista la linearità di alcuni tipi fondamentali. In Francia, in Inghilterra, nella Penisola Iberica, nei principati tedeschi all’interno dell’Impero, la monarchia feudale venne evolvendo verso un progressivo ristabilimento della centralità del potere regio. Lo stesso modello feudale seguirono sostanzialmente, ma tra molte variazioni, le monarchie nuove che si affermarono in Polonia, in Russia, nello spazio danubiano, nel Mezzogiorno d’Italia, nelle terre di Danimarca, Scozia, Scandinavia. In Italia centro-settentrionale l’affermazione dei comuni nei secoli 11° e 12° diede vita a una serie di città-stato, che rinnovarono per molti aspetti l’esperienza di quelle elleniche e che però, tranne qualche eccezione di grande rilievo (Venezia, Genova), dissolsero ulteriormente il quadro imperiale trasformandosi prima in signorie e poi in principati a base tendenzialmente regionale. Fuori d’Italia le autonomie cittadine non giunsero a un grado pari di sviluppo politico, ma specialmente in Germania, in un quadro imperiale rimasto comunque alquanto più consistente che in Italia, le città libere furono un elemento importante del panorama e della tradizione politica tedesca e la loro lega (la Hansa) andò oltre il piano commerciale sul quale era sorta. Lo stesso Stato della Chiesa – che dagli albori, sotto papa Gregorio I, al secolo 14° aveva subito lunghe traversie, ma si era alfine meglio consolidato e definito – fornì, con la curia romana e con l’amministrazione centrale della Chiesa, un suo modello originale di stato, che non fu senza influenze nell’esperienza politica europea. Lo stato cantonale e confederale degli Svizzeri, enucleatosi dall’Impero alla fine del secolo 13°, fu, a sua volta, un altro esempio della tendenza alla formazione di molteplici modelli statali. Si trattava di un’Europa che, pur subendo ancora invasioni barbariche, come quella mongola (che nel secolo 13° si era spinta fino all’Europa centrale, sottomettendo le popolazioni russe), aveva conosciuto dal secolo 11° in poi uno sviluppo economico, innanzitutto agrario, e demografico intensissimo. Agli inizi del secolo 14° l’economia europea presentava settori e aspetti giunti a grande maturità intorno a due aree, l’Italia comunale e le Fiandre, che ne costituivano le punte avanzate. Si formarono grandi risorse finanziarie e alla disponibilità dei capitali si congiunse l’inizio dell’impiego di tecniche bancarie e contabili moderne, che resero possibili una gestione del denaro fortemente produttiva, una ripresa della circolazione monetaria come mezzo dominante di pagamento, la formazione di un mercato europeo, l’ulteriore espansione commerciale ben al di là dei limiti carolingici della “piccola Europa”. Riconquistata la Sicilia nel secolo 11° e via via gran parte della Spagna musulmana, nonché forti delle posizioni acquisite nei secoli 11° e 12° anche con le crociate nel mondo musulmano (e con la quarta crociata del 1202-04 nel mondo bizantino), gli Europei (soprattutto gli Italiani) assunsero la leadership dei traffici mediterranei e rovesciarono il rapporto precedente di inferiorità verso l’Oriente. Venezia e Genova si costituirono veri imperi mercantili e coloniali, ma anche altre città mediterranee, in particolare Barcellona, ascesero a grande potenza commerciale e finanziaria. [11291] Dal punto di vista della storia cittadina, signoria indica la forma di governo che pressoché ovunque, in Italia, successe al Comune, dal tardo secolo 13° in poi, per porre fine alle lotte di fazione e affrontare in termini più efficaci i problemi creati dall’espansione nel contado e dalla rivalità dei comuni vicini. Essa si determinò, in relazione a situazioni e avvenimenti particolari, in modi diversi: ora fu la magistratura unica e forestiera del podestà o il capitanato del popolo che si trasformò in titolo vitalizio; ora fu la magistratura eccezionale del capitanato di guerra che si impose stabilmente. A volte, conservandosi gli istituti comunali, si ebbe il caso di una velata signoria di un cittadino, potente per clientela e prestigio e ricchezza. Poteva capitare ancora che il passaggio alla signoria si avesse per improvvisa decisione del Comune che faceva dedizione o si vendeva a un signore, a un vicario imperiale, a un potente feudatario, a un sovrano, o al pontefice, per sfuggire a diversa minaccia, per acquistare privilegi economici. Il signore, nel confronto della cittadinanza, tendeva ad annullare la propria subordinazione e la propria responsabilità verso statuti e deliberazioni consiliari, a riassumere nella sua persona la somma dei poteri; e in molti casi l’acquisto da parte del signore di altre signorie creò una sempre più grande distinzione tra governanti e governo, che disponeva di una sua propria organizzazione burocratica, estranea agli interessi locali. Ma sempre l’origine del potere, anche se era ammesso il suo carattere vitalizio e perfino ereditario per consanguineità, si basava, almeno di diritto, sulla volontà popolare che aveva concesso la balìa. Il compromesso venne risolto alla fine del secolo 14° e durante il secolo 15°, quando i signori ottennero il titolo della loro legittimità dall’Impero o dalla Chiesa, trasformando così la signoria in principato. Ma il termine “signoria” ha origini più antiche. Infatti, in riferimento alla storia delle campagne, con questo termine si indica il complesso di poteri sviluppato dall’aristocrazia fondiaria laica ed ecclesiastica sui propri contadini, dall’età tardo-antica a tutto il Medioevo ed oltre. Fin dall’età romana, i proprietari (quelli privati così come le chiese o lo stesso fisco imperiale) esercitavano sui loro contadini un’autorità che era anche di natura extra-economica, ossia riguardava la possibilità di imporre una forma di disciplina, in misura differenziata rispetto alla condizione giuridica dei coltivatori, a seconda cioè del fatto se essi erano liberi o schiavi. Nel corso dell’Alto Medioevo, e soprattutto in età carolingia (dal secolo 9°), nelle regioni che entrarono a far parte dell’impero franco tale autorità si concretizzò nel diritto di giudicare e punire, sia pure sempre per questioni legate ai rapporti di lavoro e di uso della terra (coltivazione, fitti, pagamento dei canoni, corvées, ecc.). Tale stadio viene definito (secondo una graduazione di sviluppo della signoria che, se è teorica, non è comunque meno utile) signoria fondiaria. Tale signoria si esercitava solo sui contadini che lavoravano le terre del padrone-signore; contadini, inoltre, che vivevano di frequente in differenti villaggi, giacché l’unità agraria di base del tempo (detta di solito, con un termine latino, curtis) era frazionata e non formava un complesso coerente di territori, fossero essi coltivi o incolti. Questa discontinuità del tessuto signorile venne meno nel corso del secolo 10°, durante il periodo dell’anarchia politica dell’Occidente medievale, nel quale si verificò la crisi dei poteri pubblici a tutti i livelli. A partire da questo momento, i grandi proprietari fondiari (l’aristocrazia laica ma anche le chiese e i monasteri) dimostrarono una tendenza accentuata ad unire ai loro precedenti poteri anche quelli di natura militare e giurisdizionale che i vari funzionari regi o imperiali non erano più in grado di esercitare. I signori laici ed ecclesiastici svilupparono così i poteri di banno: ban (latino medievale bannus) era un’antica parola germanica, equivalente al latino districtus, che indicava il diritto di convocare e quello di punire, prerogativa questa dei capi dei popoli germanici che invasero l’Occidente ex romano. In età carolingia, bannus indicava il potere di comando degli ufficiali pubblici in campo militare, fiscale, giudiziario. Tale potere di banno passò dunque in età post-carolingia, con un’infinità di sfumature diverse, nelle mani dei maggiori proprietari fondiari, soprattutto di quelli che furono in grado di incastellare, ossia di erigere fortezze (altra antica prerogativa, questa, di natura pubblica) sulle loro terre. E poiché tali fortezze non proteggevano solo i loro uomini ma, data la natura dispersa del grande possesso fondiario, finivano per esercitare la loro funzione anche nei confronti di quei contadini (fossero essi dipendenti di altri signori o piccoli e medi proprietari) che vivevano nei villaggi più vicini al castello mescolati ai dipendenti del signore, ecco che la nuova forma di signoria di banno ebbe carattere territoriale: essa si esercitò cioè su di un territorio compatto, quello che era effettivamente sotto il raggio protettivo del castello; ed è chiamata dunque anche signoria territoriale o di castello (l’evoluzione stessa della parola districtus, che da equivalente di banno passa a indicare il territorio al cui interno il banno stesso è esercitato, è una prova ulteriore della natura territoriale di questa più matura forma di signoria). I signori richiesero allora ai loro uomini una serie di dazi, pedaggi e corvées, come riconoscimento della loro funzione: che era quella essenzialmente di mantenere la pace, esercitando la protezione verso i nemici esterni e assicurando la giustizia all’interno. Le corvées signorili consistevano, per es., nella manutenzione delle mura del castello, in quella delle strade o dei ponti: erano corvées che erano ben diverse da quelle, a carattere esclusivamente agrario, che i padroni già da secoli richiedevano ai loro contadini nell’ambito della struttura agraria curtense. Inoltre, in una fase pienamente matura della signoria, i signori si arrogarono, nei confronti della popolazione loro soggetta, il godimento di alcuni diritti monopolistici (anch’essi, come gli altri già elencati, detti bannalità), quali quello di costringere tutti coloro che erano sottoposti alla signoria a utilizzare il mulino o il frantoio signorile; diritti ulteriori (sull’eredità, sui matrimoni) si svilupparono poi in maniera differenziata da luogo a luogo ed a seconda delle varie epoche, con riferimento inoltre alle differenti condizioni dei coltivatori: erano più pesanti, cioè, nei confronti di quelli che erano di origine esplicitamente servile. Ma va detto anche che, all’interno dei quadri della signoria territoriale, l’antica distinzione tra liberi e servi perse consistenza, tra i secoli 10° e 12°, a vantaggio di una generale sottomissione al banno signorile, che divenne il marchio generalizzato della popolazione contadina, distinguendola dagli altri ceti sociali (la nobiltà, i cavalieri, la popolazione cittadina, il clero). Le signorie di banno, di frequente nate da uno sviluppo di fatto, ebbero parziali riconoscimenti sovrani, per es., con la concessione del castello già costruito o ancora da costruire, talvolta a titolo beneficiario, talvolta in donazione piena. La struttura signorile va infatti distinta da quella feudovassallatica, anche se poteva darsi il caso frequente di un signore vassallo di un altro più potente, fosse il re o un altro grande; e questo fu poi il caso normale nella seconda parte del Medioevo, dal secolo 12° in poi (grazie anche all’istituto del feudo oblato). I signori difendevano il loro territorio grazie a una forza militare di guerrieri, vassalli o servi armati (masnada). I signori ecclesiastici univano alla forza militare, più accentuata nelle signorie laiche, lo scudo rappresentato dall’immunità, ossia da una concessione da parte dell’autorità, che impediva agli ufficiali pubblici di entrare nelle terre ecclesiastiche per compiervi qualsiasi atto legato alla loro funzione (giustizia, imposte, leva delle truppe). Sviluppatasi al massimo grado nei secoli 11° e 12°, la signoria di banno vide limitate le proprie prerogative, a partire dal secolo 13°, dai nuovi poteri forti (monarchie, stati regionali, comuni cittadini) che ovunque si formarono in Europa. Essa continuò comunque la sua storia, sia pure in modo differenziato nei vari paesi, al di là dei secoli del Medioevo, ma come struttura socioeconomica, via via spogliata delle sue prerogative di comando, che vennero riassorbite di nuovo, progressivamente, dalle autorità di profilo pubblico. [112101] Il conflitto che tra il 1339 e il 1453 impegnò Inghilterra e Francia e che costituì l’ultima fase della lotta intrapresa dai Plantageneti contro la monarchia francese fino dal secolo 12° è stato denominato guerra dei Cent’anni. Nonostante i periodi di tregua, poiché il tentativo di dominio inglese in Francia fu continuo, la denominazione è ben giustificata. Estintosi nel 1328 con Carlo IV il ramo primogenito dei Capetingi, Edoardo III re d’Inghilterra e duca d’Aquitania, figlio di Isabella figlia di Filippo IV il Bello, pretese la corona di Francia, contesagli da Filippo di Valois, figlio di Carlo di Valois, fratello di Filippo IV il Bello; il diritto di Filippo, di ramo cadetto ma di discendenza maschile, fu in un primo tempo riconosciuto dal re inglese, che prestò omaggio, come feudatario in Francia di Guienna e Ponthieu, ma, acuitisi più tardi su altri campi i contrasti, proclamò il suo diritto al regno francese (1336), assunse il titolo di re di Francia (1337) e nel 1339 diede inizio alle ostilità assediando Cambrai. Dopo una tregua biennale (1343-45) si ebbero la grande vittoria inglese (1346) a Crécy e, dopo una nuova tregua durata fino al 1355, le imprese del principe di Galles, il Principe Nero, che concluse le devastazioni del suolo francese con la vittoria di Poitiers (1356) e la cattura dello stesso re di Francia, Giovanni II. Nella pace di Brétigny (1360), conclusione di questa prima fase, Edoardo III pretese il dominio su gran parte della Francia centro-occidentale (Poitou, Limosino, Quercy, Rouergue, Marche, Angoumois), e riaffermò quello sull’Aquitania e su Calais, conquistata nel corso della guerra; rinunciò invece a ogni pretesa sul trono di Francia. Ma seguì una ripresa francese, sotto la guida di B. Du Guesclin, tra il 1368 e il 1380, che, salvo Calais e Bordeaux, riconquistò il territorio occupato dagli Inglesi. Si ebbero poi varie tregue, a lunga scadenza (una del 1396 per 28 anni), interrotte però da scorrerie e azioni isolate. La seconda grande fase della guerra dei Cent’anni prese le mosse da eventi interni della Francia, per i quali i Borgognoni, in lotta con gli Armagnacchi, si rivolsero agli Inglesi chiedendone l’appoggio. Enrico V d’Inghilterra nel 1415, dopo la grande vittoria di Azincourt, s’impadroniva del Nord-Ovest del regno, e nel 1420, come genero di Carlo VI di Francia, veniva riconosciuto suo erede, avendo inoltre la reggenza in vita di Carlo (trattato di Troyes). Gli Inglesi, occupata Parigi, si spinsero fino alla Loira, e nel 1428-29 assediarono Orléans. Fu allora che, essendo re d’Inghilterra Enrico VI e re di Francia Carlo VII, fiammeggiò la riscossa nazionale francese con Giovanna d’Arco, anche quando questa cadde prigioniera, la guerra proseguì favorevolmente per Carlo VII, il quale poté riappacificarsi, con la pace di Arras (1435), col duca di Borgogna. Nel 1436 Parigi fu ripresa, nel 1449 anche Rouen, la Normandia e il Cotentin furono occupati; nel 1451 la Guienna, e Bordeaux (sollevatasi nel 1452 contro i Francesi) nel 1453. La guerra così finì, senza che venisse firmato, né allora né poi, alcun trattato di pace. Gli Inglesi conservarono, di tutte le loro conquiste, fino al 1558, solo Calais. [112111] Nella loro lotta per l’egemonia sulla Spagna, i regni di Aragona e di Castiglia, pur accomunati nelle guerre di “reconquista” dei territori iberici occupati dai musulmani, non avevano esitato a ricorrere, alle volte, agli stessi Mori. Divenuti marginali nella vita politica iberica il regno di Navarra, ormai territorialmente ridotto ed entrato nella sfera d’influenza francese, e quello di Portogallo, riconosciuto indipendente dopo lunghe lotte dalla Castiglia-León (1263), rimasero a contendersi l’egemonia sulla penisola iberica i due regni di Castiglia e d’Aragona. Mentre la monarchia castigliana in politica estera rimaneva sul terreno della reconquista, cioè dell’espansione territoriale verso il Sud, quella aragonese invece, costretta nel 1213 dalla sconfitta di Muret a rinunciare alla politica di espansione verso la Francia, si diede a svolgere una politica mediterranea in grande stile (Sicilia, Sardegna, imprese della Compagnia catalana in Grecia e in Asia Minore). L’uno e l’altro regno tuttavia furono travagliati nel corso dei secoli 14° e 15° da violente discordie interne, spesso degeneranti in guerre civili (rivolte della nobiltà contro il potere regio, soprattutto in Aragona; guerre di successione, soprattutto in Castiglia durante il regno di Pietro I, 1350-69, che videro l’intervento di potenze straniere; lotta tra la fine del 13° secolo e la prima metà del 14° del potere monarchico con la Unión dei nobili, e della Unión di Aragona con quella di Valencia, ecc.). Nel corso di queste vicende, mutarono anche le dinastie: sul trono di Castiglia, nel 1369, si ebbe l’avvento dei Trastamara con Enrico II; su quello di Aragona, nel 1412, per il compromesso di Caspe, salì Ferdinando d’Antequera, reggente di Castiglia. Nella seconda metà del 15° secolo scoppiò una nuova guerra civile in Castiglia, alla morte di Enrico IV (1474), fra la sorella di lui Isabella I, dal 1469 moglie di Ferdinando il Cattolico, futuro re di Aragona, e i sostenitori di Giovanna la Beltraneja (Giovanna di Portogallo detta la Beltraneja). Con la vittoria definitiva di Isabella (1479), iniziava una nuova fase nella storia spagnola: essendo in quello stesso anno salito al trono di Aragona il marito Ferdinando, si venne a realizzare un’unione fra i due regni fino a quel momento divisi. Si trattava ancora di un’unione puramente personale, destinata a diventare definitiva nella persona del nipote Carlo (Carlo V). L’epoca di Ferdinando e di Isabella fu l’età d’oro della storia spagnola: caduta Granada (1492) e conclusasi così la reconquista, la guerra contro i musulmani fu portata sul litorale nord-africano (presa di Orano e Bugia, 1509; di Tripoli, 1511; sottomissione di Algeri e di Tunisi). Ferdinando d’Aragona intervenne nella grande contesa europea per il predominio in Italia, conquistandone il Mezzogiorno (1504); nel 1512 fu annessa la Navarra spagnola e compiuta così l’unità anche dal lato dei Pirenei. I Re Cattolici individuarono inoltre nell’unificazione religiosa, perseguita a spese delle comunità ebraiche e musulmane, un ulteriore strumento per favorire la coesione nazionale e a tal fine, sullo scorcio del 15° secolo, venne gradualmente istituita l’Inquisizione spagnola. Negli stessi anni, le scoperte di Cristoforo Colombo offrirono alla Spagna nuovi e immensi domini: il sorgere dell’impero coloniale in America rafforzò anche la posizione europea del paese. Questa posizione sembrò diventare di assoluta egemonia sotto il regno di Carlo V (1516-56) per l’accomunarsi della Castiglia e dell’Aragona con l’Impero e coi domini ereditari degli Asburgo; anche quando, con l’abdicazione di Carlo V e l’avvento di Filippo II (1556), ritornò a essere una individualità politica distinta, la Spagna poté ancora per alcuni decenni essere alla testa della politica europea, realizzare l’assoluta unità peninsulare (1581, conquista del Portogallo) e, modellandosi sul tipo dello stato confessionale cattolico, associare i propri interessi egemonici al moto religioso della Controriforma. Ma in questo splendore si celavano motivi di profonda e rapida decadenza. [11311] “Arte gotica”: così fu chiamata dagli artisti del Rinascimento l’arte dei secoli 12°-15°, forse perché ritenuta a torto di origine gotica, certo con intenzione spregiativa (alcuni Italiani di allora la dissero “tedesca”); e l’espressione è rimasta nell’uso, nonostante i tentativi degli storici dell’arte di sostituirla con termini più precisi (ogivale, archiacuta). “Gotica” è l’arte europea per eccellenza (escluse le regioni, per lo più orientali, dove continua a prevalere l’arte bizantina) del periodo che va circa dalla metà del 12° secolo al Quattrocento, arrivando, in alcuni casi, a comprendere anche il Cinquecento. Rispetto all’arte del precedente periodo romanico, che pur ne contiene le premesse, e in genere a quella di tutto il Medioevo, essa ha caratteristiche profondamente originali. La sua novità si manifesta soprattutto nell’architettura, che ha funzioni preminenti, poiché scultura e pittura, pure sviluppatissime, dipendono ancora in gran parte da essa. [113111] L’architettura gotica sorse certamente nell’Île-de-France, come nuova ardita tecnica costruttiva, basata sullo sfruttamento di elementi architettonici del resto già noti (l’arco acuto e la volta a costoloni), ma ora per la prima volta coordinati allo scopo di dare una sempre maggiore elevazione e maggiore slancio verticale all’edificio. L’edificio è infatti, nell’architettura gotica, un organismo la cui statica risulta dal tipico equilibrio esercitato dalle varie parti, dove il peso della costruzione non è più ripartito uniformemente sulle murature d’ambito, ma è concentrato soltanto su alcune strutture che, opportunamente rinforzate (con contrafforti, archi rampanti, ecc.), divengono essenziali sostegni di tutto il complesso; ciò che non ha funzione portante appare quasi superfluo; le pareti possono così rimanere sottili, aprirsi in larghissime finestre, l’edificio acquistare in tutto leggerezza, slancio, e un senso di razionale energia. Il primo monumento in cui si manifesta appieno il nuovo stile è la chiesa dell’abbazia di Saint-Denis, presso Parigi (circa 1132-1144), fatta erigere dall’abbate Suger. Nella seconda metà del secolo 12° si elevarono le cattedrali di Noyon, Senlis, Laon, e la chiesa di Saint-Remi a Reims; Notre-Dame di Parigi è l’ultima delle grandi chiese dell’arte gotica primitiva. Alla fine del secolo 12° l’uso ormai abituale dell’arco rampante permette ogni audacia costruttiva. Esternamente, l’edificio, che ha in genere facciata fiancheggiata da due torri, a tre portali, diventa sempre più riccamente adorno di sculture e rilievi, ordinati in cicli; grandissima importanza acquista il rosone, sopra il quale si trova ora spesso una galleria. L’apogeo della costruzione gotica è segnato dalle grandiose cattedrali di Chartres (1194-1260), Soissons, Reims (iniziata 1212), Amiens (1220), Beauvais (1227): queste hanno magnifica planimetria (coro a deambulatorio, con cappelle a raggiera; vasto transetto a più navate, sormontato da torri come la facciata; triforio sulle arcate della navata principale; grandi finestroni guarniti di trafori di pietra per le vetrate). Fra le opere più caratteristiche del secolo 13°: la Sainte-Chapelle di Parigi (1245-48). Con il secolo 14°, e a mano a mano che questo si inoltra, le forme architettoniche diventano sempre più slanciate e leggere, più ampie le finestre, sempre più sovrabbondante la decorazione plastica, profusa in ogni particolare, sì che tutta la fabbrica finisce con assumere l’aspetto di un vero e proprio merletto di pietra. In questo periodo l’architettura gotica si diffonde in tutte le province della Francia e dell’Europa, unendosi alle forme locali e assumendo vario carattere. Dall’inizio del secolo 15° alla metà del 16° il gotico ha la sua ultima fase, quella che è detta dello stile flamboyant (ital. gotico fiorito, o fiammeggiante): la struttura architettonica perde in gran parte l’antica semplicità e razionalità, moltiplicando artificiosamente le difficoltà per superarle con studiatissime soluzioni; la decorazione diventa addirittura sfarzosa, ma più rigida e meccanica. Quanto all’architettura civile, essa fu sviluppatissima, ma poco è ciò che ne è rimasto: nei palazzi reali, ora distrutti, si ebbero, insieme a una planimetria più razionale, installazioni pratiche più moderne. Particolarmente importante fu l’architettura militare (l’antico Louvre; il palazzo dei Papi ad Avignone). In Italia, l’architettura gotica francese penetrò per opera dei cisterciensi, tra il secolo 12° e 13° (abbazie di Fossanova, Casamari, Chiaravalle), poi fu seguita anche dai francescani (S. Francesco di Bologna; S. Francesco di Assisi), fu propagata nell’Italia meridionale da Federico II (Castel del Monte) e poi dagli Angioini. Dopo questo primo periodo, però, gli architetti italiani si mostrarono alquanto refrattari al gotico, di cui adottarono le forme piuttosto in taluni particolari che nell’impronta d’insieme, che ebbe un carattere spaziale del tutto diverso da quello d’oltralpe, caratterizzato da un senso di misura e di equilibrio che sembra preludere al Rinascimento (S. Croce, S. Maria del Fiore di Firenze): le linee orizzontali vi prevalsero, infatti, sulle verticali; le pareti furono conservate, ed ebbero spesso una ricca decorazione pittorica, mentre finestre e rosoni ebbero sempre un’importanza minore. Caratteri originali ebbe l’architettura gotica delle varie regioni e città, da Siena, a Firenze, a Venezia, all’Italia meridionale. Il concetto dominante nelle chiese gotiche italiane non è quello dell’altezza e dell’esasperazione dei problemi statici della volta (nel duomo di Orvieto e in molte delle maggiori la copertura è a tetto), ma del senso della stabilità permanente: per cui si può dire che l’edificio gotico italiano è piuttosto una diretta derivazione di quello romanico, con aggiunta di particolari d’oltralpe (archi acuti, decorazione). Oltre che in Francia, l’architettura gotica creò grandi capolavori in Inghilterra (di carattere molto originale: le cattedrali di Canterbury, iniziata nel 1125; di Chichester; di Salisbury, 1220; Ely, Worcester; l’abbazia di Westminster); in Spagna (Ávila, Toledo, Burgos, León, Gerona, Valenza, Oviedo, Siviglia, ecc.). In Renania e nella Germania meridionale le correnti gotiche giunsero solo al principio del secolo 13°, per trionfare poi a Treviri (chiesa della Madonna), Marburgo (S. Elisabetta), Colonia (nel duomo: 1248-1322). Varietà particolari, assai originali, si ebbero nei Paesi Bassi, nella Germania settentrionale, in Scandinavia, mentre nel bacino orientale del Mediterraneo l’arte gotica si propagò per mezzo delle colonie franche fondate dai crociati, nei secoli 12°-13° (abside del S. Sepolcro a Gerusalemme; cattedrale di Tortosa in Siria; numerosi castelli, fra cui notevole in Siria il Krak dei Cavalieri, circa 1265). [113121] Nella scultura, che ebbe un intenso sviluppo perché largamente impiegata nella decorazione architettonica, il gotico rappresentò una forte reazione alla tradizione romanica. La statuaria non fu più un semplice rivestimento decorativo delle costruzioni, ma vi assunse una parte preminente. Dalla seconda metà del secolo 12°, il nuovo stile, caratterizzato da una compostezza quasi classica, si diffonde dall’Île-de-France, dove aveva dato le sue prime grandi opere (sculture di Saint-Denis; del “portale dei Re” a Chartres; di Senlis, ecc.). Capolavori della scultura gotica pienamente matura sono le decorazioni plastiche della porta della Vergine in Notre-Dame di Parigi (1210-20), i portali della cattedrale di Amiens (1225-36), il complesso di statue della cattedrale di Reims. Nel secolo 14°, alla grandiosità del periodo precedente succede una maggiore ricerca di eleganza e raffinatezza, che va poi accentuandosi in seguito, per far posto, nel secolo 15°, a un naturalismo che finisce col diventare vero e proprio verismo. Il propagarsi della scultura gotica francese fu ostacolato dall’originalità della scultura romanica in Germania, Spagna e Italia; ma poi lo stile gotico divenne linguaggio internazionale, i cui manierismi furono diffusi dai piccoli oggetti, prodotti di arti minori (avori intagliati, oreficerie, smalti, ecc.). Le vetrate dipinte furono uno degli elementi integranti delle costruzioni gotiche. [113131] Nel periodo gotico primitivo (secolo 13°) la pittura ebbe il valore di pura decorazione colorata in piano, con l’attenuazione del modellato e della profondità: e nella miniatura, che ebbe sviluppo grandissimo, raggiunse un’alta raffinatezza fuori da ogni intenzione di realismo, in vista di una riduzione della forma a pura armonia di linee. Questo stile pittorico divenne rapidamente internazionale, mentre in Italia fu fronteggiato prima dalla pittura bizantineggiante, poi dalla nuova arte di Giotto, mentre Siena invece, nella prima metà del secolo 14°, ne accoglieva i modi che poi, elaborati da artisti senesi attivi ad Avignone, dovevano rifluire in Francia, contribuendo alla formazione del cosiddetto stile gotico internazionale (fine secolo 14° - metà 15°). Questo stile, diffusosi ovunque, ebbe come caratteristica l’accentuazione di molti manierismi gotici e una tendenza all’osservazione particolare, realistica; l’accurata rappresentazione del dettaglio, la vivacità del colore, la predilezione per le forme più eleganti e raffinate lo fanno apparire frutto di una società cortese e privilegiata; ma in esso non mancarono i fermenti nuovi, affermatisi dal 1425 circa in poi. Tra i capolavori della pittura gotica di questo periodo vanno ricordate le opere di M. Broderlam, di J. Malouel, dei miniatori Jacquemart de Hesdin e Pol de Limbourg, che precedono il grande rinnovamento compiuto dai van Eyck. [11321] Posta su una spianata, sul luogo della città gallo-romana, la città di Chartres conserva ancora oggi qualche tratto delle mura medievali. Capoluogo del dipartimento Eure-et-Loire, posta sulla riva sinistra del fiume Eure, Chartres è l’antica Autrëcum, centro del culto druidico, conquistata da Giulio Cesare. Divenuta in seguito una delle prime sedi episcopali della Gallia (sin dal 3° secolo), mantenne e sviluppò nel corso dei secoli il suo ruolo di centro religioso e spirituale, facendo delle sue cattedrali i luoghi mitici e fortemente simbolici per molte generazioni di credenti. Una prima cattedrale, forse del secolo 4°, fu distrutta dai Normanni. Nel 1194 bruciò quella eretta da Fulberto (1020), di cui rimangono la cripta e la facciata con due torri (quella meridionale, circa 1165, fu modello alle più belle cuspidi dell’Île-de-France), comprese nella nuova chiesa, consacrata nel 1260 e ancora quasi intatta. Essa è una delle principali di Francia: il triplice portale della facciata (detto “dei Re”) segna l’esordio della scultura gotica (statue-colonna di personaggi dell’Antico Testamento; lunette con la glorificazione di Cristo e della Vergine, della metà del secolo 12°); notevolissime pure le statue del portale Nord (1210-1220), e quelle del portale Sud (secolo 13° inoltrato), che formano un complesso di capitale importanza. Architettonicamente, a Chartres, per la prima volta, gli archi rampanti sono trattati come elementi di stile, mentre il coro a doppio deambulatorio risponde alle esigenze di una chiesa meta di pellegrinaggi. Di eccezionale valore le vetrate, dei secoli 12°-13° (alcune anche del 14° e 15°). [11331] Centro simbolico di una delle più prestigiose capitali europee, capolavoro della più antica architettura gotica francese, la cattedrale di Notre-Dame di Parigi è posta nella piazza della Cité. Iniziata, dall’abside, nel 1163, compiuta nel 1246 con modifiche al progetto primitivo (l’abside e il transetto furono rimaneggiati, verso il 1265, da Pierre de Montreuil, o de Montereau, e le cappelle dell’abside furono terminate nel 1344), fu alterata all’interno (coro) nel secolo 18°; la Rivoluzione ne danneggiò gravemente la decorazione plastica, che fu in buona parte ricostruita da E. Viollet-le-Duc. È un grande edificio a croce latina, con transetto poco sviluppato all’esterno; ha cinque navate con matronei, coro con doppio deambulatorio e cappelle a raggiera. La facciata, dominata da due enormi torri rettangolari, e i lati sono adorni di importantissime sculture dei secoli 13°-14° (portali della Vergine, del Giudizio, di S. Anna, ecc.). All’interno, i tre amplissimi rosoni conservano splendide vetrate del secolo 13°, in parte restaurate; notevoli inoltre una statua della Vergine, detta Notre-Dame-de-Paris (secolo 14°), i rilievi della chiusura del coro (secolo 14°), gli stalli lignei del coro (secolo 18°). [11341] Il duomo di Colonia (Dom St. Peter und Maria) è una delle maggiori opere del gotico. Sorto su una precedente costruzione carolingia (rilevata da scavi eseguiti dopo il 1959), l’edificio fu iniziato nel 1248 riprendendo lo schema gotico della cattedrale di Amiens, con il coro con deambulatorio e cappelle radiali, transetto a tre navate, corpo longitudinale a cinque navate. Il coro fu consacrato nel 1322, ma la costruzione della grande fabbrica, interrotta nel 1560 e ripresa soltanto nel secolo 19°, fu completata nel 1880; all’interno il prezioso reliquiario dei Re Magi di N. de Verdun, statue di Cristo, della Vergine e degli apostoli del 14° secolo, vetrate del 13° e del 14° secolo, grande pala di S. Lochner, ecc. [12111] Il Rinascimento fu un’epoca fondamentale per l’evoluzione delle attività economiche e finanziarie. Ma i prodromi dell’attività bancaria moderna si hanno pure in precedenza. Nell’economia antica la funzione principale dei banchieri era quella di custodire monete e di agevolare il cambio fra le varie valute. Trattandosi di monete metalliche, il cambio era in rapporto al peso e al contenuto di metallo fino e di grezzo. La caduta dell’Impero romano segna anche la decadenza dell’antica attività bancaria, che si riduce sempre più a quella del cambiavalute, fino a quando l’età dei Comuni e delle signorie, dunque l’età dei grandi mercanti, non ne consente nuova vita. Nei più importanti centri d’affari dell’epoca ricompaiono i cambiatori (campsores) e società mercantili e bancarie insieme che assumono la denominazione di bancari. Il commercio nelle grandi periodiche fiere, dove i mercanti accentrano la vendita dei beni da esportare e l’acquisto di beni da importare, dà vita a operazioni di credito e la lettera di cambio (la moderna cambiale) offre la possibilità di ridurre gli spostamenti di monete coniate. La casa madre e le succursali delle grandi compagnie mercantili, insieme con il prestigio politico della famiglia e della città che danno il nome a tali enti, la stessa funzione di riscossione delle decime per conto del Papato, offrono la possibilità di congiungere l’attività mercantile internazionale con quella in cambi, mentre l’affermarsi dell’associazione in partecipazione dà luogo pure a interessanti forme di raccolta di fondi. Fra i nomi più prestigiosi dell’età di mezzo ricorderemo, per citare solo alcuni nomi: i Bardi, i Peruzzi, i Medici e i Pazzi a Firenze (secolo 15°); i Chigi a Siena (secolo 16°); gli Spinola, i Giustiniani, i Doria, i Grimaldi, i Centuriani a Genova; i Borromeo a Milano; i Soranzo a Venezia (secoli 15° e 16°). [121111] Le fiere sorsero col fiorire dell’attività di scambio coincidendo in genere con feste religiose; si tenevano inizialmente sui sagrati delle chiese e poi, per permetterne l’ingrandimento, furono trasferite fuori delle mura delle città. I governi le disciplinarono e favorirono: nel Medioevo re e principi erano soliti concedere in occasione di una fiera diritto di asilo, tregue, sospensione di diritti di rappresaglia, liberazione da arresti per obbligazioni precedenti, facoltà di organizzare temporaneamente giochi proibiti, diritto di batter moneta, oltre a esenzioni da dazi e diritti di scorta (fiere franche); inoltre, venivano istituiti appositi tribunali per la durata delle fiere allo scopo di risolvere le controversie che in esse fossero sorte. La disciplina interna delle fiere era affidata a speciali funzionari (magistri nundinarum). Le fiere hanno esercitato enorme influenza sull’origine e lo sviluppo del cambio e del credito. Tra le più importanti: le fiere francesi di Champagne (che, attestate già nel 427, ebbero la loro maggiore fioritura a partire dal 12° secolo e si svolgevano in varie città della regione, susseguendosi, quasi ininterrotte, l’una dietro l’altra), di Parigi (di St.-Denis, dal 629 al 1789, di St.-Lazare, St.-Laurent, St.-Germain, ecc.), di Beaucaire, di Bordeaux, di Nîmes, di Rouen, di Tolone; la fiera dei drappi di Bruxelles; le fiere tedesche di Francoforte sull’Oder e sul Meno, di Brunswick, di Magonza, di Breslavia e soprattutto di Lipsia; le fiere russe di Niznij Novgorod, di Kiev, di Char´kov, ecc.; quelle di Madrid, Basilea, Linz, ecc. Le maggiori tra le antiche fiere italiane furono quelle di Pavia, Ferrara, Parma, Bolzano, Merano, Trento, Mantova, Bologna, Verona, Padova, Venezia, Senigallia, ecc.; inoltre Romani, Toscani, Lombardi si distinsero come frequentatori delle grandi fiere estere. Se i primi sintomi di decadenza delle fiere si sarebbero manifestati durante il secolo 18°, le fiere dei cambi raggiunsero il loro pieno sviluppo nei secoli 15° e 16°, quale naturale evoluzione delle fiere medievali. In conseguenza del crescente afflusso, in queste ultime, di monete diverse e spesso alterate, nonché della difficoltà dei pagamenti a distanza, a causa dei rischi del viaggio, si resero infatti ben presto necessarie strutture che svolgessero i compiti del cambiavalute, del prestito di denaro, dell’accettazione e compensazione di cambiali. I cambiatori italiani, che dal secolo 13° in poi avevano svolto funzione di intermediazione nei pagamenti da luogo a luogo, tennero sempre il primo posto nelle grandi fiere estere e, per iniziativa dei Genovesi, riuscirono alla fine del secolo 16° a trasportare in Italia il centro degli affari in cambi e del credito internazionale. La fiera di Piacenza (1579), dominata di fatto dai Genovesi, acquistò in breve grande importanza mondiale, per quanto vi potessero intervenire unicamente banchieri italiani. In essa si introdusse l’uso di una moneta di conto, lo scudo di marchi (valutato, con un disaggio di soltanto l’1%, alla pari con le più pregiate monete d’oro del tempo) e si riuscì a eludere i divieti canonici contro l’usura. All’inizio del secolo 17°, soprattutto per reazione delle altre città, specie toscane, contro il monopolio genovese, la fiera di Piacenza cominciò a declinare e nel 1623 fu sostituita da quella creata a Novi dagli stessi Genovesi nel 1621. L’attività bancaria di questi ultimi era però al tramonto, sia per la decadenza della fortuna spagnola cui era legata, sia per l'importanza mondiale già assunta da Amsterdam in materia di cambi. [121121] I Romani chiamavano il mercato macellum, il cui significato si restrinse poi al luogo della vendita delle carni e oggi a quello dove si uccidono gli animali; ma il primitivo mercato fu in Grecia l’agora e in Italia il foro. Con lo svilupparsi della vita pubblica in questa piazza, scomparvero le botteghe, sostituite da edifici pubblici, e si stabilirono in zone determinate dei mercati speciali. Nelle città medievali europee il mercato prese posto in principio in spazi aperti di proprietà vescovile o imperiale, in Italia detti broli (dal celtico broga “campo”), intorno ai quali sorsero edifici chiusi, detti appunto broletti; in seguito, quando aumentò il peso politico dei mercanti, il mercato si spostò su aree di proprietà comunale, in larghe strade o in piazze (la toponomastica segnala sovente la destinazione di tali piazze), con facilità d’accesso e spesso circondate da porticati, o in loggiati al piano terreno di edifici pubblici, talvolta presso gli stessi broletti. Particolare cura fu data alla collocazione dei mercati del pesce nelle adiacenze di corsi d’acqua. Tra i mercati più tipici del Medioevo, tuttora esistenti, si ricordano quelli di Padova, di Udine e di Verona, di Rialto a Venezia, di Narni. In alcuni casi sorsero anche edifici per la vendita di una determinata derrata, come la loggia per le granaglie di Orsanmichele, a Firenze, il portico del grano a Carpi, ecc. Spesso le installazioni del mercati risposero a esigenze periodiche (fiere di Champagne, di Bolzano, ecc.). Una sensibile influenza sul mercato europeo fu esercitata dai bazar orientali, specialmente nella razionale divisione del mercati in zone riservate alle varie categorie di merci. Vivaci documentazioni del mercati medievale si colgono in codici come lo Statuto della mercanzia a Bologna, il Biadaiolo a Firenze, i Tacuina sanitatis miniati da pittori lombardi. Fuori d’Italia sorsero mercati interamente coperti (halles), come la grande sala che costituiva il mercato della carne a Haarlem. L’architettura del Rinascimento dette, in alcuni casi, carattere monumentale a simili organismi, costruiti appositamente sotto forma di grandiosi loggiati pubblici che costituivano a un tempo una comodità e un ornamento per le città. Una classica nobiltà (resa esplicita nel nome di basilica che assunse la ricostruzione del Palladio a Vicenza) ricevettero i broletti o i palazzi della ragione che dominavano i mercati. Le fontane divennero ornamento, oltreché pratica necessità, a Monaco, a Vienna, a Bolzano, dove anche i banchi dei venditori furono intagliati con singolare eleganza. [121131] Agli inizi del secolo 14° l’economia europea presentava settori e aspetti giunti a grande maturità intorno a due aree, l’Italia comunale e le Fiandre, che ne costituivano le punte avanzate. Si formarono grandi risorse finanziarie e alla disponibilità dei capitali si congiunse l’inizio dell’impiego di tecniche bancarie e contabili moderne, che resero possibili una gestione del denaro fortemente produttiva, una ripresa della circolazione monetaria come mezzo dominante di pagamento, la formazione di un mercato europeo, l’ulteriore espansione commerciale ben al di là dei limiti carolingici della “piccola Europa”. Tale processo si intensificò tra Quattrocento e Cinquecento, nonostante la gravissima crisi economica e demografica sopravvenuta alla metà del 14° secolo, di cui la “peste nera” segnò un momento drammatico, una sorta di “collaudo” della solidità del nuovo edificio continentale. Dall’epidemia l’Europa uscì stremata nelle sue forze, ristrutturata nell’economia e nella geografia, meno popolosa, ma non corse alcun rischio di dissoluzione del suo quadro civile. Dopo una ulteriore fase di stagnazione, dalla fine del secolo 15° le forze vitali avrebbero ripreso il sopravvento e avrebbero aperto un’altra lunghissima fase di espansione economica e demografica che si sarebbe protratta fino alla prima metà del secolo 17°, consolidando e sviluppando il quadro tecnico, produttivo, mercantile, finanziario che costituiva la grande eredità europea uscita indenne dalla crisi del secolo 14°. In questo contesto, anche le grandi vie di comunicazione terrestri svolsero un ruolo significativo per lo sviluppo dei commerci e dei rapporti tra le diverse aree dell’Europa, La via Francigena, ad esempio, era la più battuta delle vie romee medievali; entrava in Val Padana per la Val d’Aosta, raggiungeva Pavia; per il valico della Cisa (detto Monte Bardone) superava gli Appennini, toccava Lucca; raggiungeva Siena per la Val d’Elsa, e poi, attraverso la Tuscia, giungeva a Roma. Invece la via Romea, nome assunto dalla vecchia via romana Popilia nel tratto fra Ravenna e Pomposa, era tradizionalmente percorsa dai pellegrini provenienti da Venezia e dalle Alpi orientali e diretti verso Roma. Il nome poi si estese più a Nord fino ad Adria e più a Sud fino a Rimini. Successivamente, nel secolo 18°, il nome fu dato alla strada (molto più interna della precedente, a Nord di Ravenna) che congiunge Ferrara con Ravenna, poi con Rimini (la strada che ora si chiama Statale Adriatica). La vecchia strada Romea, decaduta a poco a poco a sentiero, fra le pinete e le valli di Ravenna e di Comacchio, è stata in seguito riattivata come strada automobilistica di collegamento fra Ravenna e Venezia. [12121] In seguito alle grandi scoperte geografiche, soprattutto a partire dalla metà del Cinquecento, l’abbondanza dei metalli preziosi e la svalutazione della moneta produssero un vertiginoso aumento dei prezzi, che colpì in primo luogo la Spagna e poi gli altri paesi d’Europa fino all’Ungheria, alla Boemia e alla Polonia. Ne trassero giovamento i paesi in via d’industrializzazione (Inghilterra e Olanda); ne soffrì invece l’economia dei paesi che fondavano la propria fortuna sull’attività bancaria e sul credito (come la Repubblica di Genova). Decadde la nobiltà che aveva dato la terra in affitto dietro canone in denaro, mentre nell’Europa orientale l’aumentato prezzo dei cereali valorizzò la terra e la potenza economica della classe che ne deteneva la proprietà. Se, dunque, nell’Europa occidentale la rivoluzione dei prezzi favorì l’ascesa di nuovi strati sociali, al contrario nell’Europa orientale essa contribuì a ribadire il servaggio delle classi rurali. [12131] Nell’Europa del 15°-16° secolo, il mercante-banchiere, sovente signore della propria città, non ha ancora la capacità di un’autonoma funzione monetaria (la moneta rimane ovunque metallica e la circolazione di surrogati è solo in funzione di agevolare il commercio di importazione e di esportazione e lo svolgimento delle fiere), ma la lettera di cambio e le fedi concesse ai depositanti sono il presupposto per una circolazione parallela di mezzi di pagamento. La decadenza politica di molti mercanti-banchieri rallenta lo sviluppo dell’attività bancaria. Il potere politico dei banchieri diviene quindi indiretto: essi finanziano principi e re e legano le loro fortune economiche alle fortune politiche di questi ultimi, che, di solito, incapaci di rimborsare i prestiti ricevuti, concedono ai finanziatori privilegi di tipo monopolistico in grado di accrescerne la potenzialità economica nel campo del commercio, dell’industria, dello sfruttamento di risorse naturali, o anche nei servizi (porti, dogane, riscossioni di imposte). I Fugger legano le loro fortune al regno di Spagna; gli Italiani emergono più come categoria che singolarmente e sono generalmente denominati “lombardi” (di qui il nome della celebre Lombard Street di Londra e l’espressione lombard rate ossia il saggio di interesse che si paga sulle anticipazioni primarie, oggi anche sulle anticipazioni, garantite da titoli, della banca centrale alle banche ordinarie). L’epoca politicamente travagliata dell’età di mezzo e dell’inizio dell’età moderna conservò, comunque sia, all’attività in cambi, e quindi ai cambiavalute, una posizione preminente. È l’affermazione di un’organizzazione politica statuale, che propone nuove esigenze finanziarie pubbliche, una politica del debito pubblico (che è all’origine delle borse valori o borse dei Re) e che volge a mutare funzioni e compiti dei mercanti-banchieri, avviando alla distinzione fra attività mercantile e attività bancaria. All’estero sorgono banchi (per esempio la Banca di Amsterdam, 1609, e il Banco di giro di Amburgo, 1619) che oscurano la fama di quelli italiani. In quelle città si spostano i grandi centri del commercio mondiale. I principi aumentano i controlli sull’attività bancaria (che è ancora di deposito e di giro, oltre che di cambio) e se ne ha esempio in Italia (fine 16° secolo) con la trasformazione del Banco di S. Giorgio e la creazione del Banco di Rialto e del Banco di S. Ambrogio. Nel 1694 fu creata la Banca d’Inghilterra e, secondo gli storici delle banche, si ha qui il punto di svolta verso l’attività bancaria moderna. La Banca d’Inghilterra è il primo esempio di istituto di emissione, ossia di ente i cui debiti fungono da moneta e si diffondono per comune accettazione nei pagamenti. L’esempio fu seguito in vari paesi, fino a che gli istituti di emissione si trasformeranno in banche centrali, o banche delle banche. Con l’età moderna prenderanno nuovo vigore i commerci, si incrementerà, fino ad avviarsi a divenire principale, l’attività manifatturiera, gradatamente ci si avvierà a una rivoluzione dei mezzi di trasporto terrestre e marittimo, profonde trasformazioni investiranno l’agricoltura e la borghesia volgerà ad affermare una propria funzione politica in luogo e vece della nobiltà. Tutto ciò esigerà mobilitazioni di risparmio e ampie anticipazioni creditizie. I banchieri scopriranno la capacità di un’autonoma funzione monetaria e accompagneranno l’affermarsi del capitalismo con l’allargamento della massa dei mezzi di pagamento in circolazione. Sarà dunque in questo contesto che compariranno i prestiti pubblici (secolo 18°), mentre prima di allora, negli stati monarchici, erano stipulati personalmente dal sovrano e spesso subordinati alla concessione di garanzie reali (per esempio, cessione in pegno dei gioielli della corona o ipoteche sulla proprietà fondiaria) e, nelle repubbliche, erano quasi sempre garantiti da cessioni ai creditori di dazi o gabelle, il cui provento era destinato al pagamento degli interessi e al rimborso del capitale. Precedenti in tal senso dei prestiti pubblici si trovano già nel Medioevo (prestanze fiorentine, preste senesi, compere di San Giorgio, prestiti conclusi dai vari monti di Venezia e di Milano, vacabili pontifici, ecc.). Grande sviluppo a questo istituto finanziario dettero poi la Spagna nel secolo 16°, l’Olanda e l’Inghilterra nel secolo 17°, e anche la Francia. [12211] Agli inizi del secolo 14° la geografia politica europea era già nettamente delineata in molti dei tratti che dovevano rimanere caratteristici anche in seguito. La solidità del nuovo edificio continentale fu collaudata dalla gravissima crisi economica e demografica sopravvenuta alla metà del secolo, di cui la “peste nera” segnò un momento drammatico. Da essa l’Europa uscì stremata nelle sue forze, ristrutturata nell’economia e nella geografia, meno popolosa, ma non corse alcun rischio di dissoluzione del suo quadro civile. Dopo una ulteriore fase di stagnazione, dalla fine del secolo 15° le forze vitali avrebbero ripreso il sopravvento e avrebbero aperto un’altra lunghissima fase di espansione economica e demografica che si sarebbe protratta fino alla prima metà del secolo 17°, consolidando e sviluppando il quadro tecnico, produttivo, mercantile, finanziario che costituiva la grande eredità europea uscita indenne dalla crisi del secolo 14°. Fu una fase di espansione che si spinse anche ben oltre i limiti del mondo fino ad allora conosciuto. Gli europei del Cinquecento avrebbero scoperto improvvisamente l’immensità del mondo, la vastità dei mari navigabili e di nuove terre da esplorare. Nella Penisola Iberica, dove si concludeva nel 1492 con la presa di Granada la reconquista, tre forti nuclei statali erano emersi nel paese: a ovest il Portogallo, che nel corso del secolo 15° sviluppò una grande politica marinara e coloniale, spingendosi sulla costa africana fin oltre il Golfo di Guinea e raggiungendo nel 1488 il Capo di Buona Speranza; a est l’Aragona, che avvalendosi delle grandi energie di Barcellona, aveva formato un impero mediterraneo, che dalle Baleari si estese fino alla Sardegna, alla Sicilia e Napoli (quest’ultima poi lasciata a un ramo bastardo della dinastia); al centro la Castiglia, che formò dal Golfo di Biscaglia allo Stretto di Gibilterra una solida potenza militare ed economica. E furono appunto i paesi iberici le basi per le grandi scoperte geografiche inaugurate da Colombo nel 1492, mentre Vasco de Gama giungeva nel 1498 nella vera India. Le scoperte erano anche una espressione del nuovo spirito europeo. Una vera e propria rivoluzione culturale si era avuta, infatti, col passaggio dalla cultura della Scolastica a quella dell’Umanesimo e del Rinascimento. Questa, senza negare il quadro generale della professione di fede cristiana, vi introduceva forti elementi di laicità, naturalismo, immanentismo e, sotto il manto di una forte esaltazione dei modelli greci e romani, costruiva in realtà alcune premesse fondamentali dello spirito moderno, a cominciare dalla lotta contro il principio di autorità e dall’affermazione di valori come quello dell’eccellenza e dignità dell’uomo o quello della bellezza. Contemporaneo fu pure il diffondersi di uno spirito scientifico, di cui nel secolo 15° furono effetto la critica e la filologia moderne, nonché alcune grandi invenzioni come la polvere da sparo e, soprattutto, la stampa. Così un’Europa rinvigorita nelle sue risorse e nelle sue strutture poté lanciarsi agli inizi del secolo 16° sulle vie del mondo e impegnarsi in una serie di lotte interne che ne avrebbero profondamente trasformato la fisionomia politica e religiosa. A metà del Cinquecento prendevano corpo i primi imperi coloniali. [122111] Grande navigatore, scopritore dell’America, Cristoforo Colombo nacque a Genova nel 1451 e morì a Valladolid il 19 maggio 1506. Scarse le notizie dei primi anni della sua vita: si dedicò presto al commercio e fu a Chio (1474-75), in Portogallo e a Madera (1476-78), finché, tornato un’ultima volta a Genova, partì definitivamente per Lisbona (1479), dove forse lo spinsero motivi commerciali. Da Lisbona Colombo mosse per parecchi viaggi a Madera e altrove: e in questo periodo egli lesse l’Imago mundi di P. d’Ailly, la Historia rerum ubique gestarum di Pio II Piccolomini, il Milione di M. Polo (le postille di suo pugno offrono notevole interesse, anche biografico), che stimolarono la sua curiosità e la sua ambizione. La credenza di una grande estensione verso Est del continente antico e di una minore lunghezza del circolo massimo, ritenuto inferiore di circa un quarto alla realtà, dovettero convincere Colombo della possibilità di raggiungere le Indie attraverso l’Oceano navigando verso Ovest. Discussi sono i rapporti che egli avrebbe avuto col cosmografo fiorentino P. dal Pozzo Toscanelli considerato da alcuni l’ispiratore dell’impresa di Colombo; questi dové lottare molto per ottenere l’approvazione del suo progetto, anche se non sono rispondenti al vero molte leggende in proposito. Una convenzione fu stipulata con i sovrani spagnoli il 17 aprile 1492: e con una nave, la Santa Maria, e due caravelle, la Pinta e la Niña, la spedizione partì da Palos il 3 agosto 1492. Il viaggio (di cui abbiamo notizie dal Diario di Colombo, oggi conservatoci nella redazione ridotta di B. Las Casas) procedé tra audacie, scoraggiamenti e rinnovate speranze; ma false sono le notizie di una rivolta dell’equipaggio. Il 12 ottobre 1492 fu raggiunta un’isola delle Bahama, da Colombo detta San Salvador, e di là Cuba, e Haiti, ove si stabilì una colonia di 43 uomini in un forte battezzato Navidad con il compito di esplorare il territorio e di cercare l’oro. Al ritorno in Spagna (marzo 1493), Colombo ebbe accoglienze trionfali e fu allestita subito una seconda grossa spedizione (1493-96), che partì presto (settembre 1493) con 17 navi e 1500 persone da Cadice. Toccate le Canarie, fu seguita quindi una rotta più meridionale che nel primo viaggio, fino alla Guadalupa, alle isole Vergini, a Puerto Rico e poi ad Haiti, dove però nulla fu più trovato della Navidad. Dopo una lunga ricognizione delle coste di Cuba, ritenute parte del continente dell’“Asia Orientale”, e dopo aver toccato la Giamaica, Colombo rientrò a Cadice; il fratello Bartolomeo, giunto nel frattempo dalla Spagna, rimase nella nuova colonia (Isabella) lasciata ad Haiti. La terza spedizione (1498-1500), organizzata superando il malcontento degli equipaggi, che non avevano trovato le sperate ricchezze, e l’opposizione di molti, partita da San Lucar de Barrameda, segnò la scoperta dell’isola Trinidad e della terraferma americana (ma Colombo ignorò sempre di aver scoperto un nuovo continente), colà egli sbarcò presso le foci dell’Orinoco. A seguito di una rivolta, il governo spagnolo ordinava frattanto un’inchiesta dandone l’incarico a Francisco de Bobadilla, il quale, con abuso di potere, fece arrestare e tradurre Colombo in Spagna. Subito liberato, Colombo ottenne di allestire una quarta piccola spedizione (1502-04), che, partita da Cadice e toccata Haiti, navigò a lungo nei mari dell’America Centrale fino circa all’istmo di Panama. Ma i gravi disagi e la vana ricerca di un supposto passaggio per l’India meridionale stancarono l’equipaggio che si rifugiò in Giamaica; una spedizione di soccorso trasse Colombo e i suoi a San Domingo e quindi in Spagna. Da allora sembra che Colombo si ritirasse da ogni attività. Trasferitosi a Valladolid, vi morì poco dopo. Un lungo processo per la conservazione dei privilegi cui aveva avuto diritto fu iniziato alla sua morte fra il fisco e gli eredi. [122121] Il navigatore portoghese Ferdinando Magellano nacque a Sabrosa, Trás-os-Montes, nel 1480 e morì nell’isola di Maetan, Filippine, nel 1521. Dopo alcuni viaggi in India e nelle Isole della Sonda, si dedicò agli studi cosmografici; poi, spinto dai suggerimenti dell’amico Francisco Serrão, ideò un progetto per raggiungere le Isole Molucche, percorrendo la via di occidente e con la ricerca di un passaggio nell’America Meridionale verso il Pacifico. Ritenendo, erroneamente, che quelle isole dovessero per il trattato di Tordesillas appartenere alla Spagna, offrì alla Casa di Contratación di Siviglia il progetto del viaggio. Ma solo dopo molti indugi riuscì a ottenere l’approvazione da Carlo I di Spagna, avendo l’appoggio finanziario del mercante Christobal de Haro. La spedizione si compose di cinque navi, con 265 uomini, quasi tutti spagnoli, e partì da San Lucar (settembre 1519). Il primo difficile sverno ebbe luogo sulle coste dell’America Meridionale, a circa 50° di latitudine Sud; a esso seguì una ribellione degli equipaggi che Magellano riuscì energicamente a domare, potendo così proseguire e giungere, dopo una minuta e lunga esplorazione delle coste, all’imbocco dello stretto da lui detto de Todos Santos e che prese poi il nome dello scopritore. Esplorato in circa un mese il nuovo stretto (21 ottobre - 27 novembre 1520), proseguì poi con tre sole navi (una era naufragata, l’altra l’aveva abbandonato) attraverso l’oceano che, per i venti e le correnti favorevoli incontrati, prese il nome di Pacifico e, dopo una difficile navigazione in cui furono toccate due isole inospitali, giunse (1521) all’isola Guam, nelle Marianne. Tale meta dista quasi 20° di longitudine da quella stabilita in un primo tempo da Magellano (le Molucche) e si trova a circa 13° di latitudine Nord, anziché sull’equatore, ma non sono ben note le ragioni per cui il navigatore decise di cambiare rotta, probabilmente fin da quando era penetrato nel Pacifico. Dalle Marianne Magellano si spinse poi alle Filippine, dove, sbarcato nell’isola di Maetan, venne a conflitto con gli indigeni e rimase ucciso. A questo primo eccidio ne seguì subito dopo un altro nella vicina Cebu, in cui caddero 25 compagni. La spedizione, ridotta ormai a una sola nave, la Victoria, a causa dell’incendio di una e della cattura da parte dei Portoghesi di un’altra, continuò al comando di J. S. Elcano e riuscì a raggiungere (settembre 1522) San Lucar. Il viaggio, ideato da Magellano, e per gran parte condotto con abilità ed energia, fu il primo intorno al mondo. Se esso non ebbe risultati commerciali, come si proponeva, essendo la via seguita troppo lunga, contribuì però gradatamente alla conoscenza di regioni ancora ignote; rilevò tra l’altro l’enorme estensione del Pacifico, facendo tramontare la credenza tolemaica di una grande penisola a Sud-Est dell’Asia. Tra le molte relazioni del viaggio, la più ricca d’informazioni è quella del vicentino Antonio Pigafetta, che vi prese parte con altri ventitré Italiani. [12221] Potenza economica e commerciale, oltre che politica e militare, tra il Medio Evo e l’età moderna Venezia svolse un ruolo di primo piano nel mondo europeo e mediterraneo. Un ruolo che con le grandi scoperte geografiche del 15° e 16° secolo, e la conseguente apertura di nuove vie di comunicazione, sembrò modificarsi sensibilmente. I domini veneziani “da mar” (tale era la denominazione ufficiale, presso la repubblica, dell’impero coloniale di Venezia) comprendevano, oltre ai possessi del Levante, anche quelli adriatici ed erano il risultato di una politica di penetrazione di lungo periodo. In Adriatico l’espansione cominciò dalla Dalmazia (secolo 11°), si estese all’Istria, poi, dopo la perdita di Ragusa, discese lungo il litorale albanese. Imponendo alle isole e città costiere dell’Adriatico, lungo la costa orientale, la sua protezione militare, Venezia ne rispettò gli istituti amministrativi e politici, sotto il controllo di propri funzionari investiti dei gradi di duca o conte a vita. Solo tra il secolo 12° e il 13°, con l’espansione del possesso territoriale, si verificò la trasformazione del carattere e della struttura del governo veneto nei domini adriatici fino all’instaurarsi di un dominio diretto veneziano. In Oriente i primi stanziamenti veneziani furono successivi alla prima crociata e si fissarono sulle coste siriache e palestinesi (San Giovanni d’Acri, Giaffa, Sidone, Tripoli di Siria, Tiro, ecc.), per poi estendersi alle isole Egee, a Costantinopoli e sulle coste stesse del Mar Nero. Per tutto il secolo 12° si trattava però ancora di colonie unicamente commerciali: ogni colonia, retta o dagli stessi mercanti o da un ufficiale designato dal governo della madrepatria, era modellata sugli ordinamenti patri, e beneficiava di foro privilegiato, di esenzioni fiscali, e anche di una zona extraterritoriale costituita da una o più contrade e di scali nel porto (in alcuni casi aveva addirittura la proprietà di una parte del porto). Con la quarta crociata (1204) la situazione cambiò: il doge di Venezia divenne il signore della “quarta parte e mezza” dell’impero bizantino e, anche se la repubblica non riuscì a mantenere sotto il suo effettivo dominio un territorio così vasto, pure si formò allora un vero dominio coloniale veneziano in Oriente. Le colonie commerciali si trasformarono in colonie territoriali, almeno in una gran parte del bacino dell’Egeo, anche se sopravvissero stabilimenti semplicemente commerciali, in territorio politicamente dipendente da altre autorità, per esempio a Costantinopoli, ad Aleppo, in Egitto. Accanto a essi sorsero le vere e proprie colonie, possesso territoriale di Venezia, da lei sola dipendenti: così l’isola di Candia, le isole dell’Egeo, alcuni punti della terraferma greca. Queste colonie furono amministrate da Venezia in duplice modo: alcune, e cioè le più importanti strategicamente, furono amministrate direttamente dalla repubblica, che vi inviava un governatore; le altre invece furono concesse, con investitura, a sudditi veneziani. Questo sistema cominciò a subire modificazioni dalla fine del secolo 14° al principio del 15°, quando la crescente pressione dei Turchi costrinse Venezia a estendere sempre più il suo dominio diretto, riscattando e riassorbendo le signorie feudali; impose anche la creazione di un comando unico militare, con la nomina dei provveditori generali. Ma in realtà il dominio coloniale di Venezia non ebbe mai unità di governo: diviso in una molteplicità di frammenti, senza continuità territoriale, mancò sempre di coesione interna. E questo spiega come nel secolo 15°, quando la potenza turca, penetrata nel continente europeo e stabilitasi saldamente con l’occupazione di Costantinopoli (1453), cominciò a premere sui domini veneziani dell’Egeo, il crollo veneziano fu rapido. Salvi rimasero solo i grossi baluardi: Candia, la Morea e Cipro (annessa da Venezia nel 1482 e ordinata a somiglianza di tutti gli altri domini direttamente sottoposti alla repubblica), dove Venezia concentrò le difese avanzate per proteggere le proprie linee di traffico. Allora il dominio coloniale veneziano divenne omogeneo e ben controllato dal potere centrale: provveditori generali (Dalmazia e Istria), provveditori straordinari (Albania e isole del Levante), duca di Candia, provveditore di Cipro, provveditore della Morea, raccolsero nelle loro mani negli ultimi secoli, e fino a che restarono in possesso di Venezia, questi territori. Ma l’unità era stata raggiunta quando Venezia cominciava ad accusare la sua grande crisi. [12231] La fortuna europea della casa Asburgo (o Absburgo; Habsburg in tedesco) iniziò sul finire del Quattrocento. Di carattere feudale prima, regale e imperiale poi, originaria probabilmente dell’Alsazia, la dinastia era già assurta a potenza fin dal secolo 13° prima di ottenere, per un periodo di tempo più o meno lungo, oltre la corona imperiale, i troni di Austria, Ungheria, Boemia, Spagna (fino al 1700) coi possessi italiani, Paesi Bassi, Toscana, Modena. L’ultimo trono degli Asburgo, quello d’Austria e Ungheria, crollò nel 1918 dopo la prima guerra mondiale. Ma una fase di vera e propria egemonia asburgica sull’Europa ebbe inizio con l’elezione a imperatore di Massimiliano I (1493-1519), figlio di Federico III. Tra il 15° e il 16° secolo, mentre in Spagna, Francia, Inghilterra si affermavano stati nazionali, il mondo germanico era caratterizzato dalla presenza di stati territoriali, confederazioni di città, principati. Il potere dell’impero poteva essere considerato puramente di tipo formale. Fu appunto con l’ascesa di Massimiliano I e con il susseguirsi di complicate e fortunate vicende politiche e diplomatiche, che gli Asburgo riuscirono a invertire le tendenze centrifughe nell’impero ed a porre le premesse per un disegno egemonico assai ampio. Da questo momento, infatti, gli arciduchi d’Austria (titolo introdotto da Federico III per gli Asburgo nel 1453) si succedono ormai senza competitori sul trono imperiale. Da Massimiliano I a Carlo VI la fortuna della casa, grazie a una serie di abili matrimoni, sembrò inarrestabile. Massimiliano I, sposando Maria di Borgogna, erede di Carlo il Temerario, otteneva i territori già borgognoni delle Fiandre e dei Paesi Bassi; inoltre, facendo sposare il figlio Filippo il Bello con Giovanna d’Aragona e di Castiglia, poneva la candidatura della propria dinastia ai troni iberici e, concludendo i matrimoni dei nipoti, Ferdinando e Maria, con i figli di Vladislao re di Boemia e d’Ungheria, Anna e Luigi, portò a realizzazione le vecchie aspirazioni asburgiche su quei regni. Mentre allargava i suoi domini con la contea di Gorizia e altre terre nel Tirolo, Massimiliano intraprese l’organizzazione centralistica dei suoi stati secondo il modello borgognone (creazione d’una Camera aulica, di un Consiglio aulico e delle due cancellerie della corte e dell’Impero). Inseriti dal nipote Carlo I (V come imperatore) entro un immenso Impero “su cui non tramontava il sole”, i domini ereditari degli Asburgo furono, al momento dell’abdicazione dello stesso Carlo V (1556), definitivamente affidati, con la successione alla corona d’imperatore del Sacro Romano Impero, al fratello Ferdinando I, già dal 1526 re di Boemia (gli era sfuggita invece la corona d’Ungheria, caduta nelle mani del magnate transilvano Giovanni Szapolyai). L’Austria poteva così riprendere la primitiva funzione di baluardo della cristianità, che la minaccia turca (1529: comparsa del sultano Solimano sotto Vienna) rendeva attuale. La vastità dei domini è tale che Carlo V, abdicando, fraziona il proprio impero, dando gli aviti possessi e la corona imperiale al fratello Ferninando e i possessi spagnoli al figlio Filippo II. Vi furono da allora due potenti case di Asburgo: la primogenita (Asburgo di Spagna) identificatasi ormai con la storia della Spagna, la quale attraverso Filippo II (1556-98), Filippo III (1598-1621), e Filippo IV (1621-65) giunse a Carlo II (1665-1700), col quale si estingue; e la casa laterale, o degli Asburgo d’Austria, dalla quale derivano gli imperatori Ferdinando I (1556-64), già dal 1526 re di Boemia, Massimiliano II (1564-76), Rodolfo II (1576-1612) e il fratello Mattia (1612-19), Ferdinando II (1619-37), Ferdinando III (1637-57), Leopoldo I (1657-1705), che conquistò definitivamente l’Ungheria, Giuseppe I (1705-11) e il fratello Carlo VI (1711-40), il quale ultimo, mediante la sua partecipazione alla guerra di successione spagnola, ottenne i Paesi Bassi spagnoli, il Milanese e, per alcuni anni, Napoli, la Sicilia, Parma, Piacenza e Guastalla. [12241] Figlio (Gand 1500 - San Jerónimo de Yuste 1558) dell’arciduca d’Austria Filippo il Bello (perciò nipote dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo) e di Giovanna la Pazza (figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia), Carlo V divenne a soli sei anni, per la morte del fratello e della sorella maggiore della madre, come pure di quella del padre, erede non solo dei Paesi Bassi ma dell’Aragona e della Castiglia. Passò i primi anni della sua infanzia a Malines e a Bruxelles, dove la zia Margherita d’Austria, reggente dei Paesi Bassi, gli fece impartire un’accurata educazione dagli umanisti spagnoli Juan de Vera e Luis Vaca e da Adriano, decano di Utrecht (futuro papa Adriano VI). Crebbe in mezzo alla nobiltà fiamminga, verso la quale dimostrò particolare attaccamento anche dopo la sua ascesa al trono di Spagna. Diventato infatti nel 1516, alla morte di Ferdinando il Cattolico, re di Aragona e di Castiglia, si recò in Spagna per prendere possesso dei suoi reami, ma la rapacità del suo seguito formato quasi esclusivamente di Fiamminghi e la sua incomprensione per quel conglomerato d’istituzioni e di elementi contrastanti ch’era la Spagna, lo rese tutt’altro che gradito ai nuovi sudditi. Questo malcontento verso l’atteggiamento del nuovo sovrano si manifestò nelle adunanze delle Cortes, che opposero ostacoli di ogni genere al governo di Carlo nel timore che egli volesse esautorarle e conferire le più alte cariche dello stato a uomini della sua terra natale. Quando poi nel 1519, in seguito alla morte del nonno Massimiliano, Carlo lasciò temporaneamente la Spagna, affidando la reggenza in Castiglia ad Adriano di Utrecht, per porre la propria candidatura alla corona imperiale, scoppiò la cosiddetta rivolta dei comuneros, che tuttavia ben presto fallì a causa della defezione della nobiltà e del clero dal movimento insurrezionale allorché questo minacciò di assumere un carattere sociale. L’incoronazione di Carlo ad Aquisgrana, che ebbe luogo il 23 ottobre 1520 e alla quale Carlo giunse dopo lunghe trattative con i principi elettori dai quali ottenne, con molto oro, il conferimento della dignità imperiale, mise tutt’a un tratto il nuovo Cesare di fronte a gravi e ardue responsabilità politiche: egli era ormai impegnato a fondare un’egemonia europea. Contro questo sovrano non più fiammingo o spagnolo, ma europeo, la Francia si difese: Francesco I, che invano aveva tentato di contrastare a Carlo l’ambita corona, si trovava circondato da ogni parte dai possedimenti del rivale, che liberamente poteva, a suo beneplacito, attaccare nello stesso tempo la Francia dalle Fiandre, dai Pirenei, dalle Alpi e lungo il Reno. Per liberarsi da questa morsa Francesco, allegando a pretesto i suoi diritti sul ducato di Milano, iniziò nel 1521 quella serie di guerre contro Carlo che si trascinarono quasi senza soluzione di continuità, fino al 1544 e continuarono anche sotto il regno di suo figlio Enrico II. La prima guerra (1521-25), terminata a favore dell’imperatore con la vittoria di Pavia (24 febbraio 1525), dove lo stesso re Francesco I fu fatto prigioniero, fu ben presto seguita da un’altra campagna, che vide alleati contro Carlo il re di Francia, papa Clemente VII e la maggior parte degli stati italiani. Ancora una volta l’imperatore riuscì vittorioso. Lo stesso pontefice, rinchiuso in Castel Sant’Angelo dalle orde dei lanzichenecchi del Frundsberg, dovette venire a patti e i trattati di Barcellona (1529) e di Bologna (1530) assicurarono finalmente a Carlo un periodo di pace. Carlo stesso venne in Italia per compiere l’antico rito medievale: a Bologna il 22 ed il 24 febbraio 1530 Clemente VII gli pose sul capo rispettivamente la corona ferrea e quella imperiale. Nel frattempo in Germania era dilagato il movimento luterano. Ma Carlo, tutto preso dalla lotta contro Francesco I, non poteva assumere contro i protestanti un atteggiamento troppo energico che avrebbe potuto facilmente suscitare un nuovo focolaio di guerra rovinosa. Anche per consiglio del suo cancelliere Mercurino da Gattinara, l’imperatore si mostrò propenso alla riunione di un concilio generale, dove tutte le divergenze di carattere teologico ed ecclesiastico potessero essere esaurientemente dibattute, contrario invece a qualsiasi misura che significasse condanna preventiva del luteranesimo. Cercò egli insomma di mantenersi in una posizione d’equilibrio che non urtasse eccessivamente i principi protestanti. D’altra parte l’atteggiamento di Clemente VII, che si era alleato contro di lui con il re di Francia, costituiva una giustificazione più che plausibile alla sua condotta blanda verso coloro che erano considerati eretici dalla Santa Sede. Pertanto Carlo, pur rimandando al futuro concilio generale qualsiasi definitiva determinazione sulla controversia religiosa, permise nel 1526 (dieta di Spira) ai luterani il libero esercizio della loro confessione. Solo dopo la riconciliazione col pontefice Carlo tentò di ritogliere quanto aveva elargito, ma di fronte alle proteste dei luterani, unitisi nella lega di Smalcalda, e al pericolo di una guerra in Germania, non insistette nella sua pretesa. Dal 1530 al 1535 Carlo poté infine, dopo dieci anni di guerra, dedicarsi al riordinamento dei suoi stati, la cui decadenza economica, unita a un’inefficiente organizzazione fiscale, aveva sempre condizionato la sua dispendiosa politica europea. Nominò reggente dei Paesi Bassi la sorella Maria; fece proclamare re dei Romani il fratello Ferdinando, al quale fin dal 1522 aveva ceduto i possedimenti asburgici tedeschi; promosse in Italia la costituzione di una lega tra gli stati della penisola, lega alla quale aderirono anche il pontefice e Venezia e che gli era garanzia di pace, poiché altri due importanti stati della penisola gli erano assai obbligati, Genova con Andrea Doria, e Firenze, ove Carlo aveva ricondotto i Medici con la forza delle armi. In questo stesso periodo egli decise, sensibile alle sollecitazioni soprattutto spagnole, di affrontare la questione dei Turchi, che si facevano sentire non solo in Ungheria, lungo il Danubio, ma proprio nel Mediterraneo, divenuto a causa delle scorrerie dei Barbareschi una strada marittima spesso infida. Dopo l’occupazione di Tunisi da parte del temuto pirata Barbarossa, Carlo nel 1535 organizzò una spedizione, alla quale parteciparono, salvo Venezia, quasi tutti gli stati italiani: Tunisi fu presa d’assalto e il Tirreno e il Mediterraneo occidentale per un certo tempo furono liberati dai pirati. Ma il ducato di Milano continuava a costituire il pretesto giuridico delle lotte tra Carlo e Francesco. Due nuove guerre ne furono causate: l’una nel 1535, alla morte dell’ultimo duca sforzesco, Francesco II; l’altra nel 1542, sorta in seguito all’investitura del figlio di Carlo, Filippo. Ambedue queste campagne furono favorevoli all’imperatore (anche se con la pace di Crépy del 1544 la Francia ottenne condizioni relativamente favorevoli) e Francesco I, con le sue abituali riserve mentali, dichiarò ancora una volta di rinunciare a qualsiasi diritto sul ducato. Nel 1546, quando ormai a Trento era stato aperto il concilio, Carlo stimò giunto il momento di risolvere con la forza la questione protestante. Radunato un esercito, la guerra procedette in maniera assai propizia fino alla vittoria di Mühlberg (1547), ma, di fronte alla successiva ostilità papale, che per quella vittoria che colpiva gli autonomisti germanici sentiva farsi più pesante il giogo cesareo sull’Italia, l’imperatore preferì ancora una volta ripiegare sulla politica del compromesso, concedendo forti garanzie ai protestanti. Onde lo sdegno e le proteste di Paolo III, colpito anche personalmente dall’uccisione del figlio Pier Luigi Farnese, fatto duca di Parma e Piacenza nel 1545, e soppresso, per il suo atteggiamento antispagnolo, col tacito consenso di Carlo. La politica imperiale europea era comunque fallita: contro la Francia, che si era valsa all’ultimo del valido appoggio di Maurizio di Sassonia; contro la Germania che rifiutava l’imposizione d’un accentramento monarchico; contro la ripresa turca e contro gli altri infiniti particolari problemi europei e coloniali, che avevano reso la sua politica così complessa, a volte perfino contraddittoria, egli mostrò ormai una sua tetra stanchezza. Aveva tentato d’imporsi, animato da volontà tenace e da un profondo senso del dovere, quasi di una missione, all’Europa, le cui sorti il destino gli aveva affidato: ma i particolarismi e la varietà delle condizioni religiose, nazionali, economiche gli avevano opposto difficoltà insormontabili; né sempre, del resto, egli si era reso conto della complessità dei vari problemi. Ritiratosi a Bruxelles, lasciò al fratello Ferdinando la cura di comporre le cose di Germania; poi nel 1555 abdicò al governo dei Paesi Bassi e l’anno dopo a quello delle terre spagnole, a favore del figlio Filippo II (per la discendenza di Carlo). Portatosi quindi in Spagna, abitò una villa presso il monastero di S. Jerónimo de Yuste, intervenendo qualche volta ancora, però, negli affari politici di Spagna. [12251] La data che convenzionalmente si fissa come inizio della Riforma è il 31 ottobre 1517, giorno in cui Lutero (secondo una tradizione che è stata revocata in dubbio) avrebbe fatto affiggere alla porta della cattedrale di Wittenberg le 95 tesi contro lo scandalo delle indulgenze affrontando, con il problema della penitenza, quello del peccato e della grazia; subito la dottrina luterana divenne arma di rivolta politica: i principi tedeschi ne sposarono la causa vedendo la possibilità, con l’appoggio al luteranesimo, di distruggere lo schema medievale che li subordinava all’imperatore, e di incamerare, non riconoscendo l’autorità della Chiesa di Roma, i beni ecclesiastici: tipico l’esempio del ducato di Prussia che, dominio religioso dell’ordine dei Cavalieri teutonici, fu secolarizzato con il passaggio al luteranesimo del gran maestro dell’ordine Alberto di Hohenzollern il quale lo ridusse a feudo dinastico ponendolo sotto il vassallaggio del regno di Polonia (trattato di Cracovia, 1525). L’esempio rafforzò i principi tedeschi che coglievano l’occasione di combattere Carlo V mentre era impegnato nelle lotte contro la Francia; alla dieta di Spira (1529: a questa risale il nome di protestanti) e a quella di Augusta (1530), seguì la lega di Smalcalda (1530) e poi la lotta aperta dell’imperatore fino alla pace di Augusta (1555: riconoscimento del luteranesimo; libertà di seguire la religione sia cattolica sia luterana, ma nell’ambito del principio “cuius regio eius religio”). Come s’è detto, alla riforma luterana si affiancò, muovendo da analoghe istanze, quella calvinista: a Zurigo, già H. Zwingli, con l’appoggio delle autorità locali, aveva attuato un piano di riforme in senso antipapale e anticuriale e la sua iniziativa si diffuse presto in Svizzera e nella Germania sud-occidentale: ma con la morte di Zwingli (1531) il centro del moto riformato passò a Ginevra ove Calvino attuò (1535) una rigida organizzazione teocratica e codificò le fondamentali tesi riformate (in dipendenza da Wycliffe, Lutero, Zwingli ma con netta accentuazione del tema della predestinazione) nell’Institutio christianae religionis (1536). La diffusione del luteranesimo e del calvinismo fu rapida in Europa: la Chiesa luterana si affermò soprattutto dove un monarca o una classe di nobili intese affermare la propria indipendenza dal potere imperiale e volle incamerare i beni ecclesiastici: in Germania e nei paesi scandinavi; più debole la diffusione in Polonia e in Boemia. Il calvinismo penetrò rapidamente in paesi economicamente e socialmente più avanzati, come i Paesi Bassi, dove la ricca borghesia mercantile difese la libertà di culto, insieme ai suoi privilegi e alle sue autonomie, contro il centralismo di Filippo II. Esso fu anche abbracciato da una larga parte della nobiltà francese, ungherese, polacca, raccogliendo successi presso i re di Navarra (1558), nella Germania occidentale e, per opera di J. Knox, in Scozia: la storia del calvinismo si intrecciò a lunghe lotte politiche, di cui i momenti salienti sono rappresentati dalle guerre di religione in Francia (1562-98; 13 aprile 1598: editto di Nantes), e in Olanda dalla guerra di liberazione contro la Spagna (dalla rivoluzione dei “pezzenti” nel 1556, alla costituzione della Repubblica delle Province Unite). In Inghilterra, la Riforma, malgrado infiltrazioni luterane e calviniste, ebbe fisionomia propria, nascendo dalla volontà autocratica della monarchia: questo il senso della politica antipapale di Enrico VIII che si affermò, in relazione al matrimonio con Anna Bolena, nell’atto di supremazia fatto approvare in Parlamento (1534), con il quale il re era “accettato e riconosciuto come unico e supremo capo, sulla terra, della Chiesa d’Inghilterra”. La Riforma di Enrico VIII, che sembrò essere stroncata sotto il regno di Maria la Cattolica (1553-58), si consolidò con l’avvento al trono di Elisabetta I (1558-1603), terza figlia di Enrico VIII. In Italia, la Riforma si affermò solo in ambienti circoscritti e, pur aderendovi personalità di grande rilievo nelle polemiche riformate, lasciò scarse tracce: centri in cui si svilupparono idee riformate furono Napoli (per opera di Juan de Valdés e poi di B. Ochino), Ferrara (alla corte di Renata di Francia che ospitò nel 1536 Calvino), Lucca (con Pier Martire Vermigli e Celio Secondo Curione) e Venezia. Ma notevole è il contributo alla Riforma di alcune personalità come Ochino, Stancaro e i fratelli Sozzini; sul piano ecclesiastico, non si ebbe la costituzione di una Chiesa riformata, salvo l’antica Chiesa valdese che, originata dalla predicazione di Pietro Valdo e dei Poveri di Lione, aderì nel 1532 alla Riforma. Sul piano europeo, il moto di rinnovamento politico in cui si erano inseriti gli ideali della Riforma, trovò la sua sistemazione nella pace di Vestfalia (1648) che chiuse la guerra dei Trent’anni: essa segnò il fallimento del programma asburgico sia sul piano dell’accentramento statale sia in quello della restaurazione cattolica: riconfermando la pace di Augusta, il trattato di Vestfalia riconobbe tre Chiese (cattolica, luterana, calvinista) e ribadì il principio “cuius regio eius religio”, riconoscendo però il diritto ai sudditi di emigrare senza perdere i loro averi. La Riforma protestante ha avuto la sua massima diffusione, come s’è accennato, nei paesi anglosassoni e nei paesi scandinavi, e passò poi dall’Europa nei domini extraeuropei, soprattutto nell’America del Nord. Il luteranesimo ha la sua area di diffusione in Germania, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Alsazia (Francia) e in molte zone degli Stati Uniti ove si sono costituite varie Chiese luterane confederate in unioni o sinodi; il calvinismo (Chiesa riformata) in Svizzera, Scozia, Francia e negli Stati Uniti; la Chiesa anglicana in Inghilterra e nei paesi da questa colonizzati (Canada, Nuova Zelanda, Sudafrica, Stati Uniti). Ai margini delle tre grandi correnti della Riforma protestante, e all’interno di esse, si sono formati vari moti di riforma, alcuni dei quali hanno avuto larga diffusione nei territori di missione e in particolare negli Stati Uniti d’America. Da un punto di vista più generale, nella storia del cristianesimo, si parla di riforma a proposito di quei movimenti, già presenti nel Medioevo, che operarono per un rinnovamento della Chiesa, presentato prevalentemente come ritorno alle “origini”; ma per lo più, e quasi per eccellenza, Riforma o Riforma religiosa è chiamato quel complesso movimento religioso, politico, culturale che produsse nel secolo 16° la frattura della cristianità in diverse comunità, gruppi o sette. L’uso di indicare il protestantesimo in genere con il termine Riforma o Riforma protestante è nato nel Settecento, con l’attenuarsi delle disparità confessionali tra luteranesimo, calvinismo, anglicanesimo, ecc.; in origine invece si dissero riformati i seguaci di Calvino con un senso di opposizione al luteranesimo. [122511] È difficile parlare di un rapporto uniforme e costante tra Riforma ed espressione artistica, sia per le differenti posizioni degli ambienti riformati nei confronti delle arti, sia perché la discussione su temi religiosi conduce a numerose convergenze e analogie tra mondo protestante e cattolico. In contrasto con il lusso e il cerimoniale della Chiesa di Roma, emerge l’esigenza di una nuova architettura religiosa semplice e austera, che privilegi la pianta centrale e l’eliminazione massima di ogni ostacolo alla visibilità (colonne o pilastri) e di ogni gerarchia delle parti. Un significativo prototipo è la cappella del castello di Torgau, consacrata da Lutero nel 1544: una sala con gallerie, limitata negli arredi all’altare, al fonte battesimale e al pulpito. Questo diviene l’elemento più importante della chiesa, da cui proviene la Parola, spesso situato nel posto d’onore dietro l’altare in sostituzione della pala. Va tuttavia ricordato che si tratta più spesso di un adattamento di vecchie costruzioni piuttosto che di un’esecuzione di nuovi progetti. Tra i rari esempi in ambienti non riformati, sono in Italia le chiese valdesi del Ciabas e di Angrogna (Valle del Pellice), del 1555. L’avversione contro il culto cattolico delle immagini, condannato come idolatra, va dalla posizione più moderata di Lutero, che pur nella scelta rigorosa dei temi promuove l’uso di immagini negli edifici sacri, a quelle più rigide di Calvino e Zwingli, fino agli svariati casi della più accesa iconoclastia. La distruzione delle immagini, testimoniata da un’incisione di F. Hogenberg del 1566, è rivolta soprattutto verso le sculture, in riferimento al racconto biblico del vitello d’oro. Parallelamente, si assiste alla grande diffusione delle stampe, in quanto mezzo educativo, di propaganda antipapista o di illustrazione del racconto evangelico, corredato da iscrizioni e da brani delle Scritture, tradotti in volgare per una maggiore intelligibilità; per esempio, le numerose incisioni di L. Cranach il Vecchio e il Giovane per serie su temi biblici (come i Martiri degli Apostoli o la Passione) e per illustrare le versioni luterane dei testi sacri. Per quanto riguarda l’iconografia religiosa, basata strettamente sui testi biblici, i soggetti si riducono ai temi cristologici come l’Ultima cena, conveniente alla decorazione degli altari, la Crocifissione, la Resurrezione; sono raffigurate le storie dell’Antico Testamento, spesso messe in relazione con le scene del Nuovo, gli apostoli, gli evangelisti. Sono eliminati i soggetti mariologici e quelli agiografici, spesso sostituiti dalla raffigurazione dei massimi capi spirituali. La realizzazione di numerosi programmi artistici di Lutero è dovuta a L. Cranach il Vecchio: suoi gli altari delle chiese di Schneeberg (1539), di Wittenberg (1574), che rappresenta i soli tre sacramenti ammessi da Lutero (comunione, battesimo, confessione) e ritrae lo stesso Lutero, Melantone e Bugenhagen, di Weimar (1552). Una certa tolleranza esiste per gli artisti, che svolgono la loro attività per committenze diverse, mantenendo la propria fede religiosa: la sola opera apertamente luterana di A. Dürer è il Dittico dei quattro apostoli, donato nel 1526 al consiglio di Norimberga, nel quale si afferma il primato di Paolo, l’apostolo della Riforma. Tuttavia, la drastica limitazione dei soggetti considerati leciti, insieme alle gravi conseguenze economiche dovute alle mancate commissioni ecclesiastiche, contribuiscono allo sviluppo dell’arte profana, nei generi allora considerati minori, come il ritratto, la natura morta, il paesaggio. La destinazione privata determina inoltre una nuova libertà nell’elaborazione dei temi iconografici, che assumono talvolta significati allegorici o allusivi, o divengono, specie nelle regioni più ricche e pacifiche, pretesto per la rappresentazione quasi celebrativa del proprio paese o della sfera privata del committente. [12261] Controriforma è il nome con cui viene designata la vasta azione svolta, nel secolo 16° e in parte del 17°, dalla Chiesa cattolica per realizzare quella “riforma nel capo e nelle membra” che, richiesta da tempo, era stata programma dei concili del secolo 15°, e che il dilagare della Riforma protestante rese nel secolo 16° più urgente e necessaria che mai. Il termine “Controriforma” (che si usa anche per designare tutto il periodo storico suddetto) non è certo felice, se usato in modo esclusivo, perché restringe quell’azione alla sola opposizione alla Riforma; d’altra parte il termine “restaurazione cattolica”, proposto da L. von Pastor, trascura la connessione con la Riforma protestante e non coglie la novità del movimento. È più esatto parlare, accanto al movimento di reazione cattolica alla Riforma – la “Controriforma” –, di “riforma cattolica” (termine introdotto dallo storico protestante W. Maurenbrecher e ripreso più recentemente da storici cattolici come H. Jedin), per indicare quei tentativi, ancora isolati e parziali ma non inefficaci, iniziati nel secolo 15°, di restaurare una più intensa, viva, sincera e disciplinata vita religiosa. Ricordiamo l’istituzione di nuovi ordini e congregazioni; i concili anche provinciali e vescovi zelanti, predicatori e scrittori, mistici, educatori, quali un s. Antonino di Firenze, un s. Giovanni da Capestrano, un Nider, una s. Caterina da Genova, un Savonarola, un Bernardino da Feltre. Si aggiungano le opere di pietà e devozione e di beneficenza, dall’oratorio del Divino Amore al Nome di Gesù e ai Monti di pietà, e via dicendo. Pio II e Sisto IV ebbero in programma la riforma della Curia; il 18° concilio ecumenico, lateranense, del 1512-17, si propose quella dell’intera Chiesa. Non si può tuttavia non tener conto anche di movimenti e tendenze non del tutto ortodosse, o francamente ereticali, vive già nel secolo 14°. Né, d’altra parte, si può dimenticare che il primo dei pontefici romani propriamente riformatori, Adriano VI, ebbe pur chiara la visione che un’azione radicale di riforma e correzione degli abusi e di difesa dell’ortodossia era resa urgente proprio dal dilagare nei paesi germanici della riforma di quel Lutero, contro il quale era stata da poco lanciata la condanna definitiva. Ora, sin dall’inizio si delineano, nella corrente riformatrice cattolica, due programmi, due tendenze, che, se hanno molti punti in comune, nell’intima sostanza divergono profondamente: mentre gli uni (come G. Contarini) tendono a comporre i dissensi tra la Chiesa e i dissidenti, riconoscendo certe esigenze di questi ultimi, altri (come O. Carafa) pensano che si debba invece rinvigorire l’autorità e il potere effettivo del papa, e ricorrere non solo a sanzioni spirituali, ma anche a una severa sorveglianza, con la collaborazione dei sovrani cattolici. Rappresentanti dell’una e dell’altra tendenza appaiono uniti, sotto Paolo III, nella commissione che presentò al papa, il 9 marzo 1537, il famoso Consilium ... de emendanda Ecclesia, energica proposta di provvedimenti per la soppressione degli abusi. Ma, oltre che l’azione dei potentati mossi da loro particolari interessi, l’intransigenza di Lutero rafforzò quella cattolica; sì che nel concilio di Trento finì col prevalere lo spirito d’intransigenza: con Paolo IV e i suoi successori la “riforma cattolica” si fa decisamente “Controriforma”. La Controriforma operò nel campo del dogma e in quello della disciplina ecclesiastica, tra il clero e il laicato, con mezzi religiosi, politici, giudiziari, sul terreno culturale e su quello delle armi; essa agì con particolare intensità tra il quinto e il nono decennio del secolo 16°, ma la sua opera si protrasse sino a che, con la pace di Vestfalia (1648), apparvero ormai decise le sorti religiose d’Europa, e tracciati i confini territoriali fra le confessioni. [122611] Il concilio di Trento (1545-63) intese fissare il dogma cattolico nei punti in cui il protestantesimo aveva rinnegato principi tradizionali, o interpretato in modo nuovo la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa. Il concilio conferma il simbolo della fede; fissa l’elenco dei libri ispirati, il dogma del peccato originale, della sua trasmissione, dei suoi effetti, di quelli del battesimo, il dogma della giustificazione e dei suoi frutti (condanna del principio luterano della giustificazione per la sola fede, indipendentemente dalle opere, nonché, con formula prudente, della credenza nella predestinazione alla salvezza; affermazione del libero arbitrio persistente pur dopo il peccato originale); pubblica il decreto sui sacramenti, istituiti tutti e sette da Cristo, e quello sull’Eucaristia; determina del pari la dottrina del sacramento della penitenza, la dottrina del sacrificio della messa, quella dell’ordine sacro, la dottrina del matrimonio (è sacramento, è monogamico e indissolubile), quelle del purgatorio, dell’invocazione e venerazione dei santi, del culto delle reliquie e delle immagini, delle indulgenze. L’opera si svolge con la cooperazione dei maggiori esponenti della Chiesa (i cardinali Giovanni Morone, Reginald Pole, Marcello Cervini, i domenicani Domingo de Soto e Ambrogio Catarino, Gerolamo Seripando), e offre naturalmente modo di manifestarsi a quelle diversità di concezioni che esistevano in seno alla Chiesa e si polarizzavano nei vari ordini religiosi. La riforma disciplinare era esigenza manifestatasi in seno alla Chiesa già nel tempo del grande scisma, ma la rivolta di Lutero la pone all’ordine del giorno, e i papi non ristanno dall’elaborare programmi riformatori. Anche in questo campo il concilio svolge opera essenziale con i decreti de reformatione. Così esso dà norme perché la scelta dei cardinali e dei vescovi cada sempre sui più degni; impone ai vescovi e a quanti hanno cura d’anime l’obbligo della residenza; inculca ai cardinali e ai vescovi la vita modesta, e condanna il nepotismo. Vieta il cumulo dei benefici curati, dà norme per accrescere l’autorità e il prestigio dei vescovi, per migliorare il clero, imponendogli tra l’altro di portare sempre l’abito chiericale. Ma l’opera della riforma non si esaurisce nel concilio: fuori di esso, i papi danno infinite disposizioni volte a evitare il continuarsi di mali, per lo più da lunghissimo tempo deplorati, ma ai quali non si era mai riusciti a porre riparo. Ai papi si affiancano i vescovi. San Carlo Borromeo, s. Alessandro Sauli, i beati Paolo Burali d’Arezzo e Giovanni Giovenale Ancina, il cardinale Gabriele Paleotti e altri danno opera al risanamento delle diocesi, combattendo i cattivi costumi dei preti e la dissolutezza dei religiosi, cercando di togliere dal confessionale e dal pulpito gl’indegni e quelli la cui ignoranza potrebbe essere di scandalo; promuovendo o quanto meno conservando le confraternite e gli altri istituti religiosi del laicato, ma sottoponendoli alla supremazia dell’autorità ecclesiastica. In seno al laicato, essi perseguono le meretrici, i concubinari, spesso anche i commedianti, fanno osservare le feste, ottengono la punizione dei bestemmiatori e, dov’è possibile, dei duellanti. Di particolare importanza si palesa la formazione del clero. I seminari, prescritti dal concilio tridentino, debbono significare anzitutto la fine dell’abuso, largamente praticato, di ordinare sacerdoti degl’incolti, sol che conoscessero un po’ di latino, e rappresentare una garanzia morale del clero. Ma essi sono anche una garanzia d’indipendenza ecclesiastica, perché comportano che l’educazione dei chierici si compia in istituti sottoposti esclusivamente all’autorità della Chiesa, e dove non penetrano dottrine da questa respinte. [122621] Grandi artefici dell’intera opera riformatrice sono i nuovi ordini religiosi: primo per importanza, la Compagnia di Gesù (1540); primi in ordine di tempo i teatini (1524), cui seguono i somaschi (1528, approvati nel 1540), i barnabiti o congregazione di s. Paolo (1530, approvati nel 1533), gli ospedalieri di s. Giovanni di Dio (Fate-bene-fratelli: 1537, approvati nel 1571), i ministri degli infermi (1582, approvati nel 1586), i chierici regolari della Madre di Dio (1574, approvati nel 1595), i chierici regolari minori (1588), gli scolopi (1617). A questa fioritura di nuovi ordini religiosi si accompagna la riforma degli antichi, che segue quasi dovunque fra sospetti e ostilità. Sorgono così i cappuccini (1525), i carmelitani scalzi (1562-68), i romitani scalzi di s. Agostino (1592-99, approvati nel 1610-20). Ma, come si è detto, nel campo degli ordini religiosi prevale su ogni altra l’attività della Compagnia di Gesù, che si svolge nelle orbite più diverse: direzione delle anime, nel confessionale e attraverso quel compito di direttore di coscienze che nel Cinquecento e nel Seicento andava talvolta disgiunto dalla mansione di confessore; predicazione; insegnamento in scuole secondarie e università; collegi, che sono il campo speciale della Compagnia; governo di seminari; talora compiti di alta cultura, quali nel campo della storia ecclesiastica l’opera dei bollandisti, e in quello della teologia l’attività del cardinal Bellarmino, di Tommaso Sánchez e di Luigi Molina col suo celebre libro Liberi arbitrii cum gratiae donis concordia. La religiosità gesuitica dà veramente l’impronta all’epoca, così nelle caratteristiche interiori come in quelle esteriori. Il gesuita si presenta dovunque come il tipo dell’ecclesiastico di costumi puri, spesso austeri, generalmente colto, devotissimo al papato, attaccatissimo alla sua Compagnia, sciolto da ogni altro legame, accomodante e transigente ogni qualvolta l’interesse cattolico non sia in gioco, inflessibile allorché si tratti di rapporti con l’eresia, o di principi che tendano a diminuire i diritti del papato o le libertà della Chiesa, o di nemici della Compagnia. La Controriforma deve lottare contro l’eresia, non soltanto attraverso un’opera polemica in difesa dei principi cattolici, ma perseguendo gli eretici che sono riusciti ad annidarsi nei paesi cattolici, soffocando in questi con mezzi repressivi – la prigionia, la morte – ogni focolaio di eresia. Quest’opera è in particolare modo affidata all’Inquisizione. Connessa all’attività di questa, è l’attività di prevenzione, che si esplica soprattutto, nel campo librario, con la censura preventiva (sottoposizione all’imprimatur) e repressiva (condanna di libri). [122631] Nell’ambito dell’arte il concilio di Trento si pronunciò in maniera piuttosto generica: riallacciandosi alle decisioni del secondo concilio di Nicea, ribadì la liceità e validità delle immagini sacre e ne affidò agli ecclesiastici la disciplina e il controllo. La politica figurativa della Controriforma si volse, perciò, soprattutto a combattere le licenze e gli abusi nel campo iconografico, insistendo sull’esatta aderenza ai fatti della storia cristiana e alle verità teologiche, sfrondati da ogni elemento proveniente dalle tradizioni apocrife o popolari, e spinse a rilevarne i valori edificanti e suadenti. Questo rigido atteggiamento comportava anche l’eliminazione di qualsiasi elemento profano e un particolare controllo sulla decenza delle immagini: esemplari, a questo proposito, possono essere il processo intentato nel 1573 dal tribunale dell’inquisizione a Paolo Veronese che nella sua Cena in casa di Levi (Venezia, Gallerie dell’Accademia) aveva introdotto cani, nani, buffoni non menzionati dal testo biblico e sconvenienti ad un episodio sacro, e ancor più gli aspri attacchi cui fu sottoposto il Giudizio universale di Michelangelo nella cappella Sistina per l’indecenza dei nudi, per l’introduzione di figure come quella di Caronte, per la raffigurazione degli angeli senza ali, ecc. Ma, accanto a questa rigida posizione, che trova espressione in uno dei due dialoghi pubblicati nel 1564 da G. A. Gilio (Degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’historie) e, in maniera più profonda e sistematica, nell’opera di G. Paleotti (Discorso intorno alle immagini sacre e profane, 1582), e all’analogo atteggiamento nei confronti della musica (il contrappunto, gli improvvisi o il diminuendo, che rendevano incomprensibili le parole, furono eliminati, come anche furono epurati i motivi popolari sui quali spesso si cantavano le parole della messa), nel panorama artistico e religioso della Controriforma trovarono spazio movimenti e personalità di carattere completamente diverso: grazie all’opera dei gesuiti e soprattutto a tipi di organizzazione quale quella degli oratori, si coltivarono nel campo delle arti figurative, della musica e del teatro, espressioni che facendo leva sul sentimento risultarono più efficaci e coinvolgenti strumenti di propaganda. Nell’ambito della politica della Controriforma va ancora ricordato l’unico testo che con scrupolosa meticolosità affronti il problema dell’architettura sacra: le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae che C. Borromeo pubblicò nel 1577. [122641] A tutte le attività in cui si concreta la Controriforma va aggiunta quella politica e militare, che la Chiesa non poté realizzare essa medesima, ma che non cessò fin dall’inizio di raccomandare agli stati, incoraggiando le imprese volte a vincere sui campi di battaglia gli eretici e a sgominarne le coalizioni. La storia della Controriforma comprende pertanto quella delle guerre di religione. La Germania è il loro campo principale, qui esse s’iniziano, qui durano circa un secolo, dalla formazione della lega di Smalcalda alla pace di Vestfalia, avendo a principali momenti la vittoria cattolica di Mühlberg (1547), la convenzione di Passau e la pacificazione di Augusta (1555), e, dopo mezzo secolo di relativa pace, la formazione dell’Unione protestante per iniziativa dell’elettore del Palatinato (1608), la vittoria cattolica della Montagna Bianca (1620) e lo schiacciamento dell’elettore (1623); infine, l’estendersi della guerra con il soccorso danese e svedese ai protestanti, Gustavo Adolfo, meteora minacciosa per la cattolicità, il dilagare della guerra fino a coinvolgere l’Europa intera, la pace di Münster, che è un ritorno alle disposizioni di Passau e di Augusta, comprendendovi, oltre ai luterani, anche i calvinisti, e togliendo il reservatum ecclesiasticum. Ma nella riconquista o nella difesa dei territori dell’Impero l’azione militare procede sempre di pari passo con quella dei religiosi: degli abili nunzi apostolici come Bartolomeo Portia, Feliciano Ninguarda, Alfonso Visconti, Minuccio Minucci, dei pii vescovi come Jakob Christoph Blarer a Basilea, Julius Echter a Würzburg, l’abate Baldassarre von Dernbach a Fulda, Daniel Brendel a Magonza, Urbano von Trennbach a Passau. In Francia la questione religiosa si complica con quella nazionale e dinastica; l’avversione antispagnola e quella della famiglia regnante contro i Guisa prevalgono sul sentimento cattolico. Pur dopo la notte di s. Bartolomeo (1572) la regina Caterina e i suoi figli sentono che non è nel loro interesse ristabilire nel paese l’unità religiosa. L’ultimo periodo del pontificato di Gregorio XIII è angosciato dal timore di vedere la Francia divenire il sostegno del protestantesimo in Europa, timore giustificato dal trattato del 1579 della Francia con Berna e Soletta, in difesa di Ginevra minacciata dai cantoni cattolici e dal duca di Savoia, dall’appoggio dato da Francesco d’Angiò agli insorti olandesi, dal progetto di matrimonio dell’Angiò con Elisabetta d’Inghilterra. Sisto V considera con occhio realistico la situazione in Francia, e si rende conto che lo stesso interesse della Chiesa esige che sia evitato un trionfo spagnolo, che finirebbe d’infeudare il papato al re cattolico; che è preferibile la vittoria dei Borboni, purché convertiti, con la tolleranza concessa al protestantesimo, alla Francia ridotta a potenza di secondo ordine. Clemente VIII è il fortunato realizzatore di questa politica. In Polonia i dieci anni di regno di Stefano Báthory vedono una restaurazione cattolica attuata senza violenza, con l’appoggio del sovrano, ma soprattutto per l’opera dei gesuiti, tra cui il popolare Piotr Skarga, per la savia direzione dei nunzi, per l’opera di buoni vescovi, primo Stanislao Osio. Infine, è da menzionare l’opera delle missioni, specialmente gesuitiche, che portano il cattolicesimo non solo fra gl’indigeni dell’America Meridionale, ma in Etiopia, in India, in Cina, in Giappone; Controriforma significa dunque non solo resistenza alla Riforma, o restaurazione, ma anche riconquista ed espansione. In questo senso si accentuano gli sforzi verso l’unione delle chiese e il “recupero” dei cristiani ortodossi, con conseguente impegno, religioso e militare, per l’allontanamento dei Turchi dall’Europa centrale e dai Balcani. Per effetto della Controriforma lo spirito di mortificazione della carne rimase bensì parte essenziale della pietà cattolica, ma scompaiono o si attenuano certe forme di asperrima e pubblica penitenza. I santi della Controriforma saranno spesso purissimi asceti, ma non trascineranno più dietro di sé compagnie di flagellanti che rinuncino a ogni bene terreno per seguirli. Caratteristica della religiosità della Controriforma è, nel campo morale, una maggiore benignità, un senso più vivo e una valutazione più estesa di tutte le condizioni psicologiche degli atti umani. Aumenta anche grandemente la cura per il miglioramento del costume degli ecclesiastici, l’attività sociale e benefica del clero: l’importanza del sacerdozio, che era stato elemento vitale sin dagl’inizi della Chiesa cattolica, è ancora accresciuta, se possibile, anche se non manca, come in passato, qualche laico che assurge a figura di primo rango nella vita della Chiesa e molti ecclesiastici i quali hanno in essa un’importanza senza alcun rapporto con la loro posizione gerarchica. Con la Controriforma, i diritti della gerarchia danno luogo a un’organizzazione sempre più forte e disciplinata; il primato papale afferma con sempre maggiore fermezza i suoi attributi. [12271] Invencible Armada (“flotta invincibile”) è il nome dato alla poderosa flotta, composta da 130 navi con circa 30.000 uomini e più di 2.000 pezzi d’artiglieria, che fu allestita da Filippo II per rendere possibile lo sbarco in Inghilterra del corpo di spedizione riunito nelle Fiandre da Alessandro Farnese. Scopo dell’azione era quello di abbattere la potenza navale inglese, responsabile dei continui attacchi di pirateria alle navi spagnole e alle coste dell’America Latina, e di mettere fine agli appoggi che la monarchia inglese forniva ai Paesi Bassi in rivolta. Al comando di Alonso Pérez de Guzmán, duca di Medina Sidonia, la flotta lasciò Lisbona nel maggio 1588; colpita da una tempesta si rifugiò a La Coruña; ripartita, sofferse danni per attacchi della flotta inglese (90 navi circa) al comando di F. Drake e lord Ch. Howard. Privo di esperienza marinara Pérez de Guzmán non volle attaccare con tutte le sue forze e continuò il viaggio fino a Calais, ove l’Invencible Armada fu attaccata di nuovo da navi incendiarie (28 luglio). Successivamente (29 luglio) al largo di Gravelines l’Invencible Armada subì gravi danni da parte dell’artiglieria della flotta inglese: l’esaurirsi delle munizioni inglesi e il favorevole mutare del vento consentirono agli Spagnoli di sottrarsi allo scontro veleggiando verso Nord. Pérez de Guzmán decise allora il ritorno in Spagna, circumnavigando le Isole Britanniche; durante il viaggio, il maltempo e le malattie flagellarono l’Invencible Armada causando la perdita di numerose navi e uomini. La distruzione dell’Invencible Armada manifestò la decadenza della monarchia spagnola, determinò il crollo definitivo della potenza marittima della Spagna e segnò la nascita del primato navale e commerciale inglese. [12281] Dal punto di vista storico, il territorio costituente l’attuale regno dei Paesi Bassi forma un complesso unitario dal 1579, quando con l’Unione di Utrecht sorse la repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi. Prima di allora le vicende del territorio furono intimamente legate a quelle del Belgio: ambedue i territori furono designati nel Basso Medioevo con il nome comune di Fiandre o, in senso lato, Paesi Bassi. La posizione geografica dei Paesi Bassi fu di particolare importanza per lo sviluppo delle relazioni commerciali e per la fondazione di nuove città, già nel 15° secolo. Ma nel Cinquecento gli olandesi riuscirono ad estendere i loro traffici marittimi su tutti gli oceani, approfittando delle fragilità dei loro concorrenti anseatici e delle debolezze degli imperi spagnolo e portoghese. A fine secolo i mercanti di Amsterdam erano presenti con grande forza nelle Indie orientali e sulle rotte commerciali europee; nel 1602 nasceva la Compagnia delle Indie orientali. Alle origini di questo successo vi furono anche le complesse vicende politiche e militari che, più in generale, segnarono l’Europa del tempo. I Paesi Bassi settentrionali e meridionali, infatti, erano stati riuniti sotto la sovranità di Carlo V, tra il 1524 e il 1543, anni nei quali l’imperatore si era impossessato della Frisia, di Utrecht, Overijssel, Groninga, Drenthe e Gheldria, Nel 1548 tutti i Paesi Bassi facevano parte dell’Impero (col nome di circolo di Borgogna). Sotto gli effetti della Riforma, la diffusione del protestantesimo (soprattutto calvinismo) segnò per i Paesi Bassi l’inizio di una nuova era. Le persecuzioni religiose, dopo l’avvento di Filippo II sul trono di Spagna, assunsero particolare violenza e, falliti i tentativi di accomodamento con la reggente Margherita d’Austria, provocarono gravi tumulti. La situazione peggiorò dopo l’arrivo del duca d’Alba, che domò la rivolta, condannò a morte centinaia di calvinisti, ne fece confiscare i beni e inasprì le imposte. Il duca riuscì così apparentemente a ristabilire la calma, ma, dopo il suo richiamo, l’ammutinamento delle truppe spagnole nelle Fiandre e nel Brabante (1576) favorì la riconciliazione tra i cattolici dei Paesi Bassi meridionali e i ribelli dell’Olanda e della Zelanda, guidati da Guglielmo d’Orange-Nassau (pacificazione di Gand). Fu un accordo temporaneo, stretto con l’intento di preservare il paese dalle soldatesche straniere; esso venne meno a motivo dell’intolleranza religiosa dei calvinisti che non si attenevano ai patti convenuti. Del contrasto trasse profitto il nuovo governatore (dal 1578) Alessandro Farnese, il quale con la promessa del ritiro delle truppe spagnole convinse i Paesi Bassi cattolici a riconoscere la sovranità di Filippo II (unione di Arras, gennaio 1579). Da parte sua, Guglielmo d’Orange, timoroso della riscossa spagnola, promosse la formazione di un legame più stretto tra le province ribelli e l’Unione di Utrecht (egualmente del gennaio 1579). Egli era tuttavia favorevole al mantenimento dell’unione di tutti i Paesi Bassi, e la lega tra le province non cattoliche doveva costituire solo un espediente temporaneo, in opposizione alla politica del Farnese. L’Unione di Utrecht segnò invece l’inizio di un nuovo stato indipendente e inflisse un colpo mortale alla politica di Guglielmo. Le operazioni militari intraprese dal Farnese per ricondurre all’obbedienza spagnola le province ribelli accelerarono il processo di secessione definitiva: nel 1581 gli Stati Generali dell’Aia rifiutarono Filippo II come loro sovrano. Estremamente critico fu il periodo immediatamente successivo: l’assassinio di Guglielmo d’Orange (1584) coincise con notevoli successi militari del Farnese che riuscì a riconquistare tutto il territorio a Sud dei grandi fiumi. Le Province Unite furono salvate dal loro predominio sul mare e dal fatto che Filippo II rinunciò a un’azione a fondo contro di esse per tentare invece la conquista delle isole britanniche: la distruzione dell’Invencible Armada (1588), - alla quale contribuirono anche le Province Unite, allontanò l’incubo di una prossima capitolazione. Il decennio 1588-1598 modificò sostanzialmente la situazione. Il genio militare di Maurizio di Nassau e l’abilità politica di J. van Oldenbarneveldt portarono alla vittoria le armi olandesi: tutto il paese a Nord dei grandi fiumi fu liberato dal dominio spagnolo. Francia e Inghilterra contrassero un’alleanza con le Province Unite, riconoscendo l’indipendenza del paese e il suo inserimento nella comunità internazionale. Dopo la pace di Vervins (1598) tra Francia e Spagna, le Province Unite continuarono la guerra, pur essendo stata nel frattempo concessa ai Paesi Bassi meridionali l’indipendenza sotto gli arciduchi Alberto d’Austria e Isabella; ma né la vittoria di Maurizio a Nieuport (1600), né la conquista di Ostenda da parte degli arciduchi assicurarono un chiaro vantaggio a uno dei due contendenti. Dopo la pace fra Inghilterra e Spagna (1604) parve perciò opportuna la conclusione di una tregua, firmata nel 1609 per un periodo di dodici anni, sulla base dell’uti possidetis. Ancora una volta la vita interna delle Province Unite fu sconvolta da contrasti religiosi: in seno al calvinismo scoppiò la lotta tra arminiani e gomaristi. Il conflitto divenne ben presto politico, poiché la pretesa dei gomaristi di demandare al giudizio di un sinodo nazionale la soluzione della controversia sollevò l’opposizione degli Stati Generali, che avevano accordato la loro protezione agli arminiani. Fallito il tentativo dell’Oldenbarneveldt, coadiuvato dagli stati di Olanda, di Utrecht e di Overijssel, di impedire l’espulsione degli arminiani, il sinodo convocato condannò le dottrine eterodosse. Accusato di alto tradimento, l’Oldenbarneveldt fu condannato a morte (1619). Ripresa la guerra nel 1621, morto il Nassau (1625), il comando delle operazioni fu assunto dal fratellastro Federico Enrico, nuovo statolder. Tutt’altro che facile fu il suo compito: gli Stati Generali, e più particolarmente il partito aristocratico, erano gelosi della fama dello statolder, temendo una restaurazione della monarchia in suo favore, ed erano anche timorosi delle conseguenze che potevano derivare ai loro interessi economici e commerciali dall’annessione di Anversa. A quattro riprese (1637-46) lo statolder assediò il porto alla foce della Schelda, ma la conquista non gli riuscì proprio per l’aiuto accordato da Amsterdam agli assediati. Più fortunata fu la guerra sul mare: ripetute volte (celebre la battaglia delle Dune, 1639), la flotta spagnola fu sconfitta. La virtuale eliminazione della minaccia spagnola e il timore della nuova potenza francese agevolarono le trattative di pace, che fu firmata a Münster (30 gennaio 1648); alle Province Unite fu riconosciuta la più assoluta indipendenza. Con la successiva pace di Vestfalia esse cessarono di far parte dell’Impero. Così terminò la cosiddetta guerra degli Ottant’anni. La conclusione della pace non fu favorevole a Gugliemo II, statolder dal 1647, poiché il congedo delle truppe mercenarie, richiesto dagli Stati Generali, tendeva chiaramente al suo spodestamento. Egli risolse il conflitto con la forza, ma la sua morte prematura (1650) tolse ogni ostacolo alle aspirazioni egemoniche dei reggenti, che imposero alle altre province le vacanze delle cariche di capitano generale e di statolder (eccetto che in Frisia e Groninga). Il partito orangista, forte soprattutto dell’appoggio popolare, non disarmò, anche se l’erede diretto del defunto statolder era un bambino in fasce (Guglielmo III era nato otto giorni dopo la morte del padre). La popolarità della casata si manifestò durante la prima guerra inglese (1652-54), quando le sconfitte causate dalla flotta di Cromwell provocarono difficoltà economiche e tumulti a favore degli Orange e contro i reggenti. Il disastroso esito della guerra obbligò gli Stati Generali a votare l’Atto di esecuzione, con cui essi si impegnarono a non eleggere mai l’Orange statolder della loro provincia (Guglielmo III per parte di madre era nipote dello Stuart pretendente al trono inglese). L’Atto di navigazione (1651), che negli intendimenti degli Inglesi doveva inferire un colpo mortale al commercio marittimo delle Province Unite, raggiunse solo in parte il suo intento. La rivalità sul mare tra le due potenze sfociò nella seconda guerra inglese (1665-67), quando gli Stuart con Carlo II erano ritornati sul trono. Stavolta la vittoria, grazie soprattutto alla valentia dell’ammiraglio M. A. de Ruyter, rimase alle Province Unite, e la pace di Breda la sanzionò con la parziale modifica dell’Atto di navigazione. [12291] Gli avvenimenti che si sogliono indicare col nome di guerra dei Trent’anni (1618-48) sono il risultato di un complesso di motivi di vario ordine, religiosi e politico-sociali. Si trattò di un conflitto le cui conseguenze ebbero grande rilevanza per la storia europea e i cui sviluppi possono essere valutati osservando le varie fasi della guerra: boemo-palatina, danese, italiana, svedese, francese. L’incertezza delle disposizioni della pace religiosa di Augusta (1555), soprattutto in relazione alla proprietà dei beni ecclesiastici, il nuovo vigore assunto dal protestantesimo dopo il riconoscimento giuridico ottenuto appunto per effetto della pace medesima, il ritorno a un più deciso atteggiamento verso i protestanti da parte della Chiesa e dei principi cattolici sotto la spinta della Controriforma e soprattutto i conflitti generati negli equilibri europei dalla posizione centrale della Germania; tutto ciò contribuì in misura determinante ad accrescere le tensioni politiche, religiose e costituzionali all’interno dell’Impero. Negli anni Sessanta del secolo 20° la storiografia di ispirazione marxista ha avanzato una interpretazione univoca della guerra dei Trent’anni quale conflitto tra due gruppi di stati o di formazioni sociali differenti: essa sarebbe il risultato della trasformazione di strutture che contrapponeva l’Europa feudale all’Europa dell’incipiente capitalismo. L’esecuzione del bando imperiale contro la città di Donauwörth, affidata nel 1608 al duca Massimiliano di Baviera, ritenuta illegale dai luterani perché indebita ingerenza dell’Impero in questioni religiose, portò da una parte all’alleanza di alcuni principi protestanti nell’Unione evangelica di Ahausen (1608) e dall’altra a una più stretta intesa di quelli cattolici nella Lega (1609). Tuttavia né l’elettorato di Sassonia né l’Austria, gli stati più potenti delle due confessioni, aderirono ai due sistemi d’alleanza capeggiati, rispettivamente, dall’elettore palatino e dal duca di Baviera. [122911] Nel regno di Boemia, soggetto agli Asburgo, la cosiddetta Lettera di maestà di Rodolfo II (1609), contenente notevoli concessioni alla confessione boema, divenne oggetto di divergenti interpretazioni tra cattolici e protestanti, tra le autorità governative asburgiche e la nobiltà boema. L’elezione a re di Boemia dell’arciduca Ferdinando (1617) e il trasferimento dell’amministrazione dello stato a governatori in gran parte cattolici allarmò seriamente i protestanti boemi che, fiduciosi negli aiuti dei loro correligionari, si ribellarono: l’episodio della defenestrazione di Praga (23 maggio 1618), nel quale i luogotenenti cattolici J. B. Martinic e V. Slavata dell’imperatore Mattia furono precipitati dal castello di Hradcany, segna convenzionalmente l’inizio non solo di questa ribellione, ma anche della guerra dei Trent’anni Le truppe imperiali, penetrate in Boemia al comando del generale Ch.-B. di Bucquoy, furono respinte oltre confine e anche la Moravia fece causa comune con i ribelli. Morto l’imperatore Mattia (20 maggio 1619), il conflitto si fece ancora più aspro: da una parte i Boemi, con l’appoggio anche degli stati della Bassa e dell’Alta Austria, sotto la guida di Enrico Mattia di Thurn assediarono Vienna, e dall’altra dichiararono decaduto dal trono Ferdinando ed elessero a re di Boemia Federico V, elettore del Palatinato (26 agosto 1619); ma questa elezione non rafforzò affatto la posizione politica dei Boemi di fronte a Ferdinando, anzi ne segnò il totale isolamento. Né l’elettore di Sassonia, né l’Unione evangelica accorsero in aiuto dell’elettore palatino, mentre Ferdinando ebbe l’appoggio del duca Massimiliano di Baviera e della Lega, le cui truppe, unite a quelle imperiali (nell’agosto 1619 Ferdinando era stato eletto a Francoforte anche imperatore) al comando di J. T. di Tilly, l’8 novembre 1620 sconfissero le truppe di Federico V alla Montagna Bianca, a ovest di Praga. La precipitosa fuga di Federico V trasferì il campo di battaglia nel Palatinato superiore, dove tuttavia la resistenza dei fautori dell’ex sovrano ebbe ben presto termine (1621-22). Con l’aiuto degli Stati generali olandesi e di alcuni principi della Germania settentrionale continuarono la lotta Peter Ernst II, conte di Mansfeld, e Cristiano di Brunswick; ma la sconfitta inflitta da Tilly presso Stadtlohn (6 agosto 1623) a Cristiano estese temporaneamente l’egemonia cattolica anche sul nord della Germania. Intanto, nel febbraio 1623, il duca Massimiliano di Baviera, a riconoscimento dei servizi a lui prestati alla causa cattolica, aveva ottenuto la dignità elettorale, già appartenente a Federico V, e il Palatinato superiore. La guerra, trasformatasi da conflitto interno tra i Boemi e il loro legittimo sovrano Mattia, in lotta armata nell’Impero, aveva assunto già chiaramente le apparenze di controversia europea con l’intervento esplicito del ramo degli Asburgo di Spagna a fianco di quelli d’Austria. Tuttavia, non fu tanto l’invio di un esercito capeggiato da A. Spinola nel 1621-22 nel Palatinato a conferire tale aspetto generale europeo alla lotta, quanto la questione della Valtellina, dove, in seguito alla ribellione dei cattolici contro i Grigioni protestanti, la Spagna e l’Austria, nel 1622, si erano assicurate il libero passaggio per i valichi alpini che univano il Milanese all’Impero. La Francia cominciò a correre ai ripari sia in Germania (trattato con la Baviera, 1622) sia in Italia (Lega franco-veneto-savoiarda, 1623). Ne seguì una guerra con la Spagna, alla quale pose termine la pace di Monçon (1626), che annullò ogni speciale concessione di passaggio alpino agli Spagnoli. [122921] L’apparizione dell’esercito della Lega cattolica nella Germania settentrionale destò apprensioni nei principi protestanti della regione, timorosi di perdere i beni secolarizzati: essi si rivolsero pertanto per aiuto al re di Danimarca, Cristiano IV. Costui, spinto all’intervento in Germania anche dall’Olanda, dall’Inghilterra e dalla Francia, e fidando nell’aiuto del duca Giovanni Ernesto di Sassonia-Weimar, di Cristiano di Brunswick, del conte di Mansfeld e di G. Bethlen Gábor, accolse ben volentieri l’invito, mosso anche dalla speranza di poter approfittare della guerra per estendere il proprio dominio su Osnabrück e Halberstadt. L’esercito imperiale, reclutato da A. W. E. Wallenstein, sconfisse Mansfeld a Dessau (1626), mentre Tilly, con l’esercito della Lega, inflisse una dura sconfitta a Cristiano IV a Lutter (1626). Cristiano IV, costretto ad abbandonare tutte le terre fino all’Elba, la penisola dello Jütland (1627), la Pomerania e il Meclemburgo (1628), continuò però la resistenza e si piegò alla pace (di Lubecca), solo il 22 maggio 1629: egli dovette rinunciare ai principati ecclesiastici, fatto questo che costituì una prima attuazione dell’ambizioso programma di ricattolicizzazione già fissato dall’imperatore con l’Editto di restituzione (6 marzo 1629). Le altre richieste, relative a una cessione parziale dello Schleswig-Holstein e dello Jütland e a una riduzione dei diritti doganali nel Sund, furono però respinte da Cristiano IV, né Ferdinando II insistette su di esse. Su tale atteggiamento conciliante dell’imperatore influirono le ultime vicende italiane. [122931] In Italia la morte (1627) di Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, aveva sollevato un arduo problema di successione. I diritti del duca Carlo di Nevers, sebbene ineccepibili, venivano a inserirsi nel delicato meccanismo dei rapporti tra la Francia e gli Asburgo nella penisola, e di riflesso in tutta l’Europa. Nell’intento di tutelare gli interessi asburgici, all’occupazione di Mantova da parte del duca di Nevers, Ferdinando II replicò con l’imposizione del sequestro imperiale su Mantova e sul Monferrato (marzo 1628). In conseguenza di ciò, avendo gli Spagnoli e Carlo Emanuele I occupato il Monferrato, Richelieu ordinò l’occupazione di Susa e di Casale (marzo 1629) e costrinse il duca di Savoia alla alleanza contro gli Asburgo. L’imperatore si affrettò a concludere la pace con Cristiano IV di Danimarca e inviò un esercito che cinse d’assedio Mantova, riuscendo a occuparla il 18 luglio 1630. Richelieu intanto tesseva le fila della sua rete diplomatica cooperando all’entrata in campo di Gustavo II Adolfo di Svezia, il cui intervento venne provocato dal tentativo di Wallenstein di annettere il porto di Stralsunda ai suoi possedimenti nel Meclemburgo (1628). Richelieu inoltre acuì i sospetti, contro lo stesso Wallenstein, dei principi tedeschi. Questi ultimi, nella Dieta di Ratisbona (luglio 1630), in cambio del loro aiuto contro gli Svedesi sbarcati in Pomerania, imposero all’imperatore l’allontanamento di Wallenstein dal suo incarico e lo scioglimento dell’esercito da lui reclutato. Contemporaneamente l’imperatore fu costretto a chiedere la pace in Italia, pace che riuscì particolarmente vantaggiosa alla Francia (Cherasco, 19 giugno 1631) con l’insediamento di Nevers a Mantova e nel Monferrato. Dinanzi al pericolo svedese Ferdinando II non aveva avuto altra possibilità di scelta. [122941] Gustavo II Adolfo fu spinto da motivi di ordine politico e religioso, ad intervenire in Germania: da una parte il re, minacciato dal possibile costituirsi di una flotta imperiale nel Baltico, riteneva necessario restituire il Meclemburgo ai duchi ereditari, suoi parenti, spodestati da Wallenstein, e voleva trarre profitto dalla favorevole congiuntura per strappare alla Danimarca il dominio sul mare; dall’altra era profondamente convinto della missione affidatagli di liberare il protestantesimo tedesco dal cattolicesimo nuovamente trionfante e quindi della necessità di impedire l’attuazione dell’Editto di restituzione. Sbarcato nel luglio del 1630 nell’isola di Lusedorm, Gustavo II Adolfo attese diversi mesi per costituirsi una testa di ponte e per crearsi le premesse politiche a una penetrazione nel cuore della Germania. A Barwalde, nel gennaio del 1631 fu conclusa un’alleanza franco-svedese in base alla quale Gustavo II Adolfo si impegnò a intervenire a favore dei principi tedeschi contro l’imperatore e la Francia a sostenerlo economicamente. Nel maggio del 1631 l’assedio e la caduta della città di Magdeburgo a opera di Tilly e il terribile sacco che ne seguì, indussero gli elettori Giorgio Guglielmo di Brandeburgo e Giovanni Giorgio di Sassonia ad allearsi con Gustavo II Adolfo, aprendo così la via attraverso la Sassonia agli Svedesi. Il primo scontro tra Tilly e Gustavo II Adolfo e i suoi alleati ebbe luogo a Breitenfeld (17 settembre 1631) e si concluse con la completa disfatta del primo: in breve gli eserciti del re di Svezia raggiunsero il Reno, penetrarono in Baviera, occuparono Praga. Lo stesso Tilly, oppostosi nuovamente agli invasori che tentarono di forzare il passaggio del fiume Lech (15 aprile 1632), morì in seguito alle ferite riportate in battaglia, e la sua scomparsa rese inevitabile il richiamo, da parte di Ferdinando II, di Wallenstein che, allestito un nuovo esercito, liberò la Boemia e penetrò in Franconia per congiungersi con le forze decimate dell’elettore di Baviera. Effettuato il ricongiungimento, l’esercito cattolico riprese la via della Sassonia, seguito da quello di Gustavo II Adolfo che a Lützen (16 novembre 1632) tagliò la strada all’avversario. L’esito della battaglia fu vittorioso per gli Svedesi, ma il loro re vi fu colpito a morte. La scomparsa del sovrano tuttavia non allontanò la minaccia svedese: il cancelliere Oxenstierna rafforzò con il trattato di Heilbronn (aprile 1633) i legami politici con gli stati protestanti tedeschi e la Baviera fu nuovamente invasa. Con il fine di creare uno stato boemo forte, Wallenstein iniziò trattative segrete con Svezia, Francia e Sassonia; ma, sospettato di tradimento verso la causa cattolica, fu assassinato il 25 febbraio 1634. Nella battaglia di Nördlingen (6 settembre 1634), l’esercito imperiale e bavarese agli ordini di M. Gallas e dell’arciduca Ferdinando (III), rafforzato dalle truppe spagnole condotte in Germania dal cardinale infante Ferdinando, sconfisse gli Svedesi. Le conseguenze politiche non tardarono a manifestarsi: la lega di Heilbronn si sciolse, per la pace di Praga (1635) l’elettore di Sassonia abbandonò l’alleanza svedese per accordarsi con l’imperatore e quest’ultimo sospese l’applicazione dell’Editto di restituzione. La Francia intervenne ufficialmente nel conflitto e dichiarò guerra alla Spagna (19 maggio 1635). Nel settembre del medesimo anno anche l’imperatore dichiarò la guerra alla Francia. [122951] L’offensiva francese, iniziata con l’occupazione della Valtellina da parte di un esercito comandato da Henri II duca di Rohan e con la conseguente interruzione delle comunicazioni dirette tra Spagnoli e Imperiali, fu proseguita con fervore d’iniziativa sia sul piano politico sia su quello militare. Tre furono le direttrici dell’azione intrapresa da Richelieu per colpire gli Asburgo: i Paesi Bassi, il Reno, l’Italia. Con gli Stati generali d’Olanda fu concluso un trattato d’alleanza per portare una nuova offensiva contro i Paesi Bassi spagnoli; sul fronte del Reno Richelieu era già riuscito a impadronirsi della Lorena (1634) e dell’Alsazia; in Italia fu conclusa con i duchi di Savoia, di Parma e di Mantova la lega di Rivoli (11 luglio 1635) con l’intento di cacciare gli Spagnoli dal Milanese. Contemporaneamente alcuni principi tedeschi, già alleati di Gustavo II Adolfo, passarono al servizio francese, tra essi il duca Bernardo di Sassonia-Weimar e il langravio Guglielmo V d’Assia. Furono rinnovati inoltre i trattati con la Svezia. Le sorti del conflitto furono dapprima favorevoli agli Ispano-Imperiali. Nel 1636-37 essi riconquistarono la Lorena e un esercito spagnolo giunse fin quasi sotto Parigi. Solo gli Svedesi, sotto gli ordini di J. G. Banér e di L. Torstensson, conseguirono qualche vittoria, ma anch’essi, per non correre il rischio di essere annientati dalle forze avversarie, dovettero ritirarsi dalla Germania centrale. Dal 1640 in poi l’alleanza franco-svedese si manifestò invece chiaramente superiore agli avversari, mentre il Brandeburgo, e temporaneamente anche la Baviera, abbandonavano l’alleanza di Ferdinando III. Dal punto di vista militare le puntate improvvise, fin nel cuore dei possedimenti ereditari, delle armate svedesi di Torstensson e di C. G. Wrangel scompaginavano e allarmavano sensibilmente l’imperatore: la Boemia e la Moravia furono più di una volta invase e la stessa Vienna evitò fortunosamente il pericolo di un’occupazione. Non migliore fu la situazione degli Spagnoli i quali, indeboliti dalla rivolta scoppiata in Catalogna (1640), sostenuta anche da Richelieu, e dalla separazione del Portogallo, furono inoltre sconfitti sia in Italia (Casale, aprile 1640) sia in Francia (Rocroi, 1° maggio 1643). L’opportunità di concludere la pace apparve sempre più evidente agli Imperiali, e nel 1641 una risoluzione della Dieta di Ratisbona si espresse in tale senso. Le trattative ebbero inizio nel 1644 per protrarsi fino al 1648, anno della conclusione della pace di Vestfalia. Quest’ultima pose tuttavia termine solo alla guerra con l’Impero e non a quella contro la Spagna, che durerà ancora fino al 1659. [122101] L’intento di trovare una via marittima diretta verso l’Asia meridionale (le Indie) da un lato condusse i Portoghesi a circumnavigare l’Africa (1487) e a raggiungere la costa occidentale dell’India (1498), dall’altro portò Colombo alla scoperta, in nome dei sovrani di Spagna, di un nuovo continente (1492); ebbero così inizio i due grandi imperi coloniali del secolo 16°, il portoghese a Est, lo spagnolo ad Ovest della linea (raya) fissata nel mezzo dell’Atlantico da Alessandro VI (1493) e dal trattato di Tordesillas (1494). L’impero portoghese, con centro a Goa, consisté di una serie di basi costiere in Africa, nell’India e nell’Insulindia, sino alle Molucche (1511), con carattere commerciale o con valore strategico o semplicemente per la sosta e il rifornimento delle navi. La Spagna, invece, attraverso l’opera dei conquistadores, abili e risoluti capitani, pose sotto la propria effettiva sovranità, fra il secolo 16° e il 18°, tutta l’attuale America latina continentale (escluso il Brasile, occupato dai Portoghesi a partire dal 1500-1501, e altre piccole zone), instaurandovi un ordinamento fondiario di tipo feudale e un regime commerciale rigidamente monopolistico. Con il trattato ispano-portoghese del 1529 ai Portoghesi era riservata l’intera Insulindia sino alle Molucche, ma gli Spagnoli conservavano le Filippine, raggiunte da Magellano nel 1521. In quei primi decenni del secolo 16° i viaggi di alcuni navigatori acquisirono alla Francia i titoli per la successiva espansione nella parte settentrionale del continente americano. Furono però gli Inglesi e gli Olandesi a infrangere per primi l’esclusività dell’espansione ispano-portoghese: nella seconda metà del secolo 16° armatori inglesi avviarono spedizioni commerciali in diverse direzioni (Africa occidentale, ecc.), mentre audaci corsari effettuarono imprese ai danni delle navi e degli stessi possedimenti spagnoli. Per gli Olandesi della “Repubblica dei mercanti” l’attacco dei possedimenti coloniali e le minacce ai traffici mercantili della Spagna furono anzitutto un aspetto della lotta per l’indipendenza nazionale. Alle singole e spesso individuali iniziative si sostituì ben presto da parte inglese e olandese l’attività di Compagnie coloniali che agivano in base a concessioni, da parte dei rispettivi governi, di privilegi monopolistici relativi a determinate zone geografiche: Compagnia inglese delle Indie orientali (1600); Compagnia unita (olandese) delle Indie orientali (1602); Compagnia olandese delle Indie occidentali (1617). Nel giro di alcuni decenni gli Olandesi subentrarono ai Portoghesi in molte basi commerciali in Africa (al Capo di Buona Speranza avrà inizio dal 1651 una colonizzazione anche di carattere demografico) e in Asia, specialmente a Giava e nelle Molucche, mentre iniziarono la colonizzazione anche in diverse zone del continente americano. L’espansione coloniale britannica, sviluppatasi più decisamente dagl’inizi del secolo 17°, in alcune zone ebbe un prevalente carattere commerciale e di sfruttamento agricolo, mentre altrove fu promossa dall’emigrazione di comunità (Puritani) desiderose di libertà politiche e religiose. Dagl’inizi del secolo 17° anche la Francia si rivolse con crescente vigore all’espansione oltremarina: colonizzazione del Canada con una direttrice d’espansione verso i Grandi Laghi, lungo il corso del Mississippi e sino al golfo del Messico; colonie di sfruttamento agricolo nell’America Centrale e Meridionale, basi commerciali nel Senegal e nell’India. Nella seconda metà dello stesso secolo 17° l’Inghilterra accentuava la propria prevalenza in campo coloniale ai danni della Spagna, del Portogallo, dell’Olanda. [1221011] Nella prima metà del Cinquecento nascevano in America l’impero portoghese in Brasile e quello della Spagna, ben più ricco ed esteso, dal Messico alla Terra del Fuoco, che assicurava ai sovrani di Castiglia enormi risorse finanziarie. Anche se la marcia trionfale verso una nuova “monarchia universale” fu decisivamente ostacolata a Carlo V dalla secessione religiosa iniziata da Lutero (Riforma), le scoperte di Cristoforo Colombo offrirono alla Spagna nuovi e immensi domini: il sorgere dell’impero ispanico in America rafforzò anche la posizione europea del paese. L’impero coloniale fu organizzato nelle sue linee generali entro la metà del 16° secolo, secondo il modello centralizzato che si andava affermando nella madrepatria. Il Consejo de Indias era il massimo organo legislativo, amministrativo e giudiziario del governo coloniale; costituito nel 1524, era composto prevalentemente di giuristi e aveva sede in Spagna. Rispettivamente nel 1535 e nel 1542 furono costituiti i vicereami della Nuova Spagna e del Perù, alla testa dei quali furono posti i viceré, funzionari nominati (dal Consejo de Indias con l’assenso del re) per un periodo determinato e revocabili, cui era conferita la suprema autorità civile e militare. Subordinati ai viceré, ma di fatto sensibilmente autonomi da essi, i capitani generali esercitavano le stesse prerogative su entità territoriali (capitanías generales) più ristrette, ricomprese nei vicereami. Viceré e capitani generali erano assistiti dalle Audiencias, organi collegiali dotati di competenze giudiziarie e consultive; le Audiencias non direttamente presiedute da un viceré o da un capitano generale erano guidate da un magistrato (presidente) ed esercitavano il potere su entità territoriali minori (presidencias). L’amministrazione provinciale era ordinata nei corregimientos o alcaldías mayores, retti da un corregidor o da un alcalde; a livello municipale fu trasferito nel Nuovo Mondo il cabildo (o ayuntamiento), sorta di consiglio cittadino, unico istituto coloniale del quale potevano far parte i Creoli (Spagnoli nati in America), essendo le principali cariche politiche, militari ed ecclesiastiche riservate agli Spagnoli. Nel 18° secolo, dopo l’avvento della dinastia dei Borbone, furono costituiti i vicereami di Nueva Granada e Río de la Plata, vennero create nuove Audiencias (alla fine del periodo coloniale se ne contavano 14) e fu introdotto il sistema delle intendenze, che sostituì le antiche ripartizioni provinciali. Dopo il 1756 fu inoltre abolito il monopolio di Cadice e Siviglia, i soli porti autorizzati al commercio con l’America ispanica, e furono finalmente autorizzati gli scambi commerciali intercoloniali, precedentemente proibiti. [12311] Per capire lo straordinario fenomeno artistico e culturale passato alla storia come “Rinascimento” è necessario ripercorrere le vicende delle città italiane del 15° e 16° secolo. Tra queste, la Firenze dei Medici è forse quella che presenta i tratti più originali e significativi di un movimento di idee che caratterizzò l’Europa del tempo. All’inizio del Quattrocento, nel panorama delle interminabili lotte politiche della città toscana, la famiglia dei Medici – ricchi banchieri, arricchitisi in tempi relativamente recenti – salì al governo cittadino con Cosimo detto il Vecchio, tornato nel 1434 dall’esilio veneziano cui l’aveva costretto l’oligarchia cittadina. Cosimo instaurava in Firenze, nel formale rispetto degli ordinamenti costituzionali, una effettiva signoria. L’assoluta preminenza dei Medici ebbe nuova sanzione, dopo la congiura dei Pazzi (1478), con la signoria di Lorenzo il Magnifico, che godette di un larghissimo consenso popolare; e fu garanzia, attraverso l’alleanza stretta da Lorenzo con Milano e Napoli, dell’equilibrio tra gli stati della penisola. La fortuna di questa dinastia sarebbe durata fino al Seicento: un periodo che coincise con quello dell’ascesa di Firenze a capitale dello splendore artistico e letterario rinascimentale. Ma se Firenze assumeva decisamente una funzione di centro dell’economia regionale, al contempo finiva la sua storia politica. La storia dei Medici è quella della più importante delle grandi famiglie fiorentine, dove figurano personaggi come Lorenzo il Magnifico e Cosimo il Vecchio, Caterina regina di Francia e Vieri (saggio e lungimirante pacificatore del popolo nella sommossa del 1393), Giovanni (papa Leone X) e Alessandro (papa Leone XI). Di origini oscure, la famiglia cominciò nel secolo 13° a elevarsi, dapprima economicamente con la pratica della mercatura e del cambio, poi rivestendo incarichi pubblici nel Comune. Furono guelfi neri, al tempo della divisione tra Cerchi e Donati. Si fecero sempre più potenti nel secolo 14°. Giovanni di Bicci nel secolo 15° divenne il più ricco banchiere d’Italia. Con Cosimo si legarono intimamente le sorti di Firenze con quelle della famiglia, e con lui furono attivi i figli Piero e Giovanni. Con i figli di Piero, Giuliano e Lorenzo il Magnifico, ci si avviò a una signoria di fatto, che fu guida politica ed esempio culturale, per il suo splendore e il mecenatismo, di tutta Italia. Con il figlio del Magnifico, Piero, la signoria dei Medici perse ogni prestigio e rovinò. Pure al movimento democratico e repubblicano della fine del Quattrocento presero viva parte due Medici: Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco. Dopo il congresso di Mantova (1512) Firenze fu nuovamente aperta ai Medici, con Giuliano e Giovanni figli di Lorenzo: salito quest’ultimo al pontificato (1513) col nome di Leone X, rifiorì tutta la potenza politica della famiglia. Seguì al governo di Firenze Lorenzo di Piero, padre di Caterina regina di Francia, mentre si distingueva nelle armi Giovanni, detto dalle Bande Nere. E ancora un altro Medici, Giulio, salì al pontificato (1523), col nome di Clemente VII, mentre Firenze era governata da Ippolito e Alessandro. Dopo la breve repubblica (1527-30), rientrò Alessandro, ucciso nel 1537 da Lorenzino e seguito da Cosimo, primo granduca di Toscana nel 1569. La signoria si trasformò così in principato, e la storia dei Medici, imparentatisi frattanto con varie case regnanti d’Europa, divenne tutt’uno con la storia del granducato; si susseguirono Francesco I (1574-87), Ferdinando I (1587-1609), Cosimo II (1609-21), Ferdinando II (1621-70), Cosimo III (1670-1723), Gian Gastone (1723-37), ultimo granduca senza eredi, cui successe Francesco Stefano di Lorena. [123111] Lorenzo il Magnifico (Firenze 1449 - Careggi 1492) fu uomo-simbolo del mecenatismo delle corti rinascimentali e “ago della bilancia d’Italia”, per la sua capacità di rendere determinante la potenza politica di Firenze per l’equilibrio delle forze della penisola. La salute malferma, l’impegno politico, la cura continua degli affari della sua casa, per l’interesse economico della quale il tesoro pubblico finì col confondersi con le finanze private dei Medici, non gli impedirono di partecipare con gusto e fervore a quella vita tipicamente rinascimentale di cultura, di splendori e di feste, della quale in Firenze fu il solerte animatore. Intorno a lui si formò un circolo di poeti, di artisti, di filosofi che egli sovveniva e di cui era amico: i tre fratelli Pulci, soprattutto il maggiore Luigi, il Poliziano, il Verrocchio, il Pollaiolo, Giuliano da Sangallo, Filippo e Filippino Lippi, Sandro Botticelli, Ficino, Landino, Pico della Mirandola, Benozzo Gozzoli, Benedetto da Maiano, Mino da Fiesole, per ricordare solo alcuni. Certo il mecenatismo fu per Lorenzo anche arte di governo, oltre che sincero bisogno della sua anima. Ricche la sua biblioteca e la collezione di gemme, cammei, bronzi, statue. Per lui Giuliano da Sangallo costruì la villa di Poggio a Caiano e il castello di Poggio Imperiale. Da lui furono chiamati allo studio di Firenze e di Pisa i più famosi maestri di filologia, filosofia, diritto. Mai Firenze era apparsa così fervida di operosità di studi e d’arti come al suo tempo. Egli stesso, pur tra le molteplici cure di politica e di amministrazione, partecipò a siffatta operosità. La sua intensa attività letteraria fu non già subordinata ma congiunta, come disse Machiavelli, con l’attività politica. Nel 1476 raccolse antiche rime, specie stilnovistiche, e le inviò a Federico d’Aragona con una lettera critica, quasi certamente opera del Poliziano. Negli anni successivi, probabilmente tra il 1482 e il 1484, raccolse 41 dei suoi sonetti, legandoli insieme con un Comento in prosa, a somiglianza della Vita Nuova: in questo narra come alla vista di una bellissima donna morta (Simonetta Cattaneo) gli si accendesse in cuore il desiderio di un altissimo amore e come dopo qualche tempo s’innamorasse di una donna ancor più bella e gentile dell’altra (Lucrezia Donati). Rime e commento sono ispirati alle idee dell’amor platonico filtrate attraverso Petrarca, Landino, Ficino, ma non mancano notazioni psicologiche e motivi poetici originali. Una disputa filosofica con Ficino sul sommo bene sono i 6 faticosi capitoli dell’Altercazione, scritta, almeno nella sua prima redazione, intorno al 1473-74. E un concetto platonico dell’amore è anche alla base delle due vivaci Selve d’amore composte, con ogni probabilità, dopo il 1486: specialmente nella seconda abbondano elementi figurativi e realistici. Da Ovidio e dal Ninfale fiesolano di Boccaccio trae origine il poemetto Ambra anch’esso composto dopo il 1486, in cui si narra come la ninfa Ambra, amata dal pastore Lauro, inseguita dal fiume Ombrone, sul punto d’esser raggiunta, è trasformata in una rupe, quella su cui sorgeva la villa medicea di Poggio a Caiano. Tutto ricalcato sui classici, ma originariamente rivissuto, è il Corinto, anch’esso scritto forse intorno al 1486, lamento rusticano in terzine in cui il pastore Corinto invita la riluttante Galatea ad amare, perché la giovinezza presto fugge: nella chiusa è la famosa descrizione di un roseto in fiore. Idillio rusticano è la Nencia da Barberino scritta quasi certamente prima del 1470, di cui alcuni gli hanno negato la paternità: qui, però, il modello non è più letterario e classico, ma popolaresco. Ricca di scenette e figure dal vero è l’Uccellagione di starne, essa pure composta assai probabilmente nella prima giovinezza e più nota col titolo di Caccia col falcone; e opera giovanile è anche il Simposio, una rassegna dei più famosi bevitori fiorentini del tempo (il titolo I beoni, o più esattamente Capitoli d’una historia di beoni, sembra dovuto a un copista), dove l’arguzia caricaturale è in generale riuscita. Fresche e vive nella loro leggerezza le Canzoni a ballo, la prima delle quali risale al 1467. Tra i Canti carnascialeschi, alcuni dei quali Lorenzo compose forse prima del 1486, il Trionfo di Bacco e Arianna (1490) è un capolavoro: perfetta è la fusione tra elementi culturali e sentimento vivo della vita che fugge. Vivacissima la novella in prosa in cui narra il tiro furfantesco giocato da un giovane fiorentino a un gonzo senese. Allevato nella religione dalla pia madre e da Gentile Becchi, cui poi procurò il vescovato, scrisse anche Laudi, certamente non mentite, e la Rappresentazione di San Giovanni e Paolo, rappresentata per la prima volta il 17 febbraio 1491, sulla persecuzione dei cristiani da parte di Giuliano l’Apostata fino alla morte di questo. Espertissimo e raffinato letterato, talvolta anche genuinamente poeta, Lorenzo contribuì in primo piano al passaggio dell’umanesimo da latino in volgare, che è il fatto storicamente più notevole del secondo Quattrocento. [12321] Martino V, eletto papa nel 1417, pur continuando la politica di limitazione delle libertà municipali, avviò il processo di ripresa economica, amministrativa e culturale della città – al quale contribuì anche il ritorno della corte pontificia a Roma –, destinato a trasformare la città medievale in una capitale rinascimentale degna di un principato con a capo, sovrano assoluto, il pontefice, anche se non mancarono episodi di rivolta e di rivendicazione delle libertà cittadine. Martino V distribuì ai membri della sua famiglia, a titolo di feudo, ampie estensioni territoriali all’interno dello Stato pontificio. Con i papi nepotisti successivi, questa tradizione continuò, dando luogo da una parte alla formazione di ricchezze private immense, dall’altra perpetuando le lotte fra quelle potenti famiglie che si sarebbero alternate alla guida sia del Comune sia dello Stato pontificio. In tale contesto si inseriscono i tumulti e i disordini che si verificarono a Roma subito dopo la morte di Martino V (1431), sotto il successore Eugenio IV. Questi, per affrontare il problema del controllo di Roma, attaccò direttamente i potenti Colonna e i loro alleati. Ma il papa, indebolito dal contrasto con il concilio di Basilea e dalle minacce espansionistiche provenienti sia da Napoli, sia da parte di Francesco Sforza, dovette affrontare anche le rivolte cittadine fomentate dai Colonna, che insorsero e crearono difficoltà al nuovo pontefice. Così risorse il Comune (1434) che, sotto la guida di Niccolò Fortebracci (nominato gran gonfaloniere), costrinse Eugenio IV a fuggire da Roma. Presto il Comune dovette piegare sotto la forza del vescovo di Recanati Giovanni Vitelleschi, che rese possibile il ritorno del papa a Roma e sottomise i Colonna e i loro alleati. Ma già nel 1453 Stefano Porcari tentò nuovamente di spingere la popolazione a rivendicare i diritti civili soppressi: la congiura questa volta fallì per il mancato appoggio della stessa popolazione, resa indifferente ed estranea al governo della città ormai in mano a potenti casati nobiliari. Disordini continuarono a manifestarsi anche in seguito, nonostante gli interventi dei papi Paolo II (che nel 1469 emanò nuovi statuti a tutela di residue autonomie della magistratura comunale) o Giulio II (con le sue iniziative, sempre nell’ambito della giustizia), che restituirono un maggior rigore amministrativo e qualche autonomia al Comune. Tuttavia, ad eccezione di queste turbolenze, connesse spesso a crisi politiche esterne, più vaste e frequenti nella seconda metà del Quattrocento, in occasione della guerra di Ferrante d’Aragona e Renato d’Angiò, della guerra di Ferrara e della Congiura dei baroni, la vita politica si svolse a Roma sotto il dominio quasi assoluto del papato. La corte e la curia subirono una forte espansione ed ebbe inizio l’uso di mettere all’incanto gli uffici sia laici, sia religiosi. Il nepotismo e la mondanizzazione della Chiesa contribuirono in maniera determinante a porre Roma sotto il dominio assoluto del papato. Famiglie come Sforza, Della Rovere, Borgia, Orsini, attraverso la curia, controllarono gli uffici municipali, le finanze, gli statuti della città. Tuttavia, in questo clima, parallelamente al dilagare di forme di potere assoluto, Roma visse un periodo di profondo rinnovamento culturale. I papi Niccolò V, Pio II, Sisto IV, Paolo II, impressero una forte spinta alla città, che divenne così la capitale del Rinascimento italiano. Qui operarono personalità come P. Bracciolini, F. Filelfo, il cardinale Bessarione, L. B. Alberti, Michelangelo, Raffaello. La ristrutturazione della città, iniziata con la riorganizzazione della magistratura dei magistri viarum (1425) da Martino V, proseguì attraverso Eugenio IV fino a Niccolò V (1447-55). Con la riedizione degli statuti del 1452 si ebbe un primo sforzo di risistemazione viaria e urbanistica di Roma, che avrebbe contemplato, fra l’altro, la demolizione dell’antico Borgo da sostituire con una nuova piccola città sulla destra del Tevere, tripartita da vie confluenti su s. Pietro (progetto in parte realizzato nel 1936 con il collegamento diretto tra Castel Sant’Angelo e piazza San Pietro). Niccolò V volle creare una biblioteca pubblica (istituita poi ufficialmente da Sisto IV con una bolla del 15 giugno 1475). Fu introdotta la stampa con i due prototipografi tedeschi K. Sweynheim e A. Pannartz, trasferitisi a Roma da Subiaco nel 1467. Si sperimentarono nuove e complesse forme di scrittura monumentale epigrafica, celebrativa di questi pontefici rinascimentali e adattata di volta in volta alle esigenze delle ingenti trasformazioni edilizie della città. Nel 1526, a preludio quasi del sacco che avrebbero effettuato gli imperiali l’anno successivo, i Colonna penetrarono nella città, sottoponendo così Roma a rinnovate violenze dopo i tumulti repressi da Giulio II nel 1512. Il 6 maggio 1527 Roma fu invasa dai lanzichenecchi luterani e dagli Spagnoli di Carlo V che devastarono la città lasciando ingenti danni materiali e infliggendo al mondo cristiano, già scosso dalla Riforma, un profondo e ulteriore trauma. A partire dalla seconda metà del Cinquecento, quasi insensibilmente nel mondo delle arti, con più evidenza nella cultura letteraria, nel costume, nella politica, incominciarono a penetrare nella vita romana gli ideali e le preoccupazioni della Controriforma. Il concilio di Trento, l’istituzione della Compagnia di Gesù, l’Inquisizione romana, posero un freno allo splendore rinascimentale e gli stessi pontefici condussero una vita più raccolta, una politica meno avventurosa, imposta quest’ultima dalla mutata situazione europea. Soltanto Paolo IV, un Carafa, riprenderà per qualche tempo e senza successo un atteggiamento più combattivo anche nei confronti dell’Impero. I papi della seconda metà del secolo 16° furono indotti dalle rimostranze e dalle agitazioni popolari ad attenuare il gravame fiscale, recuperando i mezzi finanziari con una più saggia e oculata politica fiscale e amministrativa. L’atmosfera della Controriforma impose un pesante conformismo, un irrigidimento del principio di autorità, specie in campo religioso; in compenso assunsero aspetto sfarzoso e spettacolare le cerimonie del culto, processioni ed altre pratiche liturgiche, dirette ad appagare, insieme con l’edificazione religiosa, anche il gusto per la moltitudine. [12331] Niccolò Machiavèlli, pensatore e letterato, nacque a Firenze il 3 maggio 1469 da Bernardo, dottore in legge e da Bartolomea de’ Nelli, e morì nella stessa città il 21 giugno 1527. Grazie ai Ricordi del padre relativi agli anni 1474-87, sappiamo che studiò grammatica dal 1476, abaco dal 1480, e che dal 1481 seguì le lezioni di grammatica di ser Paolo Sasso da Ronciglione nello Studio fiorentino. Fra i classici latini, almeno storici come Livio e Giustino ebbe fra le mani fin dall’adolescenza; e alla piena giovinezza dovrebbe appartenere una lettura filosoficamente impegnativa come quella di Lucrezio, documentata dal manoscritto Vaticano Rossiano 884, copia autografa e firmata del De rerum natura (e dell’Eunuchus terenziano). È anche possibile che dopo il 1494 Machiavelli frequentasse le lezioni di Marcello Virgilio allo Studio. Non c’è prova che conoscesse il greco. Tra il 1492 e il 1494 cercò di stringere rapporti con Giuliano de’ Medici, destinatario, forse, del capitolo pastorale in terza rima Poscia che a l’ombra e della canzone a ballo Se avessi l’arco e l’ale. Caduti i Medici e affermatasi l’autorità di Savonarola, Machiavelli si avvicinò a quei settori di aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo consenso, passarono all’opposizione aperta nei confronti del frate e ne provocarono la rovina. In questa luce si spiega come, entrato in concorso fin dal febbraio 1494 per un minore ufficio, subito dopo il supplizio di Savonarola (23 maggio), Machiavelli fosse designato (28 maggio) e nominato (19 giugno) segretario della seconda cancelleria; dal 15 giugno fu anche segretario dei Dieci. Può darsi che la nomina fosse favorita anche da Marcello Virgilio, dal febbraio primo cancelliere. L’attività ufficiale di Machiavelli è documentata da un’imponente mole di scritti, per lo più corrispondenza tenuta, in nome degli organi di governo centrali, con i funzionari e i comandanti militari sparsi per il dominio fiorentino. Ma è anche più importante, per quella “experienza delle cose moderne” che viene rivendicata nella prima pagina del Principe, il servizio diplomatico che a Machiavelli toccò di svolgere presso le principali corti italiane e straniere. Poteva inoltre avvenire che a Machiavelli venissero richiesti, da membri della signoria o di organi assembleari, speciali rapporti su questioni del dominio ovvero sui risultati delle missioni oltre confine: del maggio 1499 è la prima prosa politica conservata, il Discorso sopra Pisa, scritto forse per una Consulta. Nel luglio Machiavelli ricevette il primo incarico diplomatico di rilievo, una missione presso Caterina Sforza, contessa di Forlì. L’anno dopo fu inviato, con Francesco Della Casa, in Francia per richiedere all’alleato un maggiore impegno nella guerra pisana (la missione durò dal luglio 1500 al gennaio 1501). Fra gli scritti legati a questo soggiorno francese spiccano il Discursus de pace inter imperatorem et regem (prob. aprile 1501) e i ricordi De natura gallorum (elaborato fino al 1503). Nell’autunno del 1501 Machiavelli sposò Marietta Corsini (da cui ebbe Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto). Nel giugno dell’anno seguente fu coadiutore di Francesco Soderini nell’ambasciata a Cesare Borgia, allora impadronitosi di Urbino; dall’ottobre 1502 al gennaio 1503 svolse una seconda legazione al Valentino, in coincidenza con la ribellione dei luogotenenti che il Borgia domò ricorrendo all’astuzia e alla crudeltà. Dall’ottobre al dicembre del 1503 Machiavelli fu in missione a Roma per seguire il conclave da cui uscì eletto Giulio II; dal gennaio al marzo 1504 fu di nuovo alla corte del re di Francia. Intanto, nel settembre 1502, era stato eletto gonfaloniere perpetuo della repubblica fiorentina Piero Soderini, cui Machiavelli si legò di sincera, ma non acritica, fedeltà. Nella discussione e nei conflitti, ben presto aspri, fra il gonfaloniere e gli ottimati, Machiavelli intervenne indirettamente attraverso la redazione di promemoria e documenti consultivi (come le importanti Parole da dirle sopra la provisione del danaio, marzo 1503, e il discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati [titolo non originale], del luglio 1503) e in prima persona col poemetto in terzine dantesche Compendium rerum decemnio in Italia gestarum (finito nel novembre 1504, ma dato alle stampe solo nel 1506 col titolo Decemnale), che è una vivace cronistoria degli anni 1494-1504. Come provano anche gli ultimi versi del poemetto (“... ma sarebbe il cammin facile e corto / se voi il tempio riaprissi a Marte”), Machiavelli si dedicò con speciale passione al progetto di una milizia “propria” della repubblica, ossia formata da cittadini e sudditi, non da mercenari né da alleati stranieri. Al progetto erano fortemente avversi gli ottimati; nonostante il sostegno del cardinale Francesco Soderini, soltanto nel dicembre 1505 si poté dare inizio al reclutamento e all’addestramento dei primi contingenti. La provvisione definitiva fu votata il 6 dicembre 1506, sulla base di un documento steso da Machiavelli (La cagione dell’ordinanza). Tra l’agosto e l’ottobre di quell’anno Machiavelli aveva svolto un’altra legazione di grande rilievo, ancora presso la corte papale, ovvero al seguito di Giulio II in marcia attraverso l’Umbria e la Romagna per una campagna contro i signorotti locali: agli eventi di quella spedizione allude l’importante epistola a Giovan Battista Soderini, nota come Ghiribizzi (13-27 settembre), la cui materia passa in gran parte nel coevo capitolo Di Fortuna, in terzine, indirizzato al medesimo Soderini. Nominato in seguito (12 gennaio 1507) cancelliere dei Nove ufficiali della milizia fiorentina, Machiavelli si occupò ancora del reclutamento nel contado. Nel giugno fu designato per una missione presso l’imperatore Massimiliano, ma subito dopo, per l’opposizione della parte aristocratica, revocato e sostituito da Francesco Vettori (è forse di questi tempi un capitolo in terzine intitolato appunto all’Ingratitudine; motivi analoghi ritornano nel Canto dei ciurmadori, scritto per il carnevale del 1509; fra il 1502 e il 1524 Machiavelli scrisse altri cinque canti carnascialeschi). Solo alla fine del 1507 il gonfaloniere riuscì a far partire per il Tirolo anche Machiavelli, con funzioni di segretario. Al rientro in patria, nel giugno 1508, questi stese un Rapporto di cose della Magna (in seguito trasformato nel Ritracto di cose della Magna, 1509-12). Tornato ai suoi uffici militari, ebbe parte notevole nella riconquista di Pisa (4 giugno 1509) dopo quindici anni di ribellione. Nel novembre-dicembre fu a Verona presso l’imperatore, che era intervenuto personalmente nella guerra della lega di Cambrai contro Venezia; a questo soggiorno appartiene il capitolo Dell’ambizione, dedicato a Luigi Guicciardini. Nel giugno-ottobre tornò per la terza volta in Francia: a missione conclusa, cominciò a elaborare un Ritracto di cose di Francia (lasciato, imperfetto, dopo il 1512). Intanto il contrasto fra il papa e i Francesi si era aggravato e la posizione della repubblica fiorentina si faceva sempre più difficile. A Machiavelli toccarono nuove incombenze militari e delicati servizi diplomatici: in Francia (settembre-ottobre 1511), quindi a Pisa (2-11 novembre) presso il concilio dei cardinali contrari a Giulio II, per indurli a lasciare il territorio fiorentino. Dopo la terribile battaglia di Ravenna e il ritiro dei Francesi dalla Lombardia, forze militari spagnole al seguito del cardinale Giovanni, capo della famiglia de’ Medici e legato pontificio, entrarono in Toscana (agosto 1512). Le fanterie fiorentine furono annientate e Prato sottoposta a uno spaventoso saccheggio (29 agosto); due giorni dopo Piero Soderini dovette fuggire da Firenze. Dopo un breve interregno, i Medici presero il potere (16 settembre). Machiavelli aveva esortato i vincitori a continuare la linea antiottimatizia del Soderini (appello Ai Palleschi, fine ottobre - inizio di novembre), ma il 7 novembre fu cassato dall’ufficio e il 10 condannato a un anno di confino entro il dominio fiorentino. Sospettato di aver preso parte alla congiura ordita da A. Capponi e P. Boscoli contro i Medici, il 12 febbraio del 1513 fu arrestato e torturato. Sembra che rischiasse il carcere perpetuo e lo evitasse grazie a Giuliano de’ Medici (cui Machiavelli inviò dalla prigione due sonetti), e fu condannato a pagare una malleveria. Ma, dopo pochi giorni, poté uscire di prigione grazie all’amnistia seguita all’elezione papale di Giovanni de’ Medici (Leone X, 11 marzo). [123311] Machiavelli si ritirò nel podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina. E qui, mentre tentava in ogni modo di ottenere qualche incarico dai nuovi signori, soprattutto attraverso l’amicizia di due fautori medicei come i fratelli Paolo e Francesco Vettori, compose forse un trattato sulle repubbliche (destinato a trasfondersi nei Discorsi), un secondo Decennale (incompiuto), la “memoria”, o “novella tragica”, sul Tradimento del Duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo et altri (titolo non originale), e soprattutto il breve trattato De principatibus, universalmente noto con il titolo che gli applicò la stampa romana del 1532: Il Principe. La prima parte dell’opuscolo (capitoli I-XI) spiega quali siano i generi dei principati: ereditari, nuovi, misti di una parte antica e di una nuovamente acquisita; quali i modi di tale acquisto: virtù e forze proprie, fortuna con forze altrui (il settimo capitolo è imperniato sulla figura del Valentino, che ebbe il principato grazie al padre, Alessandro VI, e alla morte di lui lo perdette, nonostante i suoi gesti di eccellente virtù politica), il delitto, il favore dei concittadini. Dopo i tre capitoli dedicati ai diversi tipi di esercito (mercenario, ausiliario, proprio, misto), Machiavelli discute le qualità per cui un principe, ovvero in generale un capo politico, è lodato o vituperato: contro la tradizione moralistica, l’autore afferma il valore supremo della “verità effettuale”, cioè la necessità di affrontare gli altri uomini per quello che sono e non per quello che dovrebbero essere. Infine, spiegato perché i signori d’Italia hanno perso i loro stati di fronte alle invasioni straniere (cap. XXIV) e riassunta la propria complessa dottrina della fortuna (cap. XXV), Machiavelli rivolge un’appassionata esortazione alla casa dei Medici perché guidi una riscossa italiana contro il “barbaro dominio” di Spagnoli e Svizzeri. Il libretto fu concepito e steso tra l’autunno del 1513 e l’aprile del 1514; doveva essere indirizzato a Giuliano, ma infine lo dedicò al giovane Lorenzo di Piero de’ Medici, il futuro duca di Urbino, che dall’estate del 1513 reggeva la signoria medicea in Firenze. Dopo qualche positivo cenno di riscontro (ai primi del 1515, Machiavelli fu consultato in materia militare e compose i Ghiribizi d’ordinanza), dallo stesso centro del potere mediceo, ossia dalla corte di Roma, venne un fermo diniego a ogni riabilitazione di Machiavelli (febbraio del 1515). Nei mesi successivi Machiavelli si accostò, pertanto, a un gruppo di giovani letterati, di ispirazione repubblicana, che si riuniva nei celebri Orti Oricellari attorno a Cosimo Rucellai. A quest’ultimo e a Zanobi Buondelmonti sono dedicati i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-17 circa), il capolavoro machiavelliano, grandiosa opera di meditazione storico-politica in forma di libera glossa al testo liviano. I medesimi Cosimo e Zanobi, con Battista della Palla e Luigi Alamanni, sono interlocutori accanto al protagonista Fabrizio Colonna nei dialoghi De re militari (più noti come Arte della guerra, compiuti tra la fine del 1519 e l’estate del 1520), in cui è ribadita la necessità di ritornare ai principi dell’arte militare romana, e soprattutto al modello della “popolazione armata” contro l’uso moderno dei mercenari, oltre al predominio della fanteria contro quello della cavalleria e dell’artiglieria. Sul versante schiettamente letterario Machiavelli attese in questi anni all’amaro poemetto in terzine L’asino d’oro (incompiuto) e al volgarizzamento dell’Andria di Terenzio; scrisse inoltre la splendida Favola misogina di Belfagor arcidiavolo, ma anche una raffinata serenata in ottave. [123321] Dopo la morte di Lorenzo (4 maggio 1519) la diffidenza della famiglia dominante nei confronti di Machiavelli parve finalmente attenuarsi. Grazie ai buoni uffici di Lorenzo Strozzi fu ricevuto da Giulio de’ Medici (marzo del 1520); all’incirca nello stesso periodo, fu rappresentata in Firenze la Mandragola, che subito dopo papa Leone volle vedere anche a Roma (come ricorda P. Giovio). Quella che è parsa a molti la migliore commedia del nostro Rinascimento mette in scena la beffa giocata dal parassita Ligurio ai danni dello stolto messer Nicia, che finisce per mettere, con le proprie mani, nel letto della moglie Lucrezia il giovane Callimaco di lei innamorato; attraverso una trama serratissima, di estrazione decameroniana, la Mandragola si caratterizza per la rappresentazione grottesca di un mondo affatto spoglio di valori, in cui la spicciola razionalità dei beffatori mette in amara caricatura le “regole” della grande politica. Nell’estate del 1520 Machiavelli svolse una missione semiufficiale a Lucca, componendo in quell’occasione un Sommario delle cose di Lucca e un esercizio di prosa storica, la Vita di Castruccio Castracani, dedicata a Z. Buondelmonti e L. Alamanni. L’8 novembre, infine, fu “condotto” dallo Studio per comporre gli annali fiorentini e sbrigare altre incombenze politico-letterarie (fra cui sarà da considerare anche il parere sulla riforma costituzionale, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, 1520-21). Va registrata anche la missione del maggio 1521 al capitolo dei Frati minori in Carpi per conto degli Otto di Pratica, soprattutto perché in quella occasione si approfondì l’amicizia fra Machiavelli e Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, e tra i due cominciò a intrecciarsi uno scambio epistolare straordinario per finezza psicologica e vivacità letteraria (altrettanto importanti in questo senso sono alcune lettere di Machiavelli a Francesco Vettori risalenti agli anni 1513-14). Nell’agosto seguente, Machiavelli poté stampare L’arte della guerra, presso Giunti di Firenze, con dedica a Lorenzo Strozzi. Mentre continuava a lavorare agli annali fiorentini, intervenne ancora nel dibattito sulla nuova costituzione (Minuta di provvisione dell’aprile 1522); poco dopo, tale dibattito si concluse bruscamente con la scoperta e la repressione di una congiura antimedicea ordita da Z. Buondelmonti e L. Alamanni: lo stesso Machiavelli ne ebbe qualche “imputazione”, se non un vero e proprio sospetto di complicità. Di nuovo tornò a concentrarsi sull’opera letteraria e nel giugno del 1525 presentò al dedicatario Giulio de’ Medici, che dal novembre del 1523 era salito al soglio pontificio col nome di Clemente VII, gli otto libri delle Istorie fiorentine: queste vanno dalla fondazione della città al 1492, ma hanno per vero soggetto il conflitto civile in Firenze, dallo scontro fra guelfi e ghibellini alla vittoria dei Medici; Machiavelli ripensa la storia della sua città, straziata dalla partigianeria, a contrasto con quella di Roma antica. Nel gennaio del 1525 Machiavelli aveva fatto rappresentare a Firenze la commedia amorosa Clizia, basata sulla Casina di Plauto. All’autunno del 1524 potrebbe invece risalire un curioso Dialogo sul “fiorentinismo” di Dante, con cui Machiavelli volle intervenire nelle polemiche linguistiche del tempo (l’autenticità del testo è stata a lungo discussa). La situazione politica andava intanto facendosi più cupa, dopo la sconfitta dei Francesi a Pavia (24 febbraio 1525) da parte di Spagnoli e Imperiali. Machiavelli fu inviato in Romagna, presso F. Guicciardini, per organizzarvi la milizia (giugno); nell’aprile del 1526 fu nominato cancelliere dei procuratori alle mura. Nel maggio, a Cognac, si strinse una lega tra il papa, i Fiorentini, i Francesi e i Veneziani contro l’imperatore Carlo: presto la guerra si accese in Italia settentrionale e Machiavelli seguì con varie incombenze le vicende belliche. Sembra si trovasse a Civitavecchia quando, nel rovescio generale della lega (il 6 maggio 1527 Roma venne messa a sacco), i Medici furono scacciati da Firenze e fu restaurata la repubblica (17 maggio). I nuovi governanti, di estrazione savonaroliana, non erano favorevoli a Machiavelli, che non fu richiamato in ufficio. Egli era, in effetti, già minato nel fisico e si spense (“burlando”, secondo la leggenda) il 21 giugno tra i pochi amici rimasti: Buondelmonti, Alamanni, Strozzi. Fu sepolto in Santa Croce l’indomani. [123331] Assai poco si conosce della giovinezza di Machiavelli e della sua formazione culturale. Fin dai primi scritti risulta percepibile un modo caratteristico di impostare l’analisi politica, sulla base di una considerazione realistica dei rapporti fra gli individui e fra gli stati per un verso e, per l’altro, di un confronto razionale fra i casi moderni e l’esempio degli antichi Romani. Alcuni capitoli dei Discorsi (I, 5-6) sono imperniati proprio sul confronto fra Venezia e l’antica Roma. La debolezza militare della prima è il prezzo della costituzione aristocratica con cui Venezia ha voluto escludere da sé i conflitti interni. L’antica Roma si dette invece una costituzione in cui alla plebe era concesso un potere rilevante: il che si tradusse, per un verso, in una sempre più pesante conflittualità interna, ma, per l’altro, in una straordinaria potenza militare. La disunione e la debolezza dell’Italia del suo tempo erano causate dalla presenza in essa di una entità come la Chiesa di Roma che non aveva potuto unificarla sotto di sé, dati i suoi limiti insuperabili di “principato ecclesiastico”, ma aveva ben saputo render vani, appellandosi ad alleati stranieri, tutti i tentativi che altri, dai Longobardi ai Veneziani, avessero operato in quella direzione (Discorsi I, 12). La situazione italiana richiedeva una guida politica ferrea e consapevole. Nella recente storia era passato, fugace come una meteora, quel Cesare Borgia che aveva offerto, a dire di Machiavelli, un limpido esempio delle virtù necessarie al “principe nuovo”: aveva egli soprattutto dato la prova, nella sua Romagna, che era possibile domare l’anarchia feudale coll’opportuna ferocia e spietata determinazione, e conquistare in tal modo l’amore dei popoli finalmente uniti e pacificati (Principe VII). Al principe nuovo Machiavelli non prospettava (come tanti, prima di lui, avevano fatto) i principi di un’etica pubblica riferita a “come si dovrebbe vivere”, ma le crude leggi dell’operare politico dettate dalla “verità effettuale della cosa” (Principe XV). La verità effettuale della storia è il conflitto: fra gli stati, fra i gruppi sociali, fra gli individui, si combatte una lotta senza soste e senza regole (a meno che un potere superiore non costituisca, appunto, delle regole e obblighi gli altri a rispettarle). Nella dimensione della politica l’unica antitesi dotata di senso è quella che oppone alla mera violenza della dissoluzione il comando razionale della forza: tale valore positivo va dunque perseguito con totale inflessibilità, anche quando ciò obblighi a “entrare” in azioni cui la coscienza morale dà il nome di “male” (Principe XVIII). Il principe nuovo e, in generale, l’uomo di stato si muovono per un campo avvolto da una profonda zona d’ombra, da un margine di rischio, in cui si annidano le forze e le decisioni degli avversari attuali e potenziali, un campo che solo in parte può essere sondato e distinto dalla ragione: resta un momento incalcolabile, rispetto al quale l’uomo politico non può far altro che tendere al massimo la sua capacità di resistenza. Questo momento non distintamente calcolabile e prevedibile Machiavelli chiama “Fortuna”. La Fortuna può schiantare ogni cosa: ma la Virtù del politico deve allestire tutti “i ripari e gli argini” che sia in grado di alzare perché l’urto delle forze avverse ne venga, se non stornato, almeno attenuato (Principe XXV). La teoria politica di Machiavelli non si presenta in forma di “sistema”, ma come vivo svolgimento di pensieri che dà, ai temi fin qui esposti, sviluppi complessi e variamente tormentati nelle diverse opere e anche in più luoghi della medesima opera. Si pensi ai vari “volti” che presenta la Fortuna in diversi capitoli dei Discorsi (II, 1; II, 29; II, 30; III, 9; ecc.); oppure a come trascolori di libro in libro, nella medesima opera, il grande tema della “imitazione”. Fin dal proemio al libro I, Machiavelli espone il doppio motivo del permanere e del mutamento; il mondo e gli uomini non hanno mutato “moto, ordine e potenza” rispetto a come “erano anticamente” e tuttavia della antica virtù “non è rimasto alcun segno”. Nel corso del primo libro, il motivo del permanere, su cui è costruita l’idea che Roma antica rappresenti un modello effettivo di perfezione politica, riesce nel complesso a mantenersi dominante. Nel libro successivo, invece, il suo dominio appare assai difficile e incerto. Nel secondo proemio, l’atto dell’imitare non è più proposto come termine di un valore autosufficiente ma è condizionato dall’aprirsi, o non aprirsi, di una conveniente “occasione”, e anzi si dice, a chiare lettere, che nel presente tale occasione non è data “per la malignità de’ tempi e della fortuna”. Nel terzo proemio, infine, la nota dell’imitazione tace: la regola, lì esposta, del “ridurre ai principi”, del riportare le costruzioni storiche, come gli stati, alle fonti etico-politiche della loro identità, in tanto può essere prospettata a colui che si trovi ad agire entro un dato “corpo” statuale, in quanto essa stessa tuttavia consegni ciascun “corpo” all’identità specifica e intrascendibile che nel suo “principio” è custodita. L’idea di “imitazione” tramonta così in una più drammatica, non bene esplicita e chiarita nozione del nesso che lega sapere storico e prassi politica. Le maggiori opere machiavelliane furono date alle stampe, a Roma e Firenze, nel 1531-32, soprattutto come eccellenti prove della civiltà letteraria fiorentina. Sul piano della cultura politica, invece, la lezione di Machiavelli subì, in Italia, una dura sconfitta, perfezionata con la messa all’Indice del 1559. I capitoli più significativi della fortuna di Machiavelli sono perciò legati alla storia dei grandi stati europei: dalla formazione dello stato nazionale francese (J. Bodin), alla rivoluzione inglese (J. Harrington), alla rinascita tedesca dell’Ottocento (J. G. Fichte, G. W. F. Hegel). L’Italia del Risorgimento riscopre Machiavelli con U. Foscolo e, soprattutto, con le pagine di F. De Sanctis, che attribuiscono al “Segretario fiorentino” un ruolo di protagonista nella storia dello spirito nazionale. [12341] Il pittore Sandro di Mariano Filipepi detto il Botticèlli nacque a Firenze (1444 o 1445) e vi morì nel 1510. Scolaro di Filippo Lippi, non fu insensibile al gusto della modellazione caro al Pollaiolo, come si può notare dalla sua prima opera datata: la Fortezza (1470) agli Uffizi, o nel San Sebastiano (1473; Kaiser Friedrich Mus., Berlino). Nel Ritorno di Giuditta e nel Ritrovamento del cadavere di Oloferne (Uffizi) v’è inoltre un linearismo che diviene sempre più ritmico. E il ritmo lineare si sostituirà gradatamente, come valore assoluto e originale, all’energia del Pollaiolo. Del 1477 circa è l’Adorazione dei Magi (Uffizi), ove lo stile botticelliano appare pienamente formato; e del 1480 il S. Agostino in Ognissanti, figura ricca di spiritualità. I Medici ricorsero al Botticelli per numerose opere: come la Primavera (1478 circa) e la Nascita di Venere (1485 circa) agli Uffizi, assai vicine alla poesia del Poliziano; in esse la nervosa determinazione dei contorni intensifica il senso del moto: il tutto espresso con gusto raffinato, tipico dell’ambiente artistico fiorentino del secolo 15°. Nel 1481 (o 1482) eseguì nella cappella Sistina in Vaticano gli affreschi con il Sacrificio del lebbroso, Episodi della vita di Mosè e il Castigo del fuoco celeste. Ivi il Botticelli collega più rapidamente gli episodi, dà slancio alle forme, ora con ritmo melodico d’incomparabile grazia, ora con drammatico ritmo di vorticose curve. Al periodo 1480-90 appartengono altre importanti opere del Botticelli: la Madonna del Magnificat (Uffizi), la Pallade vincitrice del Centauro (Uffizi), la Pala di s. Barnaba (Uffizi), Venere e Marte nella Galleria nazionale di Londra. Circa il 1490 un crescente tremolio di contorni e un colore più aspro distinguono l’arte del Botticelli (Comunione di s. Girolamo, già presso i marchesi Farinola; l’Annunciazione, agli Uffizi). Si approssima l’ultimo periodo dell’arte botticelliana, dove il ritmo si fa più nervoso e spezzato e il movimento si esaspera come nella Calunnía agli Uffizi, nella Derelitta di casa Pallavicini a Roma, nei disegni con cui il Botticelli, per incarico dei Medici, illustrò la Divina Commedia. Una religiosità drammatica, che al Botticelli veniva dalla predicazione del Savonarola, investe le sue ultime opere: il Presepe (1500) della Galleria nazionale di Londra e la Crocifissione Aynard (dopo il 1500), oggi nel museo Fogg di Cambridge (Massachusetts). [12351] L’architetto e scultore Filippo Brunelleschi nacque a Firenze nel 1377 e morì nella sua città nel 1446. Riconosciuto, già dai suoi contemporanei (dall’Alberti che gli dedicò il suo trattato Della Pittura, all’autore della nota biografia, dai più identificato con Antonio Manetti), tra i fondatori del Rinascimento per le sue opere architettoniche e il suo studio della prospettiva e delle proporzioni, il Brunelleschi si formò, e fu attivo all’inizio, come orafo e scultore, iscritto all’arte della seta dal 1398 e maestro dal 1404. Di questa sua attività rimangono alcune figurette di profeti e santi dell’altare di San Jacopo nella cattedrale di Pistoia, la formella con il Sacrificio d’Isacco del concorso (1401) per la seconda porta del Battistero fiorentino, dove, con chiaro riallacciarsi a Giovanni Pisano, mostra una rinnovata e forte tendenza drammatica e dinamica; e ancora il Crocifisso ligneo in S. Maria Novella e, forse, i tondi con gli Evangelisti nella Cappella de’ Pazzi. Dopo il concorso per la porta del Battistero, vinto dal Ghiberti, gli interessi del Brunelleschi sembrano concentrarsi da un lato sullo studio dell’antico, in un’indagine documentata e filologica delle forme e dei procedimenti architettonici, compiuta anche con viaggi a Roma, dall’altro sull’analisi della visione e rappresentazione dello spazio che ebbe come esiti dimostrativi due famose tavolette prospettiche con le vedute del Battistero e del palazzo dei Signori, perdute ma puntualmente descritte dal suo biografo. È su questi due motivi, e con una cosciente partecipazione al fervore civile e culturale che caratterizza la Firenze del primo Quattrocento, che si fonda la scelta architettonica del Brunelleschi. Dal 1417 fu impegnato nella più grande impresa fiorentina del tempo, l’ardimentosa erezione della cupola di S. Maria del Fiore: impostata sul tamburo ottagono, è costituita da due calotte costruite in successivi corsi autosufficienti (la disposizione dei mattoni a spina di pesce permetteva alla struttura di sostenersi senza bisogno di armature), rafforzata da 24 costoloni in pietra, 8 visibili all’esterno all’intersezione delle vele archiacute, e si conclude nella lanterna (progettata nel 1436), ideale punto di fuga cui concorrono tutti gli elementi verticali e orizzontali dell’edificio; e ancora progettò le quattro edicole semicircolari (la prima compiuta nel 1445) negli intervalli dei corpi aggettanti dell’ottagono. Emblematica soluzione di problemi tecnici, visivi, formali, la cupola è conferma del carattere intellettuale del lavoro costruttivo, atteggiamento mentale che è alla base di tutti gli altri progetti brunelleschiani: l’Ospedale degli Innocenti (iniziato nel 1419, organizzato planimetricamente intorno a due chiostri con il loggiato esteso su tutto il fronte della facciata), gli edifici ecclesiastici nei quali sviluppa due temi fondamentali che si fanno via via più complessi, quello basilicale in S. Lorenzo (dal 1420 circa) e in S. Spirito (prog. 1436 circa, iniziato nel 1444), e quello della pianta centrale, dalla Sacrestia Vecchia di S. Lorenzo (1419-28; aula cubica cui è raccordata una cupola a creste e vele per mezzo di pennacchi emisferici, con un lato aperto su un altro analogo spazio più piccolo che ospita l’altare) alla Cappella de’ Pazzi in S. Croce (1430 circa, lo spazio cubico centrale è affiancato da due mezzi cubi voltati a botte; è dubbia l’appartenenza del portico della facciata al progetto originale), all’incompiuta Rotonda degli Angeli (1434, i lati dell’ottagono centrale dovevano aprirsi in cappelle con la parete di fondo piana affiancata da due curve, originando un poligono esterno di 16 lati), e infine, nell’ambito dell’edilizia civile, il suo intervento nel palazzo di Parte Guelfa e il nucleo originale di palazzo Pitti. Genio poliedrico, inventore di macchine e ingegni, architetto militare, il Brunelleschi rivela nelle sue opere ricerche costanti di modularità, di rapporti matematici tra pianta e sezione, chiarezza delle proporzioni, spesso esaltate dalle scure membrature in pietra serena. [12361] L’architetto, scultore, pittore e poeta Michelangelo Buonarroti (Caprese 6 marzo 1475 - Roma 18 febbraio 1564) è una delle maggiori figure del Rinascimento e della storia dell’arte europea. Durante la sua lunga vita Michelangelo fu testimone di importanti eventi storici e religiosi; suoi mecenati e committenti, con i quali ebbe spesso rapporti di particolare e controversa intimità, furono i protagonisti della storia fiorentina – dalla signoria di Lorenzo il Magnifico all’esperienza repubblicana degli anni 1494-1512, alla ricostituzione della signoria medicea nel 1512, interrotta dal breve ed eroico periodo repubblicano del 1527 – e romana, dal pontificato di Giulio II Della Rovere (1503-13) a quello dei Medici Leone X (1513-21) e Clemente VII (1523-34), di Paolo III Farnese (1534-49), Giulio III Del Monte (1550-55), Paolo IV Carafa (1555-59), Pio IV Medici di Marignano (1559-65). Se dell’ambiente fiorentino e romano respirò la complessa atmosfera religiosa, letteraria, filosofica – dal neoplatonismo della corte medicea al profetismo savonaroliano, ai movimenti preriformatori e riformatori – la Bibbia, Dante e i suoi commentatori (soprattutto C. Landino) e Petrarca rimangono le fonti più dirette della sua cultura che traspaiono dall’opera letteraria e, certamente più sfumate e intrecciate con simboli più specificamente figurativi, nell’elaborazione della sua opera artistica. L’arte di Michelangelo s’impose presto, fin dalle opere giovanili, e un’aurea di mito circondò l’artista “divino”. Nel 1550 G. Vasari pose la Vita di Michelangelo al vertice della prima strutturazione sistematica dell’arte; nel 1553 A. Condivi pubblicò una Vita più particolareggiata a rettifica degli errori e imprecisioni di quanti prima di lui scrissero, forte della sua familiarità con l’artista, opera largamente sfruttata dal Vasari nella sua seconda edizione delle Vite (1568). Ma altre fonti contemporanee importanti sono i testi di B. Varchi, che tenne anche l’orazione funebre per Michelangelo, i dialoghi romani con Michelangelo che Francisco de Hollanda inserì nel suo Tractato de pintura antigua (1548); significativo è poi che Michelangelo sia uno degli interlocutori nei dialoghi danteschi di D. Giannotti. La sua formazione artistica avvenne presso D. Ghirlandaio (1488) in una delle più prestigiose botteghe fiorentine, dove certamente il primo esercizio fu il disegno. Alla scultura si accostò frequentando il giardino mediceo di S. Marco dove era raccolta la più scelta collezione di sculture antiche e Bertoldo di Giovanni, vecchio allievo e collaboratore di Donatello, addestrava i più promettenti giovani fiorentini. Accolto familiarmente nella casa di Lorenzo de’ Medici, ebbe modo di ascoltare le dotte conversazioni di M. Ficino, Pico della Mirandola, A. Poliziano. Frequentò allo stesso tempo il priore di S. Spirito, avendo la possibilità di esercitarsi nel disegno anatomico sui cadaveri dell’ospedale. [123611] Al primo periodo giovanile vengono attribuiti due rilievi, conservati in Casa Buonarroti: la Madonna della Scala (1489-94) che trae da Donatello la tecnica del rilievo a stiacciato e l’impressionistica fattura dei putti sullo sfondo prospettico mostrando il profondo segno di Michelangelo nelle forme anatomiche eroizzate e nell’assorto distacco della Madonna, nel cui profilo molti critici hanno voluto vedere un’ispirazione dalle stele attiche; la Lotta tra i Centauri e i Lapiti, iniziata nel 1491 e particolarmente cara a Michelangelo che la volle tenere nel suo studio per tutta la vita. La composizione è incentrata sulla figura mediana dalla quale sembra scaturire forza e dinamismo, accentuati dal diverso trattamento della superficie, dal quasi tutto tondo al basso rilievo, dal marmo al puro abbozzo; il soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (il ratto di Ippodamia da parte del centauro Eurizione) attesta la sottile ricerca iconologica del giovane scultore impegnato in un confronto con la plastica antica, suggerito anche da una certa predilezione, diffusa alla fine del Quattrocento, per le scene di battaglia di carattere anticheggiante. A questa prima attività vengono ancora riferiti alcuni disegni a penna, libere copie tratte nelle chiese di Firenze dalle opere di Giotto e di Masaccio (Parigi, Louvre; Albertina di Vienna), che esprimono una nuova e grandiosa concezione plastica integrata da osservazioni dirette dal vero, e un Crocifisso ligneo (Firenze, Casa Buonarroti), a lui attribuito e restaurato nel 1963, già nella chiesa di S. Spirito a Firenze. Nel 1494, presentendo la imminente caduta di Piero de’ Medici Michelangelo lasciò Firenze per soggiornare brevemente a Venezia e poi a Bologna (1494-95) dove, ospite di Gianfrancesco Aldrovandi, scolpì, per l’arca di S. Domenico (interrotta nel 1494 alla morte di Niccolò dell’Arca), un Angelo reggicandelabro, S. Procolo e S. Petronio. Seppur di piccole dimensioni queste opere rivelano maggiore sicurezza e un vigore plastico; certamente i rilievi di Jacopo della Quercia nel portale di S. Petronio lasciarono su Michelangelo un’impronta profonda. Ritornato a Firenze, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici gli commissionò un San Giovannino (variamente identificato con una statuetta in S. Giovanni dei Fiorentini a Roma o con un’altra conservata nella Pierpont Morgan Library di New York) e, secondo le fonti, gli consigliò d’invecchiare artificialmente un Cupido Dormiente (perduto). Quest’ultimo, venduto per antico a Roma, fu poi scoperto falso dall’acquirente, il cardinale Raffaele Riario, che tuttavia volle conoscere e poi ospitare Michelangelo nel suo palazzo dandogli la possibilità di vivere a Roma e di compiervi determinanti esperienze di studio dell’antico. [123621] Del suo primo soggiorno romano (1496-1501) restano due opere: il Bacco, eseguito su commissione del cardinale Riario e poi acquistato da un altro appassionato collezionista di antichità, Jacopo Galli (ora, Firenze, Museo nazionale) e la Pietà commissionata (1498) dal cardinale francese Jean de Bilhères, destinata alla rotonda di S. Petronilla (cappella dei re di Francia), presso l’antica basilica di S. Pietro (passata nella antica sagrestia fu poi collocata nella prima cappella della navata destra della nuova basilica di S. Pietro). Emblematiche per le soluzioni formali strettamente connesse alla personale interpretazione dei soggetti, profano e sacro, travalicando i punti di riferimento della statuaria classica l’uno, e del nordico Vesperbild (tema certamente familiare al committente) l’altra, le due opere rivelano anche quanta importanza nella formazione di Michelangelo abbiano avuto le esperienze della scultura del Quattrocento, oltre a Donatello, Verrocchio e specialmente Benedetto da Majano. A dare fama a Michelangelo fu soprattutto la Pietà, posta in un luogo pubblico, l’unica opera sulla quale l’artista pose la sua firma: al di là della veridicità dell’aneddoto vasariano che racconta come Michelangelo firmò la Pietà per affermarne la paternità misconosciuta da alcuni visitatori, l’episodio richiama la preoccupazione costante di Michelangelo di salvaguardare le sue “invenzioni”, come emerge spesso nel suo epistolario, preoccupazione che lo portò anche alla drastica soluzione di bruciare molti suoi disegni. Al primo soggiorno romano appartengono due significativi, seppure incompiuti, dipinti su tavola, conservati nella National Gallery di Londra: la Madonna di Manchester (cosiddetta perché rivelata al pubblico e alla critica in una mostra tenuta a Manchester nel 1857) e la Deposizione. A lungo dibattuta la loro autografia e datate da parte della critica intorno al 1510, queste opere, seppur non sostenute da prove documentarie esplicite (ma la Deposizione per molti versi corrisponde all’opera commissionata a Michelangelo dai frati della chiesa di S. Agostino nel 1500), ben s’inseriscono nel periodo giovanile di Michelangelo, rivelando, più di quanto l’artista stesso volesse ammettere, la sua formazione nella bottega del Ghirlandaio e allo stesso tempo la sua originalità nelle soluzioni formali e iconografiche. [123631] Tornato a Firenze (1501) Michelangelo ebbe numerose ed importanti commissioni e la sua profonda adesione agli ideali civili ed etici della repubblica fiorentina si concretizzò nel David (1501-04, ora nell’Accademia di Firenze) che fu collocato dinanzi al palazzo della Signoria e nella prima commissione pittorica importante, l’affresco con la Battaglia di Cascina nella Sala del Consiglio di Palazzo Vecchio. Il David, ricavato da un grande blocco di marmo, già sbozzato e ritenuto non più utilizzabile, fu occasione di sfida per il superamento di una difficoltà materiale sfruttata dall’artista che concentrò nell’immagine con il massimo di intensità l’energia, la volontà che precede l’azione. L’idealizzazione eroica e la sua larga maniera riemergono, in uno stile più sintetico, nei rilievi con la Madonna col bambino e s. Giovannino del tondo Taddei (Londra, Royal Academy) e dell’altro non finito (Firenze, Museo nazionale) per Bartolomeo Pitti. Nel 1504 Michelangelo aveva avuto l’incarico da Pier Soderini di dipingere nella sala del Consiglio in Palazzo Vecchio una battaglia a riscontro di quella di Anghiari commissionata a Leonardo. Nell’affrontare il tema della Guerra di Pisa (Battaglia di Cascina) Michelangelo preferì rappresentare, al contrario di Leonardo che aveva fissato l’immagine della battaglia in atto, la tensione del momento che precede lo scontro, l’energia trattenuta negli atti e nei corpi nudi dei soldati, esplorata nella difficoltà di una forma concettuosa e studiatissima. Del cartone, che completò nel 1506 e presto fu disperso in brani dagli allievi che lo copiavano, rimangono solo copie parziali (grisaille di Holkham Hall, Norwich) e disegni preparatori (Firenze, Casa Buonarroti; Haarlem, Teylers Museum; Oxford, Ashmolean Museum). Nel 1503 l’Opera del duomo gli commissionava dodici statue degli Apostoli ma Michelangelo non cominciò che il grande abbozzo del S. Matteo, (Firenze, Accademia). Remoti ricordi di sculture antiche come il Pasquino e reminiscenze di Donatello, sono sopraffatti da un profondo tragico spirito che nel complesso ritmo delle membra, pur entro il marmo incompiuto, ha una espressione plastica compiuta. Dello stesso periodo è la Madonna col bambino, ordinata da mercanti fiamminghi (fu collocata nella chiesa di Notre-Dame a Bruges nel 1506), opera profondamente nuova, con il motivo del Bambino in piedi tra le gambe della madre, che dimostra la riflessione di Michelangelo sull’arte di Leonardo, in particolare sul cartone della S. Anna (un disegno di Michelangelo tratto dalla S. Anna è conservato ad Oxford, Ashmolean Museum). Dipinta per Agnolo Doni, la Sacra Famiglia (Firenze, Uffizi) è l’unica opera su tavola di Michelangelo compiuta: vi dominano, più che il possente senso della massa, l’energia e il moto che sviluppano i corpi all’interno della chiusa composizione; il colore è sottile e teso come superficie metallica, non assorbe ma riflette la luce con cangianti e freddi riverberi entro una atmosfera chiara quasi senza ombre. La sua iconografia è stata oggetto di varie interpretazioni (la Vergine e s. Giuseppe appartengono per nascita al mondo del Vecchio Testamento, sub lege, il Bambino rappresenta il mondo futuro del Nuovo Testamento, sub gratia, il s. Giovannino il tramite tra questi due mondi, e i nudi sullo sfondo rappresentano il mondo pagano) e la sua datazione, collegata tradizionalmente alle nozze del committente (1504), è oggi ritenuta più vicina al 1507-08 per l’assonanza con gli affreschi della volta della cappella Sistina, soprattutto evidenziata dopo il restauro di questi (1993). [123641] Nel 1505 Giulio II chiamò a Roma l’artista famoso e lo incaricò del proprio mausoleo: interrotto l’affresco della Battaglia di Cascina, annullato il contratto con l’Opera del duomo per le statue degli apostoli, Michelangelo si recò alle cave di Carrara per scegliere i marmi (1506) e per molti decenni quella che egli stesso definiva “la tragedia della sepoltura” fu al centro, se non della sua attività, dei suoi pensieri. Il progetto iniziale in forma di edicola isolata, da collocare nell’abside dell’erigenda nuova basilica vaticana, ci è noto sia da alcuni disegni sia dalle descrizioni del Vasari e del Condivi: superato il concetto di ogni monumento antico, Michelangelo aveva disegnato una edicola, ornata intorno da grandi termini che ne reggevano la cornice, frammezzati da nicchie con statue, forse di Virtù; a ogni termine era legato un Prigione, in allegoria delle arti liberali, private del pontefice loro patrono; al di sopra, le statue di Mosè, di s. Paolo, della Vita attiva e della Vita contemplativa e, ancora in alto il Cielo e la Terra (per il Condivi, due angeli) dovevano sostenere l’arca funebre con la figura del pontefice. Tornato a Roma Michelangelo trovò tuttavia Giulio II rivolto al grande disegno di demolire l’antico S. Pietro per ricostruirlo secondo il progetto di Bramante; deluso, nel 1506, ripartì improvvisamente per Firenze, invano inseguito dai messi e dalle minacce del papa. Nel novembre del 1506 Michelangelo si recò a Bologna da Giulio II che aveva preso con le armi la città; ne ebbe il perdono e la commissione di ritrarlo in una statua di bronzo da porre sulla facciata di S. Petronio (distrutta nel 1511). La tomba di Giulio II rimaneva tuttavia un impegno morale ed artistico centrale nella vita di Michelangelo, un pensiero che egli avrebbe inseguito per quarant’anni. Richiamato a Roma, invano cercò di sottrarsi alla volontà del papa ch’egli affrescasse la volta della cappella Sistina; nel maggio del 1508 intraprese il grande lavoro che completò nell’ottobre del 1512. Il progetto iniziale (disegni a Londra, British Museum; a Detroit, Institut of Fine Arts; a New York, Metropolitan Museum; a Oxford, Ashmolean Museum), che prevedeva solo il rifacimento della volta, fu ampliato fino a comprendere anche le lunette e i quattro grandi pennacchi d’angolo. In questa opera immensa Michelangelo pensò di evocare l’origine del creato, dell’umanità e del suo destino: la Creazione; il Peccato, il Diluvio; i presagi della Redenzione, nei Profeti e nelle Sibille; la lunga attesa del Cristo della stirpe di David, nelle figure dei suoi ascendenti. Erano figure e concetti familiari da secoli all’arte e alla coscienza religiosa, e perciò a tutti intellegibili; la novità, ammirevole nell’organica composizione, e la grandezza che sgomenta, sono nello spirito e nella forma ch’esse ebbero dall’artista. Nella lieve curva della volta su lunette, Michelangelo immaginò un’altra architettura illusoria. Finti archi marmorei isolano le storie della Genesi. Al di sopra dei sette Profeti e delle cinque Sibille assisi in troni, gli Ignudi hanno la necessaria funzione di diminuire il rigido spiccare degli archi della finzione prospettica, più che di reggere con ghirlande e fasce i clipei di bronzo istoriati a chiaroscuro: servono a collegare il movimento dell’intera membratura. Concludono la composizione i quattro scomparti triangolari a capo della volta – Aman crocifisso; il Serpente di bronzo; David e Golia; Giuditta e Oloferne – e le figure della stirpe di Abramo e di David nei triangoli e nelle lunette sulle finestre della cappella, mentre altre figure in chiaroscuro bronzeo, stipate nelle riquadrature accrescono la compattezza del tutto. Al di sopra delle rappresentazioni composte dai pittori del Quattrocento entro gli spartimenti delle pareti, erompe la visione di Michelangelo, esaltazione di forze titaniche e di forme sovrumane. Il colore (restituito all’originale splendore da recenti restauri) chiaro, leggero, con cangianti anche striduli nelle ombre, è spogliato di ogni qualità particolare e serve solo ad accentuare la solidità dei corpi. Nelle rappresentazioni della volta tra i finti archi, e nei quattro scomparti triangolari ai due capi, l’arte di Michelangelo trasfigurò ogni tradizione iconografica. Il Dio antropomorfo, vivente nella coscienza cristiana, consueto all’arte, da Michelangelo ha figura che magnifica le forze dello spirito e della materia; immenso occupa lo spazio, in ogni aspetto è sovrumano, nel volume corporeo e nella tensione della volontà e del pensiero. Nelle Sibille e nei Profeti Michelangelo manifestò le forze dell’intelletto e del sentimento, la riflessione, il pensiero, l’ispirazione che isola dal mondo e quella che erompe nella visione. La morte di Giulio II obbligò a pensare al sepolcro che il papa aveva raccomandato di compiere. Ne fu rifatto il contratto con Michelangelo per un nuovo progetto (1513) in forma ridotta. Di questo momento è il Mosè, una delle sei statue sedute da collocare nel piano del mausoleo e che pertanto era destinata ad una visione dal basso. Nel tempo stesso lo scultore preparava altri marmi per la tomba di Giulio II, poi non collocati nella tomba di S. Pietro in Vincoli; i due Prigioni (Parigi, Louvre) che sono tra le più alte creazioni in cui Michelangelo mostra di essere giunto a quella profonda concezione della vita e del dolore da cui trarrà i capolavori futuri. Ma ebbe ancora una delle ultime serene visioni nel Cristo con la croce (Roma, S. Maria sopra Minerva), ideato nel 1514 ma finito dopo il 1521 da aiuti. A questo periodo (1520-22) appartengono i quattro colossi marmorei, probabilmente destinati alla tomba di Giulio II, che rimasero sbozzati soltanto in parte nello studio dell’artista fino alla sua morte (Firenze, Accademia). Nel 1514 eseguì per Leone X la cappella in Castel S. Angelo, alterando il disegno di Antonio da Sangallo per la nuova autonomia data al tema della grande finestra, ma il papa lo impegnò soprattutto per imprese fiorentine: tra il 1516 e il 1520, Michelangelo diede disegni per la facciata di S. Lorenzo che, discostandosi sempre più dal primitivo progetto di Giuliano da Sangallo, mostrano il maturarsi in Michelangelo architetto, di una consapevolezza vivamente plastica nella chiara enunciazione delle membrature. Scisso improvvisamente dal papa il contratto per la facciata di S. Lorenzo, Michelangelo si impegnava (1520) con il cardinale Giulio de’ Medici (poi papa Clemente VII) a costruire la Sagrestia Nuova di S. Lorenzo e a comporvi i sepolcri di Giuliano e di Lorenzo il Magnifico, di Lorenzo duca d’Urbino, di Giuliano di Nemours e dello stesso cardinale. Michelangelo rimodellò tutto l’interno della cappella e lo coprì con cupola emisferica, che già nel 1525 era compiuta anche nella complessa lanterna: architettura in cui la tradizione fiorentina derivata dal Brunelleschi è rievocata dalle riquadrature di macigno, ma per rendere più forti le qualità nuove di movimento e di energia espresse nelle parti marmoree. Inizialmente Michelangelo intendeva collocare le tombe al centro della cappella; ridotte le tombe a due sole – di Giuliano di Nemours e di Lorenzo duca di Urbino – e fissato il progetto definitivo della decorazione e delle sculture, Michelangelo nel 1521 dava a Carrara le misure dei marmi per alcune statue, tra cui la Madonna, poi collocata sul loculo di fronte all’altare. I lavori dei due mausolei già in corso nel 1524, furono condotti con molta lentezza. In quello stesso anno Clemente VII aveva impegnato Michelangelo anche nella costruzione della Biblioteca Laurenziana e già nel 1526 erano state poste in opera alcune colonne del “ricetto”. [123651] Michelangelo si era già trasferito a Firenze quando avvenne il sacco di Roma (1527). A Firenze, dopo la cacciata dei Medici, l’artista si pose al servizio della repubblica (nel gennaio del 1529 Michelangelo fu eletto tra i “nove della milizia”). Fra il 1528 e il 1529 Michelangelo diede i progetti per la fortificazione di Firenze, che costituiscono un momento significativo nella ricerca di problemi spaziali svincolata dalla tematica tradizionale. Nel 1528 a Ferrara, dove era andato a studiarvi le fortificazioni, per Alfonso d’Este Michelangelo eseguiva un cartone per la Leda (perduto, ma noto da varie copie). Ritornò quindi a Firenze ma, sospettando un imminente tradimento da parte di Malatesta Baglioni, e avendone invano avvertiti i magistrati, riparò d’improvviso a Ferrara, poi a Venezia (ottobre 1529), dove progettò di passare in Francia. Pur essendo stato bandito da Firenze, presto vi ritornò con un salvacondotto per riprendere le fortificazioni di S. Miniato. Tornati i Medici, perdonato da Clemente VII, portò avanti le tombe medicee e attese ai lavori che più premevano al papa: la Biblioteca e Sagrestia nuova in S. Lorenzo. Nel 1533 Michelangelo chiamava G. A. Montorsoli a finire la statua del duca Giuliano; altre statue tra cui quelle dei Fiumi (resta un modello di creta all’Accademia di Firenze), che dovevano completare i mausolei e la decorazione a stucco e ad affresco non furono mai eseguite; e sono in parte non finite le stesse statue giacenti sui sarcofagi, alle quali Michelangelo aveva lavorato di sua mano: la Notte, il Giorno, il Vespro, l’Aurora “a significare il tempo che tutto consuma”. Nelle statue dei due Capitani al vertice delle tombe, Michelangelo esaltò l’energia interiore, pronta all’azione ma ponderata in Giuliano di Nemours, oppure chiusa in profonda riflessione nel pensieroso Lorenzo. Tra il 1532 e il 1534 si collocano l’Apollo (Firenze, Museo naz.; forse concepito come David per la Sagrestia nuova) e il gruppo della Vittoria (Firenze, Pal. Vecchio), trovato nello studio di Michelangelo in via Mozza a Firenze, dopo la sua morte. Nel 1534 Michelangelo partì per Roma e i lavori per la Biblioteca Laurenziana rallentarono, benché egli avesse dato (1533) modelli anche per la scala dell’atrio, che fu costruita solo molto più tardi (1560) da B. Ammannati, secondo nuove istruzioni e un modello mandati (1558) da Michelangelo; nel “ricetto” la profonda modellazione delle pareti implica uno spazio dinamico, ora compresso ora profondamente dilatato, simbolicamente rappresentato dalle due colonne sugli angoli, dalle coppie di colonne recesse nel muro, dalle erme che inquadrano le finestre, dai medaglioni nello stilobate. Dall’atrio si schiude la profonda sala dove il concluso ritmo del finto ordine di finestre, di cornici, ripete i temi fiorentini del Quattrocento in variazioni nuove, specialmente nella raffinata e dinamica decorazione degli spartimenti del soffitto e del pavimento. Nel 1534 Michelangelo lasciò, dunque, per sempre Firenze. A Roma aveva conosciuto nel 1532 Tommaso Cavalieri, giovane di grande bellezza; l’amore per lui ridette energia a Michelangelo che per Cavalieri disegnò un Fetonte, un Baccanale, gli Arcieri (Windsor, Royal Library), un Ganimede (Cambridge, Massachusetts, Fogg Art Museum) esplorando temi nuovi: a Roma, il maestro dovette subito riprendere gli studi e i cartoni del Giudizio universale che Clemente VII gli aveva ordinato nel 1533; e nel 1536, distrutti i dipinti del Perugino e i suoi propri che già occupavano la parete di fondo della Sistina, intraprese l’affresco che fu finito e scoperto soltanto nella vigilia di Ognissanti del 1541. Subito, tra l’ammirazione universale non mancarono le voci discordi dei moraleggianti, a cui si unì Pietro Aretino: e poco dopo Daniele da Volterra ebbe l’incarico di coprire in parte le nudità di molte figure del Giudizio. In seguito l’oscuramento prodotto dai ceri e forse i ritocchi per schiarire lo sfondo, resero fosco il dipinto che mai, a detta del Vasari ebbe “vaghezza di colore”. Nel cielo nubiloso soltanto qualche plaga di più vivo azzurro e di luce; tenebrore sulla terra brulla e sulla livida palude: ogni cosa scompare, lo spazio stesso è limitato: tutto si concentra sulla moltitudine umana, ora trascinata in irresistibile caduta ora volgentesi in massa intorno al Redentore. La tradizione iconografica, la lettura delle Scritture e quella di Dante, ma anche la pagana ammirazione della forma umana furono condizioni variamente importanti alla creazione dell’artista che tutto trasformò in un baleno d’ispirazione, poi in un diuturno lavoro di preparazione e di meditazione dei particolari e dell’insieme. In quegli stessi anni, Michelangelo conobbe Vittoria Colonna, che dal 1538 fino alla morte (1547) gli fu amica sincera, appassionatamente venerata: e con lei, con il Cavalieri e con altri, scambiava madrigali e rime, vivendo intensamente e sinceramente la propria esperienza dell’amore platonico. Ma soprattutto Vittoria Colonna compiva la conversione religiosa di Michelangelo, convincendolo ad aderire alla dottrina di Jòuan Valdés della giustificazione per fede. Nominato (1535) architetto, scultore e pittore di palazzo, Paolo III gli fece dipingere le sue ultime pitture: gli affreschi della Cappella Paolina in Vaticano, la Conversione di s. Paolo (1542-45) e la Crocifissione di s. Pietro (1546-50); nei dipinti, danneggiati da un incendio (1545), poi dal tempo (restaurati nel 1934), si riconosce, secondo alcuni, soprattutto il conflitto insito nella crescente tendenza di Michelangelo a trascendere la realtà corporea per fissare il pensiero nella ricerca del divino. Michelangelo da tempo aveva quasi tralasciato i lavori del mausoleo di papa Giulio II quando, nel 1532, ne rinnovò il contratto con Francesco Maria della Rovere. Lasciati i precedenti progetti Michelangelo si dedicò allora a fare un nuovo modello per il monumento, da collocare a muro in S. Pietro in Vincoli, con sei statue di sua propria mano, ma occupato tutto nel Giudizio universale e nella Cappella Paolina, ottenne (1542) di commissionare a Raffaello da Montelupo tre di quelle statue già da lui incominciate – la Madonna, un Profeta, una Sibilla – mentre egli stesso finì il Mosè e le due statue della Vita attiva e della Vita contemplativa, che aveva voluto sostituire ai due Prigioni (Parigi, Louvre) non più adatti alla nuova forma del monumento. Finalmente (1545), compiuta da aiuti anche l’architettura del mausoleo su disegni di Michelangelo, vi venivano collocate quelle statue e il sarcofago con la figura del papa, modellata da T. Boscoli. Morto Antonio da Sangallo il Giovane (1546), Michelangelo gli succedette nella fabbrica del palazzo Farnese per il cui cornicione già aveva fornito il modello e fu nominato architetto di S. Pietro (1547). La sua attività si rivolse allora soprattutto all’architettura, ma non mancarono grandi e tragiche affermazioni anche in scultura e pittura, nelle quali ogni ideale rinascimentale di bellezza è abbandonato come caduco e l’artista, che ormai lavora spesso liberamente per sé, al di fuori di commissioni altrui, ricerca i moti più profondi dell’animo; scolpì una Pietà poi tralasciata (Firenze, duomo) e forse preceduta da quella, incompiuta, già a Palestrina (ora all’Accademia di Firenze) e la Pietà Rondanini, (1555-59, Milano, Castello Sforzesco). Tralasciato il progetto del Sangallo per la basilica di S. Pietro, Michelangelo tornò all’idea della pianta “chiara e schietta, luminosa e isolata intorno” suggerita dal progetto di Bramante; ma se mantenne il concetto bramantesco della costruzione concentrica, già attuato nei piloni e nella cupola, lo riplasmò in tutto, e ideò un insieme, meno complesso nella pianta, su cui doveva elevarsi una cupola capace di dominare le gigantesche membrature inferiori e la facciata alleggerita dall’atrio con colonne. Nel 1555 era già in parte costruito il tamburo, ma ancora non era in tutto compiuto nel 1564. G. Della Porta e D. Fontana attuarono i disegni di Michelangelo dando maggior slancio all’insieme e minor volume alle nervature ma scostandosi dall’effetto ideato dal maestro. Lentamente procedettero i lavori per la trasformazione della piazza del Campidoglio, ideata nel 1546, e per la costruzione dei nuovi edifici; alla morte di Michelangelo, non erano stati realizzati che il loggiato del palazzo dei Conservatori, la base della statua di Marco Aurelio (tema centrale e quasi matrice di tutto il complesso architettonico) e le scale esteriori del palazzo senatorio. G. Della Porta e gli architetti successivi che proseguirono l’opera apportarono alcune modifiche al disegno di Michelangelo, riducendo ad ammezzato il piano superiore, elevando ulteriormente la torre e aprendo le due vie laterali che rompono la chiusa concezione michelangiolesca. Ma dal progetto di Michelangelo (ritratto con fedeltà in una antica stampa della quale, nel 1970, fu trovato il disegno) ebbero l’impronta l’intera piazza col suo ornamento di statue fluviali e dei Dioscuri, lo stesso palazzo senatorio nei lineamenti principali, i palazzi laterali dal colossale ordine corinzio; infine l’idea degli scalini che disegnano un ovato entro il trapezio della piazza, suggerendo un’ambivalenza di spazi. Diede inoltre disegni per Porta Pia (1561) e per altre porte di Roma, per il ciborio di bronzo, eseguito da Iacopo del Duca a S. Maria degli Angeli per il cui adattamento nelle terme Michelangelo aveva dato il progetto. Morì a Roma: il suo corpo fu portato a Firenze dove ebbe esequie solenni in S. Lorenzo e fu sepolto in S. Croce. [123661] A lungo ammirato soltanto per le Rime, di recente Michelangelo scrittore è stato rivalutato anche come epistolografo. Le Rime, pubblicate postume nel 1623 dal nipote, Michelangelo Buonarroti il Giovane, furono per lo più composte a partire dal 1534. In precedenza, Michelangelo, che come sembra aveva cominciato a poetare dal 1502-03, si era dedicato solo occasionalmente a quella che rimaneva un’attività del tutto secondaria rispetto alla splendida produzione del pittore, dello scultore e dell’architetto, e che perciò risentiva ancora di precisi ancorché non scontati modelli letterari. Nelle Rime, soprattutto quando una originaria inquietudine spirituale di marca ancora savonaroliana ebbe trovato una migliore definizione concettuale nel platonismo, Michelangelo seppe esprimere il rovello di una ricerca intellettuale irriducibile alle formule del classicismo e del petrarchismo; tale ricerca si andò precisando nei termini di un’autentica ansia religiosa, con una originale nervosa concentrazione che solo inizialmente scade in una sorta di concettismo e trova poi una sempre più persuasiva ragione formale in un ideale di purezza e di rigore. Particolarmente notevoli le Rime per Vittoria Colonna. Di una analoga meditazione, ardua e dolorosa, si nutrono le sue Lettere, pubblicate nel 1875, che, oltre a essere importanti per il grande valore documentario, sono caratterizzate da una immediatezza sanguigna e persino popolaresca di straordinaria efficacia. [12371] Il pittore e miniatore Jean Fouquet nacque a Tours nel 1420 circa e vi morì tra il 1477 e il 1481. Famoso tra i contemporanei e noto ancora nel 16° secolo, Fouquet fu riscoperto intorno al 1830, quando si rilevò il suo nome legato alle miniature che illustrano la traduzione delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe (Parigi, Bibliothèque Nationale). La probabile formazione a Parigi, a contatto con le più avanzate esperienze fiamminghe e borgognone e un soggiorno in Italia (prima del 1447, a Roma, eseguì un ritratto di Eugenio IV, perduto, e poté conoscere il Beato Angelico), che lasciò tracce non solo con “ricordi di viaggio” ma anche nell’uso sapiente della prospettiva, sono le matrici dell’arte di Fouquet; questa è segnata da valori luministici di derivazione eyckiana, da una chiara articolazione dello spazio con equilibrio e semplicità anche nelle composizioni più complesse, da forza plastica anche nella più raffinata ricerca di colori preziosi, da potenza d’individuazione psicologica. Dopo il realistico ritratto di Carlo VII (Louvre), collocabile prima del suo viaggio in Italia, capolavori di Fouquet, che tenne la sua bottega a Tours e nel 1475 fu nominato pittore di Luigi XI, sono le opere eseguite per Étienne Chevalier: il dittico già nella chiesa di Melun (Madonna col Bambino, Museo di Anversa; E. Chevalier con il patrono s. Stefano, Berlino, Staat. Museum; forse alla cornice del dittico apparteneva l’autoritratto in smalto con l’iscrizione del suo nome, ora al Louvre) e le miniature del Libro d’ore (in massima parte conservate a Chantilly, Museo Condé); e ancora il ritratto di G. Jouvenel des Ursins (Louvre), le miniature della traduzione del De casibus virorum illustrium di Boccaccio (Monaco, Staatsbibl.) e quelle delle Grandes chroniques des rois de France (Parigi, Bibliothèque Nationale) e delle già ricordate Antichità giudaiche, dal carattere più narrativo, con scene di massa contro vasti paesaggi di sfondo. Opera di Fouquet è considerata anche la monumentale pala con la Pietà nella chiesa di Nouans. [12381] El Greco (Il Greco) è il soprannome con cui è conosciuto il pittore spagnolo di origine greca Domìnikos Theotokòpulos, nato a Creta nel 1541 e morto a Toledo nel 1614. Incerta è l’identificazione della prima opera del Greco “madonnero” (1563-65 circa, Modena, Galleria Estense). Egli si formò essenzialmente a Venezia, dove era giunto probabilmente nel 1567: come discepolo di Tiziano è ricordato da G. Clovio (1570). L’influsso di I. Bassano sul Greco risulta evidente nel dinamismo della stesura cromatica (Ragazzo che accende una candela con un tizzone, 1570 circa, Napoli, Museo di Capodimonte), ma soprattutto al Greco fu congeniale il luminismo del Tintoretto (La Vergine, Strasburgo, Musée des Beaux-Arts), mentre la sua cultura si arricchiva di elementi del Correggio, del Parmigianino e anche di Michelangelo, Raffaello e Dürer. A Roma (1570-72) fu in contatto con la cerchia del cardinale A. Farnese, sebbene si sentisse estraneo alla cultura locale e critico nei confronti degli affreschi di Michelangelo. Fu, forse, ancora a Venezia, e quindi in Liguria, prima di partire (1576) per la Spagna: a Toledo, che divenne la sua terza patria, produsse opere memorabili, e alcune stupende. La sua arte assunse una voce insolita: nella Spoliazione di Cristo (1577-79) per la cattedrale, la composizione addensa le figure e le luci divengono lividi barbagli; tragico, carico d’intensità espressiva è Il seppellimento del Conte di Orgaz (1586, chiesa di S. Tomé), ispirato a una leggenda toledana, interpretata dal Greco in un acuto scontro di attualità realistica e di evocazione visionaria. Nel 1579 per Filippo II dipinse l'Allegoria della Lega Santa (già noto come Il sogno di Filippo II) per la cappella dell’Escorial e il Martirio di s. Maurizio (1582), sempre per l’Escorial, che non soddisfece le esigenze di cupa religiosità del re; il Greco si ritirò definitivamente a Toledo. Altre opere: l’Assunta (1577, Chicago, Art Institute); la Pentecoste (Madrid, Prado); il Cristo nell’orto (Budapest, Szepmüvészeti Museum); l’Apocalisse (Zumaya, coll. Zuloaga); gli Apostoli (Toledo, cattedrale e museo del Greco); Veduta di Toledo (Toledo, museo del Greco). Fra i ritratti, ricordiamo: quello di Vincenzo Anastagi (1586, New York, Frick Collection); l’inquisitore Niño de Guevara (1600-01, New York, Metropolitan Museum). Fra le ultime opere ricordiamo: il “retablo” dell’ospedale della Carità, (1603, Illescas) e il S. Bernardino (Toledo, museo del Greco). [12391] Il pittore fiammingo Hans Memling (o Memlinc) nacque a Seligenstadt (in Assia, nel 1435 circa) e morì a Bruges nel 1494, città in cui svolse gran parte della sua attività. Non sappiamo dove egli sia stato prima di stabilirsi a Bruges (1465); ma probabilmente fu a Colonia, dove poté conoscere S. Lochner, e a Bruxelles, dove poté vedere all’opera R. van der Weyden. Nelle prime opere si notano reminiscenze dei suoi predecessori, specie di R. van der Weyden, ma Memling si dimostra già nel pieno possesso dei propri mezzi espressivi. A Bruges, dove era attivo P. Christus, era ancora viva la tradizione di J. van Eyck, che contribuì a completare la sua formazione e a fargli assumere una posizione particolare nell’ambito della pittura fiamminga. Temperamento contemplativo, Memling si compiace degli atteggiamenti immobili del raccoglimento e della preghiera, attraverso un armonico uso della luce e dei colori, in una visione essenzialmente intima e spirituale. Suoi committenti furono ricchi borghesi di Bruges ed eminenti esponenti stranieri del mondo mercantile e finanziario, attivi nella città; compaiono come donatori in opere di soggetto religioso ma furono anche singolarmente ritratti dal pittore. Dipinse, tra il 1466 e il 1473, per il fiorentino Angelo di Jacopo Tani il trittico del Giudizio Universale (sequestrato durante la sua spedizione, fu inviato a Danzica, dove ora si trova nel Museo della Pomerania); per Sir John Donne il trittico della Vergine col Bambino e santi (1468 o 1477; Londra, National Gallery, già nella coll. dei duchi di Devonshire); per i fratelli Greverade di Lubecca, il trittico a doppi sportelli con la Crocifissione (1491; Lubecca, Sankt-Annen-Museum). L’ospedale di San Giovanni di Bruges, nel museo intitolato a Memling, conserva: il Trittico dei ss. Giovanni Battista ed Evangelista (1479; detto dello Sposalizio mistico di s. Caterina); i trittici di Jan Floreins o dell’Adorazione dei Magi (1479) e di Adriaan Reins con il Compianto di Cristo (1480); il Reliquiario di s. Orsola (prima del 1489); il Ritratto di donna, che iscrizioni del secolo 16° identificano come la Sybilla Sambetha (1480); il dittico a mezze figure di Maarten van Nieuwenhove e la Vergine col Bambino (1487). Queste e molte altre opere di Memling (Louvre; Firenze, Uffizi; New York, Metropolitan Museum; Bruxelles, Musées royaux des beaux-arts; ecc.) mostrano una felice sintesi dei valori dell’arte nuova, con la sua sensibilità per il paesaggio che spesso fa anche da sfondo ai ritratti e la capacità narrativa nelle scene che completano il soggetto del quadro o sono svolte autonomamente, come nella Passione (Torino, Galleria Sabauda) dipinta per Tommaso Portinari o nelle Sette gioie di Maria (1480; Monaco, Alte Pinak.). [123101] Pittore, architetto, scienziato (Vinci, Firenze, 15 aprile 1452 - castello di Cloux, od. Clos-Lucé presso Amboise, 2 maggio 1519); figlio illegittimo del notaio ser Piero, di Vinci, di cui non è ricordato il casato. Dal 1469 Leonardo da Vinci si stabilì a Firenze, dove nel 1472 era già iscritto alla Compagnia dei Pittori. Nel 1476, anno in cui fu prosciolto da un’accusa di sodomia, era con Andrea del Verrocchio di cui era stato scolaro per quattro anni; ma doveva interessarsi anche alla scuola dei Pollaiolo, particolarmente per le ricerche anatomiche che vi si conducevano. Indipendente dal 1478, nel 1482-83 era a Milano alla corte di Ludovico il Moro, inviatovi, secondo alcune fonti, in qualità di musico da Lorenzo il Magnifico; ma in una sua lettera al Moro, Leonardo si dichiarava capace di inventare e costruire congegni bellici, di progettare opere di architettura, di fondere in bronzo e scolpire, di dipingere. A Milano egli svolse intensa attività di pittore, lavorò a un monumento per Francesco Sforza, allestì apparati per feste e fu scenografo, ingegnere militare, consultato per problemi di architettura. Questo periodo fu il più fecondo di opere compiutamente realizzate e di altre riprese in seguito. In particolare Leonardo poté approfondire i propri studi scientifici e intraprenderne di nuovi, nel campo sia della fisica sia delle scienze naturali. La sconfitta di Ludovico il Moro (16 marzo 1500) costrinse Leonardo a lasciare Milano. Insieme al matematico L. Pacioli, di cui era grande amico, e all’allievo A. Salai, Leonardo partì per Venezia, fermandosi lungo il viaggio a Mantova alla corte di Isabella d’Este, dove fu accolto con grande favore e ricevette richieste di opere di pittura (disegnò allora un ritratto di Isabella d’Este). Nell’aprile del 1500 lasciò Venezia, dove aveva compiuto studi per apprestamenti difensivi, e ritornò a Firenze, dove, secondo quanto riferisce un contemporaneo, condusse una vita “varia e indeterminata forte, sì che pareva vivere alla giornata”; si dedicava alla pittura (Sant’Anna, la Vergine e il Bambino), ma più spesso dava “opra forte ad la geometria, impacientissimo al pennello”. Allora aveva già ricevuto commissioni dal re di Francia Luigi XII. Dal maggio 1502 al maggio 1503 Leonardo fu lontano da Firenze, quasi sempre al servizio del duca Valentino (Cesare Borgia), a sua volta in stretto rapporto con Luigi XII. Un salvacondotto del Valentino dichiara Leonardo “Architetto et Ingegnero Generale”; vari appunti di Leonardo di questo periodo ci ricordano suoi viaggi a Urbino, a Rimini, a Cesena, a Pesaro, a Cesenatico e in altre città delle Marche e della Romagna, dove egli studia porti, problemi di idraulica, fortificazioni. A questo periodo appartengono gli originalissimi contributi di Leonardo alla cartografia, al rilievo e alla descrizione dei luoghi. Ritornato a Firenze, si occupa ancora, per P. Soderini, di pittura, di questioni militari, e di canalizzazioni, a scopo sia pacifico sia militare (alcuni progetti arditi e utopistici sono tuttavia impressionanti per la lucidità della progettazione), e incomincia a studiare il volo degli uccelli e le leggi dell’idrologia; ordina i suoi appunti secondo quella che sempre più si precisa come una visione d’insieme, in una concezione altamente originale delle “forze prime” attive nella natura. Amareggiato per l’esito infelice del grande dipinto murale della Battaglia d’Anghiari, per la frustrazione dei suoi progetti di ingegnere, per l’incomprensione degli artisti e dei mecenati fiorentini verso il suo travaglio di ricercatore, Leonardo nel 1505 è di nuovo a Milano, protetto di Luigi XII. Era però a Firenze nel marzo del 1508, per essere ancora a Milano nel settembre dello stesso anno, intento allo studio di sistemi di chiuse e di canali navigabili. Da alcuni disegni sembra che Leonardo abbia seguito Luigi XII nel Bresciano al tempo della battaglia di Agnadello (14 maggio 1509), studiando l’idrografia della regione. Rimase a Milano al servizio del luogotenente francese Carlo d’Amboise, per il quale progettò un palazzo e una cappella (S. Maria alla Fontana). A questo periodo risalgono gli studi per il monumento equestre a G. G. Trivulzio. Importanti gli studi sulla navigazione fluviale; nelle ricerche anatomiche collabora con Marcantonio della Torre; studia la botanica. Nel dicembre del 1512 il ritorno di Massimiliano Sforza a Milano costrinse Leonardo a rifugiarsi a Vaprio presso il fedelissimo discepolo F. Melzi, sinché, nel 1513 fu chiamato a Roma da Giuliano de’ Medici. Ma a Roma Leonardo si vide escluso dalle grandi opere del tempo: i progetti per S. Pietro e la decorazione del Vaticano; gli fu portato via il trattato De vocie che aveva composto; ostacolato nelle sue ricerche di anatomia, continuò a occuparsi di studi matematici e scientifici. Nei suoi appunti si legge: “li Medici mi creorno e destrusseno”. Ma Leonardo non aveva interrotto i rapporti con la Francia, come testimonia un suo appunto, e nel 1517 si rifugiava presso Francesco I, che gli dava residenza nel castello di Cloux presso Amboise e gli elargiva una pensione annua come “premier peintre, architecte et mechanicien du roi”. Leonardo aveva con sé alcuni quadri, qualcuno iniziato precedentemente a Firenze, una “infinità di volumi” di appunti e, benché impedito da paralisi alla mano destra, attendeva con passione agli studi di anatomia, dedicandosi anche all’architettura (progetto per il castello e il parco di Romorantin) e ad apparati di feste. Impressionanti testimonianze di quest’ultimo periodo sono i disegni in cui è immaginata la fine del mondo, evento fantastico in cui operano con logica coerenza e con terribile bellezza le forze della natura indagate da Leonardo. Il 29 aprile 1519 faceva testamento; morì tre giorni dopo. [1231011] L’arte di Leonardo da Vinci si manifesta sin dai suoi inizi come cosciente rielaborazione della tradizione quattrocentesca e insieme opposizione a essa, in uno sforzo che a prima vista sembrerebbe quello di infondere vita alle immagini, immettere aria nelle rappresentazioni, ma che, a un esame più approfondito, si dimostra come quello di rendere nell’arte lo spirito cosmico dell’universo, anzi di ritrovare per essa le “regole” della multiforme natura, in una continua tensione che mira a provare quale sia la “potenza” dell’arte. Per Leonardo si tratta di “comprendere ogni forma secondo l’apparenza e la sua causa interna”: donde la straordinaria novità grafica delle sue ricerche scientifiche, l’interesse per il fenomeno naturale o per i moti dell’animo. Nella raccolta postuma di appunti di Leonardo che va sotto il nome di Trattato della pittura e in altri scritti si ritrovano efficaci testimonianze del suo pensiero estetico. Sostenne la superiorità della pittura sulla scultura appunto in nome delle straordinarie possibilità evocatrici, simili a quelle della poesia, che egli riconosceva alla prima. Eccezionale per il suo tempo è il peso che nel corpus complessivo delle opere hanno i disegni, intesi non più, come voleva la tradizione, come opere in sé, apprezzabili per l’eleganza del delineare, ma come tracce di idee e di problemi inseguiti in maniera persino ossessiva, e quindi pieni di pentimenti, seppure, molte volte, carichi di una capacità espressiva prima intentata. Prevalente, nel gruppo non grande di dipinti sicuramente suoi pervenutici, il numero delle opere non finite; fosse, talora, l’ansia della ricerca che lo induceva a interrompere il lavoro per l’insorgere di nuovi problemi; fosse, talaltra, la convinzione di aver raggiunto appieno il risultato estetico propostosi allo stadio cui l’opera era stata condotta; fosse, ancora, l’insofferenza per la mera esecuzione. Già nel 1473, a Firenze, disegna a penna il paesaggio ora agli Uffizi, immettendo nello schema fiorentino fiammingheggiante l’esperienza di una visione diretta. Si hanno ancora prove della sua collaborazione con Verrocchio nella pittura del Battesimo agli Uffizi: nell’angelo a sinistra in primo piano e nel brano di paesaggio dietro di lui, ove il senso di vita è più alto e il chiaroscuro è vibrante per riflessi luminosi. Opere pittoriche di questo primo periodo sono: il ritratto muliebre già nella galleria Liechtenstein, ora a Washington, National Gallery (la cosiddetta Ginevra Benci); l’Annunciazione agli Uffizi e l’altra più piccola al Louvre; la Madonna del Garofano a Monaco di Baviera: opere che già furono attribuite a Verrocchio stesso o a Lorenzo di Credi. Ma vi si avverte la prima applicazione dello “sfumato” che disperde la linea, e ottiene con lo sgranare dei contorni l’atmosfera. Nel 1478 Leonardo, in piena libertà artistica, dipinge la Madonna del Fiore, ora all’Ermitage di San Pietroburgo, che alle reminiscenze verrocchiesche unisce l’applicazione piena dello sfumato e una nuova intensità d’osservazione psicologica. Forse contemporaneamente Leonardo disegnò la Madonna del Gatto (Uffizi), tanta è la correlazione compositiva di essa con la Madonna del Fiore. Al 1481 risale l’Adorazione dei Magi commessa dai frati del convento di S. Donato a Scopeto (ora agli Uffizi), rimasta incompiuta per la partenza di Leonardo per Milano, opera profondamente nuova per l’esaltazione messianica che ne agita i particolari e che ne anima la composizione, quasi a vortice, spalancata su infinite lontananze. Le figure si piegano, si attorcono variando con il variare delle luci, accomunate in un’unità compositiva superiore, ma nello stesso tempo acutamente differenziata nelle varie espressioni dell’animo. Nel 1483 a Milano fu allogata dagli scolari della Concezione a Leonardo e ai fratelli Ambrogio ed Evangelista de Predis la tavola della Vergine delle Rocce. Secondo uno schema piramidale, la Vergine con Gesù, il Battista e un angelo si dispongono entro una grotta, fantastico scenario d’ombre, aperta da squarci verso la luce lontana del tramonto. I contorni dei lineamenti si smarriscono, sfumano; il rilievo velato sboccia dove la luce sfiora le cose, svanisce dove l’ombra le inghiotte; la gamma dei colori va sempre più limitandosi a poche tinte. Di questa tavola si posseggono due redazioni: una al Louvre di Parigi, che è la tavola eseguita da Leonardo per la confraternita, che Ludovico il Moro volle per sé e che passò a Luigi XII; l’altra alla National Gallery di Londra, che è quella che rimase nella cappella della confraternita fino al 1781. La qualità della redazione di Parigi appare superiore all’altra, ma indagini radiografiche e archivistiche hanno accreditato l’autenticità anche della tavola di Londra: forse Leonardo avrà messo mano, in diversa misura, a entrambe. Seconda grande opera pittorica del periodo milanese è il Cenacolo nel refettorio di S. Maria delle Grazie, purtroppo giunto a noi in stato alterato dai molteplici e talora impropri interventi di consolidamento del colore, poiché era stato dipinto da Leonardo non a buon fresco ma a tempera. Un restauro condotto a partire dal 1979 (durato 12 anni) ha cercato di liberare l’opera dalle varie ridipinture e ha posto come condizione primaria per la sopravvivenza del dipinto la climatizzazione dell’ambiente. Nell’ampia sala, alla cui architettura l’affresco si accorda con sottili accorgimenti e con un effetto illusionistico che va al di là delle ricerche prospettiche fiorentine, gli apostoli sono disposti, secondo un ritmo ternario, in modo che il Redentore appare dominante al centro: i gruppi si agitano di indignazione e di dolore alle parole “uno di voi mi tradirà”, in un moto che si origina dal Cristo e converge di nuovo su di lui, lasciando isolato Giuda. Ma in questo periodo l’attività di Leonardo fu varia e molteplice: dalla decorazione del Castello Sforzesco di Milano (sala delle Asse, ampiamente restaurata, ma di cui nel 1950-55 è stato posto in luce un ampio tratto della sinopia e nella quale, comunque, si può ancora apprezzare la grande invenzione leonardesca) ai ritratti di Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli; dalla Leda (nota attraverso repliche) al monumento a F. Sforza. Oltre a queste opere andate perdute, rimangono di questi anni il ritratto del Louvre, la Belle Ferronière, e la Dama dell’ermellino del Czartoryski Muzeum di Cracovia. Nel 1500 Leonardo fu nuovamente a Firenze, dove gli fu commissionato da Pier Soderini il David, poi affidato a Michelangelo, e compose un primo cartone (perduto) per S. Anna, la Vergine e il Bambino (il cartone della National Gallery di Londra è del 1508). Più tardi (1503), ebbe incarico di dipingere, su una parete della sala del Maggior Consiglio, un episodio della Battaglia d’Anghiari (sulla parete opposta Michelangelo doveva affrescare la Battaglia di Cascina). Anche qui Leonardo tentò di affrontare un problema tecnico, con l’intento di restaurare l’antico procedimento dell’encausto, convinto che la tecnica tradizionale dell’affresco non gli avrebbe concesso gli effetti di profondità delle ombre, di sfumato e di luce che egli si proponeva. Ma il risultato fu disastroso e Leonardo abbandonò la pittura appena iniziata. I cartoni per quest’opera furono oggetto di studio degli artisti, e andarono distrutti. Tra gli studi per la Battaglia d’Anghiari, quello conservato nella Biblioteca Reale di Windsor ci mostra come Leonardo intendesse servirsi delle scatenate forze della natura per esprimere la battaglia. Forse Leonardo eseguì in quel tempo il ritratto che va sotto il nome di Gioconda (la scoperta di un documento del 1525 permette di stabilire che si tratta del ritratto di Monna Lisa del Giocondo, come scritto da G. Vasari). Al celebre vago sorriso (un moto psichico colto al suo primo manifestarsi prima che divenga più determinato) s’accorda il velato paese, che dell’immagine è il commento ed eco nella mutabilità delle ombre, nelle brume che ci sottraggono le linee dei contorni; il paesaggio affonda di grado in grado in un tenebrore azzurrognolo di acque e cielo. L’attività artistica di Leonardo durante il secondo periodo milanese (1507 circa) rimane pressoché oscura. Durante il soggiorno in Francia Leonardo compì il S. Giovanni Battista e terminò la S. Anna (entrambi al Louvre). In questo quadro, concepito con sottili intenti iconografici, le ombre non prendono nessun sopravvento: la luce diffusa stinge i colori, lo sfumato diviene più prezioso, più lieve. L’arte di Leonardo influenzò variamente artisti settentrionali (Dürer, forse lo stesso Bosch) e italiani (Giorgione, Correggio, fra Bartolomeo e Andrea del Sarto). L’arte di Raffaello non si sottrasse al fascino di Leonardo. Vasari pose risolutamente Leonardo come iniziatore della “maniera” moderna, ossia dell’arte del Rinascimento maturo, in contrasto con la “secchezza” di tutta la pittura precedente. L’attività di scultore di Leonardo, è anch’essa alquanto problematica. Leonardo stesso contrappone nei suoi scritti la dignità del pittore, occupato in opera del tutto intellettuale, alla manualità dello scultore, ma nello stesso tempo si vanta della propria abilità di scultore e di fonditore. Dal 1483 al 1500 egli attese all’immane monumento equestre di F. Sforza (il cavallo misurava alla cervice circa 7,20 m), la cui forma di creta (doveva essere gettata in bronzo) fu distrutta al tempo dell’occupazione francese. Dal 1508 al 1511 sono databili altri disegni per un monumento a G. G. Trivulzio, ma non sembra che la cosa andasse mai al di là dello stato di progetto. Da quanto possiamo arguire dai disegni e da bronzetti che sono almeno ispirati a Leonardo, la sua preoccupazione nella scultura fu quella del movimento e di un rapporto più libero della figura in azione con lo spazio circostante. Alcune sculture del 15°-16° secolo, già attribuite a Leonardo, sono state assegnate da alcuni critici, con maggiore fondamento, ad artisti, come G. F. Rustici, che risentivano della sua influenza. Leonardo non ha diretto o progettato la costruzione di nessun edificio giunto sino a noi: pertanto il suo pensiero architettonico può essere ricostruito in base ai suoi scritti, ai suoi disegni e alla documentazione offerta da alcuni suoi dipinti. Leonardo instaura un tipo di disegno architettonico notevolmente nuovo ai suoi tempi, basato, oltreché sulla pianta e sull’alzato, sullo spaccato, sulla resa corretta della prospettiva a volo d’uccello, sull’eliminazione degli elementi ricavabili per analogia da quelli delineati. La documentazione più ricca, relativa a costruzioni civili e militari, riguarda il suo soggiorno in Lombardia (dal 1482 in poi) dove fu in contatto con D. Bramante. Importanti gli studi sulla pianta centrale (legati al progetto del mausoleo di F. Sforza); Leonardo si occupò anche dei progetti del duomo di Pavia, nonché dei problemi costruttivi del tiburio del duomo di Milano. P. Giovio parla di Leonardo come di “meraviglioso creatore ... soprattutto dei dilettevoli spettacoli teatrali”; infatti l’idea di teatro si evidenzia in Leonardo fino dai suoi esordi fiorentini. Noti anche alcuni progetti di “teatri per udir messa”, che contenevano delle novità nella tipologia delle chiese. Particolare sviluppo ebbe un sistema di decorazione basata su intrecci di motivi vegetali e su viticci annodati, ossia “vinci” (sala delle Asse). Notevoli i suoi studi urbanistici in rapporto alla distribuzione del traffico, alla canalizzazione, all’igiene (specialmente nel primo periodo milanese). Anche il problema dell’abitazione del principe fu da lui considerato in rapporto all’organismo urbano (studi per il castello e il borgo di Romorantin, Francia). Si pensa a un intervento di Leonardo nella progettazione del castello di Chambord, iniziato nel 1518 per Francesco I di Francia. [1231021] Nella natura Leonardo da Vinci scorge pitagoricamente una trama di rapporti razionali (“ragioni”), esattamente calcolabili e misurabili, che può essere colta dall’uomo per mezzo dell’esperienza e della ragione: l’esperienza, cui Leonardo dà grande rilievo soprattutto nella sua concreta attività di meccanico e di scienziato, apre la via a una conoscenza diretta della natura, libera dall’autorità della tradizione; la ragione coglie nei fenomeni la legge che li regola poiché “la natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive”. Nei confronti dell’attività scientifica contemporanea e posteriore, l’opera di Leonardo risulta però isolata: sia per le origini particolari della sua ricerca, che partiva da un’esigenza artistica cui costantemente s’intrecciava; sia perché essa si svolgeva al di fuori del tirocinio pratico accademico e degli itinerari teorici della scienza contemporanea, e quindi né poteva profondamente influenzarla, né comprenderne appieno i problemi attuali e proporsi d’innovarla; sia infine perché le sue osservazioni, per quanto geniali, non furono da lui coordinate in organici sistemi scientifici, e d’altra parte restarono ignote ai contemporanei e agli studiosi di molti secoli successivi. Si può dire che la scoperta di Leonardo scienziato è avvenimento relativamente recente. Anatomia e fisiologia. – Leonardo si dedicò con grande fervore anche a studi di anatomia e fisiologia, materie che egli considerava indissolubilmente connesse, proteso com’era a stabilire di ogni organo “l’uso, l’uffizio e il giovamento”. I suoi disegni anatomici rappresentano il primo materiale iconografico scientificamente elaborato e aprono la serie dei validi e coraggiosi tentativi di disancoramento dell’anatomia umana dalle concezioni allora imperanti. Numerose furono le dissezioni operate da Leonardo nonostante le difficoltà di diversa natura. I contributi vinciani nell’anatomia e nella fisiologia sono imponenti. In campo osteologico sono particolarmente rilevanti: la scoperta del seno mascellare (detto anche antro di Highmore, dal nome del medico e anatomista inglese che lo descrisse nel 1651); la prima esatta raffigurazione della colonna vertebrale con le sue curve fisiologiche giustamente valutate; la corretta interpretazione dell’osso sacro, considerato come risultante dalla fusione di cinque vertebre (e non di tre, come voleva l’anatomia tradizionale); il riscontro della giusta inclinazione del bacino; ecc. Gli studi sull’apparato muscolare hanno portato Leonardo a compiere la prima rassegna iconografica dei muscoli dell’uomo; a studiare la funzione dei vari muscoli degli arti sostituendoli con fili di rame; a introdurre un originale metodo di studio degli elementi morfologici degli arti, con particolare riguardo ai muscoli, basato sull’impiego di tagli trasversali praticati a piani diversi: questo procedimento, che è usato anche dai moderni anatomisti, e quello della descrizione per strati, pure attuata da Leonardo, possono far considerare quest’ultimo come l’iniziatore dell’anatomia topografica. All’apparato cardiocircolatorio Leonardo dedicò diligenti studi che, tra l’altro, lo portarono alla scoperta di quella formazione intracardiaca che oggi in suo onore è chiamata trabecola arcuata di Leonardo da Vinci. L’incorporamento dell’occhio in materiale coagulabile (albume d’uovo), per poterlo tagliare senza pregiudizio dei rapporti dei suoi costituenti, fa di Leonardo, in un certo senso, un precursore dei metodi di inclusione usati nella moderna istologia. Egli studiò anche la funzione visiva in quasi tutti i suoi aspetti fondamentali: la visione monoculare e binoculare, il senso stereoscopico, l’acuità visiva, la sensibilità cromatica, le modificazioni pupillari al variare dell’intensità degli stimoli luminosi, il fenomeno della persistenza delle immagini, le illusioni ottiche, la questione della grandezza delle immagini in rapporto all’angolo visivo, le leggi della prospettiva geometrica e aerea, l’applicazione delle leggi fisiche della rifrazione allo studio di alcuni fatti patologici, come la diplopia e la presbiopia. In anatomia artistica, infine, Leonardo pur attenendosi per lo più ai canoni di Vitruvio e di Varrone, formulò alcuni principi antropometrici; così, per esempio, egli faceva corrispondere la lunghezza del piede a 1/7 di quella dell’intero corpo (“piede leonardesco”), anziché 1/6, come aveva codificato Vitruvio. Aritmetica e geometria. – L’aritmetica e la geometria, che trattano con “somma verità della quantità discontinua e della continua”, sono per Leonardo fondamento di tutte le scienze naturali, in particolare della meccanica, “paradiso delle scienze matematiche”. Tuttavia, le conoscenze matematiche di Leonardo restarono relativamente limitate, poiché si dedicò quasi esclusivamente allo studio di questioni geometriche. Ideò nuovi metodi per calcolare il volume di numerosi solidi, intuendo quei procedimenti geometrici di tipo infinitesimale che saranno più di un secolo dopo scoperti da B. Cavalieri ed E. Torricelli. Infine fu uno dei fondatori della prospettiva aerea, disciplina di natura prettamente artistica che studia le variazioni di intensità luminosa e di gradazione dei toni in rapporto alla distanza. Astronomia. – Leonardo non si occupò in modo particolare di astronomia, ma le poche osservazioni che ha lasciato ne mostrano anche in questo campo l’acutezza profonda delle intuizioni. Disegnò le macchie della Luna, le cui parti brillanti considerò dovessero essere mari e quelle oscure “isole e terra ferma”. A lui è pure dovuto il primo tentativo di spiegazione di quel che egli chiama “lustro della luna”, cioè del fenomeno della “luce cinerea”. Botanica. – Le conoscenze botaniche di Leonardo furono certamente notevoli, con osservazioni che vanno al di là dell’interesse iconografico. Nello studio della fillotassi, Leonardo osservò la disposizione quincunciale (2/5), ma attribuì eccessiva importanza alla disposizione delle foglie per la recezione dell’acqua. Inoltre studiò il geotropismo negativo e l’eliotropismo positivo, i movimenti delle linfe negli organismi vegetali e i loro effetti, infine per primo dedusse l’età e l’orientamento originario dei fusti dall’osservazione dei cerchi concentrici della sezione. Geologia. – Oltre a riaffermare l’origine organica dei fossili, Leonardo indagò acutamente i processi di sedimentazione e di erosione e formulò le leggi delle acque correnti, dedusse il continuo mutare nel tempo dei limiti fra terra e mare, dimostrò infine la sufficienza delle cause attuali per spiegare i fenomeni geologici avvenuti in passato. Le sue geniali intuizioni non poterono però diffondersi ed essere conosciute tra i suoi contemporanei, poiché i codici leonardeschi che più da vicino riguardano questioni di geologia sono stati fatti conoscere solo in epoca recente. Idraulica e aerodinamica. – I lavori di ingegneria idraulica portarono Leonardo a occuparsi del moto dell’acqua. Oltre a intuire alcuni principi fondamentali dell’idrostatica, stabilì per il moto delle acque correnti il principio della portata costante, secondo il quale in un corso d’acqua uniforme a sezione variabile la velocità della corrente varia in ragione inversa della sezione (legge di Leonardo). I suoi studi sul volo degli uccelli e sul “volo strumentale” lo portarono a investigare le leggi dell’aerodinamica: egli osservò la compressibilità e il peso dell’aria e intuì l’importanza di questi elementi ai fini del volo, ai fini cioè del sostentamento nell’aria del più pesante. Leonardo stabilì altresì il principio di reciprocità aerodinamica, secondo il quale le mutue azioni fra solido e aria variano solo con la velocità relativa. Meccanica. – La meccanica può ben considerarsi la scienza prediletta da Leonardo, alla quale può dirsi che egli abbia portato il maggiore contributo di originalità. Infaticabile sperimentatore, non può stupire che fra tante intuizioni corrette ve ne siano anche di sbagliate, che poi altrove, nei suoi appunti, si trovano spesso modificate o rettificate sulla base di altri ragionamenti o esperienze. Le sue fonti maggiori d’informazione sono, oltre le opere di Aristotele e di Archimede, i libri De ponderibus di Giordano Nemorario. Riprendendo le loro ricerche sulla leva e la bilancia, gli si fa chiara la nozione del momento di una forza rispetto a un punto. Dallo stesso Giordano Nemorario e da Biagio da Parma deriva il principio del parallelogramma delle forze e lo applica a risolvere il problema della determinazione delle tensioni nei due tratti di una fune fissata agli estremi e soggetta a un peso in un punto intermedio. La teoria delle macchine semplici è oggetto di molti appunti nei manoscritti vinciani e i suoi studi mostrano che Leonardo intuì il principio dei lavori virtuali. Notevoli sono anche gli studi di Leonardo sui baricentri, che segnano i primi reali progressi dopo la classica teoria di Archimede, e sulla resistenza dei materiali. Pure indubbiamente primo è Leonardo nel considerare in modo razionale l’attrito o “confregazione” e i suoi effetti nelle macchine e nei veicoli, e a realizzare esperienze che, salvo la maggiore raffinatezza, non differiscono da quelle ideate tre secoli dopo da Ch.-A. Coulomb. Le conoscenze dinamiche di Leonardo derivano e si ricollegano a quelle della dinamica greca, anche se, attraverso gli scritti di Alberto di Sassonia, Leonardo è a conoscenza delle teorie di G. Buridano e Nicola d’Oresme e di quelle della scuola inglese di Oxford. Compaiono in Leonardo alcune precise idee sul concetto di forza e di percussione e sulla resistenza dell’aria che, in accordo con la teoria dell’impeto di Buridano e in netto contrasto con quella aristotelica, è correttamente considerata come un ostacolo che “impedisce e abbrevia il moto al mobile”. Leonardo è così tra coloro che hanno maggiormente contribuito a porre i presupposti alla scoperta della legge d’inerzia. Leonardo sembra avere inoltre una precisa idea del principio di azione e reazione, e una convinzione non meno precisa circa l’impossibilità del moto perpetuo. Nonostante l’intralcio dovuto alla parziale adesione alla concezione aristotelica, l’intuizione di Leonardo riesce a cogliere profondi aspetti dei fenomeni dinamici, come, per esempio, gli effetti della rotazione della Terra sulla caduta dei gravi. Ottica. – Seguendo generalmente le idee aristoteliche o quelle degli Arabi, Leonardo accetta in ottica la teoria delle specie emanate dai corpi luminosi; si occupa di problemi della visione semplice e di quella binoculare, della dispersione della luce, della teoria delle ombre. La perspicua descrizione della camera oscura e della sua teoria, già nota agli Arabi, mostra che egli ne aveva intuito l’applicazione che se ne fa nell’occhio. Zoologia. – Leonardo prospettò con chiarezza le affinità morfologiche e funzionali che corrono fra l’uomo “prima bestia infra gli animali” e varie specie di Mammiferi, specialmente le scimmie, Carnivori, Artiodattili e Perissodattili. Molti sono gli animali riprodotti nei suoi disegni, ma un numero assai maggiore è accennato negli scritti, sia a proposito dei dati anatomo-comparativi, sia indipendentemente da essi. L’interesse di Leonardo per la struttura e gli atteggiamenti degli animali e l’acutezza del suo spirito di osservazione appare sia nei disegni sia nelle descrizioni e nel giudizio sulle affinità fra le varie specie. [1231031] Di Leonardo da Vinci, idee e invenzioni, progetti e disegni di macchine e dispositivi, nei vari rami della tecnica, molti dei quali attuati in seguito, sono in tal numero e di tal ricchezza da sbalordire. Non è facile, peraltro, attribuire con sicurezza la paternità di ciascuna di tali invenzioni e progetti a Leonardo: ciò che si può dire, è che si tratta di idee ed elaborazioni che compaiono per la prima volta nei manoscritti vinciani. Nel campo dell’idraulica pare sia di Leonardo la sistemazione del canale della Martesana; e suoi sono il progetto di sistemazione dell’Adda, e un grande e complesso piano di bonifica delle Paludi pontine, la cui esecuzione fu interrotta dalla morte di Giuliano de’ Medici. Al servizio di Firenze studiò, a fini strategici, un progetto per la deviazione dell’Arno a monte di Pisa, che ebbe il caloroso appoggio di N. Machiavelli, ma che, troppo costoso per la Repubblica fiorentina, non fu poi attuato. Al servizio di Venezia, per l’incombente minaccia dei Turchi che avevano invaso il Friuli, studiò il percorso dei maggiori fiumi del Veneto, ideando tra l’altro un “serraglio mobile” sull’Isonzo presso Gorizia, allo scopo di elevare il livello del fiume e provocare così l’allagamento della pianura. Durante il suo soggiorno in Francia progettò il canale di Romorantin che doveva collegare Rodano e Loira. I progetti di canali e bonifiche sono quasi sempre accompagnati dallo studio di adeguati strumenti di lavoro: cavafanghi, draghe, pompe, apparecchi di sollevamento dei materiali, ecc.; e ai piani di bonifica sono associati piani edilizi e urbanistici conformi ai migliori canoni della tecnica urbanistica e dell’ingegneria sanitaria moderna. Gli studi sul volo risalgono in parte al primo periodo del soggiorno a Milano, tra il 1486 e il 1490, e in parte al secondo periodo del soggiorno a Firenze, verso il 1505, e a Fiesole. Leonardo progettò macchine che, se pur oggetto oggi soltanto di un interesse storico, restano capolavori di ingegnosità. Tra queste macchine volanti sono il paracadute e l’elicottero, in cui viene impiegata come organo propulsore la vite. Resta dubbio peraltro se Leonardo abbia mai tentato di volare o di far volare, benché G. Cardano in De Subtilitate dica “Leonardus tentavit, sed frustra”. Leonardo fu anche un espertissimo tecnico militare; è tuttavia difficile, come s’è già detto, stabilire con certezza quanto si debba originariamente a lui e quanto sia invece rielaborazione di idee e di progetti di suoi predecessori. Ricorderemo, qui, tra le cose più rilevanti dei suoi manoscritti (nei quali è difficile tuttavia, in questo campo più che negli altri, discernere quali delle molte invenzioni fossero pensate da Leonardo come concretamente realizzabili), studi per sottomarini, disegni di cannoni (con carrello e dispositivi per la rapida elevazione del fusto) e di bombarde per il lancio di bombe esplosive; dispositivi di accensione per armi da fuoco; cannoni a organo, costituiti da molte piccole canne disposte a raggiera che possono sparare simultaneamente; cannoni a revolver; ponti da campo; carri coperti con artiglierie; l’architronito, sorta di cannone in cui si sfrutta la forza espansiva del vapor d’acqua (peraltro già conosciuto dai Bizantini); battelli incendiari; e ancora norme di guerra terrestre e navale, ecc. Fra gli altri meccanismi e dispositivi studiati da Leonardo meritano d’essere citati l’incannatoio automatico e la cimatrice; poi innumerevoli artifici per la trasformazione di moti progressivi in moti alternativi e di moti continui in moti intermittenti; argani, torni, perforatrici, seghe meccaniche, macchine per la filettatura delle viti; trivelle; ponti girevoli; laminatoi, ecc. [1231041] Di una personale o quanto meno programmata coscienza letteraria di Leonardo da Vinci sembra improprio parlare. I suoi testi, disseminati nelle carte dei codici sotto forma di abbozzi di trattato, notazioni a margine, appunti di letture e meditazioni, sentenze in rima, proverbi, enunciati gnomici, o brani di invenzione fantastica, configurano piuttosto un eterogeneo e personalissimo corpus di scritture. Tali scritture in parte assumono funzione di glosse altamente ragionate ma subordinate alla rappresentazione grafica delle sue indagini scientifiche e artistiche, in parte costituiscono documentazione momentanea, fissata per frammenti sulla carta, di un ininterrotto discorso interiore, continuamente volto a illuminanti considerazioni sulla realtà e sul fantastico. Definitosi, con espressione fin troppo esagerata dalla critica “omo sanza lettere”, Leonardo attinge a una sua istintiva memoria culturale di maestro d’arte ma anche alle sue originali intuizioni di indagatore, volutamente solitario, della natura e della macchina. Questo spiega i caratteri salienti della sua scrittura: l’ortografia approssimativa e incoerente, l’impronta vernacolare toscana con tracce di fonetica lombarda, l’andamento sintattico semplificato, che procede per coordinazioni successive, ma in cui il ripetuto uso di anacoluti testimonia di una tendenza alla brachilogia, insofferente alle mediazioni del dettato colto e mirante a fissare direttamente e in breve la sostanza del pensato. E se ciò rende estraneo Leonardo, ignaro per di più delle lingue classiche, alla civiltà letteraria dell’Umanesimo, viceversa ne riconferma la più ovvia appartenenza all’ambiente “illetterato” degli artisti e dei tecnici. Lo stile asciutto, la propensione all’enunciato proverbiale e aforistico, che esaltano l’icasticità ammonitiva delle sue riflessioni, sono un evidente derivato dal genere della precettistica delle arti, che appunto affidava la trasmissione del sapere specialistico ad ammonimenti chiari e precetti brevi, prevalentemente orali, talvolta in forma di proverbio o di prosa rimata, e in cui la paratassi garantiva a un tempo una migliore possibilità di memorizzare e la meticolosa conservazione, secondo la successione prefissata, delle procedure tecniche. Su questo fondo Leonardo innesta la personale dote di un linguaggio fortemente pregnante e lucido nel significare, alimentato, per un verso, da una inesauribile curiosità intellettuale e dall’esperienza concreta, e, per altro verso, esercitato all’astrazione e all’enunciazione assiomatica proprie dei trattati di geometria e dei teatri di macchine. Pregnanza del concreto e astrazione mentale sono appunto due caratteri che conferiscono ai suoi scritti “letterari”, analogamente ai dipinti, l’oscurità polivalente dell’immaginario fantastico e la campitura ordinata delle connessioni logiche (come ne La caverna, Il mostro marino, Il gigante, Il sito di Venere, Il diluvio e Al Diodario di Soria). Sull’analogo terreno delle formulazioni brevi ed emblematiche si colloca il gusto di Leonardo per le Facezie, le Favole, gli Indovinelli, le Profezie e il genere del Bestiario, mutuati dallo stile comico-burlesco o sentenzioso-moraleggiante della letteratura popolare e fantastica del Quattrocento, ma in cui più marcati persistono, diversamente che nella produzione alta e culta della filologia umanistica, elementi trecenteschi e del tardo enciclopedismo medievale. Di Leonardo scrittore non possediamo nessuna opera veramente compiuta. Il Trattato della pittura è compilazione postuma (Bibl. Vat., ms. Urb. lat. 1270, del secolo 16°) forse del suo allievo F. Melzi, sulla base di brani estratti, con probabili integrazioni e ritocchi, dalle carte leonardiane da lui ereditate. Analogo il caso dell’opera Del moto e misura dell’acqua, compilata nel 1643 (Bibl. Vat., ms. Barb. lat. 4332) dal domenicano Luigi Maria (al secolo Francesco) Arconati, sulla base dei manoscritti leonardiani posseduti dal padre G. M. Arconati. Della prosa di Leonardo si iniziò a parlare nell’Ottocento dopo la riscoperta e pubblicazione sistematica dei manoscritti. Degli scritti letterari molte sono le raccolte antologiche; dopo le prime, in partic. quelle di J. P. Richter (1883, 3ª ed. 1970), amplissima ma non pienamente affidabile, e di E. Solmi (1899, 2ª ed. 1979), altre ne sono seguite di più sicuro fondamento filologico: G. Fumagalli (1915 e 1939, 2ª ed. 1952), ma soprattutto A. M. Brizio (1952, 2ª ed. 1966), e A. Marinoni (1952, 2ª ed. 1974). Gli scritti scientifici di Leonardo. – Gran parte degli scritti scientifici di Leonardo è scomparsa; quanto rimane è costituito da annotazioni non sistematiche, spesso riunite dall’autore senza nesso logico, anche se lo stesso Leonardo aveva dichiarato di voler dare una disposizione più ordinata alle sue teorie. La maggior parte dei manoscritti di Leonardo che possediamo proviene più o meno direttamente dal nucleo da lui lasciato in eredità a F. Melzi e disperso dopo la morte di questo (1570); una parte entrò in possesso di P. Leoni, che li smembrò formandone poi delle raccolte arbitrarie. Nell’elenco che segue sono indicati i più importanti di essi, con la denominazione in uso tra gli studiosi e distinti secondo il luogo in cui sono attualmente custoditi, nonché con l’indicazione in parentesi della probabile epoca di composizione (poche essendo le datazioni sicure) e del principale argomento trattato. Parigi, Biblioteca dell’Institut de France: codici A (1490-92; argomento vario); B (1487-90; arte militare); C (datato 1490; è detto anche Codice di luce et ombra per l’argomento prevalente); D (1508; ottica); E (dopo il 1515; geometria, volo degli uccelli); F (datato 1508; idraulica, ottica); G (1510-15; argomento vario); H, composto di tre quaderni (1493-94; miscellaneo); I, composto di due quaderni (1497-99; miscellaneo); K, composto di tre quaderni (1504-09; miscellaneo); L (1497 e 1502-03; argomento vario); M (1496-97; argomento vario); Ashburnham I e Ashburnham II (già ital. 2037 e ital. 2038 della Bibliothèque Nationale di Parigi), composti di fogli strappati da G. Libri rispettivamente dal Codice B e dal Codice A (con i quali quindi condividono l’epoca di composizione), entrati poi a far parte della raccolta di B. Ashburnham, restituiti in seguito alla Bibliothèque Nationale di Parigi e infine da questa passati alla Biblioteca dell’Institut de France (il secondo è quasi interamente dedicato alla pittura). Torino, Bibl. Reale: Codice sul volo degli uccelli (datato 1505). Milano, Bibl. Ambrosiana: Codice Atlantico, così detto dal formato dei fogli su cui P. Leoni incollò le carte di Leonardo (1473 circa - 1518; miscellaneo); Castello Sforzesco: Trivulziano (1487-90, coevo del Codice B; contiene disegni e appunti lessicali). Los Angeles, Armand Hammer Museum: Hammer, fino al 1980 Leicester (1504-06; idraulica). Londra, Victoria and Albert Museum: Forster I, composto di due parti (rispettivamente 1505 e 1490 circa; stereometria); Forster II, composto di due quaderni (1495-97; argomento vario); Forster III (tra il 1490 e il 1493; argomento vario); British Library: Arundel 263 (il nucleo principale datato 1508; miscellaneo); Windsor Castle, Royal Library: vasta raccolta di disegni e di studi di anatomia; tra questi ultimi si distinguono i Fogli A (1510-11) e i Fogli B (1489 - oltre il 1500), originati da due quaderni di Leonardo. Madrid, Biblioteca Nacional: ms. 8936, noto come Madrid II, composto di due quaderni (rispettivamente datati 1503-05 e 1491-93; argomento vario), e ms. 8937, noto come Madrid I (datato 1493-97; statica, meccanica), l’uno e l’altro per lungo tempo ritenuti smarriti, pur conoscendosene l’esistenza, e ritrovati nel 1966. Leonardo scriveva con la sinistra e “a specchio”, cioè orientando la scrittura delle lettere e delle parole da destra verso sinistra; ciò perché era mancino (testimonianza di L. Pacioli, 1498), e non, come è stato fantasticato, per motivi di segretezza. L’opera di decifrazione e di edizione dei manoscritti e dei disegni è stata compiuta dal 1800 in poi, in particolare dalla Commissione vinciana, creata nel 1902. Tutti i manoscritti citati hanno avuto una o più edizioni in facsimile. [123121] Il pittore e architetto Raffaello Sanzio nacque ad Urbino nel 1483 e morì a Roma nel 1520. Figlio di Giovanni Santi, Raffaello poté ricevere dal padre, morto nel 1594, solo un primo indirizzo alla pittura. Grande importanza ebbero invece per la sua formazione artistica le suggestioni artistico-letterarie della corte urbinate, dove nella seconda metà del Quattrocento avevano lavorato L. Laurana, Francesco Di Giorgio Martini e Piero della Francesca. Il sistematico apprendistato di Raffaello ebbe luogo nella bottega del Perugino dove ebbe modo di riscoprire, attraverso le raffinate variazioni del maestro, la rigorosa articolazione spaziale e il monumentale ordine compositivo di Piero della Francesca. Se la vicinanza e la collaborazione del precocissimo allievo è stata messa in relazione con il rinnovamento dell’arte del Perugino (discussa è la partecipazione di Raffaello nell’esecuzione della predella del polittico di S. Maria Nuova a Fano e degli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia) è però evidente come Raffaello stesso, in opere anteriori al 1504, riecheggi i modi del maestro: affresco raffigurante la Madonna con Bambino (1498-99, Urbino, casa Santi); pala del beato Nicola da Tolentino dipinta in collaborazione con Evangelista da Pian di Meleto per S. Agostino a Città di Castello (1500-01), di cui oggi restano solo alcuni frammenti (unici ritenuti concordemente autografi, quelli raffiguranti un Angelo, Brescia, pinacoteca Tosio Martinengo e Louvre); due tavole con Madonna leggente con Bambino e Madonna con Bambino e i ss. Girolamo e Francesco (1500-01 e 1501-02, Berlino, Staatliche Museen); S. Sebastiano (1501-02, Bergamo, Accademia Carrara); Resurrezione (1501-02, San Paolo, Museu de Arte) dove sono evidenti anche suggestioni del Pinturicchio; pala di Città di Castello (Crocifissione Mond, 1502-03, Londra, National Gallery); pala Oddi (1502-03, Pinacoteca Vaticana) dove, nelle scene della predella, è nitidissima la scansione spaziale e si manifesta un certo interesse per la struttura compositiva architettonica. Nel 1504 Raffaello dipinse per la chiesa di San Francesco a Città di Castello lo Sposalizio della Vergine (Milano, Brera) dove, superati i modelli del Perugino, raggiunge la piena consapevolezza della costruzione spaziale, di ascendenza pierfrancescana, ottenuta grazie al sapiente uso della prospettiva lineare, unita a una più salda volumetria delle figure disposte non più orizzontalmente su un unico piano ma con andamento curvilineo. [1231211] Nell’autunno del 1504 Raffaello si trasferì a Firenze e, per quattro anni, pur mantenendo saldi i contatti con gli ambienti da cui proveniva, si dedicò a studiare e ad aggiornare il proprio linguaggio sugli esempi di Leonardo, Michelangelo e di fra Bartolomeo, non trascurando però di risalire alle origini del movimento rinascimentale fiorentino. Vanno probabilmente datati ai primi mesi del soggiorno a Firenze il dittico formato dal Sogno del cavaliere (Londra, National Gallery) e dalle Tre Grazie (Chantilly, Musée Condé), da altri datato agli anni 1502-03, e la Madonna Conestabile (San Pietroburgo, Ermitage), dipinti di piccolo formato in cui l’apparente semplicità della struttura spaziale è invece frutto di delicati equilibri ritmici e compositivi. Negli anni successivi Raffaello si dedicò con particolare attenzione a sviluppare il tema iconografico della “Madonna con Bambino” e della “Sacra Famiglia”: Madonna del Granduca (1504 circa, Firenze, palazzo Pitti); Piccola Madonna Cowper (1504-05, Washington, National Gallery of Art); Madonna del Belvedere (1506, Vienna, Kunsthistorisches Museum); Madonna del cardellino (1507 circa, Uffizi); Sacra Famiglia Canigiani e Madonna Tempi (1507-08 e 1508, entrambe Monaco, Alte Pinakothek); ecc. Al termine di questo percorso il rigoroso impianto spaziale delle opere giovanili si è trasformato in una nuova naturalezza di ritmi e di colori, dovuti in particolare allo studio delle opere di Leonardo; le immagini sacre, idealizzate, raggiungono un supremo equilibrio che tende a un’assoluta perfezione formale. Evidenti motivi leonardeschi si colgono anche in alcuni ritratti nei quali Raffaello si propone di dare al personaggio raffigurato, dalla salda impostazione prevalentemente di tre quarti, una grande naturalezza di espressione e una concretezza storica: Dama con liocorno (1505-06, Roma, galleria Borghese); Ritratto di Agnolo Doni, Ritratto di Maddalena Doni (1506, Firenze, palazzo Pitti); Ritratto di donna, detto La muta (1507, Urbino, Galleria nazionale delle Marche); ecc. In alcune opere, dipinte per chiese perugine è più evidente l’influsso dell’arte di fra Bartolomeo che, sovrapponendosi alle iniziali componenti peruginesche, permette a Raffaello di rinnovare completamente la struttura quattrocentesca della pala d’altare e, seguendo un’ideale classico di perfezione formale, di raggiungere una compostezza e un equilibrio monumentali: Pala Colonna (1503-05 circa, lunetta e scomparto centrale a New York, Metropolitan Museum); Pala Ansidei (1504-06, scomparto centrale a Londra, National Gallery); Trasporto di Cristo (1507, Roma, galleria Borghese). La Madonna del baldacchino (1507-08, Firenze, palazzo Pitti), lasciata incompiuta per andare a Roma, rivela già nel nuovo rapporto stabilito su scala monumentale tra figure e ambiente architettonico quella pienezza e articolazione compositiva che troverà la massima attuazione nei grandi cicli del periodo romano. [1231221] Raffaello si trasferì a Roma alla fine del 1508 chiamato da Giulio II per partecipare, insieme ad altri artisti, alla decorazione delle Stanze vaticane; ben presto però il papa, entusiasta delle prime prove del pittore, gli affidò l’esecuzione dell’intera impresa. Per prima fu affrescata la stanza detta della Segnatura (1508-11): motivo iconografico dominante è l’esaltazione delle idee del vero, del bene e del bello. Del vero, nei due aspetti di verità rivelata, nella teologia (Disputa del Sacramento), e di verità naturale o razionale, nella filosofia (Scuola di Atene); del bene, nelle Virtù cardinali e teologali e nella legge (Gregorio IX approva le decretali, Triboriano consegna le pandette a Giustiniano); del bello rappresentato dalla Poesia (Parnaso); sulla volta, come sollevate in una “sfera delle idee”, appaiono le personificazioni dei principi del vero (rivelato e razionale), del bene e del bello. L’estrema semplicità compositiva è determinante ai fini dell’immediato manifestarsi del valore simbolico delle raffigurazioni; la costruzione dello spazio si fa più complessa grazie all’ideazione di imponenti architetture, umane nella Disputa, reali nella Scuola di Atene, dove il “Tempio della sapienza” si ispira ai progetti di Bramante per il nuovo S. Pietro. Contemporaneamente ai lavori vaticani Raffaello eseguì altre importanti opere: Ritratto di cardinale (1510-11, Madrid, Prado); Madonna d’Alba (1511, Washington, National Gallery of Art); Trionfo di Galatea (1511, Roma, villa di Agostino Chigi, detta Farnesina); Profeta Isaia (1511-12, Roma, S. Agostino), ispirato agli affreschi michelangioleschi della Sistina; Madonna di Foligno (1511-12, Pinacoteca Vaticana). Negli affreschi della seconda stanza, detta di Eliodoro (1511-14) al tono di serena meditazione intellettuale della stanza della Segnatura si sostituisce il tema storico dell’intervento divino in favore della Chiesa (un chiaro riferimento storico al pontificato di Giulio II): anche il linguaggio pittorico si fa più concitato e mosso, ricco di effetti luministici più adatti a rappresentare eventi drammatici (Cacciata di Eliodoro dal Tempio; Liberazione di s. Pietro, dal bellissimo “notturno”); più equilibrati gli episodi della Messa di Bolsena, dove la straordinaria ricchezza cromatica va messa in relazione ai nuovi apporti della pittura veneta (Sebastiano del Piombo, L. Lotto) e dell’Incontro di Attila e Leone Magno. Nel frattempo Raffaello aveva proseguito i suoi studi volti al rinnovamento della pala d’altare, giungendo a soluzioni moderne e originali nella Madonna Sistina (1513-14, Dresda, Gemäldegalerie) e soprattutto nella Santa Cecilia (1514, Bologna, Pinacoteca Nazionale) dove l’estasi della santa diviene il tema unico della sacra rappresentazione. Altre opere notevoli di questi anni sono gli affreschi con Sibille e angeli (1514, Roma, S. Maria della Pace), la Madonna della seggiola (1514, Firenze, palazzo Pitti) e il Ritratto di Baldassar Castiglione (1514-15, Louvre) in cui si fa evidente la tendenza di Raffaello a ricreare e svelare attraverso l’immagine dipinta il carattere “morale” del personaggio ritratto. A Giulio II era intanto succeduto Leone X (1513) e ben presto si spensero le aspirazioni politiche maturate durante il papato precedente: il nuovo papa infatti più che all’azione era incline a circondarsi di una corte dotta e fastosa e a suscitare una cultura di tono apertamente erudito e classicheggiante. Facendosi interprete di questa tendenza della corte papale Raffaello, sintetizzando tutte le esperienze artistiche quattrocentesche, tese con sempre maggiore consapevolezza alla creazione di un nuovo linguaggio artistico basato sul fondamento di una rinnovata classicità. In questi anni si assiste a una attività frenetica, a una continua creazione di idee e soluzioni nuovissime. Convinto della superiorità della “ideazione” (a testimonianza della quale restano una grande quantità di disegni, di altissima qualità) rispetto alla reale esecuzione dell’opera, Raffaello abbandonò quasi interamente alla sua scuola la realizzazione pratica delle opere che gli venivano richieste sempre più abbondantemente. La terza stanza degli appartamenti vaticani, detta dell’incendio di Borgo, di intonazione scopertamente encomiastica, fu infatti eseguita in gran parte dagli aiuti (1514-17; la quarta sala, detta di Costantino, venne interamente eseguita dopo la morte di Raffaello dalla sua bottega, 1520-24). Negli stessi anni Raffaello si dedicò con maggiore partecipazione alla realizzazione dei cartoni per gli arazzi della Sistina, raffiguranti episodi degli Atti degli apostoli (1514-15 circa, Londra, Victoria and Albert Museum; gli arazzi furono esposti nella Cappella Sistina il 26 dicembre 1519). Ma, a partire dal 1514, la sua attività fu soprattutto assorbita dai lavori di architettura, dagli studi sull’antichità e dalla creazione di un nuovo tipo di decorazione a fresco e a stucco, ispirato a esempi antichi (per es., la decorazione della Domus Aurea), i cui risultati straordinari, importantissimi per la futura decorazione di ambienti, possono ammirarsi negli affreschi, eseguiti dalla bottega, della “stufetta” del cardinale Bibbiena (1516, Palazzi Vaticani), della Loggia di Psiche (1517, Roma, villa Chigi), delle Logge e della Loggetta vaticane (1518-19). L’attività architettonica di Raffaello era probabilmente iniziata con la costruzione delle stalle per la villa del banchiere A. Chigi (1511-14, distrutte). Nel 1513 erano iniziati i lavori per la cappella Chigi in S. Maria del Popolo, interamente progettata da Raffaello (la decorazione fu completata nel 1516 con i mosaici eseguiti da Luigi de Pace da Venezia su disegni di Raffaello). Alla morte di Bramante, nel 1514, Raffaello era stato nominato architetto della Fabbrica di S. Pietro, incarico che per circa un anno divise con fra Giocondo e Giuliano da Sangallo: rimasto solo alla direzione dei lavori progettò la trasformazione della pianta centrale bramantesca in pianta basilicale, forse per venire incontro a necessità liturgiche. Nel 1516 iniziarono i lavori per l’edificazione di S. Eligio degli orefici, la cui attribuzione a Raffaello è ancora discussa. In seguito furono progettati il palazzo Branconio dell’Aquila (1517-20; distrutto nel 17° sec.) e villa Madama, il cui progetto originale, solo in parte realizzato e in tempi successivi, rivela in pieno la genialità dell’idea raffaellesca, anticipatrice di soluzioni architettoniche tardocinquecentesche. L’idea grandiosa, non portata a termine a causa della morte precoce, di rilevare la pianta di Roma antica nacque probabilmente alla fine del 1517; a tale scopo Raffaello elaborò un sistema di disegno architettonico in proiezione ortogonale, per pianta, alzato e spaccato, grazie al quale si proponeva di rilevare gli edifici antichi della città, metodo che espose compiutamente in una famosa lettera a Leone X (1519; redatta da B. Castiglione). Tra le ultime opere pittoriche, autografe, si possono ricordare: la Visione di Ezechiele (1518, Firenze, palazzo Pitti); il Ritratto di Leone X con due cardinali (1518-19, Uffizi); il Ritratto di giovane donna, detta la Fornarina (1518-19, Roma, Galleria Nazionale d’arte antica); la Trasfigurazione (1518-20, Pinacoteca Vaticana), in cui il carattere spettacolare e drammatico, la novità e l’originalità dell’invenzione, saranno spunto insostituibile e fondamentale per numerosi pittori delle generazioni seguenti. [123131] Il pittore Tiziano Vecellio nacque a Pieve di Cadore (1480 o 1488-90) e morì a Venezia nel 1576. Per via della discordanza delle fonti la data di nascita di Tiziano, e dunque la definizione della sua presenza nel complesso panorama artistico veneziano dell’inizio del secolo 16°, è questione tuttora non concordemente risolta. Dopo un apprendistato con S. Zuccato, mosaicista, Tiziano fu nella bottega di Gentile Bellini e quindi presso Giovanni Bellini. Il suo orientamento appare subito sicuro e geniale: i suoi riferimenti (Bellini, Giorgione, Dürer, ma anche Raffaello e Michelangelo) si configurano come strumento di aggiornamento e di arricchimento espressivo da parte di una personalità già pienamente indipendente. Tra le prime opere veneziane, accanto alla paletta di Anversa (Musée royal des beaux-arts, 1506 circa), compendio della tradizione belliniana e delle novità tedesche, al giorgionesco Concerto (Firenze, Galleria Palatina), al Cristo portacroce (Venezia, Scuola di S. Rocco), sono gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi (1508-09) dove nel 1508 era all’opera Giorgione. Anche dai pochi frammenti rimasti (Venezia, Ca’ d’Oro) si delinea la distanza tra i due maestri – anche in quelle opere, vicine per impostazione e tematiche, che hanno indotto incertezze attributive (Concerto campestre, 1509-10, Louvre) e ipotesi diverse di collaborazione (Venere, Dresda, Gemäldegalerie) – soprattutto per l’impostazione monumentale e l’ampia gestualità delle figure, i vivi e luminosi accordi cromatici dei vasti piani di colore, evidenti nella prima opera documentata conservata, gli affreschi della Scuola del Santo a Padova (1511). Nel 1513 Tiziano rifiutò l’invito di P. Bembo a trasferirsi a Roma, e contestualmente offrì i propri servigi alla Serenissima, impegnandosi a dipingere una Battaglia per Palazzo Ducale (terminata nel 1538). Artista colto, trattò per committenze ufficiali e private le tematiche più diverse: dalla immediata allegoria moraleggiante delle Tre età (1512-13, Edimburgo, National gallery of Scotland) alla complessa e serrata metafora dell’Amor sacro e Amor profano (1514-15, Roma, galleria Borghese), dove l’assenza di notizie certe sulla sua genesi progettuale è alla base della lunga e discorde storia della sua interpretazione da parte della critica. Tra i dipinti religiosi sono l’Assunta (1516-18) di S. Maria dei Frari, grandiosa macchina luminosa e cromatica che si impone come punto focale nell’amplissimo interno della chiesa; la pala Pesaro (1519-26, per la stessa chiesa), dalla nuovissima e suggestiva impaginazione spaziale basata sulle diagonali; la pala Gozzi (1520, Ancona, Pinacoteca Comunale); il polittico Averoldi (1522, Brescia, SS. Nazaro e Celso), in cui Tiziano restituisce unità scenica alla tradizionale divisione in scomparti. Al successo raggiunto in questi anni fa riscontro il favore incontrato presso le corti italiane e europee: per Alfonso d’Este dipinse grandi tele mitologiche (Offerta a Venere, 1518-19, Prado; Bacco e Arianna, 1522-23, Londra, National Gallery; Gli Andri, 1523-24, Prado); numerosi i ritratti per le grandi famiglie, nei quali alla idealizzazione del carattere o alla rappresentazione del ruolo sociale fa riscontro la straordinaria intensità psicologica o emozionale (Carlo V col cane, 1532-33, Prado; Isabella d’Este, 1536, Vienna, Kunsthistorisches Museum; Francesco Maria della Rovere e Eleonora Gonzaga, 1537, Uffizi); per Guidobaldo della Rovere eseguì la Venere di Urbino (1538, Uffizi), allegoria matrimoniale dalla scoperta sensualità. Il confronto con le esperienze manieriste dell’Italia settentrionale e centrale, culminato con il viaggio a Roma del 1545-46, determinò una nuova fase di sperimentazione stilistica: dalla classica dignità formale delle prime opere Tiziano giunse a nuove soluzioni, dove i contrasti chiaroscurali, il plasticismo e il dinamismo compositivo tendono a risolversi nella preziosità del colore e nel libero e accentuato luminismo (Incoronazione di spine, 1542-44, Louvre; Danae, 1544-45, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte; Paolo III con i nipoti, 1546, ivi). Alla risposta decisamente veneziana data da Tiziano alla cultura romana seguirà tuttavia, con i soggiorni ad Augusta del 1548 e del 1550-51, una rarefazione della produzione per Venezia, che corrispose a un impegno crescente per la committenza di Carlo V e di Filippo II di Spagna. Carlo V a cavallo (1548, Prado) è esempio dell’originalità con cui Tiziano sviluppò il “ritratto di Stato”; sempre per Carlo V trattò il tema religioso nella Gloria (1551-54, Prado), immagine di acuta funzionalità teologico-politica, quindi nella Deposizione (1559, ivi), nella S. Margherita (1560-65, ivi). Per Filippo II tornò ad eseguire dipinti mitologici, ma secondo una nuova interpretazione drammatica e negativa (Venere e Adone, 1554, Prado; Diana e Atteone e Diana e Callisto, 1556-59, Edimburgo, National gallery of Scotland; Morte di Atteone, 1570-76, Londra, National Gallery). Alla sofferta meditazione sul destino dell’uomo delle ultime opere fa riscontro la totale dissoluzione della forma, in un linguaggio fatto di tocchi di luce e colore, spesso dato sulla tela direttamente con le dita; una libertà espressiva per la quale Tiziano accettò anche l’inadempienza dello spregiudicato committente spagnolo, che gli permetteva d’altro canto una totale libertà di invenzione e di interpretazione. Punti cruciali e conclusivi di questo itinerario sono l’Incoronazione di spine (1570, Monaco, Alte Pinakothek), il Supplizio di Marsia (1570, Kromeríz, pinacoteca del castello), la Pietà (Venezia, gallerie dell’Accademia), dipinta per la propria tomba e rimasta incompiuta nel suo studio. Il figlio Orazio (nato nel 1515 circa – morto a Venezia nel 1576) fu suo allievo e collaboratore. [13111] Simbolo della Francia del Grand siècle e dell’assolutismo nell’Europa dell’Antico Regime, Versailles è oggi la città capoluogo del dipartimento di Yvelines. Posta a 15 km dal centro di Parigi, fa parte dell’agglomerazione della capitale francese ed è un importante centro turistico e residenziale, nonché sede di alcune industrie. La città si sviluppò dalla fine del secolo 17° come residenza reale, dopo che il 7 maggio 1682 Luigi XIV vi ebbe fissato la sede della corte e del governo. Nell’epoca dell’egemonia francese sull’Europa, Versailles divenne dunque uno dei luoghi-chiave del sistema di governo introdotto da Luigi XIV. “Re Sole”, che scelse i suoi collaboratori tra i borghesi e ridusse l’antica feudalità a “nobiltà di corte”, obbligò questa nobiltà a fare da brillante comparsa a Versailles, mentre nelle province, già da essa governate, il potere passò nelle mani dell’intendente regio. Da questo punto di vista il coronamento della politica di Luigi è costituito proprio dalla creazione di Versailles e dalla estrema cura che regolava la vita di corte. La grande opera interna di Luigi fu infatti completata dal favore accordato alle arti e alle lettere: la corte fu allora, veramente, al centro dell’intensissima vita culturale francese. Luigi trasportò a Versailles la collezione di dipinti (circa 100) raccolta dai predecessori a Fontainebleau e l’arricchì grandemente: il “Cabinet du roi” ammontò a 1.500 opere; incremento simile ebbero le raccolte di pietre incise, di medaglie, di libri, di disegni e d’incisioni. Luigi assicurò così alla Francia il possesso di inestimabili tesori d’arte, che ancora oggi possiamo ammirare in una Versailles che, topograficamente, mantiene nella sua parte centrale (ai cui margini si sono affiancati nel 19° secolo quartieri industriali di pianta meno regolare) una configurazione molto regolare secondo uno schema scenografico caro al Barocco, con tre strade principali convergenti da lati diversi sulla piazza d’Armi, vastissima piazza che fronteggia il Castello. A Nord Est della parte centrale, il quartiere cittadino dell’epoca di Luigi XIV ha per centro la piazza Hoche e la chiesa di Notre-Dame (J. H. Mansard, 1684). Sotto Luigi XV fu costruito il quartiere sud intorno alla chiesa di Saint-Louis (1742-54), oggi cattedrale. Il primo nucleo del Castello fu un padiglione di caccia eretto da Luigi XIII (1624), restaurato e ampliato (la “cour de marbre”) da Luigi XIV dopo il 1661. Nel 1668 L. Le Vau rivestì tre lati di questo edificio con nuove costruzioni, elevando un’ampia facciata sul lato del parco, la cui sistemazione era stata iniziata nel 1666 da A. Le Nôtre, che ne fece il capolavoro dei giardini alla francese, decorandolo di splendide fontane e di statue. Nel 1678 J. H. Mansard trasformò il Castello verso i giardini: la costruzione di L. Le Vau, modificata, divenne la parte centrale di un vasto complesso. A partire dal 1687 fu costruito il Grande Trianon. Verso il 1690 il castello ebbe il suo aspetto quasi definitivo. Vi fu aggiunta in seguito la cappella (J. H. Mansard e R. de Cotte). Sotto Luigi XV, nuovi ampliamenti furono fatti da G. Gabriel, che costruì anche il classicheggiante Piccolo Trianon (1766), nel cui parco è il celebre Hameau (villaggio) di Maria Antonietta. Luigi Filippo iniziò il restauro del Castello e lo trasformò in museo (galleria delle Battaglie, galleria degli Specchi); vi si conservano importantissime opere d’arte fra le quali quadri di David, Delacroix, Gros, ritratti di Nattier e Rigaud. Questa concentrazione di simboli e di ricchezze spiega il ruolo assunto da Versailles nel corso di vari momenti storici successivi al Grand siècle. Il 5 maggio 1789, in una sala espressamente costruita, si riunirono gli Stati generali: un evento assai importante per la Rivoluzione francese. Il 6 ottobre 1789 Luigi XVI, scortato dai Parigini giunti tumultuosamente a Versailles la vigilia, lasciò con la famiglia il Castello. Ma da allora ebbe inizio la decadenza della città: la popolazione, di 60.000 abitanti all’inizio della Rivoluzione, scese a 36.000. Fu occupata dai Tedeschi nell’ottobre 1870, e il 18 gennaio 1871 il re di Prussia fu incoronato imperatore di Germania nella galleria degli Specchi del Castello. Poco dopo l’Assemblea nazionale, lasciata Bordeaux, vi si stabilì. Alla fine della prima guerra mondiale, Clemenceau volle che il trattato di pace con la Germania, detto di Versailles, venisse firmato (28 giugno 1919) nella galleria degli Specchi. [131111] Figlio (Saint-Germain-en-Laye 1638 - Versailles 1715) di Luigi XIII e di Anna d’Austria; re dal 1643, Luigi XIV (re di Francia, detto il Grande o il Re Sole) rimase sotto la tutela della madre e del cardinale Mazzarino sino alla morte di quest’ultimo (1661), allorché annunciò alla corte che nulla si sarebbe più fatto senza il suo ordine. La celebre espressione L’état c’est moi (“lo Stato sono io”) indicava i chiari intenti assolutistici del suo programma di governo: tutti i suoi sforzi, all’interno, furono rivolti a compiere il processo di accentramento della vita politica della nazione, che la sconfitta della Fronda aveva reso ineluttabile; ridusse l’antica feudalità a “nobiltà di corte”, obbligandola a risiedere a Versailles. Furono creati istituti per rendere più organico e preciso il funzionamento dell’amministrazione (eliminazione di antiche franchigie e privilegi; esautoramento dei parlamenti; nessuna convocazione degli Stati Generali; istituzione degli intendenti). Intensissima fu, per merito di J.-B. Colbert, l’attività del governo nel campo economico e finanziario: grandi lavori pubblici; vigoroso impulso dato all’agricoltura, ma soprattutto all’industria e al commercio; marina mercantile e conseguente espansione coloniale e commerciale. Una radicale riforma dell’esercito fu operata da F.-M. Louvois; più tardi, con S. Vauban, l’organizzazione di un sistema di difesa del paese mediante linee fortificate di protezione e places de frontière diede vita a un complesso di opere di vasto valore strategico e politico, destinato a esercitare profondo influsso sulla situazione della Francia, anche nell’avvenire. Di fronte alla Chiesa cattolica, Luigi seguì una politica di prestigio, sia nel senso di affermare, di fronte al papato, la parziale autonomia della Chiesa francese (le cosiddette libertà gallicane del 1682), sia nel senso di volere l’assoluta dipendenza del clero dal re; vigorosi furono i suoi contrasti politico-giurisdizionali con Roma (affare Créqui a Roma, e occupazione di Avignone e del contado Venassino, 1662-64; affare del diritto di asilo a Roma e nuova occupazione di Avignone, 1687-88). Ortodosso però all’interno, non tollerò la fronda religiosa e perseguitò i giansenisti prima (1664), i quietisti poi; verso i calvinisti adottò una politica di sempre maggior rigore che culminò, con grave danno della Francia stessa, nella revoca (1685) dell’editto di Nantes. La figura di Luigi XIV è circondata, però, da fama europea soprattutto per la sua politica estera, e il suo regno fu il periodo di massima potenza francese in Europa, tale da legittimare il volterriano appellativo di “secolo di Luigi XIV” dato al secolo 17°. Iniziata efficacemente con la guerra di devoluzione (1667-68), la lotta per il predominio europeo continuò con la guerra contro i Paesi Bassi (1672-78) e vide, negli anni successivi alla pace di Nimega, il culmine della potenza del re, che poté, mediante le camere di riunione, procedere alla presa di possesso delle città alsaziane, in particolare Strasburgo (1681), e, mediante un accordo col duca di Mantova, occupare anche Casale. Da una parte, dunque, Luigi risolveva il problema delle frontiere sul Reno, dall’altra metteva più saldo piede in Italia. Ma la potenza francese, esercitata spesso con durezza di forme (bombardamento di Genova, 1684; pressione continua sul ducato di Savoia e sul Brandeburgo), accentuò la reazione delle potenze europee sotto la direzione di Guglielmo d’Orange (dal 1688 re d’Inghilterra): se la guerra della Grande Alleanza (1688-97) ebbe fine nella pace di compromesso di Rijswijk, la lunga guerra di successione di Spagna, si concluse con la perdita dell’egemonia politica, che dalla Francia passò all’Inghilterra. L’azione di Luigi XIV, dunque, se per certi riguardi è in linea con le tendenze dell’epoca, che portavano all’accentramento statale e all’erosione del potere nobiliare, proprio in politica estera sembra legata ai vecchi schemi delle guerre per l’egemonia in Europa; sostanzialmente indifferente egli rimase, infatti, di fronte alle nuove prospettive di espansione coloniale e commerciale, allora felicemente adottate dall’Inghilterra. Anche all’interno gli ultimi quindici anni di regno segnarono una grave crisi del “sistema”; malcontento in Francia per l’assolutismo, le continue guerre, la pressione fiscale; formazione di un nucleo d’opposizione ai metodi del re (Fénelon, Saint-Simon, Boulainvilliers). L’atmosfera di crisi avvolse la stessa vita privata del re. Questi, dopo l’amore giovanile per Maria Mancini, aveva sposato (1659) l’infanta spagnola Maria Teresa d’Asburgo, avendo come favorite prima la duchessa di La Vallière, poi la marchesa di Montespan, dalla quale ebbe parecchi figli, e infine Madame de Maintenon, che, dopo la morte della regina (1683), sposò segretamente; sotto l’influsso di quest’ultima la vecchiaia di Luigi XIV fu ossessionata da continui scrupoli religiosi, sui quali esercitarono il loro peso anche i lutti familiari (1711, morte del delfino; 1712, del figlio ed erede di quest’ultimo, il duca di Borgogna). Al nome del “Re Sole” è legato lo Stile Luigi XIV: stile del mobile francese nella seconda metà del Seicento che risente molto del gusto barocco romano. Ha carattere severo, forme massicce, linee diritte; usa generalmente legni pesanti come la quercia, il noce, ecc., decorati con incrostazioni di tartaruga o di bronzo. Come rivestimento impiega di preferenza il velluto e la tappezzeria pesante dai colori decisi e scuri. J. Le Pautre è il più importante disegnatore di ornati per i mobili eseguiti nel laboratorio di A.-C. Boulle. [13121] Preso in mano il potere effettivo nel 1661, Luigi XIV portò alla sua massima espressione la politica dei grandi ministri (riduzione dell’aristocrazia a nobiltà di corte, attirata nella nuova, fastosa residenza di Versailles) e pose il proprio assolutismo anche a base della politica religiosa: combatté i protestanti (revoca dell’editto di Nantes, nel 1685) e i giansenisti, entrò in aspri contrasti col papato per alcuni privilegi dell’ambasciatore francese a Roma e per i quattro articoli della dichiarazione gallicana del 1682. Sebbene il re, in teoria, governasse da solo, Luigi XIV, almeno nella prima parte del suo regno, ascoltò e attuò i consigli di ministri assai esperti: si deve al Vauban il pregevole sistema difensivo delle grandi fortezze, a M. Le Tellier e a suo figlio François-Michel marchese di Louvois la riorganizzazione dell’esercito francese. Ma nulla eguaglia per importanza la politica economica e finanziaria di J.-B. Colbert, il quale, dopo aver risanato le finanze compromesse dal disordine precedente, iniziò una nuova politica economica di tipo mercantilista, che, se a lungo andare si rivelò dannosa per aver reso più aspri e meno sanabili i contrasti internazionali, fu tuttavia uno strumento mirabile per realizzare il programma di Luigi XIV, assolutista all’interno e imperialista all’estero. Il regno di Luigi XIV fu, infatti, una serie quasi ininterrotta di campagne militari volte a guadagnare le frontiere naturali e a piegare ancora una volta gli Asburgo. Le guerre furono quanto mai fortunate all’inizio: la guerra di devoluzione, con la pace di Aquisgrana del 1668, diede a Luigi XIV numerose città fiamminghe; la guerra di Olanda, con il successivo trattato di Nimega del 1678, attribuì alla Francia altre città fiamminghe e la Franca Contea; la politica delle “Camere di riunione” portò all’annessione di Strasburgo e Casale. Non diedero invece apprezzabili vantaggi né la guerra della Grande Alleanza del 1688-97, né la guerra di successione spagnola. A parte l’innegabile successo in Spagna (insediamento di Filippo V d’Angiò, su quel trono), la lunga guerra risultò dannosa alla Francia, che ne uscì con le frontiere non compromesse, ma con le finanze esauste e le energie infrante. Negli anni della reggenza del duca di Orléans, troppo personalisticamente interessata, per il piccolo Luigi XV (1715-74), sarebbe emersa con evidenza la crisi dell’assolutismo monarchico. Il noncurante sistema di governo dello stesso re avrebbe aggravato la situazione lasciata in eredità dal Re Sole. Nel corso del Settecento “l’opinione pubblica” francese, indignata per gli sperperi dell’ultima parte del regno di Luigi XV e tutta imbevuta ormai della polemica “costituzionale”, sostenuta dagli uomini dell’Illuminismo e dell’Encyclopédie, avrebbe reclamato a gran voce una riforma radicale dell’assetto amministrativo e politico del paese. [13131] Uomo di stato francese negli anni del “Re Sole”, Jean-Baptiste Colbert nacque a Reims nel 1618 e morì a Parigi nel 1684. Figlio d’un ricco mercante di panni, funzionario nella pubblica amministrazione dal 1643, dovette la sua rapida carriera al Mazzarino che, dopo averlo esperimentato come suo amministratore privato (1651, intendente dal 1656), nonché come intermediario con la reggente durante la Fronda, morendo lo raccomandò a Luigi XIV. Dopo aver provocato la caduta del sovrintendente Fouquet, Colbert fu chiamato nel 1661 a far parte del Consiglio delle Finanze, e divenne poi controllore generale (1665), segretario di stato della casa del re (1668) e della marina (1669). Ebbe così in mano tutta l’amministrazione centrale della Francia, che riorganizzò in senso unitario e accentrato, ma fu soprattutto l’iniziatore di un’avveduta politica economica. Preoccupato infatti di assicurare il pareggio del bilancio, convinto della stretta connessione tra finanza ed economia, si dedicò soprattutto a favorire il sorgere e lo sviluppo dell’industria francese, a facilitare le comunicazioni interne, abolendo pedaggi e costruendo strade e canali, a creare una marina mercantile e a promuovere lo sviluppo coloniale francese (appoggi e facilitazioni alle Compagnie delle Indie orientali e occidentali, del Levante, del Senegal). La sua opera ebbe larghe e benefiche ripercussioni, anche se in parte compromesse dalla politica bellicosa di Luigi XIV, e da lui si disse “colbertismo” l’indirizzo di politica economica tendente a proteggere le industrie nazionali. Fu anche appassionato collezionista (per incarico di Luigi XIV e per proprio conto): le raccolte di pitture e di medaglie andarono disperse tra collezioni varie, i manoscritti della sua biblioteca, che era ritenuta la terza d’Europa, furono venduti dagli eredi a Luigi XV. [131311] Il nome “mercantilismo” fu usato (per la prima volta pare dai fisiocrati) per indicare il complesso di principi in materia di politica economica (detto anche sistema mercantile o mercantilista), corrispondente alla prassi dell’epoca in cui si formarono i grandi stati nazionali (secoli 16°-18°). Il termine fu largamente diffuso dalle critiche di A. Smith, che del mercantilismo mise in luce soltanto due elementi caratteristici: la politica indirizzata ad aumentare, entro lo stato, la disponibilità di moneta e il protezionismo tendente a rendere la bilancia commerciale attiva. In realtà il mercantilismo è qualcosa di più complesso e organico e può definirsi come il sistema di politica economica delle grandi monarchie assolute, che con il loro intervento nell’economia miravano a dare più solide basi all’unità statale e a fare dell’incremento della ricchezza nazionale strumento per accrescere la forza dello stato nei suoi rapporti con l’estero. Come dottrina il mercantilismo non ebbe trattazione sistematica. Gli scrittori mercantilisti si occuparono infatti di problemi singoli, soprattutto monetari e commerciali, e sempre da un punto di vista essenzialmente pratico, anche quando le loro indagini sembrano preludere a un pensiero scientifico. I principali furono tutti inglesi: G. Malynes, E. Misselden, Th. Mun, W. Temple, J. Child, Ch. Davenant; in Italia può dirsi mercantilista soltanto M. A. de Santis. Qualche spunto di mercantilismo si trova però anche in altri scrittori, frammisto a idee più libere e chiare (A. Serra, G. Botero, A. Genovesi, J. Bodin, W. Petty, J. Locke, ecc.). Come indirizzo di politica economica il mercantilismo ha avuto invece assai maggiore importanza e attraverso successive evoluzioni ha dominato tutta l’età moderna, raggiungendo il suo culmine verso la metà del secolo 17° nell’Inghilterra di Cromwell e nella Francia del Grand siècle e di Colbert, dove si trasformò in un vero sistema protettore dell’industria nazionale e fu detto anche colbertismo. Alcuni elementi propri della politica mercantilistica si possono già ritrovare nella prassi dei maggiori comuni medievali, specialmente italiani, in cui l’intervento del potere pubblico in materia industriale, commerciale e monetaria aveva assunto sempre maggiore importanza, ma fu soprattutto la trasformazione del potere sovrano da feudale in assoluto che determinò il sorgere di nuove funzioni e conseguentemente di nuove esigenze finanziarie. La creazione di una burocrazia professionale stipendiata al centro e alla periferia, di rappresentanze diplomatiche all’estero e di un esercito permanente, la necessità di rinnovare le opere di difesa e di provvedere a qualche opera e servizio pubblico di interesse generale imponevano grandi spese che le rendite patrimoniali della corona e i donativi dei parlamenti erano insufficienti a fronteggiare; di qui il bisogno di nuove fonti di entrata che spinse i governi a interessarsi dei problemi economici nazionali. “Il commercio è la sorgente delle finanze e le finanze sono il nerbo vitale della guerra” scriveva Colbert nel 1666 riassumendo l’essenza della politica mercantilistica che subordina l’economia alle finalità dello stato e che torna ad affermarsi tutte le volte che si sente la necessità di cementare la coesione e l’indipendenza nazionale (tanto è vero che si è parlato di ritorno al mercantilismo o di neomercantilismo anche nel Novecento, dopo la prima guerra mondiale). Grande è però la varietà di mezzi cui si è fatto ricorso nei vari paesi e nei vari periodi per realizzare lo stesso fine; ed è questa varietà di mezzi che ha dato aspetti diversi alle singole politiche mercantilistiche, per quanto siano state tutte ispirate alle stesse errate premesse, alla identificazione cioè della moneta posseduta da un paese con la ricchezza e alla convinzione che un paese possa in definitiva esportare senza importare. In genere lo sviluppo del sistema mercantilistico si suole distinguere in tre fasi: la prima, precedente alla scoperta dell’America, caratterizzata da divieti di esportazione della moneta e dei metalli preziosi; la seconda detta della bilancia dei contratti, in cui si cercava di incrementare la disponibilità di metalli preziosi attraverso l’obbligo imposto ai mercanti di riportare in moneta nel paese parte almeno del prezzo ricavato all’estero; la terza che, attraverso dazi all’importazione, premi all’esportazione e divieti all’uscita delle materie prime, mirava a creare una bilancia del commercio favorevole. Perduto un po’ alla volta di vista il fine originario di accrescere il saldo attivo in moneta, durante il secolo 17° il mercantilismo andò poi sempre più trasformandosi in un sistema tendente a sviluppare le industrie nazionali e a proteggerle dalla concorrenza estera. Ed è soprattutto in questo periodo, che prende più propriamente nome da Colbert, che il sistema mercantilistico si completa con la creazione delle grandi compagnie commerciali, con l’incremento della marina mercantile, con la politica coloniale, con misure di politica demografica indirizzate a favorire l’aumento della popolazione, con provvedimenti miranti a realizzare o ad accentuare la formazione di un unico mercato nazionale, con una sempre più stretta disciplina della produzione, con la concessione a privati di esenzioni fiscali, privilegi e monopoli e con la creazione di industrie di stato. Non tutti i provvedimenti raggiungevano i loro obiettivi, ma la potenza dei grandi stati in complesso cresceva e ciò confermava per i più la validità del sistema, anche se già alcune voci si levavano a denunciarne i difetti in nome degli interessi dell’agricoltura e soprattutto in nome della libertà. [13141] Il Seicento è stato il secolo della diffusione su scala europea delle accademie, istituzioni nate in senso moderno nell’Italia del Rinascimento, allorché le libere riunioni di umanisti e artisti cominciarono a trasformarsi in organizzazioni regolari. Nel Cinquecento, sul carattere prevalentemente umanistico iniziò a prevalere quello letterario, ma accanto a questi, si sviluppano altri tipi di accademia: svolgimento della umanistica, l’accademia erudita, quale già quella delle Notti vaticane attorno a s. Carlo Borromeo (1560 circa); ma soprattutto l’accademia scientifica, nel senso stretto del termine. Sul modello delle italiane sorsero le accademie straniere: in Francia, sul modello della Crusca, l’Académie française del Richelieu, integrata poi dall’Académie des sciences del Colbert e da altre; in Inghilterra, dopo il progetto di un “Collegio pansofico” internazionale, per cui S. Hartlib aveva invitato anche il Comenio (1642), sorse, dal cosiddetto Invisible College, la scientifica Royal Socíety (1662); a Madrid, l’Academia naturae curiosorum (1557); in Germania quella dello stesso nome di Halle (1652) e già, a Weimar, la “società fruttuosa” (Fruchtbringende Gesellschaft, 1617). Ma la moltiplicazione si ha con il secolo successivo, in cui sorgono in tutta Europa le accademie erudite, storico-filologiche, e più ancora le scientifiche, specie nella seconda metà del secolo. Vi contribuisce l’entusiasmo o, almeno, l’amor proprio dei principi “illuminati”. Varie ne fondarono anche pontefici quali Clemente XI e Benedetto XIV. Si avvertì il bisogno di far conoscere i propri lavori ed essere informati degli altrui, mediante la pubblicazione e lo scambio di atti, memorie, rendiconti, ecc. In Italia, però, le numerosissime accademie mantennero per lo più carattere letterario. Tra le Accademie d’insegnamento di belle arti, in quanto istituti regolari a scopo didattico, la più antica fu quella delle arti del disegno, istituita a Firenze nel 1563, a cui seguì un grande diffusione di questo tipo di istituti in molte città italiane. In Francia, nel 1648 fu chiesta e ottenuta dagli artisti un’accademia libera, a cui nel 1661, essendone protettore J.-B. Colbert e cancelliere Ch. Lebrun, fu imposto d’iscriversi a tutti gli artisti di corte; nel 1666 le fu aggregata l’Accademia di Francia a Roma. Altre ne sorsero, talune private, in varie città tedesche, tra cui quella di Berlino (1701), e fiamminghe, a Vienna (1705), a Madrid (Accademi de San Fernando, 1744; le scuole d’arte e architettura ne dipesero fino al 1857), e a Londra, private (come quella detta, dalla via in cui risiedeva, di St. Martin’s Lane, 1720, e sotto la direzione di W. Hogarth dal 1734), poi pubbliche (Society of Artists of Great-Britain, fondata nel 1766 da J. Reynolds e che dal 1768 ebbe il nome di Royal Academy). Il neoclassicismo, che concepiva la bellezza secondo canoni di valore universale, offrì un clima favorevole all’insegnamento accademico e dappertutto in Europa (e anche in America, a Città di Messico e a Filadelfia) sorsero nuove accademie o furono riorganizzate le antiche. Altre notevoli riforme portarono la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico, anche in Italia: dove con l’unificazione, e poi altre volte, furono nuovamente modificate le norme relative all’insegnamento artistico, e, se vecchie accademie vennero mantenute anche come associazioni di artisti, le loro raccolte di opere d’arte (come a Bologna, Milano, Parma, Venezia) divennero per lo più proprietà dello stato, passando alle dipendenze dirette del ministero della Pubblica istruzione. Accanto a queste, si svilupparono le accademie dedicate principalmente o anche esclusivamente alla musica, così sotto l’aspetto teorico, come sotto quello pratico dell’esecuzione di opere musicali in concerti e rappresentazioni teatrali, e anche dell’insegnamento (ma per le istituzioni con scopi didattici prevale piuttosto, specie in Italia, il nome di conservatorio). Tra le più antiche e celebri è quella degli Intronati (1460) a Siena. Anche le accademie musicali furono largamente imitate in tutta Europa. Importantissima l’Académie de musique (1669) di Parigi, sorta col privilegio di rappresentare opere e drammi con musica e versi francesi, a cui fu unita la scuola di canto e recitazione (1787), nel teatro della rue Le Peletier e, dopo l’incendio di questo, nella nuova lussuosa sede, il teatro dell’Opéra (1875). [13211] L’avvento della dinastia scozzese degli Stuart, accompagnato da contrasti politici e religiosi, pose fine per mezzo secolo all’intervento dell’Inghilterra nelle vicende politiche del continente europeo. La politica assolutistica di Giacomo VI di Scozia, I d’Inghilterra (1603-25), che per la prima volta riunì le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, proseguita con ostinazione anche maggiore da Carlo I (1625-49), determinò un contrasto sempre più grave tra corona e parlamento. Entro quest’ultimo, le forze della media aristocrazia campagnola (gentry) e della nuova borghesia cittadina, in parte animate dallo spirito intransigente dei gruppi puritani, si opponevano con egual vigore ai tentativi degli Stuart di instaurare una prassi di governo personale e di introdurre forme concilianti di protestantesimo (arminianesimo) o, come si diceva, di criptocattolicesimo. L’apertura del Lungo parlamento e le successive vicende trasformarono i contrasti politici in guerra civile (1642). Mentre intorno al re si schieravano anglicani, cattolici e la maggioranza dei gentiluomini (cavalieri), la massa dei borghesi, dei piccoli proprietari rurali, dei puritani e degli indipendenti – le cosiddette teste rotonde – costituì l’esercito del parlamento. L’energia del suo capo, Oliver Cromwell, seppe trarre dalla vittoria militare tutte le possibili conseguenze politiche, fino all’imprigionamento, il processo e la condanna del re (1649). Dopo un tentativo d’instaurare una repubblica oligarchica, basata su un parlamento epurato degli elementi stuardisti, si venne a una dittatura di Cromwell (dal 1653), che assunse il titolo di Lord Protettore, e consolidò il suo potere con una ferrea politica all’interno, e un’audace politica estera, che ottenne successi cospicui, come la vittoriosa conclusione della guerra contro l’Olanda seguita all’Atto di Navigazione (proclamato nel 1651), guerra che sancì il dominio inglese sui mari. Ma si trattava di un regime effimero, legato in definitiva alla forte personalità di Cromwell, che significativamente non poté assicurarsi una successione. Il figlio di lui, Riccardo, abbandonò il potere dopo pochi mesi (1659), e dopo una serie di contrasti interni si giunse alla restaurazione stuardista, con Carlo II (1660). Nonostante i tentativi di reazione politica e religiosa seguiti alla proclamazione del nuovo regno, fu ben presto chiaro che un puro e semplice ritorno al passato era impossibile. L’opposizione parlamentare rinacque; la politica di acquiescenza alla Francia di Luigi XIV, svolta da Carlo II e dal ministero detto della Cabala, a lui devoto (trattato segreto di Dover, 1670; partecipazione alla guerra d’Olanda, 1672), suscitò critiche aspre: il contrasto si aggravò allorché si pose in tutta la sua gravità il problema della successione a Carlo II, nella persona del fratello Giacomo (II). Nel corso della lotta per la votazione del bill d’esclusione, che mirava a escludere dalla successione Giacomo perché cattolico, e nella votazione del bill dell’Habeas corpus, che garantiva la libertà personale contro gli arbitri regi (1679), si andarono differenziando i due partiti dei tories e dei whigs, il primo sostenitore e il secondo limitatore delle prerogative reali. Allorché a Giacomo II, sposatosi in seconde nozze con una principessa cattolica, nacque un figlio che fu battezzato cattolico, la situazione s’inasprì, e le correnti d’opposizione decisero di fare appello, per salvaguardare la libertà religiosa e l’indipendenza del regno, allo statolder Guglielmo d’Orange, marito di una figlia del sovrano. La “pacifica” (o, come dissero i contemporanei, “Gloriosa”) rivoluzione (1688) fu suggellata dall’accettazione da parte del nuovo sovrano di una dichiarazione dei diritti (1689) mirante a garantire i diritti del popolo inglese e a fissare i rapporti tra monarca e parlamento. Nel periodo che corre dall’avvento di Guglielmo all’avvento della dinastia degli Hannover, si ebbe un consolidamento dell’unità nazionale, attraverso l’Atto di unione con la Scozia (1707), e l’assunzione del nuovo nome di Gran Bretagna, mentre si gettarono le basi dell’ostilità antifrancese (partecipazione alla guerra della Lega d’Augusta e alla guerra di successione spagnola), che proseguì poi ininterrottamente per tutto il secolo 18°. Nello stesso periodo prese corpo l’impero coloniale inglese e l’ascesa britannica a potenza mondiale. [13221] Esausta per il lungo sforzo bellico (guerra dei Trent’anni, 1618-1648), attraversata da una nuova profonda crisi economica e demografica, che la colpì a partire dal 1620 in poi, e da una serie di agitazioni sociali e politiche, l’Europa della seconda metà del 17° secolo ha fatto parlare gli storici di una crisi generale del Seicento. Dal punto di vista delle vicende politiche, questo periodo fu caratterizzato dal tramonto dei tentativi di egemonia sul continente avanzati dagli Asburgo, dalla decadenza della Spagna e di tutta l’area mediterranea, dalla decisa ascesa di Inghilterra e Olanda. In questo contesto va letto il tentativo egemonico della Francia di Luigi XIV. La Spagna rimaneva un grande impero, con un ruolo di primo piano nella politica internazionale. Essa visse nei secoli 16° e 17° il siglo de oro della sua civiltà, dando un contributo altissimo alla storia dell’arte e della cultura europea. Ma non era più in grado di prendere l’iniziativa di una grande azione politica, avendo, anzi, ora bisogno di appoggi e di alleanze per mantenere la sua posizione. In Inghilterra la dinastia degli Stuart, salita al trono nel 1603, entrò in urto, anche per i suoi sforzi assolutistici, con l’opinione protestante (anglicana e calvinista) dominante nel paese. Ne nacque una lunga guerra civile, che si concluse nel 1649 con la decapitazione del re Carlo I e la proclamazione della repubblica sotto il governo di Oliver Cromwell. Poi nel 1660 furono restaurati gli Stuart, ma, riproducendosi il loro antagonismo col paese, nel 1688 una nuova incruenta rivoluzione li allontanò definitivamente e ristabilì la monarchia su basi protestanti e non assolutistiche. In Francia, dove nel 1643 Luigi XIV era succeduto, a due anni, al padre e il Mazzarino a Richelieu, oltre a una lunga serie di rivolte contadine, fra le maggiori delle molte verificatesi in tutta Europa nel secolo, si ebbero fra il 1648 e il 1652 le due rivolte della Fronda (quella parlamentare e quella dei principi), che si conclusero con la piena restaurazione del potere monarchico. Francia e Inghilterra fornirono allora i modelli di regime intorno a cui avrebbe poi gravitato la vita politica europea. Non era ancora un pieno liberalismo quello inglese, né era un completo assolutismo quello francese. Aveva, però, un’importanza decisiva il carattere prevalentemente aperto e dinamico del modello inglese e quello unificatore e razionalizzante del modello francese. La monarchia costituì allora l’istituzione più caratteristica del diritto pubblico in Europa. I regimi repubblicani non mancarono. Essi ebbero nelle città (specialmente italiane) esempi cospicui. Repubbliche rimasero Venezia, l’Olanda, la Svizzera, che furono tra il secolo 16° e il 18°, l’una dopo l’altra, l’oggetto di un mito del vivere libero, del buon governo, della saggezza politica. Ma li si considerava, in sostanza, come eccezioni alla norma. La monarchia di diritto divino, affermatasi in contrasto con i poteri medievali “universali” della Chiesa e dell’Impero, appariva come un potere la cui legittimità poteva essere presupposta come originaria, oltre che consolidata dalla tradizione. La legittimità assunse la forma della trasmissione ereditaria del trono; e ciò può far capire perché molti conflitti europei assunsero l’aspetto di guerre di successione e perché matrimoni e combinazioni dinastiche avessero un’importanza politica preminente. Rare furono anche qui le eccezioni: stabilizzatasi di fatto l’ereditarietà dell’Impero negli Asburgo, sarebbe rimasta solo la Polonia a praticare l’elezione del re, con effetti peraltro disastrosi sulla sua sopravvivenza di stato indipendente, tanto che alla fine del secolo 18° portarono alla sua spartizione tra Austria, Prussia e Russia. Amministrazione, diplomazia, eserciti e sistemi di imposte permanenti caratterizzarono la struttura statale dello stato moderno, così come una politica economica prevalentemente protezionistica e dirigistica, che privilegiava l’accumulazione monetaria e lo sviluppo commerciale (donde la definizione di mercantilismo). I problemi finanziari furono, tuttavia, il vero tallone d’Achille delle monarchie. Il costo dello stato moderno era di molto superiore a quello del vecchio ordinamento feudale, tanto meno complesso e largamente diffuso sul territorio; ed era ulteriormente accresciuto dalle guerre e dalla politica dinastica. [132211] Luigi XIV, che prese di persona il governo in Francia alla morte di Mazzarino nel 1661, poté di nuovo avviare, nell’eclisse della potenza spagnola, una fase di grande politica di espansione. Guerra di devoluzione (1667-68), guerra d’Olanda (1672-78), guerra della Lega d’Augusta (1688-97), bombardamento di Genova (1684), “riunioni” alla Francia di Strasburgo e di varie zone d’Alsazia e Lorena (1681), espansione coloniale in America (Canada e Luisiana), in India e in Africa ne segnarono le varie tappe ed aspetti. La reazione delle potenze europee fu lenta, ma sempre più determinata, con un’applicazione sempre più esplicita e consapevole della politica di equilibrio, per cui a ogni spinta espansionistica rispondeva una coalizione che vi si opponeva e a ogni guadagno territoriale di una potenza dovevano corrispondere guadagni altrui che bilanciassero il rapporto di forze generale. Così l’ingrandimento francese (con Strasburgo, la Franca Contea, varie piazzeforti fiamminghe, ecc.) fu compensato da quelli di Inghilterra e Austria, che emergevano ora come potenze decisive per l’equilibrio (l’una sul mare e fuori d’Europa, l’altra sul continente), mentre Spagna e Olanda erano costrette a consumare le loro energie per far fronte all’offensiva del Re Sole, come in Francia venne definito Luigi XIV per lo splendore a cui portava la potenza della monarchia e l’economia, le lettere e le arti del paese. L’Olanda fu allora superata dall’Inghilterra, che aveva più volte vinto, ma conservò i suoi possedimenti nelle Indie orientali e in alcune parti d’Africa e d’America. Anche la civiltà olandese conobbe allora il suo massimo splendore, quasi facendo da ponte tra il “secolo d’oro” in Spagna e il “secolo di Luigi XIV” in Francia. Il sopravvento inglese nei commerci, nella navigazione mercantile e nella marina militare avrebbe poi avuto il suo collaudo nelle tre consecutive guerre di successione: la spagnola, la polacca (1733-38) e l’austriaca, dalle quali, mentre furono confermati i tratti caratteristici del sistema dell’equilibrio, la geografia politica europea venne fortemente mutata. La corona spagnola, estintosi il ramo asburgico disceso da Carlo V, toccò a un ramo cadetto dei Borboni di Francia, ma perse i suoi domini d’Italia e dei Paesi Bassi. Questi ultimi, più Milano, toccarono all’Austria. Napoli e la Sicilia andarono a un ramo cadetto della nuova dinastia borbonica di Spagna. L’Inghilterra acquistò, con il possesso di Gibilterra, il controllo dell’ingresso nel Mediterraneo. La Francia si assicurò la Lorena e migliorò i suoi confini verso il Reno. I duchi di Savoia divennero re di Sardegna, i marchesi di Brandeburgo re di Prussia, i duchi di Baviera e di Sassonia ottennero anch’essi il titolo regio. Fu l’apogeo della politica dell’equilibrio, con un ridimensionamento delle superpotenze, Spagna e Francia, che avevano dominato da Carlo V a Luigi XIV, e l’ascesa di nuove grandi potenze. L’Inghilterra aveva ormai conseguito posizioni coloniali di prim’ordine ed era indiscutibilmente la prima potenza navale. L’Austria aveva non solo conseguito gli ingrandimenti dovuti alla sua partecipazione alla spartizione dell’eredità degli Asburgo di Spagna, bensì anche acquistato una posizione di primo piano nell’area danubiana. Gli Ottomani avevano manifestato ancora una forte capacità espansiva, assediando Vienna nel 1683, centocinquant’anni dopo l’assedio del 1532. Fra queste date, anche dopo Lepanto, essi avevano ancora esercitato la loro spinta sia nel Mediterraneo che nei Balcani, sottraendo, fra l’altro, a Venezia l’isola di Creta con una lunga guerra venticinquennale (1644-69). Il fallimento dell’assedio di Vienna segnò invece l’inizio di un progressivo declino della loro potenza. Alla metà del secolo 18° l’Austria aveva liberato totalmente l’Ungheria dalla soggezione che subiva dal 1526, giungendo fino in Croazia; e, a sua volta, la Russia aveva portato avanti una marcia sul Mar Nero e sul Caucaso, che riduceva ulteriormente e gravemente lo spazio ottomano: una marcia che, proseguita con grande costanza, concorse già prima della fine del secolo a fare della Turchia l’“uomo malato” dell’equilibrio europeo (quale sarebbe rimasta per tutto il secolo 19°) e che affacciò l’eventualità di una presenza russa a Costantinopoli con ripercussioni gravissime sull’equilibrio mediterraneo e continentale, cui soprattutto Inghilterra e Austria erano estremamente sensibili. La Russia si affermò infatti nel corso del secolo, insieme alla Prussia, come nuova grande potenza. Già nella seconda metà del secolo 17° si era assistito al declino di Svezia e Polonia, che dalla fine del secolo 16° dominavano rispettivamente lo spazio baltico e quello europeo-orientale ed erano stati alleati tradizionali della Francia nella sua lotta antiasburgica. La Russia ne trasse i maggiori guadagni, specialmente da quando sotto Pietro I (1689-1725) prese a sviluppare una grande politica di occidentalizzazione del paese e dello stato, di cui il trasferimento della capitale da Mosca a San Pietroburgo, da lui fondata sul Baltico, divenne il simbolo. A sua volta, la Prussia si era sviluppata come grande potenza militare e sotto Federico II (1740-86), oltre a rafforzarsi decisivamente su questo piano, aveva sottratto all’Austria l’importante regione della Slesia e si era posta, con ciò stesso, quale temibile antagonista degli Asburgo nell’ambito germanico e imperiale. Proprio per fermare la sua marcia si combatté la guerra dei Sette anni (1756-63), che, con un clamoroso rovesciamento delle alleanze, associò l’Austria alla Francia e alla Russia. Appoggiata dall’Inghilterra, costante nella sua politica di equilibrio, la Prussia superò tuttavia indenne la tempesta, mentre la Francia fece tutte le spese di un conflitto che, da più di un punto di vista, può essere considerato la “prima guerra mondiale” combattuta da potenze europee, avendo interessato parimenti i domini coloniali francesi e inglesi dall’America all’India. Fu allora liquidato il primo impero extra-europeo della Francia che, dai tempi di Luigi XIV, si era via via cospicuamente ingrandito. Canada e India divennero allora zona di espansione inglese; la Francia salvò la Luisiana e qualche emporio indiano. L’Inghilterra, che già si era assicurata posizioni di privilegio nel commercio tra la Spagna e l’America Latina, si espanse su tutta la costa americana dalla Florida allo Stretto di Hudson. Il primato dell’Europa nel mondo appariva saldamente stabilito ed essa premeva ormai anche sulla Cina e sul Giappone. [13231] La Spagna dopo la guerra dei Trent’anni – abbandonati, con la pace dei Pirenei (1659), Artois, Lussemburgo, alcune piazzeforti delle Fiandre, Rossiglione e Cerdaña, dopo aver dovuto riconoscere l’indipendenza dei Paesi Bassi e quella del Portogallo (1640) – vide accrescere anche la crisi interna (1609, espulsione dei Moriscos con grave danno per l’agricoltura; commercio coloniale sempre più insidiato da Olandesi, Francesi e Inglesi; deficit gravissimo; governo dei grandi favoriti o privados). Tale situazione si aggravò ancora durante il regno di Carlo II (1665-1700), che dovette cedere alla Francia altre piazzeforti delle Fiandre e la Franca Contea, e alla sua morte – avvenuta senza eredi maschi – la guerra di successione rivelò come il paese, un secolo prima potenza dominante in Europa, era scaduto a semplice “oggetto” di politica internazionale. La guerra di successione di Spagna fu provocata dalla morte senza discendenti di Carlo Il, re di Spagna (1° novembre 1700). Già prima della morte del sovrano, i candidati più diretti alla successione, Luigi XIV di Francia e l’imperatore Leopoldo I, in seguito ai rispettivi matrimoni con Maria Teresa e Margherita Maria, due sorelle di Carlo, non nascosero entrambi il loro desiderio di subentrare, quali eredi, nel possesso del vastissimo impero spagnolo. Le speranze di ambedue i pretendenti furono tuttavia deluse dallo stesso Carlo, che nel novembre 1698 designò a proprio erede Giuseppe Ferdinando di Wittelsbach, elettore di Baviera. L’improvvisa morte di questo (febbraio 1699) riaccese la contesa tra le sorti di Parigi e Vienna, e Luigi XIV, desideroso di regolare in anticipo, con accordi segreti, le sorti dell’eredità madrilena, concluse con Inghilterra e Province Unite un trattato di spartizione della monarchia spagnola (marzo 1700). Tanto maggiore fu pertanto l’imbarazzo del re francese, quando, morto Carlo Il, venne a conoscenza delle sue ultime volontà, per cui Filippo d’Angiò, secondogenito del Delfino, era nominato erede universale della monarchia, con la clausola che la corona di Spagna non venisse mai unita a quella di Francia. Dopo qualche esitazione, Luigi XIV accettò il testamento e il nuovo re fu riconosciuto senza contrasti a Madrid. L’Inghilterra dapprima accettò la successione di Filippo V, ma l’ingerenza della Francia negli affari politici e militari spagnoli, tale da giustificare ogni dubbio sull’asserita divisione delle corone di Francia e di Spagna, spinse ben presto le Potenze Marittime all’alleanza con l’imperatore, irremovibile nel mantenere la candidatura del suo secondogenito Carlo alla corona di Spagna. Anzi, assai prima che Leopoldo e Guglielmo III d’Orange stipulassero la Grande Alleanza dell’Aia (7 settembre 1701), gli imperiali, al comando di Eugenio di Savoia, erano penetrati in Lombardia, con il pretesto che si trattava di un feudo dell’Impero da considerarsi vacante. La fortuna delle armi, dapprima favorevole ad Eugenio, si capovolse successivamente fino a ridurne le comunicazioni con l’Austria alla sola via dell’Adige e a costringerlo all’inattività per la scarsezza delle sue forze. Nella primavera del 1702, con la dichiarazione di guerra inglese, il conflitto si estese a tutta l’Europa. In Germania i principi della casa di Wittelsbach, l’elettore di Baviera e quello di Colonia, si dichiararono per Luigi XIV, al quale la sorte delle armi fu nel complesso favorevole sia nel 1702, sia nel 1703. Vittorio Amedeo Il, duca di Savoia, già alleato della Francia, deluso nelle sue aspirazioni sul Milanese, nel novembre 1703 passò alla coalizione antiborbonica. Nonostante questa defezione, l’esercito francese volle tuttavia operare nel 1704 lo sfondamento verso Vienna, ma la manovra si concluse con un disastro: nella battaglia di Höchstädt (13 agosto 1704) le forze franco-bavaresi furono duramente disfatte dagli Anglo-Olandesi e dagli Imperiali diretti dal duca di Marlborough e dal principe Eugenio. Questa battaglia fu lo scontro decisivo di tutta la guerra e da allora i Franco-Spagnoli si trovarono ridotti alla difensiva. Nel medesimo anno, in seguito all’adesione del Portogallo alla Grande Alleanza, la guerra fu portata anche nella stessa Spagna, dove gli Inglesi si impadronirono di Gibilterra, mentre l’arciduca Carlo, entrato facilmente in Catalogna, occupò Barcellona (1705) e costrinse lo stesso Filippo V ad abbandonare temporaneamente Madrid. Luigi XIV aveva nel frattempo concentrato ogni suo sforzo contro il duca di Savoia, ma Torino, stretta d’assedio fin dal settembre 1705, oppose una strenua resistenza, che si protrasse fino all’arrivo dell’esercito liberatore di Eugenio di Savoia (battaglia di Torino, 7 settembre 1706). L’Italia aveva cessato di essere campo di battaglia: la Lombardia cadde nelle mani degli imperiali e Luigi XIV stipulò con l’imperatore Giuseppe I, succeduto a Leopoldo nel 1705, la neutralità della penisola (agosto 1707). La guerra intanto si avvicinava sempre di più al cuore della Francia. La vittoria di lord Marlborough a Ramillies (23 marzo 1706) valse la conquista dei Paesi Bassi spagnoli, e l’altra a Audenarde, conseguita dalle forze congiunte di Marlborough e di Eugenio (11 luglio 1708), determinò l’occupazione di Lilla; in Italia, fin dal luglio 1707 il generale L. J. Daun aveva intanto Conquistato Napoli. La Francia era ridotta ormai agli estremi e Luigi XIV iniziò nel maggio 1709 trattative di pace all’Aia, che fallirono soprattutto per la richiesta dell’impegno da parte del Re Sole di imporre, se necessario, con le proprie armi al nipote Filippo la rinuncia alla corona spagnola. La guerra fu ripresa; una nuova battaglia sanguinosissima, fu combattuta a Malplaquet (11 settembre 1709), senza vinti ne vincitori. Le nuove trattative di pace, svoltesi a Gertruydenberg, risultarono vane anch’esse; nell’agosto 1710 l’arciduca Carlo (che aveva assunto fin dal 1705 il nome di Carlo III) entrò in Saragozza. La disfatta totale, diplomatica e militare, della Francia e della Spagna sembrava ormai solo questione di tempo, quando si verificarono alcuni avvenimenti che sfaldarono la compattezza della coalizione avversaria. In Inghilterra, l’avvento al governo dei tories, che erano contrari alla guerra, portò al richiamo di Marlborough e all’inizio di trattative di pace con la Francia (1710-11). Nel corso di tali trattative morì l’imperatore Giuseppe I (17 aprile 1711), a cui doveva succedere, in virtù del pactum mutuae successionis del 12 settembre 1703, l’arciduca Carlo, pretendente alla corona di Filippo V. La riunione dei possedimenti della casa d’Austria a quelli della corona di Spagna in una sola persona avrebbe alterato sostanzialmente l’equilibrio politico europeo: essa costituiva un pericolo assai più imminente e grave di “monarchia universale” che non l’ascesa al trono spagnolo di Filippo V. L’11 aprile 1713, a Utrecht, la Francia firmò la pace con le Potenze Marittime, con il duca di Savoia, con il Portogallo e con la Prussia. L’Austria e l’Impero continuarono nella lotta ancora per diversi mesi, ma, costretti a fronteggiare da soli la Francia, finirono anch’essi per acconsentire alla pace, conclusa infine a Rastatt (7 marzo 1714) e a Baden (7 settembre 1714). Filippo V conservò pertanto la corona spagnola, ma cedette all’imperatore Carlo VI il Regno di Napoli, la Sardegna, i Presidi Toscani, il Milanese, i Paesi Bassi; al duca di Savoia la Sicilia, con il titolo regio; all’Inghilterra Gibilterra e Minorca. All’Inghilterra furono inoltre riconosciuti privilegi commerciali ed economici in territori soggetti alla sovranità spagnola. [13241] Dopo la morte di Teodoro (1682) e la breve reggenza della sorella Sofia salì al trono di Russia Pietro I il Grande (1689-1725). Durante il suo regno, la Russia conobbe un rinnovamento dell’organizzazione militare e civile dello stato, accanto ai primi segni di sviluppo economico e alla ripresa di una politica espansionistica: questo insieme di fattori pose le basi per la trasformazione della Russia (dal 1721, Impero russo) in una delle principali potenze europee. Allo sviluppo delle prime industrie (in campo manifatturiero e minerario) contribuì notevolmente la creazione di un esercito permanente e di una marina militare, voluti da Pietro I in sostegno alla propria politica estera. Quest’ultima si sviluppò, secondo il tradizionale orientamento, a nord-ovest, per il controllo del Mar Baltico, e a sud-ovest, contro l’Impero ottomano che esercitava il proprio predominio sul Mar Nero. Con la Seconda guerra del Nord (1700-21) la Russia riuscì a imporre la propria egemonia nella regione baltica e con la pace di Nystad (1721) ottenne dalla Svezia la Carelia, l’Ingria, l’Estonia e la Livonia. L’acquisizione di numerosi porti sul Mar Baltico (oltre a Pietroburgo, fondata nel 1703 alla foce della Neva e divenuta nel 1712 capitale russa) permise un significativo incremento degli scambi commerciali. All’interno, Pietro I concentrò la propria opera verso il rafforzamento del potere statale in senso centralistico e autocratico: creò un Senato (1711), con poteri consultivi, sottoposto al diretto controllo dello zar, riorganizzò l’amministrazione statale e, a partire dal 1708, procedette a un riordino di quella locale, con la creazione dei primi governatorati. La condizione dei contadini peggiorò ulteriormente, anche in seguito all’introduzione (1708) di una tassa individuale maschile, il testatico, che sostituì le precedenti forme di esazione su base familiare. La nobiltà, che godeva dell’esenzione dalle tasse, fu invece sottoposta all’obbligo del servizio statale, nella carriera amministrativa o in quella militare. Anche la Chiesa ortodossa, dopo l’abolizione del patriarcato (1721) e la creazione del santo sinodo (assemblea ristretta di ecclesiastici, sotto il controllo di un rappresentante dello zar), fu strettamente subordinata allo stato. I provvedimenti di Pietro I furono in parte ridimensionati dai suoi immediati successori (Caterina I, 1725-27; Pietro II, 1727-30; Anna Ivanovna, 1730-40; Elisabetta, 1741-61, Pietro III, 1762). [13251] La guerra di successione austriaca fu determinata dalla morte dell’imperatore Carlo VI (20 ottobre 1740) e dall’ascesa sul trono asburgico di Maria Teresa, sua figlia, in virtù della Prammatica Sanzione del 1713, approvata dai diversi stati regionali della monarchia e dalle potenze europee. Il problema della successione sembrava pertanto politicamente risolto, ma esso fu riaperto, a due mesi dalla morte di Carlo VI, da Federico II di Prussia, desideroso di iniziare il suo regno (era salito sul trono il 31 maggio) con un prestigioso successo politico, e precisamente con l’estensione della sovranità prussiana sulla Slesia, da lui invasa il 16 dicembre 1740. Dopo la sconfitta austriaca a Mollwitz (10 aprile 1741) la Francia accordò ogni effettivo appoggio politico ai fautori di uno smembramento dei domini ereditari austriaci e soprattutto al pretendente principale alla successione, Carlo Alberto, elettore di Baviera, che aveva sposato nel 1722 Maria Amalia, figlia minore dell’imperatore Giuseppe I (fratello di Carlo VI). Carlo Alberto, con l’aiuto militare francese (la dichiarazione formale di guerra da parte della Francia avrà luogo però solo nell’aprile 1744), iniziò la guerra di successione vera e propria il 31 luglio, occupando di sorpresa Passau. Alla fine di settembre del medesimo anno lo schieramento politico contro Maria Teresa era formalmente completato. Con la Baviera avevano concluso trattati d’alleanza la Spagna (Nymphenburg, 28 maggio) e la Sassonia-Polonia (Francoforte, 19 settembre), dividendosi in anticipo le spoglie del nemico. Solo la Gran Bretagna assisteva amichevolmente Maria Teresa. Carlo Alberto aveva intanto occupato Linz, dirigendosi poi su Praga, dove fu incoronato re di Boemia; il 12 febbraio 1742 fu eletto anche imperatore. Maria Teresa, con l’aiuto preminente degli Ungheresi, poté riorganizzare nel frattempo l’esercito; l’energica controffensiva austriaca del gennaio-febbraio 1742 allarmò Federico Il di Prussia, timoroso che Maria Teresa si volesse sottrarre, ora che la sorte delle armi le era favorevole, all’impegno, assunto con il trattato segreto di Kleinschnellendorf (9 ottobre 1741), di cedergli la bassa Slesia. Il re di Prussia riprese pertanto la guerra, sconfisse gli Austriaci nella battaglia di Chotusitz (17 maggio 1742), presso Caslav, e ottenne l’11 giugno 1742, nei preliminari di Breslavia, la Slesia e la contea di Glatz. In Italia, Carlo Emanuele III di Sardegna, dapprima aderente al blocco antisustriaco, impaurito dalle mire spagnole sulla Lombardia si alleò nel febbraio 1742 con Maria Teresa. Alla fine del 1742 gli Austriaci rientrarono anche in possesso di Praga. L’anno 1743 portò a un intervento più deciso della Gran Bretagna negli affari europei, a fianco dell’Austria e contro le velleità egemoniche della Francia: l’armée pragmatique (costituita da Inglesi, Hannoveriani, Assiani e Austriaci) al comando di Giorgio II sconfisse il 27 giugno a Dettingen i Francesi. Alcuni mesi dopo, il 17 settembre 1743, la diplomazia inglese convinse Maria Teresa dell’opportunità di concludere con Carlo Emanuele III il trattato di Worms, i cui articoli prevedevano la cessione di alcuni territori della Lombardia al Piemonte. Questo trattato segnò l’inizio di una nuova fase della guerra. I legami tra Francia e Spagna diventarono ancora più stretti con il cosiddetto secondo patto di famiglia di Fontainebleau (25 ottobre 1743), in cui Luigi XV s’impegnò ad aiutare Filippo (poi duca di Parma) nella conquista della Lombardia e di Parma e Piacenza nonché a dichiarare guerra alla Gran Bretagna; anche Federico II si accostò alla Francia, concludendo con essa una formale alleanza (5 giugno 1744). Nella tarda primavera del 1744 i Francesi avevano attaccato con grandi forze i Paesi Bassi austriaci, ma la manovra fu interrotta dall’esercito di Carlo di Lorena, penetrato in Alsazia. Costui, a sua volta, fu costretto tuttavia a una precipitosa ritirata verso gli stati ereditari austriaci dopo l’improvvisa invasione della Boemia da parte di Federico II (agosto 1744). Federico conquistò Praga, ma successivamente l’arrivo delle forze di Carlo di Lorena lo costrinse a evacuare la capitale boema (novembre 1744). In Italia settentrionale le forze franco-ispane, che avevano cercato di impadronirsi di Cuneo, furono costrette a ritirarsi (22 ottobre 1744); in Italia meridionale invece gli Ispano-Napoletani sorpresero a Velletri (10 agosto 1744) il generale austriaco J. J. K. z Lobkovic, infliggendogli una dura sconfitta. Con la morte di Carlo VII, ai primi del 1745, scomparve il pretendente più pericoloso all’eredità di Maria Teresa e con il trattato di Füssen (22 aprile 1745), concluso con il successore, il pericolo bavarese sparì del tutto: il 15 settembre 1745 la dieta di Francoforte riconobbe imperatore Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa. Verso la fine dello stesso anno Maria Teresa, su mediazione della Gran Bretagna, acconsentì anche alla pace con Federico II: il trattato di Dresda (25 dicembre 1745) riconfermava la sovranità prussiana sulla Slesia. Se in Germania fu posto termine ai combattimenti, nelle Fiandre e in Italia l’anno 1745 fu quello di uno sforzo decisivo dei Franco-Spagnoli, che in seguito alla vittoria di Maurizio di Sassonia sugli Anglo-Olandesi a Fontenay (11 maggio 1745) occuparono gran parte dei Paesi Bassi austriaci e obbligarono, nella penisola, Carlo Emanuele a convenire su preliminari di pace, dopo essersi impossessati di parte del Piemonte e di tutta la Lombardia. La scomparsa delle potenze germaniche dalla lotta semplificò il conflitto: da una parte la Francia, con Spagna, Napoli e Genova (che aveva aderito il 7 maggio 1745 con il trattato di Aranjuez), dall’altra l’Austria, alleata della Sardegna, della Gran Bretagna e dell’Olanda. L’energia dei Franco-Spagnoli si affievolì nel 1746. In Gran Bretagna, i fautori del pretendente Charles Edward, sbarcato in Scozia nel luglio del 1745, furono definitivamente battuti (Culloden, 16 aprile 1746), e in Italia Carlo Emanuele III e Maria Teresa costrinsero il nemico a sgomberare il Piemonte e la Lombardia e occuparono Genova (7 settembre 1746); solo nelle Fiandre le truppe francesi al comando di Maurizio di Sassonia passarono di vittoria in vittoria. Trattative di pace tra Francia, Gran Bretagna e Olanda furono già iniziate nell’autunno 1746 e dopo lunghi e incostanti negoziati furono concluse ad Aquisgrana il 18 ottobre 1748 sulla base delle seguenti clausole principali: a) restituzione di tutti i territori conquistati dai contendenti; b) assegnazione a Don Filippo di Borbone dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla; c) ritorno allo statu quo ante del Ducato di Modena e della Repubblica di Genova; d) rinnovo, a favore della Gran Bretagna, del trattato dell’Asiento del 1713; e) conferma della successione protestante al trono inglese; f) riconoscimento della Prammatica Sanzione (successione di Maria Teresa al trono asburgico) e anche riconoscimento dell’imperatore Francesco; g) assegnazione alla Prussia della Slesia. [13261] S’intende per rivoluzione industriale quella trasformazione di strutture che, prendendo l’avvio dall’Inghilterra del Settecento, parallelamente alla Rivoluzione francese, sconvolse le basi dell’antico regime, col passaggio dalle tradizionali manifatture alla produzione meccanizzata e accentrata nella fabbrica, con la nascita della borghesia industriale e della moderna classe operaia. L’espressione, già ricorrente in F. Engels, Die Lage der arbeitenden Klassen in England (1845), fu divulgata dal primo storico dell’industrializzazione inglese, l’economista e filantropo A. Toynbee, con le sue Lectures on the industrial revolution (1884); più tardi si affermò nella letteratura anglosassone il termine take-off (“decollo”), proposto da W. W. Rostow (soprattutto in The economics of take-off into sustained growth, 1963). In Inghilterra si presentarono, intorno alla metà del secolo 18°, le condizioni necessarie al primo decollo industriale, in particolare la concentrazione dei capitali e l’incremento generale della popolazione, soprattutto di quella urbana. Quest’ultimo fenomeno, l’urbanesimo, fu certamente legato, nei primi decenni del secolo, al movimento d’industrializzazione, di cui anzi costituì uno degli aspetti più appariscenti, ma in realtà esso era anteriore al processo produttivo, risalendo al progresso dell’attività marinara e commerciale e soprattutto alle trasformazioni del settore agricolo. Infatti, in seguito ai cambiamenti avvenuti nell’ambito della distribuzione e del nuovo regime giuridico della proprietà, anche il mondo rurale inglese si era profondamente modificato: andarono via via scomparendo le terre incolte di uso comune (open fields) e cominciò a prevalere la grande azienda; caratteristica fu l’applicazione delle enclosures, provvedimenti per cui, dapprima in forma arbitraria e più tardi per vie legali, si cingevano con segni di confine le terre aperte, trasformandole in proprietà privata. I vecchi coltivatori, perduti i loro diritti d’uso, furono obbligati a trasformarsi in braccianti, a emigrare oltre Oceano, o infine a trasferirsi in città. Una serie di innovazioni tecnologiche favorì e accompagnò, lungo il corso del secolo, la trasformazione economica e sociale, costituendone anzi uno degli elementi essenziali: se ne avvantaggiò per prima l’industria del cotone, mentre quella più antica della lana rimaneva legata ai metodi tradizionali. Nel 1733 J. Kay perfezionò il telaio a mano con la “navetta volante” (flying shuttle), che s’impose dopo il 1760, a lungo osteggiata dai lavoratori, permettendo un considerevole risparmio di mano d’opera e insieme l’impiego di telai più ampi di quelli tradizionali. Ancora alla tessitura fu applicata (1764) la spinning Jenny di J. Hargreaves, che consentiva a un solo operaio di far funzionare un gran numero di fusi. Infine R. Arkwright applicò (1769) alla macchina l’energia idraulica; imprenditore egli stesso, creò la prima grande filatura meccanica, che nel 1779 impiegava 300 operai. Con l’incremento della produzione salì anche l’importazione in Inghilterra del cotone greggio americano con conseguente nuovo impulso al movimento commerciale. Il telaio meccanico brevettato da E. Cartwright fu applicato nel 1787, ma il suo uso si diffuse lentamente: la prima tessitura meccanica fu introdotta a Manchester nel 1806, e ancora nel 1830, su un totale di 300.000 telai in tutta la Gran Bretagna, il numero di quelli meccanici si aggirava intorno a 60.000. In generale il cinquantennio 1780-1830 fu decisivo per l’introduzione delle macchine nelle varie industrie tessili; contemporaneamente si trasformarono la tecnica mineraria e l’industria siderurgica. J. Watt brevettò (1764) un nuovo metodo per l’estrazione dell’acqua dalle miniere; A. Darby ricavò (1735) il coke dal carbon fossile e dimostrò l’utilità di sostituirlo al carbone di legna negli altiforni per la fusione del minerale di ferro: dopo il 1780 gli altiforni a coke cominciarono a moltiplicarsi, mentre aumentava rapidamente la produzione del ferro greggio. Nell’industria metallurgica la produzione salì con ritmo accelerato soprattutto dopo il 1830, grazie alla forte richiesta di ferro e acciaio per usi civili. Con l’introduzione delle macchine decadde il vecchio sistema del lavoro a domicilio, esercitato soprattutto nelle campagne, sotto il controllo di un imprenditore, che poteva essere un artigiano fornito di capitale o, più spesso, un mercante impegnato essenzialmente nello scambio dei prodotti. Un altro tratto caratteristico della rivoluzione industriale fu la decisa tendenza a distinguere la produzione dallo scambio anticipando la funzione dell’imprenditore moderno che attendeva essenzialmente all’organizzazione della fabbrica. Nel Settecento inglese il nuovo ceto imprenditoriale era connesso per lo più con i gruppi dei dissidenti religiosi – puritani, quaccheri e presbiteriani scozzesi – che, ostacolati nell’istruzione superiore e nelle carriere statali, concentravano le loro forze nel campo della produzione. [132611] In epoca preindustriale le attività di produzione erano svolte da interi nuclei familiari occupati contemporaneamente nell’agricoltura; nella seconda metà del Settecento cominciò a sorgere la moderna fabbrica per la produzione in serie, che riuniva intorno alle macchine gruppi considerevoli di operai reclutati fra le masse del nascente proletariato urbano. Alla fine del secolo il salariato industriale rappresenteva una minoranza, sebbene già figurasse in alcuni rami dell’industria laniera, nelle grandi aziende agricole o nei pochi opifici, ma soltanto mezzo secolo dopo esso rappresentava la totalità del lavoro nell’industria capitalistica. La classe operaia era reclutata fra i contadini danneggiati dalla divisione delle terre comuni, fra i lavoratori a domicilio, costretti a passare al sistema accentrato di fabbrica, e in misura assai minore fra i maestri artigiani che, per mancanza di capitali, si riducevano al livello di salariati. Ma non va sottovalutata, per l’Inghilterra, la disponibilità di mano d’opera irlandese a basso prezzo; e più tardi, per gli Stati Uniti d’America, il flusso migratorio dall’Europa. Le condizioni di vita della classe operaia nelle prime fasi del processo di industrializzazione furono caratterizzate da profonda miseria: nei sobborghi dei centri urbani sorgevano interi quartieri dove trovava abitazione la massa immigrata; gli orari di lavoro raggiungevano le 70÷80 ore settimanali, mentre i salari, dopo il ventennio delle guerre napoleoniche, scesero a livelli bassissimi. Specie nelle industrie tessili si fece largo impiego delle donne e dei bambini, retribuiti in misura nettamente inferiore agli uomini. Ma la maggiore insidia alle condizioni di vita del proletariato furono le crisi periodiche, che si ripetevano a intervalli pressoché regolari di 10÷11 anni (1836, 1847, 1857, 1866). Di solito un periodo di congiuntura favorevole, con incremento della domanda e rialzo dei prezzi, induceva gli imprenditori ad ampliare gl’impianti facendo ricorso al credito; presto la richiesta era superata dall’offerta, si accumulavano le merci invendute e i prezzi precipitavano. Si verificarono tentativi di ritorno all’antico ad opera del ceto artigianale, sul piano della reazione violenta contro le macchine (luddismo) e su quello legale (ripristino delle norme che limitavano il numero dei garzoni apprendisti nelle botteghe artigiane). Ma ormai il vecchio equilibrio era rotto e le nuove strutture si consolidavano, sia pure a prezzo di continua tensione e duri conflitti di classe. Nel 1800, sull’esempio della Costituente francese, fu vietata in Inghilterra qualunque forma di coalizione operaia, stabilendo pene severe contro gli scioperi; poi furono soppresse (1814) le corporazioni artigiane e tutte le norme che, sotto l’antico regime, avevano limitato l’attività imprenditoriale. Nel 1824 fu revocato il divieto di associazione e ammessa la nascita di nuove organizzazioni operaie; ma l’anno successivo l’attività delle Trade Unions fu espressamente limitata ai soli obiettivi dell’aumento salariale e della diminuzione di orario. Realizzato, fra il 1780 e il 1830, un enorme progresso nell’applicazione delle macchine e nella produzione in fabbrica, si chiudeva il primo cinquantennio della rivoluzione industriale: l’espansione produttiva urtava, a questo punto, contro le difficoltà create dalle barriere dei sistemi doganali, dalla lentezza e dall’alto costo dei trasporti. [13271] Per Rivoluzione francese si intende la serie di avvenimenti iniziata in Francia nel 1789 con la trasformazione degli Stati generali in Assemblea costituente e proseguita fino alla proclamazione della repubblica nel 1792 e oltre, con datazioni terminali che variano a seconda delle diverse ricostruzioni e interpretazioni. La cultura illuministica fu il precedente ideale e culturale della rivoluzione. Ne era già stata espressione l’azione riformatrice di molti sovrani europei, con provvedimenti innovatori nella legislazione e nell’amministrazione. La rivolta delle colonie americane contro la Gran Bretagna fu vissuta anch’essa all’insegna dello spirito illuministico, come si vide nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e nella Costituzione adottate dagli Stati Uniti d’America. Gli anni Ottanta cominciavano, peraltro, a registrare un profondo mutamento nelle condizioni dello spirito europeo. Iniziava una revisione dello spirito illuministico, che faceva appello ad altri valori e non trovava più soddisfacente il riformismo come metodo del rinnovamento. Ma la fase a cui così sembrava ci si avviasse fu repentinamente interrotta dallo scatenarsi della rivoluzione in Francia, che passò via via dall’assolutismo monarchico del 1789 all’“impero” proclamato con Napoleone nel 1804. L’apertura degli Stati Generali (5 maggio 1789) segnò l’inizio della fase propriamente borghese della Rivoluzione: convocati entro il vecchio sistema monarchico-feudale allo scopo di fornire al sovrano i mezzi per colmare il deficit di bilancio, per volontà del terzo stato, cioè della borghesia, essi si trasformarono in Assemblea nazionale costituente (9 luglio) e si arrogarono il potere di dotare la Francia di una costituzione e di risanarne le piaghe. Dall’Assemblea la spinta rivoluzionaria passò al paese; si ebbero così, accanto alla rivoluzione borghese, una rivoluzione popolare, il cui momento più saliente fu l’assalto alla Bastiglia e la sua distruzione (14 luglio), e una rivoluzione contadina (assalti ai castelli, fenomeno della “grande paura”, ecc.). La confluenza di queste tre forze provocò i due atti più solenni di questo inizio rivoluzionario: il voto della notte del 4 agosto 1789, col quale l’Assemblea costituente abolì tutti i privilegi di natura feudale, e quello (20-26 agosto) della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, vero atto di morte dell’ancien régime. L’opposizione della corte e l’atteggiamento oscillante del re Luigi XVI da una parte, l’organizzazione dell’opinione pubblica in clubs dall’altra, diedero nuova esca al torrente rivoluzionario: il 5-6 ottobre turbe di popolo parigino, rovesciatesi a Versailles, costrinsero la famiglia reale e l’Assemblea stessa a trasferirsi a Parigi, ove, sotto la diretta e continua pressione della piazza, la situazione precipitò (fuga di parte cospicua della nobiltà all’estero; “complotto con lo straniero” degli emigrati; costituzione civile del clero; tentata fuga da Varennes del re Luigi XVI nel giugno 1791; sorgere delle prime correnti repubblicane). La monarchia, tuttavia, si salvò grazie alla volontà dell’alta borghesia, i cui deputati, timorosi della carica eversiva popolare, nel settembre 1791 fecero giungere in porto una costituzione basata sul sistema censitario e sulla monarchia costituzionale; il 1° ottobre 1791, sciolta l’Assemblea costituente, fu eletta l’Assemblea legislativa, prevista appunto dalla costituzione. La fase successiva, che vide il prevalere deciso delle forze propriamente rivoluzionarie e il tracollo della monarchia, fu strettamente connessa alla minaccia straniera (alleanza austro-prussiana in funzione antifrancese; dichiarazione di guerra del 20 aprile 1792 imposta dal partito girondino a Luigi XVI). Dopo i primi rovesci (penetrando in territorio francese, i Prussiani occupavano Longwy e Verdun, gli Austriaci Thionville), divenuta la monarchia ancora più sospetta, ne derivò, dopo le manifestazioni del 20 giugno 1792, la giornata del 10 agosto, in buona parte opera di Danton, con l’arresto del re e della sua famiglia e la proclamazione fatta dall’Assemblea della decadenza della monarchia. Seguirono, in settembre, le stragi di centinaia di “sospetti” e la proclamazione (21 settembre) della repubblica da parte della nuova assemblea, la Convenzione, eletta a suffragio universale in sostituzione della Legislativa, e riunitasi lo stesso giorno della vittoria di Valmy (20 settembre). Si apriva così un nuovo periodo, caratterizzato dalla definitiva liquidazione del passato (condanna a morte ed esecuzione di Luigi XVI nel gennaio 1793, di Maria Antonietta nell’ottobre) e dall’aggravarsi del pericolo esterno: un periodo dominato dalla Francia giacobina. [132711] Nel suo complesso, lo sconvolgimento nella vita europea causato dalla Rivoluzione francese fu profondo. Cadde il regime delle divisioni e dei privilegi di classe, fu soppresso il sistema feudale, fu impiantato il moderno Stato di diritto, venne elaborata una legislazione moderna e la si raccolse in un codice, si affermarono le grandi linee del liberalismo e della democrazia, la nazione si affiancò come personalità politica e morale allo Stato e ne divenne protagonista, governo e amministrazione furono razionalizzati e modernizzati nelle loro strutture, gli eserciti di mestiere vennero sostituiti da quelli di leva, la borghesia, divenne il centro di gravitazione e di integrazione della vita sociale, fu adottato il principio del merito e della competenza in luogo di quello della nascita, e insieme con l’ordinamento politico e i rapporti con la Chiesa venne laicizzata anche l’istruzione. Certo, non si trattò di svolgimenti lineari e del tutto coerenti. Numerose furono le sopravvivenze dell’ancien régime. La Chiesa dimostrò un forte radicamento sociale. Le spinte liberali e liberistiche prevalsero alla fine largamente su quelle democratiche e sull’intervento statale nell’economia. Ma l’edificio rapidamente costruito dalla rivoluzione dimostrò nei suoi tratti essenziali un’incrollabile solidità; e la prova migliore fu data dal fatto che anche le potenze nemiche della Francia rivoluzionaria e di Napoleone si uniformarono via via ai principi del “nuovo regime”. [132721] Gli eventi decisivi e risolutivi della Rivoluzione francese hanno dato luogo a una ricca e complessa tradizione storiografica. In essa si ritrovano, in pratica, i principali elementi di analisi e di elaborazione dei fondamenti reali e dei valori della civiltà moderna, che la cultura europea è andata dibattendo nei secoli 19° e 20°. I “principi del 1789”, affermati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino premessa alla prima Costituzione francese (1791) con una chiara eco della Dichiarazione americana (1787), divennero, perciò, uno specchio della coscienza europea, che ha oscillato tra il riconoscerli come un patrimonio divenuto ormai parte integrante del suo essere più profondo e il disconoscerli come ideologia fuorviante rispetto alla sua vera identità e ai suoi più reali interessi. Gli storici hanno contribuito e hanno risentito di tale dibattito, mettendo in luce le forti ragioni per cui la Rivoluzione francese non può essere considerata come una entità compatta, la varietà dei suoi elementi costitutivi e la loro potenzialità di diversi svolgimenti etici e culturali, politici e sociali. La storiografia sulla rivoluzione comincia fin dagli anni di quest’ultima. Nella sua Introduction à la Révolution française (1792) A. Barnave ne affermò in termini positivi il carattere “borghese”, di movimento della classe detentrice della ricchezza mobiliare (finanziaria, manifatturiera, mercantile) per dare un nuovo assetto al potere politico e sociale. La stessa valutazione si ebbe in termini negativi da parte delle frange democratiche radicali, emarginate dopo la caduta di Robespierre (F. Buonarroti, Conspiration pour l’égalitè dite de Babeuf, 1828). Dal lato opposto l’abate A. Barruel (Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, 1797-98) formulò la tesi reazionaria della Rivoluzione francese come complotto illuministico-massonico contro la religione e la proprietà oltre che contro il regime monarchico. Con M. de Staël (Considérations sur les principaux événements de la Révolution française, 1818) si affermò la distinzione tra la fase liberale e positiva, fino al 1792, e quella illiberale del Terrore, intesa come patologia deviante dai veri valori di libertà di cui la rivoluzione era portatrice. Anche storici liberali e democratici (come A. Thiers, Histoire de la Révolution française, 1823-27) respinsero, però, questa tesi e cercarono un nesso più profondo tra le due grandi fasi della rivoluzione o (come J. Michelet, Histoire de la Révolution française, 1847-53) ne videro il protagonista nel popolo anziché nella borghesia. Su queste linee si mossero E. Quinet (La Révolution, 1865), H. Taine (Histoire des origines de la France contemporaine, 1876-93) e vari altri, mettendo in evidenza le diversità di componenti culturali e sociali nel corso della rivoluzione. Decisamente innovativa fu la visione di A. de Tocqueville (L’ancien régime et la révolution, 1856), che nel 1789 vedeva il compimento – l’esecutore testamentario – dell’opera svolta dalla monarchia per l’affermazione dello stato e della società moderna e, quindi, anche la premessa dei loro ulteriori svolgimenti. L’intepretazione democratica radicale, ripresa da L. Blanc (Histoire de la Révolution française, 1847-62), da Marx e dagli autori che si rifacevano a quest’ultimo, nonché quella di Michelet trovarono uno sviluppo molto equilibrato in J. Jaurès (Histoire socialiste de la Révolution française, 1901-04). In chiave “eroica”, come opera di grandi personalità, vide la Rivoluzione francese Th. Carlyle (History of the French revolution, 1837) e come complessa vicenda di principi e di popoli H. von Sybel (Geschichte der Revolutionszeit 1789-1800, 1853-60). Ad A. Aulard (Histoire politique de la Révolution française, 1901) viene fatto risalire l’inizio dello studio “scientifico” della Rivoluzione francese, della quale A. Sorel illustrò in particolare l’espansione in Europa (L’Europe et la Révolution française, 1885-1904). A una storia solo politica e diplomatica si opposero A. Mathiez (La Révolution française, 1922-27), discepolo di Aulard, che, nella scia di Marx e di Jaurès, vide la Rivoluzione francese come rivoluzione democratica incompiuta per la sconfitta di Robespierre e fece di quest’ultimo il centro della vicenda; e G. Lefebvre (La Révolution française, 1951) che, con approfonditi riferimenti alle vicende dell’economia, allargò la prospettiva di Mathiez in una visione molto articolata di classi e di ceti (di Parigi, delle città e delle campagne) sui quali la borghesia si impone per la sua maggiore omogeneità di cultura e di interessi nel quadro di una trasformazione di livello mondiale. Nella scia di Lefebvre si mossero A. Soboul (Précis d’histoire de la Révolution française, 1962, e Problèmes paysans de la Révolution, 1976), R. Palmer (The age of democratic revolution, 1959-64), J. Godechot (Les révolutions, 1770-1799, 1963), dando particolare rilievo, il primo a un nesso rivoluzionario borghese-contadino in funzione antifeudale, i secondi agli sviluppi mondiali di cui la Rivoluzione francese è espressione risolutiva. Un approccio diverso si è avuto con una serie di opere intese a contestare la visione della Rivoluzione francese come rivoluzione antifeudale, che apre l’epoca del successo borghese e capitalistico nel continente europeo; tale prospettiva muove obiezioni alla possibilità di considerare borghesia e aristocrazia come classi fra loro distinte e contrapposte alla vigilia della rivoluzione, la distribuzione delle terre ai contadini operata da quest’ultima come condizione favorevole allo sviluppo capitalistico, il capitalismo come realtà già presente in Francia nel 1789. Queste tesi tornano in varia forma in A. Cobban (The French society and the French revolution, 1965) e in F. Furet (La Révolution, 1965-66, in collab. con D. Richet). F. Furet (Penser la Révolution française, 1978) ha poi radicalizzato la sua posizione nel senso di vedere la rivoluzione non come grande evento della vita economica e sociale, ma come mutamento nei valori e nella prassi fondanti la legittimità del potere. L’attribuzione di quest’ultima non più al diritto divino dei re, con una gestione paternalistica e consuetudinaria della sovranità, bensì alla volontà del popolo, costituirebbe, secondo tale prospettiva, una pericolosa premessa per la fioritura di regimi nei quali l’investitura popolare serva da viatico a un esercizio oltranzista e assoluto del potere; liberalismo e democrazia si rovescerebbero così in dittature totalitarie, proiettando sulla teoria della volontà generale l’ombra di Robespierre e della ghigliottina. Al di là dell’eco suscitata da queste posizioni anche in altri ambiti, gli studi sulla Rivoluzione francese sono proseguiti, in Francia e all’estero, su linee molto complesse, mostrando la persistente vitalità del tema nel dibattito storiografico e al di là di esso. [13281] Si chiamarono giacobini, durante la Rivoluzione francese, gli appartenenti a un’associazione politica (club dei giacobini), così detta perché aveva la sua sede nell’ex convento parigino dei domenicani (Jacobins) nella via Saint-Honoré. Sorto nel maggio 1789 come Club breton, divenuto poi Société des amis de la constitution, il club dei giacobini ebbe un orientamento prevalentemente monarchico-costituzionale fino alla metà del 1790 (il loro motto era La loi); quindi si orientò rapidamente verso concezioni di repubblicanesimo intransigente. Dopo gli avvenimenti dell’estate 1792 (“giornata” del 10 agosto, arresto del re e della sua famiglia, proclamazione della repubblica da parte della Convenzione) e l’esecuzione di Luigi XVI (gennaio 1793), la Rivoluzione francese entrò in una nuova fase, mentre i pericoli esterni si aggravavano. Infatti, l’occupazione francese del Belgio seguita alla grande vittoria di Jemappes (6 novembre 1792) e poi l’esecuzione del re avevano indotto l’Inghilterra, la Spagna e alcune minori potenze europee alla guerra; la prima coalizione antifrancese (1° febbraio) otteneva decisivi successi già nel marzo, rioccupando per la vittoria di Neerewinden il Belgio e penetrando in Francia da oriente, mentre truppe spagnole oltrepassavano il confine meridionale. All’incubo dell’occupazione militare straniera si aggiungeva inoltre il precipitare della situazione finanziaria interna per le eccessive emissioni di assegnati, il duello mortale tra i girondini e i giacobini (ricchi borghesi e federalisti i primi, democratici e centralisti i secondi) e la rivolta antirivoluzionaria scoppiata in vari luoghi (Vandea soprattutto, e Bretagna). Forti di una base popolare, i giacobini portarono (31 maggio - 2 giugno 1793) un colpo decisivo al governo girondino; l’orientamento del club dei giacobini è bene espresso da Robespierre, secondo il quale, per salvare la repubblica, “bisogna che il popolo si allei con la Convenzione e la Convenzione si serva del popolo”. Mentre i girondini si appoggiavano alla borghesia provinciale, i giacobini potevano contare sui sanculotti parigini che dominavano la Comune, ma anche sul ceto operaio-artigianale di alcune province. Sebbene la loro parola d’ordine fosse improntata al patriottismo e all’intransigenza repubblicana, la rivoluzione che essi compirono rovesciando il 2 giugno la Gironda fu più che un rivolgimento politico: interpreti della protesta popolare contro il carovita, i giacobini esautorarono l’alta borghesia degli affaristi. Comunque, già alla vigilia del Terrore, il club non possedeva un orientamento unitario, ma appariva diviso dietro alcune personalità dominanti: Danton riteneva di poter trattare coi girondini, mentre Robespierre giudicava inevitabile la guerra civile; la posizione estrema era rappresentata da Hébert che, sebbene membro del club dei cordiglieri, nell’agosto 1793 godeva anche fra i giacobini di un vasto seguito. Durante il Terrore, Robespierre riteneva, insieme a Saint-Just, che la prassi eccezionale di governo dovesse durare fin tanto che i beni dei controrivoluzionari e dei sospetti fossero stati distribuiti ai repubblicani poveri; i giacobini furono allora il sostegno del Comitato di salute pubblica, che aveva praticamente esautorato la Convenzione (luglio 1793 - luglio 1794). Questo periodo fu dominato dal Comitato di salute pubblica e contraddistinto da uno sforzo continuo e fortunato contro la pressione militare straniera (finché la battaglia di Fleurus, 26 giugno 1794, aprì nuovamente il Belgio agli eserciti repubblicani), da un esperimento di economia regolata (legge del Maximum), dall’ascesa politica delle classi meno abbienti (artigiani soprattutto). Ma la lotta intrapresa da Robespierre con le ali estreme del suo stesso partito (la destra dantonista e la sinistra hebertista), insieme con gli eccessi della sua dittatura, provocarono il crollo della politica giacobina e la giornata del 9 termidoro (27 luglio 1794). Con la caduta di Robespierre e la reazione termidoriana cessò la fase radicale della Rivoluzione; i giacobini persero gradualmente la loro influenza: sotto i colpi dei “moscardini” e della jeunesse dorée rifluì l’ondata rivoluzionaria popolare. Il 19 novembre 1794 fu decisa la chiusura del club. La parte più ricca della borghesia riprese il sopravvento e, varata la costituzione dell’ottobre 1795, ebbe inizio il periodo del Direttorio, oscillante senza posa tra una possibile restaurazione monarchica (colpo di stato del 22 fiorile VI, cioè 11 maggio 1798) e una ripresa neogiacobina (cospirazione di Babeuf; colpo di stato del 18 fruttidoro). Si giunse allora, grazie anche alle incessanti guerre che provocarono la trasformazione del soldato-cittadino del 1793 in soldato professionale, all’instaurazione della dittatura militare di Napoleone. [13291] L’avventura della Francia napoleonica e la figura stessa di Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, sono due temi centrali per lo studio del passaggio dal 18° al 19° secolo e delle premesse dell’età contemporanea. Lo stesso Napoleone cercò nel suo Mémorial de Sainte-Hélène (pubblicato nel 1823 a cura del conte di Las Cases) di collocare la sua azione in una prospettiva storica: ormai escluso da ogni possibilità di agire, nella riflessione degli ultimi anni volle presentare la sua opera come intesa alla liberazione delle forze nazionali oppresse. Ma una certa storiografia ha respinto questa interpretazione, scorgendo nella figura di Napoleone i caratteri del dispotismo illuminato settecentesco. Anche per quanto riguarda la funzione di Napoleone quale diffusore in Europa dei principi rivoluzionari, è stato rilevato il suo duplice atteggiamento di fronte alla Rivoluzione dell’89; da una parte egli ne realizzò alcune istanze (si pensi all’opera legislativa), dall’altra ne contraddisse alcuni postulati fondamentali: restaurò infatti le forme della monarchia e avviò la costituzione di un nuovo ceto privilegiato, innalzando alla nobiltà gli elementi, soprattutto militari, a lui fedeli. La funzione storica di Napoleone va individuata, pertanto, nella rottura del vecchio equilibrio europeo, cioè di quell’assetto internazionale che il sistema della Santa Alleanza non riuscì a preservare dall’urto rivoluzionario del secolo 19°; e, altrettanto, nella rottura dell’antico equilibrio sociale, avviata in Francia già nel decennio rivoluzionario, che si approfondì in seguito all’espansionismo napoleonico, anch’esso suscitatore di nuove energie e forze sociali. Napoleone Bonaparte (fino al 1796 Buonaparte) nacque ad Ajaccio il 15 agosto 1769. Luogotenente d’artiglieria (1785), dopo lo scoppio della Rivoluzione tentò la fortuna politica e militare in Corsica (1791-93), prima di lanciarsi in una folgorante carriera militare e politica. Comandante subalterno nel blocco di Tolone (ottobre 1793), si acquistò il grado di generale e quindi il comando dell’artiglieria dell’esercito d’Italia. Fu proprio dal successo delle imprese militari dell’esercito francese (conquiste del Belgio e dell’Olanda, seguite dallo sfaldamento della coalizione: la Prussia il 6 aprile 1795, la Spagna il 22 luglio firmavano a Basilea la pace, cui anche l’Olanda accedeva per il trattato dell’Aia, il 22 maggio; quindi campagna del 1796-97 del Bonaparte in Italia e conseguente trasformazione dell’assetto italiano) che emerse il tentativo del potere militare di sostituirsi al potere civile, soprattutto allorché le sorti della guerra ritornarono ad essere rovinose per la Francia (mentre il Bonaparte si era impegnato nell’ardua impresa egiziana, la II coalizione aveva riconquistato quasi tutta l’Italia e distrutto le repubbliche vassalle che tra il 1798 e il 1799 vi erano sorte), e le incertezze politiche del Direttorio, corroso all’interno da contrasti e ondeggiante fra una politica filomonarchica e una ripresa di azione montagnarda, ebbero scontentato un po’ tutti. Abbandonando l’impresa di Egitto, sbarcato a Fréjus il 9 ottobre 1799, Napoleone attuò il colpo di stato del 18-19 brumaio (9-10 novembre 1799) che pose fine al Direttorio e iniziò quel governo personale che solo lentamente si andò precisando sotto il profilo costituzionale (1799: primo console; 1801: primo console a vita; 1804: imperatore dei Francesi). Per prima cosa Napoleone riorganizzò il paese attraverso le varie costituzioni a carattere sempre più autoritario, il Concordato del 1801 che poneva fine alla crisi religiosa, controbilanciato però dagli articoli organici dell’anno successivo, nonché con l’intensa opera legislativa e l’emanazione di Codici, che resero per sempre impossibile il ritorno all’ancien régime; lo sviluppo dell’economia francese e, con la creazione della Banca di Francia, il 18 gennaio 1800, la regolamentazione del credito nazionale. Infine, dopo una nuova fortunata campagna in Italia (vittoria di Marengo), Napoleone realizzò la pace (ritiro della Russia dalla coalizione; pace di Lunéville del 1801 con l’Austria; pace di Amiens del 1802 con l’Inghilterra), conservando le conquiste rivoluzionarie del Belgio e dell’Italia (Repubblica Cisalpina, dal 1805 Regno d’Italia). L’avvento dell’Impero coincise, però, col ritorno alla politica militare. Fino al 1814 la storia di Francia sarà un susseguirsi ininterrotto di guerre, che di vittoria in vittoria portarono le truppe napoleoniche da un estremo all’altro dell’Europa. L’acme della potenza napoleonica si ebbe nel 1809, allorché l’Austria, battuta a Wagram, firmò la pace di Vienna e concesse la mano dell’arciduchessa Maria Luisa a Napoleone che per le nuove nozze aveva ripudiato l’imperatrice Giuseppina. Ma la reazione nazionale della Spagna, il sostanziale fallimento del grande blocco marittimo, decretato il 21 novembre da Berlino per isolare l’Inghilterra, le scissioni nella stessa famiglia Bonaparte (reazione di Gerolamo, re di Vestfalia, all’eccessiva invadenza del fratello, ambigua politica del Murat, dal 1808 re di Napoli), e, soprattutto, il continuo tributo di sangue e di ricchezza, cominciarono a minare la potenza napoleonica; la disastrosa campagna di Russia (1812) e le reazioni nazionali dei popoli oppressi fecero il resto: persa la partita militare nella grande battaglia di Lipsia (16-18 ottobre 1813), dopo un’estenuante campagna di Francia, mirabile per perizia strategica ma impotente a capovolgere il rapporto delle forze in campo, Napoleone il 6 aprile 1814 fu costretto a sottoscrivere a Fontainebleau la propria abdicazione dopo che, il 31 marzo, gli Alleati avevano occupato Parigi. Napoleone abdicò senza condizioni accettando il minuscolo dominio dell’isola d’Elba, ove giunse il 4 maggio 1814. Ma, sospettando che lo si volesse relegare più lontano dall’Italia e dall’Europa, sbarcò con poco seguito presso Cannes (1° marzo 1815) e senza colpo ferire riconquistò il potere a Parigi (20 marzo). Il tentativo durò solo cento giorni e crollò a Waterloo (18 giugno 1815). Dopo l’abdicazione (22 giugno), Napoleone si rifugiò su una nave inglese: considerato prigioniero, fu confinato, con pochi seguaci volontari, nell’isola di S. Elena, dove a Longwood, sotto la dura sorveglianza di Hudson Lowe, trascorse gli ultimi anni, minato dal cancro, dettando le sue memorie. La sconfitta definitiva di Napoleone ebbe per la Francia gravi conseguenze: occupata per tre anni dalle potenze nemiche, fu obbligata a pagare esose indennità di guerra; dopo un periodo di relativa pace sociale visse lo scoppio del malumore e della vendetta del mondo cattolico, mentre si apriva l’età della Restaurazione. [13311] Tra Seicento e Settecento il primato dell’Europa nel mondo appariva saldamente stabilito ed essa premeva ormai anche sulla Cina e sul Giappone. La coscienza della modernità la permeava tanto che già nel secolo 17° in Francia la querelle des anciens et des modernes rovesciava l’esemplarità attribuita agli antichi dalla cultura umanistico-rinascimentale. Per i decenni a cavallo tra i secoli 17° e 18° si è potuto parlare di una “crisi della coscienza europea”. Certo è che si delineò allora una netta separazione tra valori religiosi, valori morali e valori civili ed etico-politici, con una forte accentuazione dello spirito laico e moderno della cultura europea, nella quale lo sviluppo delle scienze e delle tecniche – basti pensare a uomini come Galilei (1564-1642) o Newton (1643-1727) – anche nei suoi effetti sull’economia e sulla vita quotidiana, cominciava ad apparire prodigioso e segnava un netto distacco tra l’Europa e il resto del mondo. Nel secolo 18° l’illuminismo convogliò tutto ciò in un grande movimento di cultura nel segno del razionalismo e della laicità, formulando nuovi ideali etici, politici, sociali in una temperie in cui le convinzioni e la prospettiva intellettuale si sposavano ad una vera tensione morale e spirituale. L’Europa si trasformava anche materialmente, non solo per effetto dello sviluppo scientifico e tecnico, bensì anche per una crescita economica e demografica che avrebbe trovato sbocco dalla fine del 18° secolo nella rivoluzione industriale, col passaggio cioè dalle manifatture tradizionali alla produzione mediante macchine azionate da una nuova energia, quella del vapore, di cui scoperte e invenzioni consentirono un sempre maggiore sfruttamento. L’Inghilterra, che fu la prima (e restò a lungo l’unica o massima) protagonista di questa rivoluzione, ne emerse come maggiore potenza economica e finanziaria, banca e opificio del mondo. Inoltre, si determinava così una nuova e ancor più cospicua ragione di primato europeo, che si sommava alle precedenti e che non era puramente tecnico-scientifica, poiché comportava un orizzonte di mentalità e di valori non meno rilevante. Della nuova cultura fu espressione il riformismo, che permeò l’azione dei governi e portò a molti provvedimenti innovatori nella legislazione e nell’amministrazione, toccando l’organizzazione burocratica, i diritti feudali, gli ordinamenti corporativi, il commercio e le manifatture, i regolamenti sanitari e, in particolare, i beni, i privilegi e le immunità ecclesiastiche. Episodio culminante fu, su questo piano, la soppressione della Compagnia di Gesù, simbolo della presenza e della pressione ecclesiastica nella società. La decise Clemente XIV nel 1773 dopo che negli anni precedenti vari governi avevano già deciso così per i rispettivi paesi. Né era meno significativo che alle disavventure dei gesuiti corrispondessero le fortune della Massoneria, società segreta di ispirazione prettamente illuministica, che penetrò largamente anche nei circoli di corte e di governo. [13321] Il fisico e filosofo della natura Galileo Galilei, nato a Pisa nel 1564 e morto ad Arcetri nel 1642, può essere considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. Figlio maggiore di Vincenzo, musicista e teorico della musica e di Giulia Ammannati, trascorse la sua infanzia tra Pisa e Firenze (dal 1574). Il 5 settembre 1580 (1581 secondo il calendario pisano) fu immatricolato fra gli “scolari artisti” all’ateneo pisano. Abbandonata nel 1585 l’università, senza conseguire alcun titolo, Galilei sotto la guida di Ostilio Ricci, membro dell’Accademia fiorentina del Disegno, intraprese la lettura di Euclide e Archimede. Ben presto progredì a tal punto negli studi da essere in grado a sua volta di tenere lezioni private ad alcuni allievi a Firenze e a Siena. Risalgono a questo periodo i suoi primi scritti: i frammenti Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, sulla determinazione dei baricentri; il breve trattato La Bilancetta (1586), progetto di una bilancia idrostatica per la determinazione della densità dei corpi che testimonia i suoi primi interessi nelle scienze applicate; e le due lezioni di esegesi dantesca Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno (1588), tenute all’Accademia del Disegno. Del 1587 è l’incontro, a Roma, con Cristoforo Clavio e con l’ambiente del Collegio Romano, la cui influenza su Galilei è documentata dai suoi taccuini, pubblicati in parte nel 19° secolo con il titolo di Iuvenilia e, relativamente ad alcuni testi di logica (Tractatio de praecognitionibus et praecognitis, Tractatio de demonstratione), solo nel 1988. Lo stesso anno, l’astronomo Giovanni Antonio Magini gli fu preferito sulla cattedra di matematica dell’università di Bologna. Due anni dopo, nel 1589, gli venne assegnata la cattedra di matematica a Pisa. L’immagine corrente di un Galilei pratico e deciso sperimentatore si deve in gran parte al suo primo biografo, V. Viviani. Quest’ultimo affermò che Galilei era salito sulla torre pendente di Pisa tra il 1589 e il 1592, e “con l’intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca”, aveva confutato Aristotele dimostrando che i corpi cadono alla stessa velocità indipendentemente dal loro peso. Nel trattato De Motu, scritto intorno al 1591, Galilei pur facendo frequente riferimento alle torri, non afferma tuttavia che tutti i corpi cadono alla stessa velocità ma, piuttosto, che la loro velocità è proporzionale alla differenza tra le loro densità e la densità del mezzo attraverso il quale cadono. In altre parole, era giunto allora alla erronea conclusione secondo la quale corpi di dimensione diversa ma dello stesso materiale cadono alla stessa velocità, mentre corpi della stessa dimensione ma di diverso materiale non cadono alla stessa velocità. [133211] Nel 1592 a Galilei fu assegnata la cattedra di matematica a Padova. Le sue lezioni riguardavano argomenti quali gli Elementi di Euclide, il Trattato della Sfera di Sacrobosco, l’Almagesto di Tolomeo e le Questioni meccaniche pseudoaristoteliche. Galilei fu costretto a dare, per ristrettezze economiche, lezioni private di ingegneria e architettura militare a giovani nobiluomini per i quali scrisse una Breve istruzione all’architettura militare e un Trattato di fortificazione. Con le stesse motivazioni scrisse anche il trattato Le mecaniche (1593, 1594, 1699), dedicato all’esposizione delle macchine semplici. Accanto a questa attività didattica Galilei tenne una piccola officina tecnica, mandata avanti dal meccanico Marcantonio Mazzoleni, dove venivano prodotti e venduti compassi geometrici e militari, bussole, squadre e altri strumenti meccanici, più tardi cannocchiali. Tra queste invenzioni tecniche, il compasso geometrico-militare destinato a calcoli balistici e geodetici, risale al 1597. Le vendite del compasso ebbero successo e nel 1606 Galilei scrisse un manuale in italiano: Le operazioni del compasso geometrico e militare. Poco tempo dopo B. Capra pubblicò in latino un trattato sul compasso e accusò Galilei di plagio. Galilei promosse allora un’azione legale contro Capra e pubblicò un’aspra replica nella quale fornì la sua versione dei fatti. La prima testimonianza della sua adesione alle tesi di Copernico si trova in una lettera del maggio 1597 diretta a J. Mazzoni, suo collega dei tempi di Pisa. Nell’agosto dello stesso anno Galilei ricevette una copia dell’opera di Keplero Mysterium cosmographicum, nella quale la teoria eliocentrica era difesa con motivazioni matematiche e simboliche. Dopo averne letto la prefazione Galilei scrisse a Keplero per dichiarare la propria adesione all’idea che la Terra si muove ma anche per esprimere il suo timore di rendere pubbliche le sue posizioni. Intorno al 1602, Galilei iniziò a progettare esperimenti con i corpi in caduta libera in concomitanza con i suoi studi sul moto del pendolo e il problema della brachistocrona, vale a dire della curva compresa tra due punti lungo la quale un grave lasciato cadere con velocità iniziale nulla si muove nel tempo minimo. Dapprima enunciò la legge di caduta libera dei corpi (lo spazio percorso è proporzionale al quadrato del tempo impiegato a percorrerlo) in una lettera a P. Sarpi nel 1604, asserendo però di averla derivata dall’assunto che la velocità è proporzionale allo spazio percorso (mentre giunse solo in seguito a stabilire che la velocità è proporzionale alla radice quadrata dello spazio percorso). Nell’autunno del 1604, la comparsa di una stella nova (cioè di una supernova) riaccese il dibattito sull’incorruttibilità dei cieli. In una conferenza pubblica Galilei sostenne che la “nuova stella” era la prova che la materia celeste non è immutabile. [133221] Intorno al luglio del 1609 Galilei ebbe notizia dell’invenzione di un dispositivo per far apparire più vicini oggetti distanti e subito dopo realizzò un cannocchiale capace di ingrandire gli oggetti fino a nove volte, dandone poi una dimostrazione dal campanile di San Marco. Lo strumento colpì favorevolmente le autorità, che confermarono a Galilei un vitalizio e aumentarono il suo stipendio da 520 a 1000 fiorini, una somma senza precedenti per un professore di matematica. Galilei non riuscì mai a padroneggiare completamente la teoria ottica in base alla quale il cannocchiale, costituito dall’accoppiamento di una lente concava e una convessa, funzionava. Con uno strumento che ingrandiva quindici volte Galilei, a partire dal 1610, iniziò a studiare il cielo. Le sue osservazioni dovevano rivoluzionare l’astronomia: la Luna apparve come coperta di montagne (Galilei riuscì persino a stimarne l’altezza), la Via Lattea si dissolveva in un ammasso di piccole stelle, nuove stelle comparvero come emerse dal nulla, e, cosa ancora più straordinaria, furono scoperti quattro satelliti che orbitavano intorno a Giove. Se Giove con i suoi satelliti ruotava intorno ad un corpo centrale non si poteva più obiettare che l’idea della Terra orbitante intorno al Sole con la sua Luna fosse assurda. Galilei redasse rapidamente il Sidereus Nuncius che dedicò a Cosimo II di Toscana. I satelliti di Giove furono detti, in suo onore, “medicei”. Nel luglio del 1610 Galilei venne nominato Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana. Nello stesso periodo osservò che Saturno aveva una forma allungata e ritenne che il fenomeno fosse dovuto a due satelliti, collaterali rispetto al pianeta. Sfortunatamente, i satelliti diminuirono di grandezza e alla fine del 1612 scomparvero del tutto. Evidentemente il cannocchiale di Galilei non era in grado di risolvere gli anelli di Saturno che sono comunque difficili da osservare quando si trovano nel piano equatoriale del pianeta. Nel 1611 Galilei scoprì che Venere ha fasi come quelle lunari “sì che necessariamente si volge intorno al Sole, come anco Mercurio e tutti li altri pianeti”. Quando Galilei si recò a Roma nella primavera del 1611, il giovane principe F. Cesi lo accolse tra i membri dell’Accademia dei Lincei e il cardinale Bellarmino discusse con lui di astronomia. Nell’estate del 1611, Galilei sostenne una disputa con i filosofi peripatetici sulle cause dei corpi galleggianti. Egli riteneva, d’accordo con Archimede, che la causa del galleggiamento fosse dovuta alla densità relativa tra i corpi e il liquido in cui erano immersi, mentre i suoi oppositori aristotelici sostenevano, al contrario, che questa era data dalla forma dei corpi. Nel maggio del 1612, Galilei pubblicò il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in essa si muovono. Il saggio fu venduto così rapidamente che ne fu preparata una seconda edizione prima della fine dell’anno. Nell’autunno del 1611 C. Scheiner, un gesuita che insegnava all’università di Ingolstadt, scrisse a Mark Welser ad Augusta informandolo di aver scoperto delle macchie sulla superficie del Sole. Galilei contestò l’interpretazione di Scheiner che queste macchie fossero dei piccoli satelliti orbitanti intorno al Sole. Nel 1612 il principe Cesi pubblicò l’interpretazione di Galilei (Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari e loro accidenti), che affermava di aver osservato le macchie solari prima di Scheiner. Ciò generò una contesa tra Galilei e i gesuiti per la priorità della scoperta. Nel dicembre del 1613, a Pisa, durante un pranzo alla corte del granduca, assente Galilei, furono sollevate obiezioni di natura teologica contro il sistema copernicano. Castelli difese il punto di vista di Galilei quando Cristina di Lorena, madre di Cosimo II, gli chiese la sua opinione. Galilei scrisse allora una lunga lettera a Castelli, datata 21 dicembre 1613, nella quale difendeva il sistema eliocentrico. La quarta domenica di Avvento del 1614 un frate domenicano, T. Caccini, inveì contro il sistema copernicano dal pulpito di Santa Maria Novella. Un altro domenicano, N. Lorini, denunciò Galilei inviando all’Inquisizione a Roma una copia della lettera a Castelli. A questo punto Galilei ampliò la lettera (nota come Lettera a Cristina di Lorena, dic 1615), che contiene il suo pronunciamento più approfondito sui rapporti tra scienza e Sacra Scrittura. Facendo suo il bon mot del cardinale C. Baronio, “l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”, Galilei sviluppò l’idea che Dio parla sia attraverso il “libro della Natura” sia attraverso il “libro della Scrittura”. Nei primi mesi del 1615, P. A. Foscarini pubblicò una Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico della mobilità della terra e stabilità del sole e ne inviò copia al cardinale Bellarmino. Il cardinale rispose che in mancanza di prove certe sul moto della Terra, Foscarini e Galilei avrebbero dovuto contentarsi di parlare in forma ipotetica. Il cardinale aggiunse che nel caso in cui una prova del moto terrestre si rendesse disponibile allora bisognava reinterpretare la Sacra Scrittura con estrema cautela. Galilei, che ricevette una copia di tale lettera, era convinto di avere questa prova consistente in una sua ipotesi sull’origine delle maree, che in seguito divenne argomento della quarta giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi. Galilei presentò la sua ipotesi a Roma all’inizio del 1616. Il risultato fu un esame minuzioso della teoria eliocentrica da parte del Santo Uffizio e la condanna delle due seguenti proposizioni: 1. “Sol est centrum mundi, et omnino immobilis motu locali”, e 2. “Terra non est centrum mundi nec immobilis, sed secundum se totam se movetur, etiam motu diurno”. La prima proposizione venne censurata in quanto “stultam et absurdam in philosophia, et formaliter haereticam”, e la seconda come “ad minus esse in Fide erroneam”. Nello stesso anno la Congregazione dell’Indice a sua volta proibì il libro di Copernico “donec corrigatur” e condannò la Lettera di Foscarini. Il cardinale Bellarmino consegnò a Galilei un documento in cui si affermava che non gli era mai stata richiesta alcuna abiura o ritrattazione, ma che era stato semplicemente informato della decisione della Congregazione dell’Indice. Un memorandum non firmato, trovato negli atti, andava oltre affermando che a Galilei si doveva intimare non solo di rinunciare all’idea che la Terra si muove ma anche di non farne oggetto di discussione (“seu de ea tractare”). L’autenticità di questo documento è stata messa in dubbio, ma fatto sta che esso emerse in occasione del processo del 1633 e fu usato contro Galileo. [133231] Galilei, tornato a Firenze, si dedicò al problema della determinazione della longitudine in mare. Lo scienziato pisano sperava che tabelle accurate dei periodi di rivoluzione dei satelliti di Giove avrebbero consentito ai marinai di stabilire la loro posizione semplicemente osservando i satelliti con il cannocchiale, ma le tabelle non erano sufficientemente precise da rendere questo metodo utilizzabile. Nell’autunno del 1618, l’apparizione, in rapida successione, di tre comete colpì sensibilmente l’opinione pubblica. Galilei pensava che le comete fossero un fenomeno puramente ottico causato dalla rifrazione della luce nell’atmosfera e scrisse un Discorso sulle comete nel quale criticava le idee di O. Grassi, professore di matematica al Collegio Romano. Secondo Grassi le comete erano corpi celesti che viaggiavano al di là della sfera della Luna. La replica di Grassi, Libra astronomica ac philosophica (1619), spinse Galilei a scrivere il Saggiatore (1623), in cui sviluppò la concezione corpuscolare della materia. Il nuovo papa Urbano VIII, cui l’opera fu dedicata, accolse Galilei a Roma nel giugno del 1624 per ben sei volte. Galilei rientrò a Firenze con la sensazione di poter ormai liberamente esprimere le sue idee intorno al moto della Terra. Nel gennaio 1630 completò il Dialogo sopra i due massimi sistemi, lungamente atteso. L’opera è suddivisa in quattro giornate. Nella prima giornata viene criticata la divisione aristotelica dell’universo in due sfere nettamente distinte, quella terrestre e quella celeste, sia confutando la distinzione tradizionale tra moto rettilineo e moto circolare, sia mostrando le similarità tra la Terra e la Luna. Nella seconda giornata Galilei sostiene che il moto della Terra è impercettibile per i suoi abitanti e che la rotazione della Terra intorno al suo asse risulta essere più semplice della rotazione giornaliera della sfera celeste postulata da Tolomeo. Nella terza giornata Galilei afferma che la rivoluzione annua della Terra intorno al Sole offre a sua volta un’interpretazione più semplice delle posizioni di quiete apparenti e dei moti retrogradi dei pianeti. Nella quarta giornata Galilei dichiara in maniera ingegnosa, ma erronea, che le maree comprovano il moto della Terra. Il Dialogo contiene inoltre la formulazione corretta della legge della caduta dei gravi e una discussione sui principi della relatività e della persistenza del moto circolare. Nella primavera del 1630 Galilei consegnò il Dialogo nelle mani di N. Riccardi, maestro del Sacro Palazzo. Da questo momento intervennero alcuni fatti che contribuirono a porre Galilei in cattiva luce agli occhi del papa e a creare nuovamente un clima di sospetto nei suoi confronti. L’astrologo O. Morandi, con il quale Galilei aveva stretto amicizia, venne arrestato per aver preannunciato l’imminente morte del papa. Dannosa per Galilei risultò pure la sua familiarità con G. Ciampoli che aveva coltivato amicizie e conoscenze pericolosamente vicine al cardinale spagnolo Gaspare Borgia, portavoce di Filippo IV e spina nel fianco di Urbano VIII. L’8 marzo 1632, dopo un concistoro piuttosto burrascoso, Urbano VIII decise di epurare il suo seguito dagli elementi favorevoli alla Spagna e bandì quindi Ciampoli da Roma. La caduta di Ciampoli ebbe gravi conseguenze per Galileo. Tra il 1630 e il 1631, Ciampoli aveva giocato un ruolo decisivo per ottenere il permesso di pubblicare il Dialogo. Riccardi aveva garantito l’imprimatur ma insisté che gli venissero inviate la prefazione e la conclusione. Quando il censore di Firenze diede l’assenso per la pubblicazione nel settembre 1630, Riccardi cominciò a sollevare difficoltà affermando che Galilei si era impegnato a tornare a Roma per discutere la versione finale del manoscritto. Nel frattempo una epidemia di peste aveva reso difficili gli spostamenti tra Firenze e Roma. A questo punto Riccardi propose che una copia del lavoro fosse inviata a Roma per essere rivista da Ciampoli e da lui stesso. Anche questa richiesta fu in seguito disattesa; da quel momento in poi Riccardi non udì più nulla del lavoro di Galilei fino a che non gli arrivò a Roma una copia del libro già pubblicato. Con suo sommo stupore esaminando l’imprimatur fiorentino scoprì che figurava d’averlo lui stesso approvato. Convocato per dar conto della sua condotta, Riccardi si giustificò dicendo d’aver ricevuto da Ciampoli la direttiva di autorizzare la pubblicazione. Il Dialogo andò alle stampe nel giugno 1631 e fu pronto solo nel febbraio 1632. Copie del libro giunsero a Roma tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, irrompendo così sulla scena romana solo poche settimane dopo il concistoro durante il quale il cardinale Borgia aveva attaccato Urbano VIII. Qualsiasi “ciampolata”, come la chiamò Urbano VIII, da quel momento in poi sarebbe stata controllata molto severamente. Nell’estate del 1632, Urbano VIII ordinò di investigare sull’autorizzazione del Dialogo. Nell’incartamento del Santo Uffizio relativo a Galilei la commissione trovò un memorandum non firmato del 1616 in cui gli si intimava di non sostenere, insegnare o difendere in alcun modo l’idea che la Terra si muove. I commissari, considerando valida l’ingiunzione, giunsero alla conclusione che Galilei avesse trasgredito un ordine formale del Santo Uffizio. Alla luce di questa scoperta Galilei venne convocato a Roma dove arrivò, con molto ritardo, il 13 febbraio 1633. Nonostante la sua decisa smentita, Galilei venne giudicato colpevole dal Santo Uffizio di aver trasgredito agli ordini della Chiesa. La mattina del 22 giugno 1633 fu condotto in una sala del convento di Santa Maria sopra Minerva a Roma e fu fatto inginocchiare durante la lettura della sentenza che lo condannava all’incarcerazione. Mentre era ancora inginocchiato Galilei ritrattò formalmente il suo errore. La condanna prevedeva il carcere formale in Roma, poi commutato in residenza coatta nel palazzo arcivescovile in Siena, dove Galilei trascorse alcuni mesi affettuosamente ospitato dal cardinale A. Piccolomini. Soltanto nel dicembre 1633 poté ritornare ad Arcetri, ove trascorse gli ultimi anni della sua vita in stato di dimora vigilata. Divenne cieco nel 1638. [133241] Galilei cercò conforto impegnandosi a fondo nel lavoro. In due anni completò i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali, un libro al quale si deve la sua imperitura gloria di scienziato. La prima delle “due nuove scienze” consisteva in una trattazione matematica originale della struttura della materia e della resistenza dei materiali. Galilei dimostrò che esiste un limite alle dimensioni di qualsiasi corpo dello stesso materiale che mantenga le stesse proporzioni. La seconda scienza riguardava il moto naturale che veniva discusso, per la prima volta, alla luce della legge dei quadrati dei tempi dei corpi in caduta libera e della composizione simultanea e indipendente dei moti. Prese insieme, queste leggi permisero a Galilei di scoprire l’andamento parabolico della traiettoria dei proiettili e di fornirne una descrizione accurata. Quando cominciò a cercare un editore si trovò di fronte a un nuovo problema: la Chiesa aveva emesso un veto generale contro la pubblicazione o ristampa di ogni sua opera. Il manoscritto di Galilei venne inviato a L. Elzevir in Olanda dove fu pubblicato nel 1638. Negli ultimi anni Galilei si occupò della determinazione delle longitudini, della costruzione di orologi a pendolo, di problemi meccanici, e della luce lunare. Morì ad Arcetri l’8 gennaio 1642. Il progetto di una solenne sepoltura in Santa Croce fu vietato da Roma e si realizzò solo nel 1737. [133251] Galilei ha un posto rilevante anche nella storia della letteratura non solo e non tanto per i suoi scritti d’argomento letterario (oltre alle ricordate lezioni dantesche scrisse: Considerazioni sulla Gerusalemme liberata, Postille e correzioni al Furioso) quanto per essere stato praticamente il primo a scrivere di scienza in volgare. Il suo bel fiorentino cinquecentesco, piegato a significare nuove cose con un numero minimo di innovazioni e di traslazioni di significato, rappresenta una tappa importante nello sviluppo della lingua italiana. Non meno valida, la sua prosa, artisticamente: celebrata già ai suoi tempi per la sua chiarezza, essa è pervasa dallo stupore, dall’umiltà dinanzi alla grandezza delle sue scoperte; dall’ammirazione per le infinite possibilità dell’ingegno umano, dalla gratitudine verso Dio, dal senso religioso di una verità più alta dinanzi alla quale tutti debbono arrestarsi. L’ironia di fronte ai piccoli uomini, che chiudono gli occhi per non vedere, diventa sarcasmo verso gli avversari più potenti, contro i quali la ragione non è sufficiente. Pur persuaso della sua verità, Galilei ha bisogno di riviverla dialetticamente in ogni istante: da ciò la forma dialogica che caratterizza le sue opere maggiori. [13331] Il fisico e matematico Isaac Newton (Woolsthorpe, Lincolnshire, 1642 - Londra 1727) nacque in una famiglia agiata ma priva di istruzione. Frequentò la grammar school di Grantham con la prospettiva di iscriversi all’università di Cambridge, a cui venne ammesso nel 1661 come subsizar (studente povero). Di carattere scontroso e tormentato, Newton non si distinse in modo particolare nella carriera scolastica, anzi si allontanò quasi subito dal corso usuale degli studi per dedicarsi a libere letture. I suoi taccuini di studente attestano che furono proprio queste letture a suggerirgli il nucleo di tutte le sue più importanti scoperte. Nel 1664 lesse le opere filosofiche di Descartes, il Dialogo di Galileo e le più recenti opere di Boyle, raccogliendo le sue riflessioni nelle Quaestiones quaedam philosophiae: in esse troviamo l’abbozzo di una nuova teoria dei colori (il primo risultato creativo di Newton) e la scoperta della proporzionalità tra peso e massa dei corpi, che implicava una revisione dell’intera fisica cartesiana. Il 28 aprile dello stesso anno Newton sostenne con I. Barrow un esame sulle sue conoscenze matematiche, che risultarono assai scarse (Newton non conosceva la geometria euclidea), ma ottenne ugualmente una scholarship al Trinity College. Fu forse in seguito a questo episodio che si dedicò allo studio della matematica, acquistando le Miscellanee di Schooten e la Geometria di Descartes e prendendo a prestito le opere di Wallis. Le note di lettura ricavate dall’Arithmetica infinitorum di Wallis attestano che Newton apprese presto il metodo delle serie infinite e che alla fine del 1664 padroneggiava il metodo delle quadrature di Wallis. Nel 1665 Newton è già in possesso delle tre regole su cui si fonda il suo metodo di integrazione e della formula del binomio. Le sue intuizioni matematiche sono indubbiamente connesse con i problemi filosofici che contemporaneamente egli stava affrontando nelle Quaestiones. Il metodo delle flussioni nasce dal continuo parallelismo tra quantità fisiche e numeri, tanto che il nuovo calcolo rivela una pregnante capacità di indagine filosofica della natura. Nello stesso anno Newton calcolò la forza con cui un globo in rotazione entro una sfera ne preme la superficie, deducendo dalla terza legge di Keplero che le forze che trattengono i pianeti nelle loro orbite devono essere inversamente proporzionali al quadrato delle loro distanze dal Sole. Nel 1666 solo pochi amici (Barrow e John Collins) erano a conoscenza delle scoperte matematiche di Newton in campo analitico, giacché egli non aveva pubblicato nulla. Ma questa non fu un’eccezione: fino al 1672 Newton non si servì della stampa, e questo periodo, che coincide con il vertice della sua attività creativa, è caratterizzato da numerose opere incompiute, che hanno il fascino dell’innovazione e l’impronta di una grande originalità espositiva. Il primo di questi trattati incompiuti, il De gravitatione et aequipondio fluidorum (1665 circa), è un’ampia disamina filosofica del concetto di spazio, in cui viene criticata la concezione del mondo cartesiana, e l’identità di materia ed estensione su cui tale concezione si fondava. In esso sono presenti argomenti tratti da Gassendi e da More, ma vi è anche abbozzato un metodo di ricerca che abbina la matematica e la filosofia naturale. Inoltre vengono affacciati dubbi sulla possibilità e convenienza di interpretare la natura in modo strettamente e completamente meccanicistico, con motivazioni sia fisiche sia teologiche. La discussione su Dio e sulla sua presenza nello spazio è condotta senza soluzione di continuità rispetto agli argomenti di origine sperimentale. Il trattatello Of colours (1666 circa) sistema e sviluppa la brillante idea sulla natura dei colori e della luce esposta nelle Quaestiones. La teoria meccanicistica ivi proposta (la luce consisterebbe di corpuscoli dotati di diversa velocità o massa, o di entrambe) viene tuttavia abbandonata a favore di una minuziosa analisi sperimentale. Newton sta seguendo un metodo affatto nuovo rispetto alla stessa tradizione sperimentale: elabora in modo astratto i dati degli esperimenti sui colori, isolando e controllando con cura le proprietà fisiche e matematiche dei fenomeni osservati, senza preoccuparsi più di avanzare ipotesi meccaniche sulla natura della luce. Questo metodo di ricerca era destinato a convergere necessariamente con quello adottato nel De gravitatione. Nel 1669 Newton, già fellow del Trinity College, successe a Barrow nella cattedra lucasiana di matematica. L’anno successivo iniziò un corso di lezioni sull’ottica, che scrisse in latino (Lectiones opticae) e ampliò alquanto in una seconda stesura (1672 circa). Le Lectiones opticae costituiscono il primo trattato compiuto di Newton e contengono non solo la nuova teoria della luce e dei colori ma anche la proposta di un nuovo metodo di ricerca filosofica. Nel frattempo Newton aveva costruito una variante del telescopio a riflessione progettato del matematico scozzese James Gregory (Optica promota, 1663). Nel 1671 Barrow trasmise lo strumento alla Royal Society. L’episodio trasse Newton dall’ombra. Non senza ingenuità, Newton spedì alla Royal Society una memoria sulla luce e i colori (New theory about light and colours) non dubitando che essa risultasse più gradita dello strumento. La memoria era un sunto dei risultati raggiunti nelle Lectiones opticae, che Newton condensò in poche proposizioni, di cui le più significative erano le seguenti: 1) I colori sono proprietà innate e originarie della luce, diverse in raggi diversi. 2) Allo stesso grado di rifrangibilità è associato sempre lo stesso colore e viceversa. 3) La specie del colore e il suo grado di rifrangibilità sono immutabili. 4) Esistono due tipi di colori: gli uni sono originari (o primari) e semplici, gli altri composti dei primi. 5) Il colore bianco è sempre composto di tutti i colori primari mescolati in una proporzione data. 6) Il bianco è il colore usuale della luce. Newton sosteneva inoltre che la sua teoria non era un’ipotesi, ma la conseguenza di esperimenti (tra cui il celebre experimentum crucis con i due prismi) che concludevano direttamente e senza sospetto di dubbio. Poiché a ogni colore originario corrisponde un ben determinato valore dell’indice di rifrazione, Newton concludeva che la scienza dei colori era divenuta matematica ed era altrettanto certa di ogni altra parte dell’ottica geometrica. La memoria fu pubblicata nel 1672 sulle Philosophical transactions con pochi ma significativi tagli. Questi tagli riguardavano gli accenni al metodo di Newton e alla sua proposta di unificare la matematica e la fisica sperimentale e furono quasi certamente fatti in seguito al giudizio sprezzante datone da Robert Hooke, che non vedeva alcun legame di necessità tra gli esperimenti di Newton e la sua teoria. La memoria suscitò in breve una coda di lettere polemiche anche sul continente (I.-G. Pardies, F. Hall, noto come Linus, lo stesso Ch. Huygens), a cui Newton dovette rispondere. Newton rimpianse amaramente di aver pubblicato la memoria e decise di non stampare le sue Lectiones opticae. Negli anni successivi Newton si dedicò a esperimenti alchemici e alla stesura di un trattato sull’interpretazione dell’Apocalisse. Ispirandosi agli studi di Joseph Mede, cercò di rinnovare le tecniche di interpretazione delle profezie, utilizzando anche in questo caso un metodo matematico. Questo trattato rimase inedito, e non ha molto in comune con la confusa raccolta pubblicata postuma nel 1733 (Observations upon the Prophecies of Daniel, and the Apocalypse of St. John) e successivamente tradotta in latino. Le conclusioni teologiche di Newton erano eterodosse, anche rispetto alla chiesa anglicana: venivano negate la trinità e la divinità del Cristo, l’autorità dottrinale di tutte le Chiese, e l’autenticità di parte delle Scritture. Nel 1679 Hooke, divenuto nel frattempo segretario della Royal Society, chiese il parere di Newton sulla propria ipotesi (probabilmente suggeritagli dalla lettura di G. A. Borelli) che l’attrazione tra i pianeti e il Sole fosse inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze, domandando a Newton quale traiettoria i pianeti seguirebbero nel caso che l’ipotesi fosse stata corretta. Newton non rispose, ma in un breve scritto (On motion in ellipses, 1680 circa) trovò la soluzione del problema di Hooke: la traiettoria sarebbe un’ellisse e il Sole ne occuperebbe uno dei fuochi. Nel 1684, in seguito a una visita di E. Halley, Newton diede una nuova sistemazione della meccanica celeste in base alla legge dell’inverso del quadrato (De motu corporum in gyrum). Attratto dal problema, Newton si dedicò a un grande trattato in cui esponeva in modo completo le sue scoperte di filosofia naturale. Adottò il metodo, che tante polemiche aveva suscitato presso i filosofi sperimentali, di ridurre la materia fisica a principi matematici. Esso non differiva sostanzialmente da quello usato nei suoi lavori precedenti, comprese le ricerche sull’interpretazione dell’Apocalisse. Nonostante che Hooke rivendicasse a gran voce la priorità della scoperta in base alla sua ipotesi del 1679 e che in seguito a ciò Newton fosse quasi sul punto di rinunciare alla stampa del terzo libro, i Philosophiae naturalis principia mathematica uscirono il 5 luglio 1687. [133311] I Principia di Newton rappresentano il punto più alto raggiunto dalla filosofia della natura del Seicento. I tre libri che lo compongono non sono tuttavia omogenei metodologicamente. Essi sono preceduti dalle definizioni matematiche di materia e di forza (insita, impressa e centripeta), coronate dallo scolio sullo spazio e sul tempo assoluti, veri e matematici, ben distinti dalle loro misure relative e sensibili. Qui Newton inserisce il famoso esperimento della secchia piena d’acqua che, sospesa a un filo e fatta ruotare velocemente, dimostra la presenza, nel moto circolare vero o assoluto, di forze di allontanamento dall’asse, rivelate dalla concavità dell’acqua, forze che sono invece nulle nel moto circolare relativo. Gli assiomi, o leggi del moto, sono la formulazione matematica dell’inerzia, già enunciata da Galileo e Descartes in termini fisici. I primi due libri, nonostante le innovazioni, si collocavano facilmente nel solco della meccanica razionale ritenuta da sempre una scienza matematica. Le proposizioni del primo libro dimostrano, in base alle definizioni e agli assiomi premessi all’opera, le leggi del moto planetario, ammessa una forza centrale che agisca secondo l’inverso del quadrato della distanza. Il secondo libro viene dedicato al moto dei corpi nei fluidi, e viene confutata l’ipotesi cartesiana che i pianeti siano trasportati da vortici materiali. Il terzo libro invece riguarda la costituzione dell’universo (De systemate mundi): era perciò un libro “filosofico”. Così in esso vengono descritti i moti dei satelliti di Giove e di Saturno, e quelli della Terra e dei pianeti intorno al Sole; viene indicato il modo di calcolare la massa del Sole e dei pianeti conoscendo quella della Terra; vengono calcolate le irregolarità del moto lunare e le maree sono spiegate come un effetto congiunto dell’azione gravitazionale del Sole e della Luna; viene messo a punto un metodo per calcolare, mediante approssimazioni successive, le orbite delle comete, la cui appartenenza al sistema solare viene dimostrata. Nella prima edizione il terzo libro era preceduto da una sezione intitolata Hypotheses, che andavano aggiunte alle Definitiones e agli Axiomata affinché i principi matematici consentissero la discussione della materia fisica. Nella seconda edizione (1713), per evitare l’ambiguità del termine ipotesi, Newton introdusse al loro posto (ma il contenuto venne conservato, con la sola eccezione della terza ipotesi sulla possibilità di trasformazione universale della materia) due sezioni: le Regulae philosophandi e i Phaenomena. Le prime verranno considerate il manifesto della ricerca empirica, ma la loro vera origine si trova nelle regole di interpretazione dell’Apocalisse, redatte da Newton negli anni Settanta. A questa edizione Newton aggiunse anche uno Scolio generale, che contiene un abbozzo delle sue convinzioni religiose e metafisiche, anch’esse radicate nei suoi scritti teologici. Dio è onnipresente nello spazio e nel tempo assoluti in un modo che a noi sfugge, ma questa sua presenza nel mondo è rivelata dall’esistenza di leggi non meccaniche, come la gravitazione, dall’ordine e dalla bellezza dell’universo, nonché dalle cause finali. Con i Principia si concluse la grande fase creativa della ricerca di Newton. La pubblicazione dell’Opticks (1704) fu ritardata fino alla morte di Hooke, ma era già pronta da molto tempo. In appendice all’Opticks comparvero due opuscoli matematici, che esponevano il metodo delle flussioni di Newton trovato negli anni Sessanta. Nel 1705 una recensione negli Acta eruditorum, anonima ma certamente di Leibniz, sembrava suggerire che il metodo delle flussioni fosse semplicemente una trasposizione dell’analisi infinitesimale di Leibniz. Come esempio di applicazione delle flussioni venivano indicati i Principia, che erano posteriori di tre anni alla Nova methodus pro maximis et minimis di Leibniz. La recensione rivendicava quindi una priorità nella scoperta del calcolo, ma non insinuava alcun sospetto di plagio. La risposta tardò qualche anno, ma fu molto dura. Nel 1710 le Philosophical transactions pubblicarono una memoria di Keill, che conteneva un’accusa di plagio nei confronti di Leibniz. Wallis aveva infatti pubblicato le lettere di Newton sul calcolo, e non v’era dubbio che il metodo delle flussioni fosse stato inventato per primo da Newton; ma c’era di più: “... la stessa aritmetica tuttavia, mutati solo il nome e le notazioni, era stata pubblicata da Leibniz negli Acta Eruditorum”. Leibniz, che era socio della Royal Society, chiese spiegazioni e ci fu uno scambio di lettere che invelenì gli animi. Per dirimere la disputa, la Royal Society nominò una commissione che si pronunciò nel 1712 a favore di Newton, auspicando la pubblicazione dei documenti originali. Il volume, che raccoglieva documenti e lettere di Barrow, Collins, Wallis, Newton, Leibniz in ordine cronologico, uscì l’anno seguente con il titolo Commercium epistolicum D. Johannis Collins et aliorum de analysi promota. Newton stesso ne fece una recensione nel 1715 sulle Philosophical transactions. Questa recensione contiene anche un confronto tra la filosofia di Newton e quella di Leibniz, assai più utile per comprendere il pensiero del primo della sterile disputa sul calcolo. Leibniz, che aveva già diffuso una charta volans con un giudizio di G. Bernoulli a lui favorevole, mandò a S. Clarke una prima lettera critica sulla filosofia newtoniana. Ne seguì un’altra polemica epistolare per interposta persona, giacché Clarke fece da prestanome a Newton, che non voleva scrivere personalmente a Leibniz. Lo scambio epistolare mise in luce i tratti caratteristici della filosofia della natura newtoniana intorno ai concetti di gravitazione, spazio, tempo, natura e divinità. Altre polemiche segnarono gli anni del declino. Nel 1723 si sviluppò un’accesa disputa intorno a un estratto di Newton sulla cronologia degli antichi imperi, trasmesso dall’abate Antonio Conti all’Académie des inscriptions di Parigi, che l’aveva pubblicato. Nonostante le dispute, Newton continuò ad essere attivo: lo attestano le numerose queries aggiunte alla seconda edizione inglese dell’Opticks (1717), che propongono all’esame sperimentale vari interrogativi sull’etere e sullo “spirito elettrico” per la spiegazione dei fenomeni del microcosmo e della struttura della materia – un tema abbozzato da Newton fin dal 1675 e ripreso in un’appendice inedita alla seconda edizione dei Principia (1713) – e la grande massa dei manoscritti religiosi ed eruditi che Newton continuò a rielaborare per tutta la vita. [13341] L’illuminismo (francese: âge des lumières; inglese: enlightenment; tedesco: Aufklärung) designa nell’uso corrente sia l’età della storia d’Europa compresa tra la conclusione delle guerre di religione del secolo 17° o la rivoluzione inglese del 1688 da un lato, e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro, sia la connessa evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia e il rinnovamento delle forme letterarie nel corso del secolo 18°. La metafora della “luce” contenuta nel termine (con i sostantivi e aggettivi derivati: lumi, éclairé, enlightened, Aufklärer, ecc.) ha la sua secolarizzazione e laicizzazione dell’idea di provvidenza, o progresso, intesa come attività storica umana. I contenuti filosofici e scientifici della cultura dei lumi rinviano a un complesso programma di rinnovamento ideologico, civile, politico, che fu elaborato variamente nei diversi paesi e accompagnò ovunque la crescente egemonia della borghesia commerciale e industriale in lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale. L’affermazione solenne dell’autonomia della ragione, che è alla radice della cultura dei lumi, maturò in cerchie ristrette e assunse un peculiare significato politico e religioso negli ultimi decenni del secolo 17°. Ma nel corso del Settecento la critica della collusione tra altare e trono, la polemica contro il gesuitismo e il rigorismo giansenistico, l’esigenza di emancipazione politico-religiosa si unirono a un anticlericalismo più risentito e a una più massiccia campagna ideologica. La disputa emerse cautamente nei primi scritti di Montesquieu e Voltaire, acquistò impeto verso la metà del secolo in anonime pubblicazioni deistiche o ateistiche, fu repressa, risorse con gli scritti di Diderot ed Helvétius, seguì la sorte dell’Encyclopédie, e infine dilagò. Le persecuzioni giansenistiche, gesuitiche, governative radicalizzarono la discussione, fino a farla coincidere con la più vasta battaglia intrapresa dai philosophes sul piano delle libertà politiche e delle riforme economico-sociali, tanto da incontrarsi col fenomeno dell’“Illuminismo politico”. Se è generalmente presente nelle teorie politiche del secolo 18° l’idea di progresso, associata alle vedute illuministiche sulla storia e sulla società, il criterio d’interpretazione va a sua volta mediato con la considerazione delle forze economico-sociali che di tale schema si giovarono per affermare la propria iniziativa politica. Anche qui, l’emancipazione della borghesia dalle forme della società feudale, la modificazione delle forze e dei rapporti di produzione, la costituzione della grande industria capitalistica, si svilupparono secondo ritmi diversi nei vari paesi europei, stimolando o accompagnando l’evoluzione delle concezioni politiche. Una prima caratteristica, comune ai politici dell’illuminismo, consiste nel punto di vista pragmatico, l’impegno riformistico, la tensione volontaristica a mutare i rapporti sociali. Una seconda costante si riassume nel quesito di Hume, “se la politica possa ridursi a scienza”. Entrambe le esigenze riflettono il nuovo ruolo storico della borghesia e l’incidenza crescente della tecnologia e della scienza nella vita associata. Il peculiare grado di sviluppo economico e politico raggiunto dall’Inghilterra negli anni della rivoluzione “gloriosa” segnò anche un nuovo punto di partenza per l’egemonia della borghesia commerciante. Al nuovo ordinamento – sorto politicamente dal compromesso, e negante in teoria il diritto divino del monarca – fece seguito la prassi empirica dell’equilibrio tra i vari poteri dello stato (monarchia, parlamento, magistratura) e del governo di gabinetto. Assorbendo le tensioni sociali, quest’ordinamento favorì lo sviluppo della rivoluzione industriale entro un quadro di sostanziale conservazione sociale. Della stabilità delle istituzioni inglesi e di un moderato conservatorismo liberale furono interpreti Bolingbroke, Hume, i grandi storici scozzesi, e più tardi Burke, critico del giacobinismo e della Rivoluzione francese. Anche l’opera dell’economista scozzese Adam Smith, riflette la prassi politica liberale nell’analisi dei processi produttivi capitalistici, dei sottostanti conflitti sociali, della distribuzione della ricchezza, e più in generale nella concezione dello stato di diritto, rigorosamente limitato nelle sue funzioni economico-sociali. La fissazione dei concetti fondamentali della scienza economica moderna si deve alla peculiare convergenza tra l’analisi scientifica della vita morale condotta dalla scuola scozzese, il liberalismo politico teorizzato da Hume e le teorie fisiocratiche. In Francia, il modello costituzionale lockiano operò profondamente nei programmi di riforma dei philosophes e nella volontà di ricondurre la politica ai modelli esplicativi delle scienze. Voltaire dette l’avvio a un vivace movimento d’opinione a favore di un trapianto delle libertà inglesi, che non avrebbe cessato di diffondersi in Europa in tutto il corso del secolo. Nel suo capolavoro, Montesquieu mediò questa esigenza con il tentativo di gettare le basi di una scienza dell’uomo storico-sperimentale, e articolò la sua indagine facendo convergere attorno alla formazione delle leggi le componenti religiose, economiche, etico-politiche presenti storicamente nelle varie società. La proposta politica implicita nello Spirito delle leggi era quella di un’illuminata razionalizzazione dello stato, mediante il rinnovo delle antiche forme parlamentari cadute in disuso nell’età assolutistica. Non diversamente orientati furono, in generale, i fisiocratici, teorici del laisser faire in economia, in funzione di un’emancipazione dalle restrizioni e strutture feudali, di una liberalizzazione dell’economia agricola e di un alleggerimento della pressione fiscale sulla proprietà latifondistica. I loro programmi, maturati nell’ambito dell’Encyclopédie, trovarono difficoltà a tradursi in concrete iniziative di governo finché non prevalsero con Luigi XVI, Turgot e Necker. Ma ormai l’evoluzione politica ed economica del Terzo Stato aveva largamente preceduto le capacità di adattamento del sistema, rigido e sclerotico, ponendo in movimento le forze che lo avrebbero travolto. [133411] Il filosofo francese Montesquieu (Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu) nacque a La Brède, nei pressi di Bordeaux, nel 1689 e morì a Parigi nel 1755. Studiò presso gli oratoriani e si laureò in giurisprudenza a Bordeaux. Consigliere del parlamento di Bordeaux, nel 1716, dopo la morte di uno zio da cui ereditò la carica e la baronia di Montesquieu, ne divenne presidente. Nello stesso anno fu eletto membro dell’Académie di Bordeaux. Soggiornò a Parigi dal 1721 al 1725; nel 1726 vendette la sua carica di presidente; nel 1728 fu eletto membro dell’Académie française. Viaggiò in Austria, Italia, Germania, Olanda, Inghilterra; tornato in Francia nel 1731, dal 1734 attese alla sua opera maggiore, De l’esprit des lois, che apparve a Ginevra nel 1748. Come egli stesso dice in una lettera, quest’opera può considerarsi il punto d’approdo di tutte le sue precedenti ricerche ed esperienze, che furono larghe e varie. Nel 1716 aveva scritto una Dissertation sur la politique des Romains (postuma), nella quale, evidentemente influenzato da Machiavelli, sostiene l’utilità politica della religione (tesi sulla quale tornerà nell’Esprit des lois). Dal 1718 al 1721 si era dedicato a ricerche scientifiche di fisica e storia naturale, e nello stesso tempo preparava le Lettres persanes, che uscirono anonime ad Amsterdam nel 1721 e in cui appaiono molti motivi tipici di Montesquieu: polemica contro le dispute religiose e l’intolleranza, funzione morale e sociale della religione e sua sostanza razionale, polemica con Hobbes, rifiuto del dispotismo, difesa dei parlamenti come garanzia di libertà. Al 1725 risale un Traité général des devoirs (in parte perduto), d’ispirazione stoica, al 1726 o 1727 le Considérations sur les richesses de l’Espagne (postume), al 1734 le Réflexions sur la monarchie universelle en Europe (contro lo spirito di conquista) e le celebri Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence. In queste Considérations Montesquieu esalta la Roma repubblicano-senatoria, quale fu raffigurata da Livio: la grandezza dei Romani fu il frutto delle loro virtù, per la saldezza e coesione sociale che esse produssero; la decadenza fu causata dal venir meno di questa coesione. In tale analisi della storia romana si annuncia la nozione, tipica di Montesquieu, di “spirito generale” di un popolo. “Molte cose – egli scriveva più tardi nell’Esprit des lois – guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, le tradizioni, i costumi, le usanze: donde si forma uno spirito generale, che ne è il risultato”: di queste “cause” ce n’è una che agisce, nelle varie nazioni, con maggior forza, le altre “cedono in proporzione”. Lo “spirito generale” è per Montesquieu un principio di analisi e, nel medesimo tempo, un criterio pratico. È un principio di analisi perché Montesquieu descrivendo, poniamo, le forme di governo, mostra come a ciascuna corrispondono particolari modi di sentire (per esempio, al governo repubblicano corrisponde la virtù), particolari leggi, costumi, ampiezza di territorio (la repubblica è più adatta agli stati piccoli, la monarchia a quelli di dimensione media, il dispotismo ai grandi imperi). È un criterio pratico, perché bisogna legiferare in conformità con questo spirito generale, badando a utilizzare anche i difetti, che vi si trovano mescolati alle virtù. Questo atteggiamento realistico è stato interpretato da alcuni (per esempio, da Helvétius) come arrendevolezza di fronte al pregiudizio. Ma accanto al realismo c’è in Montesquieu un’esplicita ispirazione razionalistica e critica che partecipa di tutti i motivi dell’illuminismo politico: repubblicanesimo, pacifismo, autonomia del cittadino di fronte allo stato (e quindi antidispotismo), anglofilia, tolleranza religiosa, egualitarismo. E si ritrova nella distinzione dei tre tipi di governo: repubblicano, monarchico, dispotico. Il governo repubblicano può essere democratico o aristocratico. Nella democrazia il popolo è a un tempo sovrano e suddito; la logica della democrazia è ugualitaria e condurrebbe anche all’eguaglianza della fortuna; ma poiché realizzare questa eguaglianza è difficile, bisogna limitarsi alle fortune mediane. Principio della democrazia è la virtù, intesa come amore della patria e della eguaglianza. La democrazia deve poi essere rappresentativa e non diretta; la democrazia diretta è la degenerazione della prima, perché corrompe lo spirito di eguaglianza massimizzandolo in esigenza di eguaglianza estrema. L’eguaglianza di Montesquieu non è dunque livellatrice ma moderata, implicante differenze, che sono garanzia di virtù. L’aristocrazia comprende la distinzione tra nobili e popolo: i nobili formano un corpo con propri interessi, che reprime il popolo. Ma sorge il problema dell’osservanza delle leggi da parte degli stessi nobili. Le vie sono due: o quella di una “grande virtù”, o quella di una virtù minore, che è la moderazione. Nel primo caso i nobili diventano eguali al popolo ed eventualmente formano una “grande repubblica”, cioè una democrazia; nel secondo caso, ossia con la moderazione, i nobili si rendono eguali fra loro, e ciò determina la loro conservazione; la moderazione è dunque l’anima del governo, appartiene a uno solo; ma nella monarchia il governo è saggio e temperato, nel dispotismo si ha al contrario il puro arbitrio, la forza bruta. La monarchia si fonda sull’onore, il dispotismo sulla paura. È evidente che dalla democrazia al dispotismo abbiamo un graduale regresso dall’unità di governanti e governati (democrazia) alla piena dualità (dispotismo). A queste forme di governo Montesquieu commisura una serie di fattori (territorio, vita economica, costumi) per stabilire le reciproche compatibilità. Ciascuna forma di governo presuppone dunque determinate condizioni; l’importante è che il governo non sia dispotico, che cioè la libertà del singolo sia garantita, intendendosi per libertà sicurezza della propria persona e dei propri beni (la proprietà è caratteristica della condizione civile). E a questo proposito Montesquieu si riferisce a due modelli, il governo costituzionale inglese e la monarchia francese, limitata dall’aristocrazia. In entrambi i casi si hanno quella divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), quella presenza di diverse forze sociali con poteri propri, che costituiscono la migliore garanzia dell’autonomia del cittadino: in Inghilterra il potere appartiene alle due camere e al monarca che si equilibrano a vicenda; in Francia si hanno i corpi intermedi, formati dall’aristocrazia e limitanti il potere monarchico; senza aristocrazia si passerebbe allo stato popolare o a quello dispotico. Questo “governo gotico”, fondato sull’equilibrio dei privilegi, è “il tipo migliore di reggimento politico che gli uomini abbiano potuto immaginare”. È evidente che con ciò debba intendersi che il “governo gotico” francese (e il suo equivalente britannico) è il miglior governo storicamente manifestatosi; mentre su un piano di pura teoria la forma razionale di governo, quella che realizza l’unità di governanti e governati, è quella democratica. [133421] Filosofo e scrittore, Jean-Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712 e morì a Ermenonville (Oise) nel 1778. Autodidatta, fu una delle grandi figure della cultura europea del Settecento. Figlio di un orologiaio, non ebbe una regolare istruzione, e a soli tredici anni fu mandato come apprendista presso un incisore, occupazione che avrebbe ben presto abbandonato per fuggire in Savoia, iniziando una vita disordinata che sarebbe durata molti anni. Indirizzato dal parroco di Confignon, un villaggio vicino Ginevra, ad Annecy, presso M.me Louise-Eléonore de Warens, fu da questa a sua volta indirizzato a Torino, in un ospizio per catecumeni, dove Rousseau abbandonò l’originaria fede calvinista e fu battezzato secondo il rito cattolico (1728). Ripresa ben presto la vita di vagabondaggio, si occupò nei successivi quattro anni in umili lavori presso famiglie signorili, per poi raggiungere di nuovo M.me de Warens, di cui sarebbe diventato amante. Negli anni trascorsi con essa nella residenza campestre di Les Charmettes, nei pressi di Chambéry, si dedicò a vaste letture e a un’intensa attività di studio, privilegiando in particolare la musica. Dopo un ulteriore periodo di viaggi per la Francia e la Svizzera, tornò ancora dalla Warens, trasferitasi nel frattempo a Chambéry; ma la passione che aveva legato i due era ormai esaurita e Rousseau si allontanò definitivamente dalla sua protettrice, occupandosi come precettore a Lione (1738-40). Nel 1741 era a Parigi, dove svolse prevalentemente l’attività di copista di musica e dove, nel 1745, si legò a una popolana, Thérèse Levasseur, da cui ebbe vari figli, che furono affidati alla carità pubblica. Dopo un breve periodo a Venezia, dove fu segretario dell’allora ambasciatore di Francia, ritornò a Parigi e qui entrò in contatto con i filosofi dell’Encyclopédie, Diderot, Condillac, Fontenelle, Voltaire, F. M. Grimm. Da Diderot ricevé l’invito a collaborare all’opera, alla quale contribuì con le voci di musica (poi pubblicate a parte come Dictionnaire de musique, 1764) e con l’articolo Économie politique, nel quale già emergevano i concetti fondamentali della sua opera sul contratto sociale. Al 1750 risale il suo Discours sur les sciences et les arts, composto in occasione di un concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema “Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi”. Nel suo scritto, con cui risultò vincitore, Rousseau rispondeva negativamente al quesito dell’Accademia, mettendo praticamente in discussione il valore che gli illuministi attribuivano al progresso e sostenendo per contro l’aumento della degradazione morale in connessione con l’evoluzione della civilizzazione. Tesi, questa, che Rousseau avrebbe ribadito e articolato nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, composto nel 1754 in risposta anch’esso a un quesito dell’Accademia di Digione. Con questo secondo scritto i rapporti con gli enciclopedisti, già incrinati a causa del primo, si ruppero definitivamente e Rousseau passò a Ginevra, dove fu accolto con grandi onori e dove ritornò all’originaria fede calvinista. Tornato nello stesso anno a Parigi, si ritirò poi presso Montmorency, dove, ospite di M.me d’Épinay e poi del maresciallo di Luxembourg, compose le sue opere più importanti, Julie ou la Nouvelle Héloïse (1761), Émile ou sur l’éducation e il Contrat social (entrambi del 1762). Costretto ad abbandonare la Francia allorché le sue opere (l’Émile e il Contrat in particolare) furono giudicate pericolose sul piano politico e religioso, trovò rifugio in Svizzera, a Môtier-Travers, presso Neuchâtel, dove compose le Lettres écrites de la montagne e cominciò a lavorare alle Confessions (apparse postume in 4 voll., 1781-88). Ospite di D. Hume a Wootton (1766), ruppe ben presto col filosofo scozzese per via del suo carattere sempre più scontroso e delle manie di persecuzione di cui cominciava a soffrire. Tornato in Francia, si stabilì nuovamente a Parigi (1770); incurante del mandato di cattura nei suoi confronti, visse sempre più in solitudine, dedicando il suo tempo alla stesura delle Rêveries du promeneur solitaire e dei Dialogues ovvero Rousseau juge de Jean-Jacques. Ospite del marchese de Girardin a Ermenonville, qui morì nella notte tra il 2 e il 3 luglio del 1778. Il pensiero filosofico-politico di Rousseau si colloca da un lato in una posizione eccentrica rispetto all’idea illuministica di progresso, sia in senso conoscitivo sia in senso morale, mentre recupera dall’altro alcuni temi politici fondamentalmente illuministici. Sin dal Discours sur les sciences et les arts si riscontra in Rousseau un atteggiamento polemico nei confronti di quello che agli illuministi appariva incivilimento e raffinamento, mentre in realtà non era altro, ai suoi occhi, che mortificazione e annullamento della spontaneità caratteristica dell’uomo e dei rapporti umani non ancora contaminati dalle convenzioni della società civilizzata (spontaneità che Rousseau nel primo discorso vede rappresentata nelle città-stato dell’antica Grecia). Di qui la tesi radicale che “le nostre anime si sono corrotte nella misura in cui le nostre scienze, le nostre arti hanno progredito verso la perfezione”. L’argomento fondamentale di Rousseau, basato sull’ipotesi dell’esistenza di una natura umana incorrotta che sarebbe degenerata moralmente a causa dei rapporti instauratisi nelle cosiddette società civili (ed è evidente che Rousseau generalizzava soprattutto i tratti della società francese del suo tempo), imponeva un chiarimento circa le caratteristiche dell’uomo al di fuori di queste società. A tale chiarimento era dedicato il successivo Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, dove Rousseau ipotizza, benché soltanto sul piano concettuale e non su quello storico, uno “stato di natura” dal quale l’uomo si sarebbe via via sempre più allontanato: l’ipotesi dello stato di natura consente a Rousseau di delineare, per sottrazione delle convenzioni e delle artificiosità introdotte dalla società, quelle caratteristiche umane non inquinate dalla civilizzazione, di cui, anche se non nell’aspetto più primitivo, vagheggia il ripristino. A differenza dello stato di natura hobbesiano, quello di Rousseau non è basato su un’immagine aggressiva dell’uomo; piuttosto, è legittimo ipotizzare una completa armonia tra uomo e natura: soddisfacendo le sue esigenze primarie e sviluppando un sentimento di compassione nei confronti dei propri simili, l’uomo è, in natura, in una condizione di isolamento che, se ne impedisce da un lato lo sviluppo morale e intellettuale, gli preclude dall’altro l’acquisizione di quelle caratteristiche deleterie indotte dalla civilizzazione (egoismo, aggressività, prevaricazione). Nello stato di natura non esiste proprietà né sopraffazione e gli esseri umani si trovano praticamente in una condizione di assoluta libertà ed eguaglianza. Con la nascita delle prime comunità patriarcali, sorte in seguito all’avvertimento dei vantaggi che per i singoli derivano, sul piano dell’autoconservazione, dal fare parte di un gruppo organizzato, cominciano a delinearsi le prime rudimentali forme di società, il cui nucleo originario è rappresentato dalla famiglia. A questi raggruppamenti, che per Rousseau costituiscono l’esempio più felice di organizzazione sociale, seguono tuttavia forme sociali sempre più strutturate, soprattutto per via dell’avvento della proprietà. Appropriandosi della terra e dei suoi prodotti, inventando e utilizzando le prime tecniche di trasformazione della natura, come la metallurgia e l’agricoltura, emerge pian piano la società civile, fondata sulla distinzione tra “mio” e “tuo” e sulla disuguaglianza che, per garantire la proprietà, le leggi vengono a codificare. In tal modo l’umanità sarebbe uscita definitivamente dalle originarie condizioni di naturalità per strutturarsi in un’organizzazione coercitiva, fondata sulla distinzione tra ricchi e poveri, padroni e schiavi. Tuttavia questa accusa lanciata da Rousseau contro la società civile e le sue strutture non significava il desiderio di riportare indietro l’umanità “nelle foreste con gli orsi”, all’originaria innocenza e eguaglianza. Si trattava invece, e questo è lo scopo del Contrat social, di definire i fondamenti di una nuova società in grado di ristabilire “nel diritto l’uguaglianza naturale fra gli uomini”; si trattava di trovare i fondamenti di una società giusta: in questo Rousseau torna a condividere le prospettive di riforma politica che ispirarono le polemiche illuministe. Il problema del “contratto sociale” è quello di trovare una forma di associazione per la quale ognuno, protetto dalla forza comune di tutti, resti padrone di sé e libero. Fine del contratto o patto sociale è dunque anzitutto di garantire la libertà di ciascuno, che non sarà più la libertà naturale dello stato di natura, perduta con questo, ma la libertà che nasce dal contratto, alla cui formazione concorrono tutti i contraenti decidendo di sottomettersi alla volontà generale. Alle relazioni individuali si sostituisce la relazione dei cittadini con la legge, espressione della volontà generale, alla quale tutti si sottomettono. Clausola centrale del contratto è “l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti alla comunità”; nasce così il corpo politico in cui i cittadini sono parti integranti del tutto e in cui tutti e ciascuno detengono la sovranità. Si esclude in questa prospettiva la figura di un cittadino o corpo separato rivestito della sovranità attraverso la rinuncia dei singoli ai propri diritti: tale rinuncia è impossibile; il corpo politico costituisce un tutto, un corpo morale e collettivo composto di tutti i membri, che trae dall’atto della propria volontà il suo io comune. Lo stato è quindi una persona morale, un ente collettivo che non s’identifica né con una persona, né con la somma aritmetica della volontà di tutti, ma con la volontà generale che come tale è sempre retta e ha per suo fine l’utilità pubblica. Le leggi sono espressione della volontà generale, per cui tutti s’impegnano alle medesime condizioni e godono dei medesimi diritti. Così la volontà generale “ristabilisce nel diritto l’eguaglianza naturale tra gli uomini” e garantisce la libertà di ciascuno, libertà legata alla ragione e alle leggi. Rispetto alla libertà naturale, propria dei primi uomini “stupidi e limitati”, s’instaura una libertà propria di esseri dotati di ragione, capaci di moralità. Si tratta della libertà civile, limitata solo dalla volontà generale in cui ciascuno s’identifica. Dalla concezione dello stato come “ente collettivo”, io comune, che si esprime nella volontà generale e che non ammette defezioni o negazioni (ove libertà coincide con obbedienza) sono derivate interpretazioni assolutistiche di Rousseau, mentre dall’accento posto sul carattere inalienabile della sovranità esercitata dal popolo intero prendono le mosse le interpretazioni democratiche. Rousseau fu anche cultore di musica, manifestando attitudini sia come teorico, sia come compositore. Fu anche autore teatrale; scrisse alcune commedie, cimentandosi inoltre nella tragedia. [133431] François-Marie Arouet detto Voltaire fu uno dei maggiori scrittori e filosofi del Settecento europeo. Nato a Parigi nel 1694 da famiglia borghese (morì nella stessa città nel 1778), ricevette un’eccellente educazione umanistica al collegio Louis-le-Grand tenuto dai gesuiti. Precocissimo autore di versi leggeri e arguti, accolto presto per le sue doti di spirito in circoli eleganti e libertini, il successo (1718) della tragedia Oedipe gli aprì l’accesso all’alta società. Attivissimo, col senso sicuro del proprio utile particolare, Voltaire s’inserì in una forma di vita brillante e insieme favorevole alla sua attività letteraria. Ma al principio del 1727, per un contrasto con il cavaliere de Rohan, Voltaire venne rinchiuso alla Bastiglia ingiustamente. L’amara delusione procuratagli dagli amici aristocratici spronò il suo orgoglio di borghese. Messo in libertà dopo alcune settimane, ma costretto a lasciare la Francia, si recò in Inghilterra, dove rimase circa tre anni ottenendo larghi riconoscimenti. Ma, soprattutto, il soggiorno inglese determinò la sua carriera di filosofo e di polemista. In Inghilterra, infatti, Voltaire conobbe una società assai meno raffinata di quella francese, ma più moderna, più progredita e libera; venne a contatto con una realtà politica, sociale, civile e culturale che contrastava totalmente con quella francese. Le Lettres sur les Anglais (o Lettres philosophiques), entrate in circolazione in Francia nel 1734, sono l’espressione più matura del primo periodo della sua attività di scrittore. Dietro il simulato scopo di un’informazione sulle cose d’Inghilterra, le Lettres – la prima bomba, fu detto, lanciata contro l’ancien régime – erano un violento attacco alle istituzioni politiche, sociali e religiose della Francia assolutista e feudale. Il successo fu enorme: mai un libro allargò come le Lettres l’orizzonte intellettuale di una nazione. Altrettanto grande, naturalmente, lo scandalo: l’opera venne condannata dal Parlamento di Parigi; Voltaire fuggì in Lorena e, quando un mese dopo gli fu permesso di ritornare in Francia, gli venne vietata la residenza a Parigi. Si stabilì allora al castello di Cirey (Champagne) presso M.me du Châtelet. Da questa donna, appassionata di problemi scientifici, Voltaire ricevette stimolo all’approfondimento delle matematiche e della fisica. Voltaire proseguì la sua attività di poeta e drammaturgo affascinato dal miraggio di emancipare la scena francese dall’imitazione spagnola e inglese per ricondurla alla severa nobiltà dei Greci e di Racine. Nel 1738 era d’altronde già in avanzato stato di composizione il suo capolavoro, Le siècle de Louis XIV. Nel 1744, con la nomina a ministro degli Esteri del marchese d’Argenson, suo vecchio compagno di collegio, migliorò la posizione di Voltaire nell’ambiente della corte francese, fino ad allora a lui piuttosto ostile: nel 1745 M.me de Pompadour gli ottenne un diploma di storiografo di Francia con la carica di gentiluomo di camera del re; nel 1746 fu ricevuto all’Accademia; nel 1747 si trasferì con M.me du Châtelet a Lunéville. Dopo la morte di costei, teneramente rimpianta, nel 1749, Voltaire si trasferì a Berlino presso Federico II che professava per lui incondizionata ammirazione. A Berlino, nel 1751, uscì Le siècle de Louis XIV. Verso la fine del 1752 per gelosie e pettegolezzi avvenne la rottura tra il re e il filosofo. Voltaire tornò in Francia, ma non gli fu permesso di stabilirsi a Parigi. È questo il periodo in cui Voltaire, dopo gli inviti di d’Alembert e Diderot, collaborò con l’Encyclopédie con circa 40 voci letterarie e filosofiche, alcune delle quali di un certo interesse per l’estetica e la storia del gusto. La sua collaborazione fu di breve durata. Iniziata nel 1754, terminò quattro anni dopo, in seguito allo scandalo suscitato dalla pubblicazione, nel vol. VII del Dictionnaire raisonné, della voce Genève di d’Alembert, ispirata dallo stesso Voltaire: con la sua sottile critica dell’intolleranza, la voce accentuava le polemiche, soprattutto con i calvinisti, fino a costituire una delle maggiori cause della crisi dell’Encyclopédie. Di questi anni è la stesura dell’Histoire universelle, che ebbe poi il titolo di Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756). Nel 1755 si stabilì in Svizzera dove visse dieci anni, costituendovi un centro intellettuale, cui convenivano scrittori, artisti, dame d’ogni parte d’Europa. Era ormai ricco abbastanza da poter vivere da gran signore, famoso in tutta Europa, corteggiato dai sovrani e dall’alta nobiltà. La sua parola aveva un effetto irresistibile: il suo intervento nei processi Calas, La Barre, Sirven, Lally ne fece dei casi clamorosi e portò persino alla revisione d’ingiuste sentenze. In questi anni in cui il moto filosofico rivoluzionario si faceva più impetuoso, Voltaire, impareggiabile e inesauribile pubblicista, instaurò in Europa la sovranità tutta nuova dell’opinione pubblica. Portentosa è la fecondità di Voltaire in questi ultimi ventitré anni della sua esistenza. Con un numero quasi incredibile di scritti di ogni genere (e con innumerevoli lettere) riuscì a tenere desta su di sé l’attenzione di tutta l’Europa colta, impegnandosi in una polemica contro la superstizione, il fanatismo, il privilegio, il passato sempre più violenta ed esplicita, ricca di brio, d’invenzione, di eloquenza seria e di grazia leggera. Di questo periodo è il Dictionnaire philosophique (1764), il suo testamento filosofico, dove in sentenze lapidarie prende forma definitiva la sua battaglia di mezzo secolo contro l’intolleranza, il miracolo, l’autorità, la falsificazione delle leggende e delle tradizioni. Nel marzo 1778 Parigi accolse trionfalmente il filosofo venuto ad assistere alla rappresentazione dell’ultima sua tragedia, Irène; affaticato da queste emozioni Voltaire morì poco dopo, a Parigi, il 30 maggio. Nel 1791, con solenne cerimonia, le sue ceneri furono deposte nel Panthéon. Sotto il riguardo strettamente scientifico l’ambito nel quale Voltaire lasciò l’opera di valore più duraturo fu quello storiografico con Le siècle de Louis XIV comparso nel 1751. Composto con amore di compiutezza d’informazione esemplare, esso inaugurava un nuovo genere di storiografia: è la prima opera storica moderna che rompe la tradizione annalistica, ordinando gli eventi secondo la loro interna connessione e illustrando la vita complessiva di uno stato in tutti i suoi aspetti. Voltaire introduceva nella storiografia un concetto nuovo, quello di civiltà, che gli consentiva di discernere, ordinare e interpretare quello che nei suoi predecessori ed emuli contemporanei era rimasto materiale disparato. L’altra grande opera storiografica di Voltaire, l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756), concepita in opposizione al Discours di Bossuet, è il primo tentativo in senso laico e critico di una “storia dello spirito umano” che ordini secondo poche grandi linee la storia universale. Con l’Essai tramontava la statica visione della storia universale incentrata sulle vicende prima del popolo ebraico, poi del mondo cristiano, alla cui recente formazione Voltaire contrapponeva la veneranda antichità della Cina, dell’Egitto, dell’India. Ormai l’orizzonte dell’interesse storico veniva esteso a ogni manifestazione umana. Altre opere storiche di Voltaire sono: Histoire de Charles XII (1731), Les Annales de l’Empire (1753), Histoire de l’Empire de Russie sous Pierre-le-Grand (1759-63), Précis du siècle de Louis XV (1769). [13351] Per età dell’assolutismo si indica il periodo di storia europea continentale compreso tra il 1660 e il 1789. Questo periodo può essere letto come distinto in due fasi. Una prima fase (1660-1748) che ha come misura di giudizio la Francia e come prototipo Luigi XIV. Una seconda fase (1748-89) detta più precisamente “età dell’assolutismo illuminato”, rappresentata dall’Austria di Maria Teresa e Giuseppe II e dalla Prussia di Federico II. Il carattere essenziale dell’assolutismo è dato dal rafforzamento del potere statale, dal punto di vista anzitutto militare e finanziario; nasce quindi lo stato burocratico e accentratore, i cui organi dipendono direttamente dal re, sovrapponendosi o facendo scomparire i precedenti organi di origine feudale (parlamenti, assemblee di “stati”), che un tempo limitavano il potere regio; la vecchia aristocrazia feudale si trasforma in semplice nobiltà di casta, priva di forza politica propria, si formano eserciti nazionali a tipo moderno e con uniformità di ordinamento. Questa tendenza accentratrice si nota anche sul piano religioso, dove il potere sovrano dello stato sottomette a sé le chiese nazionali (soprattutto in Francia, la chiesa gallicana). In questa linea giurisdizionalistica s’inserì con particolare vigore la politica ecclesiastica attuata da Giuseppe II negli stati asburgici. Nel campo economico, è caratteristico il progressivo aumento della ricchezza mobiliare in confronto alla immobiliare e l’influenza del fattore finanziario (banche, ecc.) nella vita politica; nel campo sociale, il consolidarsi e l’affermarsi della borghesia, che, particolarmente in Francia, si sviluppa in alleanza con la monarchia e perviene rapidamente, permeando dei propri ideali anche frazioni dell’aristocrazia, a un’egemonia culturale tale da trasformare l’assolutismo in “assolutismo illuminato”, dando così vita all’“età delle riforme”. Guidato dall’irradiamento cosmopolitico dell’illuminismo franco-inglese, il riformismo e dispotismo illuminato seguì orientamenti differenziati nei vari paesi europei. Le riforme trovarono terreno propizio laddove sussisteva un tessuto socioeconomico sviluppato, come nella Toscana leopoldina e nella Lombardia dei Verri e di Beccaria; conservarono carattere autoritario ed ebbero scarsa presa sulle strutture civili nell’Impero austriaco sotto Maria Teresa e Giuseppe II, nella Russia di Caterina II e nella Prussia di Federico II. In questi paesi le idee illuministiche non divennero patrimonio di vaste élites sociali e si limitarono volta a volta a suggerire la riforma dei codici penali, la laicizzazione dello stato, la razionalizzazione della vita economica, l’ammodernamento dei sistemi educativi. Nel regno di Napoli la persistente tradizione giurisdizionalista giannoniana favorì la fioritura autonoma di un complesso moto intellettuale, di cui furono protagonisti Galiani, Genovesi, Pagano, Filangieri, che recepirono e rielaborarono originalmente negli studi storici, giuridici, economici, le proposte emerse dal gran dialogo europeo, promuovendo e sopravanzando insieme le riforme civili, rese discontinue e incerte dall’irresoluta azione della monarchia e dall’organica arretratezza del regno. [133511] Figlio di Federico Guglielmo I e di Sofia Dorotea di Hannover, Federico II il Grande re di Prussia (Berlino 1712 - Castello di Sans-Souci 1786) fu educato, secondo precise disposizioni del padre, con la massima severità: accanto allo studio accurato della più recente storia europea e dell’economia politica, i più duri esercizi militari. Ma Federico, che manifestava in contrasto con le preferenze paterne un vivo interesse per le lettere e per la filosofia, seppe formarsi una cultura letteraria, grazie anche alla complicità del precettore, il calvinista francese Duhan de Jandun. L’insofferenza per la rozzezza e il formalismo militaresco dell’ambiente prussiano maturò, nel 1730, la decisione di Federico di fuggire dal regno. Ma il tentativo fallì e fu occasione di ogni sorta di efferatezza da parte del padre che aveva temuto un complotto contro la sua persona: Federico fu sottoposto a un processo davanti a un consiglio di guerra e rinchiuso nella fortezza di Küstrin. Quivi, uscito di prigione piegato alla volontà paterna, funse da uditore della Camera dei demani, acquistando una diretta esperienza dei problemi amministrativi del regno, che finirono per interessarlo profondamente. Sposatosi nel 1733 con la principessa Elisabetta Cristina di Brunswick-Lüneburg-Bevern, da cui non ebbe eredi, e ritiratosi nel castello di Rheinsberg, ebbe nuovamente l’occasione di dedicarsi allo studio delle lettere, circondandosi di letterati e di pensatori, fautori delle nuove idee illuministiche. Ivi redasse anche le Considérations sur l’état présent du corps politique de l’Europe e L’Antimachiavel, dimostrando la sua spregiudicata conoscenza di problemi di cultura e di politica. Succeduto al padre il 31 maggio 1740, alla morte dell’imperatore Carlo VI seppe trar profitto dalla difficile posizione in cui era ridotta l’Austria in seguito alla contrastata successione di Maria Teresa per muoverle guerra con l’intento di entrare in possesso della Slesia. Dimostrandosi geniale condottiero, occupò Breslavia il 3 gennaio 1741 e conseguita la vittoria di Mollwitz (10 aprile), ottenne da Maria Teresa, stretta dai nemici da ogni parte, con la convenzione di Klein-Schnellendorf (9 ottobre) la Bassa Slesia. Ripresa quindi la guerra, con il trattato di Breslavia (11 giugno 1742) ottenne anche l’Alta Slesia e la contea di Glatz. La morte di Carlo VII di Baviera e le mai sopite speranze di Maria Teresa di ricuperare la provincia perduta, spinsero Federico nel 1745 a una nuova guerra contro l’Austria. Le vittorie prussiane di Hohenfriedberg, di Soor e di Hesselsdorf furono il preludio alla pace di Dresda del 25 dicembre: Maria Teresa confermò a Federico il possesso della Slesia, mentre il re di Prussia riconobbe come imperatore il di lei marito, Francesco I. Intanto dava mano alla riorganizzazione dello stato secondo i criteri di un intelligente, positivo illuminismo e nello spirito del più rigido accentramento: costituì una forte e onesta magistratura per l’applicazione di un nuovo codice di procedura (1747) e di un codice civile (Corpus iuris fredericianum, 1745-51). Si interessò anche all’economia nazionale incoraggiando il commercio e l’industria (tessile principalmente), favorendo l’agricoltura con lavori di bonifica (la regione dell’Oder tra Swinemünde e Küstrin) e di colonizzazione. Ma l’alleanza fra Austria e Francia (trattato di Versailles, 1756), fino ad allora nemiche, convinse Federico, già alleato dal 16 gennaio dello stesso anno all’Inghilterra, a prevenire il concentrico attacco asburgico-borbonico, sostenuto anche dalla Russia. Ebbe così inizio la guerra dei Sette anni. Costretta nel 1756 alla capitolazione la Sassonia che aveva rifiutato di allearsi con la Prussia, Federico penetrò nella tarda primavera del 1757 in Boemia, giunse fino ad assediare Praga, ma la sconfitta, inflittagli dal Daun a Kolín il 18 giugno, lo obbligò a ritirarsi in Sassonia. Da lì, per impedire il congiungimento con gli Austriaci, si rivolse contro i Francesi battendoli il 5 novembre a Rossbach, quindi a marce forzate ritornò in Slesia, affrontò l’esercito austriaco due volte superiore e lo sconfisse a Leuthen (5 dicembre). Ma la guerra non era ancora al suo termine. Nel 1758 i Russi, dopo aver occupato Königsberg e la Prussia Orientale, stavano per unirsi agli Austriaci: con la vittoria di Zondorf (25 agosto), Federico impedì tale evento. Non così l’anno seguente. Battuto a Kunersdorf (12 agosto 1759), Federico ebbe l’esercito disfatto, disperò definitivamente della sua sorte, e solo l’indecisione e il disaccordo degli avversari lo salvarono dalla rovina. L’anno successivo Austriaci e Russi occuparono rispettivamente la Sassonia e il Brandeburgo, e per tre giorni la stessa Berlino. Malgrado la vittoria di Federico a Torgau (3 novembre 1760), la situazione restava quasi insostenibile, quando sopravvenne la morte della zarina Elisabetta e l’ascesa al trono di Pietro III, grande ammiratore di Federico, che abbandonò l’Austria stringendo poco dopo un patto di alleanza con la Prussia, con la quale firmò la pace nel maggio 1762. Il 21 luglio 1762 Federico batté ancora una volta gli Austriaci a Burkersdorf e meno di un anno dopo, il 15 gennaio 1763, anche Maria Teresa si rassegnò a porre termine al conflitto con la pace di Hubertsburg. Federico era salvo, la Slesia era rimasta alla Prussia. In questo lungo periodo di guerra, Federico rivelò in pieno le sue qualità di organizzatore e di condottiero, per le quali occupa un posto preminente nella storia dell’arte militare. A capo di uno stato di soli due milioni e mezzo di abitanti e senza unità territoriale, Federico seppe creare un esercito ben addestrato, fatto di milizie di leva obbligate al servizio, ma rafforzate col mercenariato. Alleggerì le ordinanze della cavalleria, aumentò la proporzione dei cannoni leggeri dell’artiglieria, curò la manovrabilità della fanteria, sì da poter formare la linea di battaglia in qualunque direzione. Federico riprese dal magistero del Montecuccoli il principio della “battaglia di ala”, cioè dell’azione frontale, ma pronta a farsi avvolgente, contro un’ala avversaria, derivandone la tattica dell’ordine obliquo. Praticò in strategia l’offensiva anche quando la guerra ebbe scopi politici difensivi, paralizzando così le mosse del nemico; e per aumentare il raggio d’azione della sua manovra strategica nel campo dei servizi logistici, ridusse i magazzini fissi a soli depositi di farina, incaricati di rifornire i forni di campagna mobili. Nella seconda campagna della guerra dei Sette anni (dal 1757 in poi) si delineò perfetta l’attuazione della manovra per linee interne, che doveva costituire il suo capolavoro, frutto dei numerosi accorgimenti logistici, organici e tattici. Dalla guerra dei Sette anni Federico era uscito con il paese prostrato. Con nuova genialità seppe promuovere l’opera di ricostruzione; favorì l’agricoltura e l’industria, riprese la colonizzazione e la bonifica delle regioni depresse. Non trascurò tuttavia di salvaguardare il prestigio e la posizione di rilievo che aveva procurato in Germania e in Europa al suo regno a prezzo dei sacrifici sopportati durante la guerra dei Sette anni. Estese ancora il suo dominio alla Prussia occidentale in virtù della prima spartizione della Polonia (1772), e sui principati di Ansbach e di Bayreuth in seguito alla guerra di successione di Baviera (pace di Teschen, 1779). Sospettoso dell’Austria, promosse nel 1785 una lega dei principi tedeschi (Fürstenbund) per costituire un contrappeso alla politica di Giuseppe II nell’Impero. Né fu solo uomo politico e grande condottiero di eserciti, ma anche generoso sebbene incostante protettore di artisti, filosofi, letterati. Ammiratore di Voltaire, intrecciò con lui una fitta corrispondenza, e lo volle con sé a Berlino nel triennio 1750-53: dopo questo soggiorno, tuttavia, i loro rapporti si guastarono. Cultore della musica, fu valente flautista e anche compositore. Abbellì Berlino e Potsdam di chiese, palazzi, castelli e altri edifici. Fu raccoglitore assiduo di opere d’arte prevalentemente francesi e rispondenti al gusto del lieto e del piacevole, che poi confluirono nel Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino. [133521] Caterina II la Grande imperatrice di Russia, nacque a Stettino nel 1729 e morì a Carskoe Selo nel 1796. Salì al trono il 20 giugno 1762. Rivelò la sua educazione illuministica in un dispotismo paternalistico, largo di interventi e di iniziative in tutti i campi, a cominciare dalla speciale istruzione (nakaz) con cui proponeva alla commissione convocata nel 1767 il progetto di un nuovo codice ispirato a Montesquieu e a Beccaria. Soffocata la grande rivolta del cosacco E. Pugacëv (1774-75), Caterina s’interessò ai problemi dell’istruzione, restaurò le finanze e riformò il governo locale con l’istituzione dei governatori, mentre al centro attuava il principio del potere ministeriale unitario. Il che significava anche un irrigidimento e un ritorno a posizioni più autocratiche e reazionarie, com’è testimoniato dalla questione dei servi della gleba che, nonostante i lunghi lavori preliminari di riforma, di fatto aumentarono di numero: e dal 1783 fu persino proibito ai contadini di passare da un proprietario all’altro. Irrigidimento che era destinato a inasprirsi dopo gli avvenimenti francesi del 1789. In politica estera, nel proseguire la politica di Pietro il Grande, Caterina si propose di risolvere durevolmente il problema turco e quello polacco. Dalla Turchia, dopo la guerra del 1768-1774, ottenne, nella pace di Küciük-Qainarge (1774), il confine al fiume Bug, il diritto di protezione sui cristiani ortodossi dei Balcani, l’indipendenza della Crimea (che nel 1783 insieme al Kuban’ era annessa alla Russia). Quanto al problema polacco, attraverso interventi negli affari interni di quel paese e il collegamento con la Prussia e con l’Austria, Caterina poté giungere alle successive spartizioni del 1772, del 1793 e del 1795, ottenendo tutte le regioni orientali della Polonia. Di spirito vivace e aperto, Caterina svolse una certa attività letteraria: opere drammatiche, articoli, schizzi satirici, drammi e ricerche storiche, trattati polemici e memorie, tutti singolarmente rappresentativi della società russa ed europea del tempo. Fu piuttosto dissoluta la sua vita privata, nella quale ebbero parte vari famosi favoriti. [133531] Figlia dell’imperatore Carlo VI e della principessa Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, secondogenita e prima delle figlie femmine, Maria Teresa d’Asburgo (Vienna 1717 - ivi 1780) divenne erede al trono imperiale in virtù della Prammatica Sanzione del 1713. Il 12 febbraio 1736 sposò (dando inizio alla dinastia degli Asburgo-Lorena) il duca Francesco Stefano di Lorena insieme al quale si stabilì (gennaio 1739) a Firenze, dove rimase solo pochi mesi, fino alla morte del padre avvenuta inaspettatamente nel 1740. A poco più di un mese dalla sua ascesa sul trono, Federico II di Prussia invase improvvisamente la Slesia con l’evidente intento di annettere quel ducato al dominio degli Hohenzollern. Maria Teresa, impreparata all’aggressione, non poté opporre efficace resistenza, e di tale circostanza credettero di poter approfittare soprattutto la Francia e la Spagna, desiderose d’ingrandirsi sul Reno e in Italia, e la Baviera, che aspirava a estendere la sua sovranità sui possedimenti asburgici dell’Austria, dei quali l’elettore Carlo Alberto riteneva essere il legittimo erede per avere egli sposato Maria Amalia, figlia dell’imperatore Giuseppe I. Ebbe così inizio la cosiddetta guerra di successione austriaca. Di fronte alla minaccia dei Franco-Bavaresi, che avevano invaso la Bassa Austria e occupato Praga, l’imperatrice concluse un armistizio con Federico (9 ottobre 1741), e, dopo aver fatto appello alla fedeltà dei magnati ungheresi, si rivolse contro gli invasori, che furono contrattaccati e contenuti. La pace di Breslavia (1741) le costò la cessione della Slesia a Federico, ma in compenso essa poté riconquistare le terre occupate dai Franco-Bavaresi, penetrare nella Germania meridionale e minacciare la stessa sovranità della Francia sull’Alsazia. I successi di Maria Teresa provocarono un altro intervento di Federico, che temeva di dover nuovamente rinunciare alla Slesia, il cui possesso gli fu riconfermato con la pace di Dresda (Natale 1745). Nel frattempo l’elettore Carlo Alberto era morto, e il suo successore, Massimiliano III Giuseppe, con la pace di Füssen aveva rinunciato a ogni diritto di successione in Austria, e Francesco Stefano di Lorena era stato eletto e incoronato imperatore (ottobre 1745). Della grande coalizione del 1741 le rimasero di fronte solo la Francia e la Spagna: la guerra si protrasse fino al 1748, quando con la pace di Aquisgrana l’imperatrice, pur costretta a nuove rinunce territoriali (Parma, Piacenza e Guastalla furono cedute a don Filippo, figlio di Filippo V di Spagna), ebbe finalmente riconosciuti i suoi diritti ereditari da tutti gli antagonisti. La coscienza di dover procedere a una profonda modifica della struttura esistente nei suoi stati per rafforzarli politicamente, onde poter tendere, con prospettive di successo, nel prossimo futuro alla riconquista della Slesia, convinse Maria Teresa all’attuazione di una serie di riforme. L’amministrazione interna, mediante la fusione delle cancellerie di corte boema e austriaca, fu centralizzata; della condotta degli affari esteri fu incaricata la cancelleria di stato; fu iniziato un programma di risanamento finanziario; fu costituito un esercito permanente. Al ricupero della Slesia e alla riaffermazione del predominio asburgico in Germania fu subordinata egualmente la condotta della politica estera. La tradizionale alleanza con l’Inghilterra e con le potenze marittime fu abbandonata con il noto “rovesciamento delle alleanze” del 1756, che pose termine al secolare contrasto tra i Borboni e gli Asburgo. La guerra settennale che ne seguì, alla quale partecipò, a fianco di Maria Teresa, anche la zarina Elisabetta, non portò al risultato sperato: la Slesia rimase a Federico II (pace di Hubertusburg, 15 febbraio 1763), e il dualismo tedesco non fu eliminato, ma stabilizzato per essere risolto cento anni dopo a vantaggio della Prussia. La delusione subita non infranse lo spirito d’iniziativa dell’imperatrice: essa promosse nuove riforme d’accordo con il figlio Giuseppe II, eletto nel 1764 re romano-germanico, e divenuto imperatore dopo la morte del marito di Maria Teresa (1765). La politica estera di Giuseppe II non sempre incontrò la sua approvazione: l’imperatrice fu contraria alla prima spartizione della Polonia (1772), all’intesa con la Russia del 1775 ai danni della Turchia, per mezzo della quale l’Austria ottenne la Bucovina, e infine al tentativo di annessione della Baviera, che nel 1778 provocò un nuovo conflitto con la Prussia. Assai fortunata fu nella sua politica dinastica: con i legami matrimoniali contratti dai suoi numerosi (16) figli seppe estendere l’influenza austriaca in Italia (Maria Amalia divenne duchessa di Parma sposando Ferdinando, figlio di don Filippo; Maria Carolina fu regina di Napoli in seguito alle sue nozze con Ferdinando IV; Ferdinando sposò Maria Beatrice Vittoria d’Este, erede del ducato di Modena) e cercò di garantire amichevoli relazioni con la Francia e la Spagna (Maria Antonietta sposò il delfino, poi Luigi XVI; Leopoldo, prima granduca e poi imperatore, Maria Luisa, figlia di Carlo III re di Spagna). Maria Teresa, specie negli ultimi anni, si dedicò all’attuazione di quello “stato di benessere” che era uno degli ideali dell’epoca. Fra le iniziative da lei patrocinate sono gli studi per una nuova legislazione (Codex Theresianus; Constitutio criminalis Theresiana) e l’istituzione di scuole popolari. [14111] Negli anni della Restaurazione, tre grandi questioni si erano poste nella vita europea: la questione della libertà, la questione nazionale e la questione sociale. I sussulti insurrezionali che fra il 1815 e il 1848 agitarono la Penisola Iberica, l’Italia, la Francia, i Paesi Bassi, la Germania, la stessa Gran Bretagna, i paesi austriaci, mostrarono quanto fragile fosse l’edificio costruito al Congresso di Vienna. Ma fu il 1848 a segnare un punto di svolta decisivo nel processo di trasformazione politica e sociale che in forma latente o esplicita agitava l’Europa. La crisi economica che attraversò il continente tra il 1846 e il 1847 costituì la premessa immediata dell’esplosione di moti rivoluzionari in tutte le principali capitali europee. Moti che assunsero caratteristiche diverse nei vari paesi. Dopo alcune agitazioni esplose in alcuni stati italiani nel 1847, il 12 gennaio 1848 la rivoluzione scoppiò a Palermo. Guidati da R. Pilo e G. La Masa, gli insorti costrinsero le forze borboniche a lasciare la città. Quindi si formò un governo provvisorio siciliano mentre l’ondata rivoluzionaria si estendeva in altre città del Meridione (il 15 maggio 1849, gli insorti palermitani sarebbero stati gli ultimi a cedere dinanzi alle truppe borboniche del generale C. Filangieri, solo dopo il fallimento della prima guerra d’indipendenza). Se a Palermo l’insurrezione aveva assunto un carattere rivoluzionario e separatistico, a Napoli si sviluppò in senso riformistico-costituzionale. Ferdinando II si appellò inutilmente all’esercito austriaco per reprimere i moti, prima di vedersi costretto a cedere sotto la pressione popolare. Il 29 gennaio venne annunciata la concessione della Costituzione, che fu promulgata l’11 febbraio e giurata dal re il 24 dello stesso mese; le elezioni si svolsero in aprile. Il moto sarebbe stato poi represso in modo improvviso e cruento il 15 maggio (solo un anno dopo fu però possibile sottomettere nuovamente la Sicilia). La scintilla accesa nell’Italia meridionale contagiò gli altri stati della penisola. Il 17 febbraio in Toscana, il 4 marzo nel Regno di Sardegna e il 14 marzo nello Stato della Chiesa vennero pubblicate costituzioni. Il 22 febbraio 1848 Parigi, già insorta nell’aprile 1834 e nel marzo 1839, era nuovamente in rivolta e abbatteva il regno di Luigi Filippo. Nasceva la Seconda Repubblica, che però non riuscì a trovare un consenso nelle campagne (nel giugno 1848 una nuova insurrezione operaia fu repressa nel sangue e si aprì la strada per l’ascesa al potere di Luigi Napoleone). Contemporaneamente, tra marzo e giugno 1848, i moti esplosero anche a Vienna (13 marzo) e Berlino (15-16 giugno), mentre Budapest diveniva la capitale di un governo rivoluzionario (sino all’occupazione austriaca, temporanea il 5 gennaio 1849, definitiva l’11 luglio). Il 17 e il 18 marzo fu la volta di Milano e Venezia: un evento a cui fece seguito lo scoppio della prima guerra d’indipendenza. L’estensione e l’intensità dei processi rivoluzionari avrebbero fatto parlare di “primavera dei popoli”. Fu un’ondata al cui interno si sovrapposero e si intrecciarono aspirazioni politiche e tensioni sociali diverse; nelle città tedesche, italiane, austroungariche e polacche i moti assunsero caratteri prevalentemente liberali e nazionali, mentre a Parigi fu più evidente il carattere direttamente politico e sociale dell’insurrezione. La “primavera dei popoli” lasciò un segno anche nel panorama della geopolitica europea. Infatti, dopo il 1848 il problema nazionale assunse, nonostante tutto, un peso ancora maggiore che nel periodo precedente, mentre i contrasti di potenza indebolivano la capacità di reazione dei paesi più conservatori. Dopo il 1848. – Una manifestazione di questi contrasti fu la guerra russo-turca del 1853, in cui Francia e Gran Bretagna intervennero a favore di Costantinopoli, bloccando le mire espansionistiche, appoggiate ad un’equivoca slavofilia, dello zar. Fu la radice dell’isolamento dell’Austria. Essa si trovò perciò in difficile posizione contro l’alleanza franco-piemontese, che nel 1859 le strappò la Lombardia e portò alla rapida annessione delle regioni dell’Italia centrale al regno sabaudo: capolavoro di Cavour, alla guida del governo di Torino dal 1852, che attrasse nell’orbita liberale i moderati preoccupati delle spinte democratiche prevalenti nel movimento nazionale promosso ed egemonizzato da Mazzini, ma raccolse da quest’ultimo l’istanza unitaria e, a seguito dell’impresa dei Mille guidata da Garibaldi nel 1860, poté nel 1861 inglobare anche il Mezzogiorno nel nuovo Regno d’Italia, pur se ne restavano ancora fuori Roma e Venezia. Isolata l’Austria rimase, inoltre, in Germania, dove la Prussia, sotto il governo di Bismarck, prima la coinvolse in una guerra contro la Danimarca per il recupero dello Schleswig e dell’Holstein (1864) e poi, in alleanza con l’Italia, le mosse guerra, la batté, la costrinse a cedere Venezia e il Veneto all’Italia, la espulse dalla Confederazione germanica e articolò questa in due sole unità federali, del Nord e del Sud (1866). In Austria si dovette allora mutare la forma dello stato procedendo a una sorta di federazione con l’Ungheria, che acquistò grande peso nella politica di Vienna. Napoleone III, rimasto inattivo in quest’ultima occasione, sentì allora il pericolo di un’egemonia germanica. Egli aveva guadagnato alla Francia nel 1859 Nizza e Savoia, ma si era poi alienato le simpatie degli Italiani, mantenendo un suo protettorato sulla sovranità pontificia in Roma, a cui lo spingeva anche la permanente necessità dell’appoggio dei cattolici al suo regime. Bismarck sfruttò la situazione e nel 1870 lo fece cadere nella provocazione di una guerra disastrosa, per cui dovette lasciare la Francia. Qui fu ora proclamata la repubblica e, mentre insorgeva una nuova e più grave rivolta sociale con la Comune di Parigi, fu proseguita la resistenza al vincitore, fino alla conclusione nel 1871 della pace, che costò la perdita dell’Alsazia e della Lorena e il pagamento di un’ingente indennità di guerra. A Versailles, dove fu firmata la pace, gli stati tedeschi restaurarono l’impero sotto la sovranità del re di Prussia e con un regime blandamente costituzionale. Il Regno d’Italia approfittò delle circostanze per insediarsi già nel 1870 a Roma, ponendo fine così al potere temporale dei papi. [141111] Nel 1848 Parigi, Vienna e Berlino, capitali storiche e prestigiose dell’Europa moderna, furono anche capitali della “primavera dei popoli”. In Francia, dopo la rivoluzione del luglio 1830, la nuova monarchia di Luigi Filippo d’Orléans (1830-48) aveva un carattere censitario, sebbene fosse assai più rispettosa della legalità costituzionale rispetto a quella che l’aveva preceduta. La monarchia orleanista fu il trionfo della borghesia finanziaria e commerciale, che la Restaurazione aveva sacrificato per favorire soprattutto i grandi proprietari terrieri. Pur consolidando la conquista dell’Algeria e pur intervenendo ad Ancona nel 1832 per motivi di equilibrio internazionale, la monarchia di luglio fu essenzialmente pacifica (condivise con l’Austria del Metternich la preoccupazione del mantenimento dello statu quo). Senonché la ristretta base censitaria del suo regime politico creò una pericolosa scissione tra paese legale e paese reale, mentre lo sviluppo industriale della Francia favoriva il sorgere di un forte proletariato e il diffondersi di dottrine democratiche e socialiste. Il divieto del governo di tenere, il 21 febbraio 1848, il grande banchetto che l’opposizione costituzionale aveva progettato per premere in favore di una riforma elettorale, fu la scintilla per lo scoppio rivoluzionario: il 24 febbraio era proclamata la repubblica e costituito un governo provvisorio. La Seconda Repubblica, opera del partito repubblicano e degli operai di Parigi, nacque con un volto decisamente democratico-socialista (“diritto al lavoro” di L. Blanc, Commissione del lavoro del Lussemburgo, suffragio universale maschile); ma il popolo delle campagne rimase estraneo alla Repubblica e l’Assemblea costituente risultò composta in prevalenza da moderati e democratici: l’insurrezione operaia del giugno 1848 fu repressa nel sangue dal generale L.-E. Cavaignac e la Seconda Repubblica iniziò rapidamente quel processo di distacco dalla democrazia che l’avrebbe portata dalla presidenza del principe Luigi Napoleone (10 dicembre 1848), allo stretto connubio di questo coi cattolici a spese della Repubblica Romana del 1849, al colpo di stato del 2 dicembre 1851, e infine alla proclamazione del Secondo Impero (1852). A differenza di quelli di Parigi, i moti esplosi a Vienna e Berlino si intrecciarono profondamente con i problemi nazionali, con quella “primavera delle nazioni” che caratterizzò in modo decisivo il 1848 europeo. La crisi rivoluzionaria scoppiata in febbraio a Parigi, si ripercosse rapidamente anche in Austria. La convocazione degli Stati Generali dell’Austria Inferiore, il 13 marzo, diede luogo a una manifestazione popolare che prese ben presto l’aspetto di un’insurrezione. La sera stessa Metternich (il grande protagonista del Congresso di Vienna) abbandonò il potere. Il 14 marzo venne nominato capo del potere civile e militare di Vienna il principe Alfred di Windisch-Graetz, il più risoluto campione della resistenza, ma nello stesso tempo fu concessa l’istituzione della guardia nazionale e la libertà di stampa. Il 15 marzo l’imperatore, esonerato Windisch-Graetz, costituì un gabinetto di tendenze liberali; il 25 aprile venne proclamata la Costituzione, che richiedendo un certo censo per gli elettori deluse i democratici. Il 15 maggio il popolo scese in piazza costringendo il governo ad accogliere il programma democratico. Il 6 ottobre il popolo insorse, marciò sul ministero della Guerra, e fece giustizia sommaria del ministro della Guerra Latour. La corte fuggì a Olomouc e Vienna rimase in mano ai rivoluzionari. Ma seguì rapida la reazione. L’esercito al comando di Windisch-Graetz il 26 ottobre cominciò l’attacco alla città: il 31 ogni resistenza era vinta e Vienna sottomessa. Nella Prussia della Restaurazione le istanze di riforma del regime militare-burocratico espresse dalla società non furono recepite dalla monarchia: Federico Guglielmo III appoggiò la politica conservatrice di Metternich all’interno della Confederazione germanica e la Prussia fu l’unico dei grandi stati tedeschi a non adottare una costituzione a seguito dei moti europei del 1830; il suo successore, Federico Guglielmo IV, nel febbraio 1847 convocò una Dieta unita dai poteri molto limitati, quindi fu costretto dall’insurrezione di Berlino (marzo 1848) a convocare un’Assemblea nazionale. L’università berlinese, famosa nel secolo 19° per l’insegnamento di grandi maestri (Fichte, Hegel, Humboldt, Savigny, Schleiermacher, Mommsen, ecc.), fu attiva promotrice del movimento liberale di rinascita nazionale e all’avanguardia dei moti rivoluzionari che il 31 marzo alzarono le barricate contro le truppe governative. Appoggiato dagli Junker, timorosi di un’abolizione dei diritti feudali, Federico Guglielmo IV sciolse l’Assemblea nel dicembre 1848, ma acconsentì a giurare fedeltà alla Costituzione del 31 gennaio 1850 (rimasta in vigore sino al 1918), che manteneva il principio del diritto divino come fondamento della monarchia. Rifiutata la corona di imperatore tedesco offertagli dal Parlamento di Francoforte (1849), il re di Prussia, su consiglio di J. M. von Radowitz, puntò a creare una federazione dei principi tedeschi, il cui primo nucleo fu la Lega dei tre re, costituita con i sovrani di Sassonia e Hannover (26 maggio 1849). A tale progetto si oppose l’Austria che, minacciando la guerra, obbligò la Prussia a firmare (29 novembre 1850) la convenzione di Olmütz. [141121] A Milano, dopo i tumulti del 20 aprile 1814, gli Austriaci del gen. F. H. Bellegarde riportarono il governo asburgico. Negli anni della Restaurazione, questo riuscì presto inviso ai Milanesi, per l’esoso fiscalismo, l’oppressione poliziesca, gli intralci della burocrazia; e ancora più dannoso risultò il protezionismo industriale esercitato a favore delle industrie boeme e morave che rischiava di portare alla decadenza economica di Milano e della Lombardia. Perciò i moti del 1821 trovarono la città preparata ad accogliere il fermento rivoluzionario. La reazione austriaca si abbatté spietatamente sui Milanesi che avevano diretto le congiure carbonare e dei federati: F. Confalonieri e G. Pallavicino finirono nelle carceri dello Spielberg. Nel 1848 alla notizia dei moti di Vienna la città insorse e, dopo cinque lunghe giornate di eroici combattimenti (18-22 marzo), si liberò da sola dalla dominazione austriaca. Nella città lombarda il maresciallo conte J. J. Radetzky disponeva in totale di circa 14.000 uomini e 40 cannoni, cui nel corso della lotta si aggiunsero altri 5000 uomini richiamati dalla Lombardia. Alla potente organizzazione militare austriaca i Milanesi non potevano contrapporre che poche centinaia di fucili e scarse munizioni. La scintilla della rivoluzione fu la notizia della sollevazione di Vienna del 13 marzo, che era stata ripercussione diretta degli avvenimenti parigini del febbraio 1848. Il 17 marzo il viceré arciduca Ranieri usciva da Milano per rifugiarsi in Verona, lasciando la città nelle mani del vicegovernatore M. O’Donnel. Questi il mattino di sabato 18 pubblicava un manifesto imperiale annunciante l’abolizione della censura e la convocazione, per il luglio, dei rappresentanti lombardo-veneti; ma i Milanesi lacerarono il manifesto e si recarono tumultuando al palazzo municipale. Il podestà G. Casati invitò alla calma, ma poi scese a capitanare la dimostrazione; la folla costrinse il governatore ad accettare la costituzione di una guardia civica; poi tentò invano di conquistare la sede comunale. Nella stessa giornata gli Austriaci s’impadronirono del municipio (Broletto), e mentre sorgevano le prime barricate, la città fu stretta d’assedio. Il giorno successivo (19) il popolo non solo resistette ovunque con valore, ma vinse gli Austriaci a Porta Nuova; nella notte Radetzky ordinò lo sgombero delle posizioni più centrali; il 20 caddero in mano ai Milanesi il centro cittadino, il palazzo di polizia, mentre la lotta veniva ora disciplinata da un consiglio di guerra (che, capeggiato con grande energia dal repubblicano federalista C. Cattaneo, negò due volte l’armistizio chiesto da Radetzky) e da comitati, collaboranti con la municipalità rivoluzionaria. Il 21, mentre la vittoria dei Milanesi si andava delineando (episodio culminante, l’espugnazione del palazzo del genio), il conte E. Martini portò in città da Torino l’approvazione di Carlo Alberto, cui rispose un appello dell’aristocrazia milanese, naturalmente orientata verso una soluzione monarchico-conservatrice del moto nazionale. Nella notte la municipalità si costituì in potere politico autonomo, nella forma di governo provvisorio. Infine la quinta giornata (mercoledì 22) vide la conquista di tutte le caserme e delle posizioni ancora tenute dagli Austriaci, fra cui quelle famose di Porta Tosa, e verso le 21 i cannoni del Castello proteggevano la ritirata di Radetzky e di tutte le sue truppe; cosicché all’alba del 23, Milano, ormai libera, accoglieva festante i primi volontari che giungevano da Genova e da Torino. Lo stesso giorno l’esitante Carlo Alberto, nell’impossibilità ormai di resistere alla pressione convergente dei democratici piemontesi e della nobiltà lombarda, sottoscrisse il proclama che segnò l’inizio della prima guerra d’Indipendenza contro l’Austria. Il 6 agosto, superando la resistenza opposta dall’esercito sardo alle porte della città, il maresciallo Radetzky entrò di nuovo in Milano. Ma ormai né la severità nel punire i moti del 6 febbraio 1853, né il benevolo governo dell’arciduca Massimiliano e le promesse di riforme, valsero a riconquistare la fiducia dei Milanesi. [141131] La notizia della rivoluzione di Vienna, giunta a Venezia la mattina del 16 marzo 1848, provocò forti agitazioni popolari, che il giorno seguente portarono alla liberazione di N. Tommaseo, D. Manin e altri detenuti politici. Nelle giornate successive le voci dell’insurrezione di Milano, diffusesi rapidamente in città, contribuirono allo scoppio di nuovi tumulti, in particolare nella zona dell’Arsenale. Cacciati gli Austriaci (22 marzo), e formato un governo provvisorio guidato da Manin, il 5 luglio fu deliberata la fusione di Venezia con il regno di Sardegna, impegnato nella prima guerra d’indipendenza. La sconfitta di Custoza (23-25 luglio) e soprattutto l’armistizio Salasco (9 agosto) provocarono nuovi fermenti nella popolazione, spingendo Manin a proclamare la repubblica e a organizzare, sotto la guida di G. Pepe, la difesa della città. Stretto un blocco intorno a Venezia, gli Austriaci intensificarono l’assedio dopo la disfatta piemontese a Novara (23 marzo 1849); colpita anche da epidemie e dalla fame, la città resistette strenuamente fino al 23 agosto, quando fu costretta a capitolare. Manin fuggì in esilio in Francia, dove si prodigò per guadagnare simpatie alla causa italiana. [141141] Nello Stato Pontificio l’entusiasmo per l’elezione di Pio IX (1846), con tutti gli equivoci e le illusioni che vi erano legati, travolse la Roma papale. Nell’osanna al pontefice si confondevano insieme con le aspirazioni alla libertà e alla partecipazione statale anche le aspirazioni a un’esistenza meno miserabile. Ma il problema d’inserire i laici nel governo pontificio si rivelò estremamente arduo. Attirato dal mito neoguelfo, Pio IX si avviò sulla strada della riforma: sotto la spinta delle agitazioni popolari permise la costituzione di un ministero al quale, pur sotto la direzione nominale di un cardinale, parteciparono i laici; seguì l’istituzione di una Consulta di stato, nominata dalle amministrazioni provinciali; una modesta libertà di stampa e la guardia civica completarono le riforme romane, le quali suscitarono grandi fermenti nel popolo, non tanto per ciò che direttamente concedevano, quanto per ciò che lasciavano presagire. La concessione della Costituzione (marzo 1848) pose in piena luce le contraddizioni tra il principio teocratico e il regime costituzionale. L’allocuzione del 29 aprile 1848, in cui Pio IX, in riferimento all’Austria, affermò di non poter fare guerra a un popolo cristiano, rivelò l’insostenibilità di una Chiesa cattolica al rimorchio delle forze liberali. I ministri laici che si alternarono alla direzione del governo naufragarono fra gli scogli degli intrighi dei reazionari da una parte e l’opposizione sempre più violenta e incontenibile delle forze democratiche, desiderose ormai di concessioni sostanziali. La fuga del papa a Gaeta dopo l’assassinio di P. Rossi (novembre 1848), fu seguita a Roma da un periodo convulso e caotico, cui avrebbe posto termine soltanto la proclamazione, nel febbraio 1849, della Repubblica romana, che ebbe vita più effimera della prima repubblica del 1798-99. Rifugiatosi Pio IX a Gaeta (29 novembre 1848), la giunta provvisoria di governo convocò un’Assemblea costituente che, dichiarato decaduto il governo temporale, proclamò la repubblica (9 febbraio 1849). Nominato un comitato esecutivo, formato da C. Armellini, M. Montecchi e A. Saliceti, si dette avvio a una vasta opera di riforme: furono aboliti i tribunali eccezionali, quello del Sant’Offizio, la censura sulla stampa e la giurisdizione dei vescovi sulle scuole e sulle università, mentre con un decreto del 21 febbraio si stabilì che tutti i beni ecclesiastici divenissero proprietà nazionale. Giunte le notizie della sconfitta di Novara e della repressione dell’insurrezione genovese, l’Assemblea costituente concentrò le energie nella difesa militare della repubblica, minacciata dalle truppe francesi, austriache, spagnole e napoletane, pronte a intervenire per restaurare il potere temporale del papa. Fu nominato un triunvirato formato da G. Mazzini (arrivato nel marzo in città), C. Armellini e A. Saffi (19 marzo), cui vennero conferiti poteri illimitati, e fu mobilitata la guardia nazionale. Uno dei principali provvedimenti presi dal nuovo governo fu l’approvazione della legge agraria, che stabiliva la ripartizione tra i contadini delle terre espropriate al clero. Il 5 aprile un corpo di spedizione francese guidato dal gen. N.-Ch.-V. Oudinot sbarcò a Civitavecchia e il 30 aprile attaccò la capitale. Intanto gli Austriaci occupavano Bologna, le Legazioni, Ancona e le Marche, mentre gli Spagnoli sbarcavano a Fiumicino. Fallite le trattative affidate a F.-M. de Lesseps, i Francesi ripresero le operazioni militari, rendendo vana l’eroica difesa della popolazione e dei volontari, accorsi da ogni parte d’Italia. Il 3 luglio l’Assemblea costituente decise la resa ma, come testimonianza dei propri ideali democratici, proclamò ugualmente la Costituzione. Essa sanciva il principio della sovranità popolare, dell’uguaglianza, della libertà e della fraternità, risultando la più avanzata, in senso democratico, di tutte le Costituzioni italiane del Risorgimento. Il 31 luglio un triunvirato nominato da Pio IX composto dai cardinali G. della Genga, L. Vannicelli e L. Altieri, assunse il governo della città e iniziò l’opera di restaurazione del potere papale. [14121] Se nell’Europa delle rivoluzioni del 1848 Parigi, con la sua insurrezione, fu il simbolo della “primavera dei cittadini”, la rivolta di Vienna favorì, invece, una diffusione straordinaria dei moti in tutti i territori controllati dall’impero austro-ungarico, tanto da innescare una vera e propria “primavera delle nazioni”. Fu infatti in queste aree, come nei territori tedeschi e italiani, che le rivendicazioni nazionali dei popoli “oppressi” si trasformarono in rivoluzioni: in nome dell’indipendenza, dell’unità nazionale, della libertà. Il 1848 segnò un punto di svolta decisivo nel processo di trasformazione politica e sociale che in forma latente o esplicita agitava l’Europa. Poi, la grande ondata rivoluzionaria si attenuò. In Francia, dove la caduta di Luigi Filippo aveva portato alla ribalta tendenze socialisteggianti già ormai mature, il superstite bonapartismo, sotto un nipote di Napoleone I, e con l’appoggio dell’opinione clericale, restaurò nel 1852 l’Impero. Nei paesi austriaci e in Prussia la fedeltà degli eserciti ai sovrani salvò l’assolutismo regio. I movimenti nazionali furono repressi dalle armate austriache in Italia e in Ungheria, dove Vienna – capitale imperiale – fu aiutata dal decisivo intervento delle armi russe. Il 1848 non passò, tuttavia, invano. Il problema nazionale assunse, nonostante tutto, un peso ancora maggiore che nel periodo precedente, mentre i contrasti di potenza indebolivano la capacità di reazione dei paesi più conservatori. [141211] Sotto la guida di Metternich, l’Austria aveva raggiunto l’apogeo della propria potenza nel Congresso di Vienna (1814-15), dove era stata ricostituita la compagine dell’Impero austriaco (Milano e il Veneto quale Regno lombardo-veneto, la Toscana quale secondogenitura, Parma e Piacenza quale terzogenitura, la Galizia, le province illiriche, il Tirolo e Salisburgo), assicurata la sua supremazia in Italia e, mercé la presidenza del Bundestag di Francoforte, in Germania. Attraverso la Santa Alleanza e il predominio che in essa ebbe Metternich, l’Austria era stata dopo il 1815 l’assertrice d’una rigida politica di repressione dello spirito rivoluzionario. Ma la politica del Metternich non era riuscita a comporre gl’interni dissidi nazionali della monarchia, che si manifestarono in piena luce nel 1848. Da Vienna (13 marzo) i moti liberali e nazionali dilagarono nelle varie regioni assumendo in Italia anche l’aspetto di una guerra di stati (intervento del regno di Sardegna e prima guerra d’indipendenza). Il sacrificio del Metternich e la costituzione del 25 aprile non calmarono gli spiriti. I Cechi rifiutarono di partecipare al parlamento di Vienna, l’Ungheria si schierò con Kossuth, i Croati in odio agli Ungheresi vollero un regno autonomo. La vittoria di Radetzky a Custoza (25 luglio) rese vigore al potere centrale: il Windischgrätz, che aveva soffocato a Praga il moto autonomista cèco, ristabilì l’ordine a Vienna; il 21 novembre l’energico principe Schwarzenberg assunse il governo e il 2 dicembre l’inetto Ferdinando I (1815-48) abdicò in favore del nipote Francesco Giuseppe (1848-1916), al quale la convenzione di Olmütz (29 novembre 1850) col re Federico Guglielmo IV di Prussia rese l’egemonia in Germania e la vittoria di Novara (28 marzo 1849) su Carlo Alberto quella in Italia. Intanto, sulla spinta degli avvenimenti viennesi del marzo 1848 anche a Budapest si sviluppò un movimento rivoluzionario e venne formato un governo, guidato dal conte L. Batthyány, comprendente i principali esponenti del movimento riformista (I. Széchenyi agli Interni e L. Kossuth alle Finanze). Mentre le nazionalità non magiare si rivolsero a Vienna in cerca di sostegno per le loro rivendicazioni autonomistiche nei confronti di Budapest, l’esercito austriaco con l’appoggio di formazioni russe soffocò l’insurrezione (agosto 1849). La repressione fu particolarmente spietata e delle riforme introdotte fu mantenuta solo l’abolizione della servitù della gleba. Dal 1849 al 1859 Francesco Giuseppe assumerà un atteggiamento nettamente reazionario e con la guerra del 1866 l’Austria sarà definitivamente esclusa dalla Germania e in Italia perderà il Veneto. [141221] Dopo l’esplosione delle insurrezioni a Milano e Venezia, il 23 marzo il re Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria. L’esercito piemontese, fortemente difettoso nell’apparato logistico, fu costituito su due corpi d’armata, più una divisione di riserva, per un totale di circa 80.000 uomini con 100 pezzi di artiglieria. A queste forze si aggiungevano i reparti volontari degli altri stati italiani: 6.000 Toscani, 14.000 Romani, 14.000 Napoletani e nuclei di Parmensi, Modenesi, Lombardi e Veneti. L’esercito austriaco, sotto il maresciallo Radetzky, si componeva di due corpi d’armata per un totale di 70.000 uomini. A piccole colonne slegate fra loro cominciò l’invasione della Lombardia, lasciata indifesa da Radetzky, dopo il 23 marzo. Inizialmente privo di un piano di operazioni, lo stato maggiore sabaudo adottò un piano di attacco frontale della linea del Mincio nel settore di centro, fuori della portata delle piazze di Peschiera e Mantova. L’8 e 9 aprile i Piemontesi occuparono i passi più importanti sul Mincio, e divennero padroni delle porte per entrare nel Quadrilatero. Tuttavia, anche se Radetzky aveva scelto la difensiva appoggiato alle fortezze del Quadrilatero in attesa di rinforzi, i Piemontesi non osarono proseguire nell’avanzata. Solo il 28 aprile l’esercito piemontese, occupate le alture fra il Mincio e l’Adige nel tratto fra S. Giustino e Custoza, intraprese un’avanzata sotto Verona allo scopo di costringere Radetzky a uscire dalla città, della quale si attendeva l’insurrezione che però non ebbe luogo. Fallito questo tentativo, le operazioni conobbero uno stallo; assediata Peschiera, i Piemontesi ne attendevano la caduta per poi riprendere con maggiori forze l’offensiva contro Verona. Frattanto Radetzky, cui erano giunti gli attesi rinforzi, decise di prendere l’offensiva, allo scopo di aggirare le posizioni nemiche per Mantova e tagliar loro la ritirata attraverso la Lombardia (28-29 maggio). Tale manovra venne a urtare, sulla linea Curtatone-Montanara, contro i battaglioni degli studenti toscani che combattendo eroicamente diedero tempo ai Piemontesi di rispondere alla mossa nemica, tanto che, giunti a Goito, gli Austriaci li trovarono in schieramento concentrato. Avvenne così (30 maggio) la battaglia di Goito, per la quale gli Austriaci dovettero ritirarsi su Mantova; lo stesso giorno Peschiera capitolava. Nei primi giorni di giugno Radetzky costringeva alla resa, intorno a Vicenza, l’esercito pontificio del gen. G. Durando. L’incerta condotta dell’esercito sardo, la diffidenza dello stato maggiore nei confronti dei volontari e l’isolamento in cui era rimasto il Piemonte dopo l’allocuzione pontificia del 29 aprile, col successivo ritiro dal fronte di tutti i reparti regolari degli stati italiani, contribuirono però a capovolgere la situazione a favore degli Austriaci; grazie all’arrivo di nuovi rinforzi, essi poterono pertanto riprendere l’iniziativa. L’offensiva asburgica (23-25 luglio) culminò nella battaglia di Custoza: la linea piemontese fu sfondata e gli Austriaci passarono il Mincio a Valeggio e a monte di Valeggio. Carlo Alberto decise la ritirata per la più lunga e pericolosa via di Milano, per compiere un atto di solidarietà coi Lombardi. Tuttavia, dispostisi intorno a Milano, i Piemontesi, ancora attaccati dagli Austriaci, dovettero cedere alle forze preponderanti. Nella notte del 4 agosto il re chiese una capitolazione, cui seguì (9 agosto) l’armistizio definitivo, stipulato dal gen. Salasco, per il quale i Piemontesi il 10 si ritiravano al di là del Ticino. Nella seconda metà d’agosto, Garibaldi, che con i suoi volontari aveva operato in azioni di disturbo nel Milanese e nel Bergamasco, impadronitosi di Arona sul Lago Maggiore, tentò un riuscito colpo di mano su Varese (18 agosto); ma, costretto poi a ritirarsi, si rifugiò in Svizzera. Fallite le trattative di pace, avviate attraverso la mediazione inglese e con l’appoggio francese, mentre si acuivano in Piemonte i contrasti fra il partito della pace e quello della guerra, l’esercito piemontese fu oggetto di riforme organiche, che, se ne accentuarono il carattere “popolare”, andarono a scapito dell’addestramento, della disciplina e della preparazione dei quadri. Si venne così a disporre di un totale di circa 120.000 uomini organizzati in sette divisioni (di cui una fu inviata al confine toscano per impedire il ritorno del granduca) e due brigate miste; ma per le operazioni di campagna furono disponibili solo 70.000 uomini circa. Per il comando supremo fu scelto il polacco W. Chrzanowski. Quanto all’esercito austriaco, circa 25.000 uomini, sotto il comando di J. J. von Haynau, assediavano Venezia e quasi altrettanti occupavano i ducati di Parma e Modena, le fortezze e i centri strategici del Lombardo-Veneto: rimanevano disponibili per la campagna 73.000 uomini, in 5 corpi d’armata su 2 divisioni ciascuno. Cedendo alle pressioni dei democratici e degli emigrati, il Piemonte il 12 marzo 1849 denunciava l’armistizio, sperando di poter approfittare delle grandi difficoltà che agli Asburgo procurava la rivoluzione ungherese. Riprese così la guerra, che il governo, il comando e l’opinione pubblica vollero assumesse carattere offensivo, nella convinzione che Radetzky avrebbe tenuto un atteggiamento difensivo. Il piano di Chrzanowski si articolò essenzialmente su due movimenti: offensivo da Novara a Magenta e difensivo alla Cava, di fronte al basso Ticino, e a Pavia; quest’ultimo movimento fu affidato al gen. Ramorino. In realtà il piano di Radetzky era decisamente offensivo: egli intendeva concentrare il grosso a Pavia e contemporaneamente, per ingannare i nemici, volle che le forze in concentrazione, muovendo da Milano, marciassero prima in direzione sud-est, in modo da simulare una ritirata, e poi convergessero bruscamente su Pavia e forzassero i passaggi del basso Ticino con la totalità delle forze, per volgersi poi dalla Lomellina verso il Nord e manovrare sulle retrovie dell’avversario. Scaduto l’armistizio a mezzogiorno del 20 marzo, grossi contingenti austriaci passarono il Ticino senza incontrare resistenza poiché il gen. Ramorino, spaventato dalle voci che assicuravano che le forze imperiali erano passate a Sud del Po, non aveva ottemperato agli ordini e aveva fatto passare la maggioranza delle sue forze sulla destra del Po anziché attestarsi alla Cava. Chrzanowski dispose allora un completo cambiamento di fronte a Sud, e ordinò la destituzione di Ramorino (fucilato il 22 maggio), sostituito col gen. M. Fanti, e l’immediata dislocazione del grosso piemontese verso Sud, intorno a Mortara e a Vigevano, mentre gli Austriaci avanzavano ancora verso il Nord. Intanto, il 21 marzo la divisione Durando giungeva a Mortara, dove fu attaccata al calar della notte e respinta dalla città con gravi perdite. Dopo consultazioni, fu ordinato il ripiegamento generale in direzione di Novara, dove il 23 marzo l’esercito piemontese fu sconfitto da quello austriaco. Il re mandò il gen. L. Fecia di Cossato a chiedere l’armistizio a Radetzky. E poiché questi dichiarò di “non potersi fidare della parola del re” (avendo questi il 12 marzo, senza giustificato motivo giuridico, denunciato l’armistizio), Carlo Alberto abdicò a favore di Vittorio Emanuele, che il 24 concludeva l’armistizio di Vignale: occupazione della Lomellina e del Novarese da parte delle truppe austriache; diritto di guarnigione austriaca nella cittadella di Alessandria, fino alla conclusione della pace; sgombero da parte dei Piemontesi dai territori di Piacenza, Modena e Toscana; richiamo della flotta dall’Adriatico; scioglimento dei corpi militari lombardi, polacchi e ungheresi. [14131] La libertà che guida il popolo è forse il più famoso tra i “quadri rivoluzionari”. In questa enorme tela di Eugène Delacroix – oggi conservata al Louvre – una donna a seno nudo con in mano una bandiera rappresenta la libertà; una libertà non allegorica, dunque, ma incarnata da una popolana col berretto frigio, che agisce e sprigiona un senso di emancipazione, che avanza sopra chi è caduto nella lotta, che guida gli uomini. È quindi il popolo, tutto il popolo, che viene rappresentato dal Delacroix come dotato di una forza irrefrenabile e generosa. Eugène Delacroix era nato nel 1798 (Charenton-SaintMaurice; morì a Parigi nel 1863) e fu il maggiore pittore romantico francese. Le sue prime opere (la Barca di Dante, 1822; il Massacro di Scio, 1824), avevano suscitato violente reazioni e polemiche. Ma in un periodo successivo il pittore aveva trovato grande fama ed enormi erano state le ripercussioni delle sue opere, esposte regolarmente nei Salons parigini, per molti anni. Dopo gli anni durissimi del 1827-30, la rivoluzione del luglio 1830 aprì improvvisamente al Delacroix nuove prospettive di vita e di lavoro; ebbe incarichi di vaste decorazioni e La libertà che guida il popolo risale appunto al 1830. L’opera può essere considerata la più significativa – e fonte di costante ispirazione per diversi anni – dell’iconografia europea negli anni delle rivoluzioni ottocentesche. Intorno al suo significato e alle sue fonti sono stati fatti molti studi. [14211] Il termine Restaurazione fu usato da pubblicisti e storici francesi per indicare il periodo del ristabilimento sul trono di Francia del ramo primogenito dei Borboni, dopo la Rivoluzione e l’impero napoleonico, cioè il periodo dall’aprile 1814 al luglio 1830. L’espressione fu poi estesa a tutta la storia europea dal 1815 al 1830. Le letture ottocentesche di stampo liberale, antilegittimista e anticlericale hanno sottolineato della Restaurazione il forte conservatorismo politico e religioso. Altre interpretazioni hanno poi sfumato l’univocità del giudizio, mettendo in luce gli elementi di innovazione presenti nelle politiche dei governi del periodo, che talora riprendevano alcuni aspetti della precedente esperienza napoleonica. In effetti, l’edificio rapidamente costruito dalla Rivoluzione francese dimostrò nei suoi tratti essenziali un’incrollabile solidità; e la prova migliore ne fu data dal fatto che anche le potenze nemiche della Francia e di Napoleone si uniformarono via via ai principi del nuovo regime e, caduto Napoleone, non pensarono di ristabilire quello antico: fu invece ristabilita, ma solo parzialmente, dal Congresso di Vienna (1815) – sotto la spinta della Santa Alleanza di Austria, Prussia e Russia, rivolta ad assicurare la conservazione dei risultati della lotta antinapoleonica – la vecchia geografia politica. Anche le guerre di Napoleone lasciarono tracce profonde, alimentando una rapida maturazione del sentimento nazionale o in opposizione al dominio francese che egli imponeva o secondando una nuova identità negli stati satelliti e amici. Chiuso il periodo rivoluzionario e napoleonico, tre grandi questioni si posero, nella vita europea: la questione della libertà, la questione nazionale e la questione sociale. Ripetuti sussulti insurrezionali fra il 1815 e il 1848 agitarono la Penisola iberica, l’Italia, la Francia, i Paesi Bassi, la Germania, la stessa Gran Bretagna, i paesi austriaci. In Francia nel 1830 si passò a un regime liberale più aperto sotto il ramo borbonico cadetto di Luigi Filippo d’Orléans, che sancì il ruolo della borghesia come classe illuminata e dominante. In Gran Bretagna le lotte sociali non toccarono né la struttura liberale del regime, né le posizioni dell’aristocrazia tradizionale e della nuova borghesia, ma produssero riforme elettorali e sociali che assicurarono al regime del paese una maggiore stabilità e si accompagnarono ad una intesa franco-britannica oggettivamente in opposizione alla Santa Alleanza. Il Belgio poté nel 1830 staccarsi dai Paesi Bassi e costituirsi in regno indipendente a regime liberale. Non così la Polonia ribellatasi allo zar nel 1831, mentre in Italia due ondate insurrezionali nel 1820-21 e nel 1830-31 non modificarono né l’assetto, né il regime politico del paese. In Spagna la costituzione guadagnata con la rivoluzione del 1820 fu sottoposta alle vicende di un’altalena tra forze liberali e reazionarie che avrebbe dominato la vita nazionale per oltre un secolo. La Grecia, con una lunga rivolta iniziata nel 1821 e con l’appoggio di Francia e Gran Bretagna, acquistò nel 1830 l’indipendenza dall’impero ottomano e lo stesso, in forma più attenuata e con l’appoggio della Russia, avvenne per i Romeni. In effetti furono economia e cultura a produrre ancora una volta i mutamenti più profondi. Dalla Gran Bretagna la rivoluzione industriale si propagò nell’Europa continentale investendo via via Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio. Si configurò così nell’Europa Occidentale un contrasto sociale nuovo, tra proletariato e capitalismo industriale. Nello stesso tempo la scena culturale europea era occupata dalla diffusione del romanticismo. Il 1848 avrebbe segnato un punto di svolta decisivo nel processo di trasformazione politica e sociale che in forma latente o esplicita agitava l’Europa. Poi la grande ondata rivoluzionaria si sarebbe attenuata. [142111] Convocato a norma della prima pace di Parigi del 30 maggio 1814 con il compito di dare un nuovo assetto politico all’Europa dopo la sconfitta della Francia napoleonica, il Congresso di Vienna non si svolse sotto forma di riunioni generali, così come era stato all’inizio previsto, ma mediante negoziati tra i rappresentanti delle maggiori potenze europee uscite vittoriose dalla guerra. Questi rappresentanti (Metternich per l’Austria, lo zar Alessandro I per la Russia, K. A. Hardenberg per la Prussia, R. S. Castlereagh per la Gran Bretagna), pur essendo tutti d’accordo sulla necessità di fondare il nuovo ordinamento territoriale del continente sull’equilibrio politico tra i diversi stati, avevano tuttavia idee assai contrastanti sulla realizzazione pratica di tale principio. Così la Prussia e la Russia premevano per l’annessione di tutta la Sassonia e di tutta la Polonia, ma questo programma massimo era avversato da Metternich, il quale, con l’aiuto di Castlereagh, riuscì a contenere in più modesti limiti le pretese delle corti di Berlino e di Pietroburgo. Il principio fondamentale della politica di Metternich, che fu il supremo moderatore del congresso, era quello di togliere alla Francia qualsiasi capacità rivoluzionaria, in modo da impedirle di poter costituire ancora una volta nel futuro un motivo di turbamento per tutta l’Europa. Tuttavia, questo principio poté attuarsi solo in parte, perché l’abilità diplomatica di Talleyrand seppe trarre partito dalle divergenze sorte tra le quattro potenze per la soluzione delle questioni polacca e sassone, così da preparare il terreno a un prossimo inserimento della Francia nella grande politica europea. I negoziati tra le potenze, iniziati nel settembre 1814, si protrassero fiaccamente e con non lievi divergenze d’opinione sin verso il marzo del 1815, quando la notizia dello sbarco di Napoleone in Francia ricostituì la solidarietà della Grande Alleanza. La presenza del comune pericolo facilitò e accelerò la comune ricerca di un equo compromesso fra le contrastanti pretese, e in poco più di due mesi fu possibile giungere alla redazione dell’atto finale del congresso, firmato dalle quattro potenze antinapoleoniche, dalla Francia, dal Portogallo e dalla Svezia, cui successivamente aderirono tutti gli stati minori, a eccezione della Santa Sede. In concreto, l’equilibrio politico europeo era stato garantito con la costituzione di una barriera di stati ai confini della Francia (Regno dei Paesi Bassi, Confederazione germanica, la Svizzera dichiarata neutrale, il Regno di Sardegna ingrandito della Repubblica di Genova); con un notevole ingrandimento della Prussia, chiamata ad assumere la guardia del Reno contro la Francia; con una delimitazione dell’espansione della Russia, a cui fu riconosciuta solo la sovranità sul granducato di Varsavia e non su tutta la Polonia; con un arrotondamento dei possedimenti dell’Impero austriaco, che assicurò a quest’ultimo una funzione preminente e diretta sia in Germania, sia nella penisola italiana. Il congresso ha avuto importanza anche da punto di vista del protocollo e delle consuetudini diplomatiche, rappresentando il trionfo della diplomazia nelle sue applicazioni pratiche. [14221] Per impulso di Federico II il Grande (1740-86), campione dell’assolutismo illuminato, la Prussia si affermò come grande potenza europea, in competizione con l’Austria per l’egemonia sulla Germania. La sua ascesa non rispondeva, tuttavia, a un ideale di unificazione nazionale ma solo al desiderio di egemonia sullo spazio germanico. L’eco della Rivoluzione francese incoraggiò moti giacobini e separatismi locali filofrancesi, ma non favorì le correnti liberali escluse da un circuito di grande respiro dalla frammentazione degli stati tedeschi. Paradossalmente una spinta all’unificazione, nelle strutture più che negli animi, provenne dalla risposta con la quale le armate napoleoniche ricacciarono attraverso il suolo tedesco le spedizioni controrivoluzionarie di Prussia e Austria. Provocando lo scioglimento del Sacro Romano Impero e dando vita alla Confederazione renana, con l’acquisizione di modelli culturali e amministrativi d’impronta francese, la Francia espelleva l’Austria dalla Germania e promuoveva di fatto un embrione di unificazione. Invasa dalla Francia (1806), costretta all’alleanza contro la Russia, dopo il rovesciamento delle alleanze (1813), la Prussia affrontò il duplice processo di rinnovamento interno e di ripristino della sua egemonia sugli altri territori tedeschi. Avviò una moderata ma decisa modernizzazione destinata a rafforzare l’amministrazione dello stato e a consentire la formazione di una struttura sociale definitivamente affrancata dai residui feudali. L’abolizione dell’ordinamento corporativo e della servitù della gleba e una limitata autonomia comunale, con suffragio censitario, aprirono la strada a una maggiore mobilità sociale e ruppero il monopolio dell’aristocrazia sulla proprietà della terra. Parallelamente la riforma militare allargò parzialmente la base sociale dell’esercito restringendo il monopolio aristocratico. Il consolidamento dello stato costituì la premessa della guerra antinapoleonica che culminò nella disfatta di Napoleone a Lipsia. A conclusione del Congresso di Vienna, il 10 giugno 1815, fu creata la Confederazione germanica, con l’adesione di 41 stati, Prussia e Austria comprese. Rimaneva la frantumazione territoriale della Germania che favoriva la persistenza di un potere statale feudale. Né si placò il dualismo austro-prussiano, nonostante la spinta all’unità di forze economiche e culturali. Lo Zollverein del 1834 fu il primo cospicuo frutto di queste aspirazioni, che confluirono nei moti costituzionali e liberali del 1848. Federico Guglielmo IV fu costretto a concedere la Costituzione in Prussia, ma allorché l’Assemblea nazionale di Francoforte con una opzione kleindeutsch (l’alternativa grossdeutsch avrebbe significato l’egemonia dell’Austria) il 27 marzo 1849 gli offrì la corona imperiale, fece il gran rifiuto, in odio ad ogni forma di legittimazione democratica e per timore di scontrarsi con l’Austria. L’aspirazione della Prussia a porsi come artefice dell’unità tedesca subì una battuta d’arresto nel compromesso di Olmütz con l’Austria (novembre 1850). Il conflitto con l’Austria per la supremazia sulla Germania risultava soltanto rinviato. Esso entrò in una fase nuova dal momento in cui la gestione degli affari interni ed esteri della Prussia fu affidata, il 24 settembre 1862, a Otto von Bismarck. Persuaso che l’unità della Germania fosse affidata non alla forza del liberalismo ma a quella della Prussia, Bismarck operò con abilità, nel quadro delle forze in campo internazionale, per arginare e poi ridurre la presenza dell’Austria. La questione dello Schleswig-Holstein, che portò alla sconfitta della Danimarca ad opera di Prussia e Austria, offrì la prima occasione di scontro diretto con l’Austria, insieme a un progetto di riforma della Confederazione germanica che fu respinto da Vienna. Alla fine di giugno del 1866 la Prussia attaccò l’Austria, che fu rapidamente sconfitta; la vittoria consentì alla Prussia di estendere i suoi territori, di sciogliere la Confederazione germanica e di porsi alla testa di una Confederazione della Germania del Nord, con esclusione degli stati meridionali e dell’Austria. Fu questa la prima tappa dell’unificazione dall’alto realizzata da Bismarck. La seconda fu raggiunta a seguito della guerra franco-prussiana del 1870-71 scoppiata per la successione al trono di Spagna. Il 18 gennaio 1871, forte del consenso anche degli stati meridionali alla Prussia, re Guglielmo I di Prussia fu proclamato imperatore di Germania. Di lì a poco la Costituzione della Confederazione della Germania del Nord diventava Costituzione dell’Impero germanico. Era nato così il Secondo Reich, per iniziativa tutta dall’alto della Prussia con la definitiva soluzione a suo favore del dualismo con l’Austria. L’impero che usciva dall’unificazione era improntato al modello prussiano. Non solo la Prussia acquistava un’egemonia territoriale e demografica assoluta rispetto agli altri stati tedeschi, il maggiore dei quali era il regno di Baviera: formalmente costruito come stato federale, composto di 25 stati e l’Alsazia-Lorena come territorio del Reich, l’impero assicurava alla Prussia un incontrastato primato. Nel Bundesrat (la rappresentanza degli stati) la Prussia disponeva di 17 seggi su 58. Il comando delle forze armate spettava al Kaiser che era al tempo stesso re di Prussia; il cancelliere del Reich si identificava, per unione personale, con il cancelliere prussiano. La supremazia della Prussia era confermata dal sistema politico dell’impero, che prevedeva l’esistenza di un parlamento (Reichstag) eletto a suffragio universale (ma con esclusione delle donne), avente poteri limitati. L’impero era una monarchia costituzionale: il governo non rispondeva al Reichstag ma al Kaiser, l’unico a potere nominare e revocare il cancelliere. Il fatto inoltre che in Prussia vigesse il suffragio censitario influiva negativamente su ogni possibile processo di democratizzazione. Il potere legislativo e quello esecutivo erano saldamente in mano alla Prussia; l’uso che prima Bismarck e più tardi Guglielmo II fecero di questi poteri e gli equilibri che di fatto si stabilirono fecero sì che sino al 1918 il predominio della Prussia non fosse mai messo in discussione né in pericolo. La gestione della cancelleria da parte di Bismarck (1871-90) si fondò essenzialmente sul sostegno della casta militare; la sua tendenza a rendersi autonomo nei confronti dello stesso Kaiser ha indotto a caratterizzarla come dittatura bonapartista. [14231] Dopo la prima guerra d’indipendenza salì al trono del Regno di Sardegna Vittorio Emanuele II (1848-78), figlio di Carlo Alberto, che non revocò lo statuto. L’armistizio con l’Austria pose il movimento democratico in gravi difficoltà. Con la vittoria delle forze conservatrici in tutti gli stati in cui erano scoppiate le rivoluzioni del 1848-49, le possibilità di sviluppo in senso democratico furono bloccate. Da ciò le premesse per la ripresa politica del movimento di rinnovamento nazionale a partire dal liberalismo piemontese, rimasto l’unico punto di riferimento nel quadro di quella restaurazione antiliberale e antinazionale che si abbatté sull’Italia. Fra il 1848 e il 1860, infatti, attorno allo stato sardo si raccolse la parte più viva del movimento per l’indipendenza e l’unità nazionali, rafforzando un processo già iniziato con Carlo Alberto e divenuto successivamente più coerente e dinamico. Un fattore decisivo di questo processo fu senza dubbio rappresentato dalla nomina a ministro dell’Agricoltura, Commercio e Marina nel gabinetto d’Azeglio – lo stesso che aveva approvato nel febbraio del 1850 le cosiddette leggi Siccardi, dal nome del ministro della Giustizia, che aveva presentato il progetto sulla nuova legislazione ecclesiastica – di Camillo Benso conte di Cavour, un deputato distintosi nella discussione parlamentare sulle leggi Siccardi ed emerso quale capo della maggioranza moderata. [142311] Il programma presentato dal Cavour (Torino 1810 - ivi 1861) mirava sul piano economico-sociale a favorire lo sviluppo di un moderno capitalismo attraverso l’alleanza tra aristocrazia e borghesia nel quadro di un regime liberale parlamentare; sul piano politico al raggiungimento dell’indipendenza nazionale sotto la guida dello stato sardo, allargatosi fino a costituire quel regno dell’alta Italia che era uno degli obbiettivi tradizionali della diplomazia sabauda. In qualità di ministro per l’Agricoltura e il Commercio, Cavour, con la firma di trattati commerciali ispirati a una politica liberistica, cercò di inserire l’economia del regno in quella dell’Europa. Inoltre procedette alla riorganizzazione dell’amministrazione finanziaria dello stato. Ma la sua personalità politica andò nettamente delineandosi nella battaglia parlamentare in difesa della libertà di stampa contro gli ambienti più conservatori i quali, incoraggiati dalla svolta autoritaria impressa da Luigi Napoleone in Francia, tentavano di svuotare le istituzioni liberali. In occasione di questa battaglia avvenne l’avvicinamento tra le forze di “centro-destra”, guidate da Cavour, e quelle di “centro-sinistra” guidate da U. Rattazzi. Si ebbe così quello che è passato alla storia come il “connubio”, cioè un’alleanza politica e parlamentare che, isolando la destra più conservatrice e la sinistra democratica radicale sulla base di un programma liberale orientato al conseguimento dell’indipendenza nazionale e alla promozione del progresso civile, sanciva la formazione di un blocco sociale organico formato dall’aristocrazia più avanzata e dalla borghesia. Mentre in Piemonte il liberalismo riusciva a superare il difficile periodo del dopoguerra, nel resto d’Italia si ebbe una ripresa del movimento per l’indipendenza dietro l’impulso di Mazzini (Genova 1805 - Pisa 1872), convinto, come la maggior parte dei democratici europei, che si fosse alle soglie di una nuova ondata rivoluzionaria internazionale e che questa avrebbe coinvolto i paesi oppressi come l’Italia, l’Ungheria, la Germania e la Polonia, uniti nella Santa Alleanza dei popoli. Sul piano pratico, Mazzini, tra il 1850 e il 1852, si gettò in una intensa opera di riorganizzazione della rete clandestina. Nella sua strategia, la nuova ondata insurrezionale avrebbe dovuto ripartire dalla Lombardia, da dove si sarebbe estesa all’Italia centrale e meridionale e, quindi, all’intero continente europeo. Di fatto, l’insurrezione di Milano del 6 febbraio 1853, tentata da Mazzini nonostante la macchina poliziesca austriaca avesse già compromesso la rete mazziniana nel Lombardo-Veneto, fu un completo fallimento che portò a centinaia di arresti e a 15 impiccagioni. A questo insuccesso Mazzini reagì intensificando gli sforzi organizzativi e fondando il Partito d’azione, che aveva quali obbiettivi l’unità e la repubblica. Incontrò però il disaccordo delle correnti mazziniane di destra, che intendevano dare la priorità alla lotta per l’indipendenza senza la pregiudiziale antimonarchica, finendo col favorire la convergenza di queste con il liberalismo cavouriano. Una critica serrata all’impostazione di Mazzini venne anche da quei democratici più vicini alle correnti socialiste, come Ferrari e, in maniera ancora più netta, C. Pisacane, i quali ritenevano che il successo della lotta per l’indipendenza fosse legato a un allargamento della base del movimento, cioè alla “questione sociale” e, innanzitutto, alla soluzione della “questione agraria”. Per Pisacane, in particolare, proprio la mancanza di un moderno sviluppo capitalistico, che aveva quale conseguenza la debolezza degli strati borghesi e la persistente miseria delle masse popolari, rendeva possibile il collegamento della rivoluzione nazionale con quella sociale. In realtà, tutti gli sforzi per far nascere una nuova formazione politica a sinistra di Mazzini furono delusi. [142321] Andava invece delineandosi con chiarezza la strategia di Cavour, nominato presidente del Consiglio nel novembre 1852, tesa a creare le condizioni interne ed esterne per il conseguimento dei suoi obbiettivi. Gli elementi essenziali di tale strategia, che mirava all’ammodernamento e alla progressiva laicizzazione dello stato, allo sviluppo economico e a una alterazione dell’assetto istituzionale-statuale della penisola a favore della formazione di un regno dell’alta Italia erano: in politica interna, il contenimento dell’influenza della destra più conservatrice e clericale sulla vita politica, la limitazione dei poteri di intervento della corona sul governo, l’assorbimento delle tendenze più moderate del movimento democratico nella politica governativa e la repressione di quelle radicali e repubblicane e, sul versante economico, il consolidamento di una politica liberoscambista; in politica estera, l’inserimento del regno sardo nell’arena internazionale, il rafforzamento dei legami con la Gran Bretagna e la Francia, la costruzione di una alleanza militare con quest’ultima in funzione anti-austriaca e l’affermazione del primato sabaudo-piemontese in Italia. La prima grave questione che Cavour dovette affrontare nella sua qualità di primo ministro riguardò il provvedimento di confisca di beni dei profughi politici della Lombardia e del Veneto, deciso dall’Austria nel febbraio 1853, come rappresaglia contro il tentativo di rivolta mazziniano. Cavour reagì richiamando l’ambasciatore piemontese a Vienna e facendo votare un contributo finanziario agli esuli. Le elezioni del dicembre dello stesso anno diedero una forte maggioranza al centro rafforzando Cavour sul piano parlamentare. Il che gli permise di far fronte a due problemi che avrebbero potuto travolgerlo politicamente: la linea da tenere di fronte alla guerra di Crimea e un nuovo capitolo nella storia dei rapporti tra Stato e Chiesa. Per quanto riguarda il primo, Cavour cedette alle pressioni di Francia e Gran Bretagna che, desiderose di coinvolgere l’Austria nella guerra contro la Russia, intendevano rassicurarla che il Piemonte non ne avrebbe approfittato per una azione contro il Lombardo-Veneto; e il 4 marzo 1855 entrò in guerra a fianco delle prime. La successiva decisione dell’Austria di non schierarsi contro la Russia consentì a Cavour di raccogliere frutti insperati da questa partecipazione. Il secondo problema si pose al momento della discussione di un progetto di legge presentato da Rattazzi e appoggiato da Cavour, che prevedeva la soppressione di alcuni ordini religiosi e il passaggio dei loro beni all’amministrazione dello stato. La destra, sostenuta da una dura presa di posizione di Pio IX e dall’opposizione del re alla legge, tentò al senato, dove era più forte, di far ritirare la legge, già approvata alla camera, in cambio di un consistente contributo finanziario allo stato. La sconfitta di Cavour avrebbe rappresentato un duro colpo per la sua politica, segnando una affermazione della destra e dell’intervento personalistico del re. Il governo reagì allora rassegnando le dimissioni che provocarono una forte reazione liberale (aprile 1855). Dopo di che il re, constatata l’impossibilità di formare un nuovo governo, dovette ridare l’incarico a Cavour. La legge venne approvata il 23 maggio 1855 con alcuni emendamenti. Conclusasi positivamente questa vicenda interna, Cavour si trovò ad affrontare le questioni connesse con la fine della guerra di Crimea, cui il Piemonte aveva partecipato con un corpo di spedizione guidato dal generale A. La Marmora. Al congresso di pace, apertosi a Parigi nel febbraio 1856, grazie all’appoggio di Francia e Gran Bretagna Cavour venne ammesso alle trattative su un piede di parità con le altre potenze e da qui, cogliendo l’occasione di una discussione sulla situazione dell’Italia (8 aprile 1856), denunciò l’occupazione militare delle Legazioni pontificie da parte degli Austriaci e si fece difensore, presso l’opinione pubblica internazionale, dell’egemonia piemontese, presentata come l’unica alternativa valida alla rivoluzione e al malgoverno soprattutto dello Stato pontificio e del regno delle Due Sicilie. Cavour mirava a ottenere l’appoggio delle potenze, soprattutto della Francia di Napoleone III, in vista di eventuali mutamenti sulla scena italiana. Ma, al contempo, avvertiva la necessità di affermare la supremazia del liberalismo sabaudo nel movimento per l’indipendenza nazionale. Un passo in questa direzione fu la nascita nel 1857 della Società nazionale, creata per iniziativa del veneto D. Manin, del lombardo G. Pallavicino e del siciliano G. La Farina allo scopo di unire democratici moderati e liberali filo-piemontesi verso il comune obbiettivo dell’unità. L’accettazione della monarchia costituiva il trait d’union tra le due componenti. La società accrebbe enormemente il suo prestigio con l’adesione di Garibaldi, che ne divenne in seguito vicepresidente: Cavour poté quindi contare su una rete cospirativa inserita nella strategia piemontese. Per contro, una crisi assai grave investì il Partito d’azione dopo il fallimento della spedizione nel Mezzogiorno (giugno-luglio 1857) di C. Pisacane il quale, con l’accordo non solo di Mazzini, ma anche di Pallavicino e di La Farina, aveva sperato di sollevare i contadini meridionali contro Ferdinando II e di rilanciare a partire dal Napoletano il movimento insurrezionale. L’esito disastroso della spedizione, attirando critiche pesantissime su Mazzini e sulla sua organizzazione, ebbe quale effetto di rafforzare ulteriormente la linea della Società nazionale e quella di Cavour. Il 1857 fu un anno importante non soltanto per gli avvenimenti sopra ricordati, ma anche perché segnò una svolta tanto nella politica interna al regno sardo quanto in quella dell’Austria nei confronti dei possedimenti italiani. Nel regno sardo entrò in crisi la formula del connubio fra centro e sinistra. Le elezioni tenutesi in novembre diedero la maggioranza alla destra indebolendo la maggioranza cavouriana. Cavour ne trasse le conseguenze bloccando alcune riforme e inducendo Rattazzi, ministro dell’Interno, alle dimissioni nel gennaio 1858. In Austria, in concomitanza con la messa a riposo del maresciallo Radetzky e la nomina a governatore del regno Lombardo-Veneto del fratello di Francesco Giuseppe, Massimiliano, si impose un nuovo corso improntato a una politica di moderazione e di apertura verso l’opposizione moderata. Ciò non contribuì a migliorare le relazioni con il regno sabaudo, che erano state interrotte nel marzo 1857, in seguito alle polemiche prese di posizione della stampa subalpina nei confronti della visita nel Lombardo-Veneto di Francesco Giuseppe. Al contrario, dopo l’attentato dell’ex mazziniano Felice Orsini a Napoleone III (14 gennaio 1858), vennero intensificati i rapporti tra il Piemonte, impegnatosi a combattere le vie della cospirazione politica, e la Francia, intenzionata a sostituire a quella dell’Austria la propria influenza sulla penisola, fino alla conclusione di un’alleanza militare in funzione anti-austriaca. Un incontro segreto a Plombières nei Vosgi tra Napoleone III e Cavour il 20-21 luglio 1858 definì gli scopi comuni. I due stati avrebbero provocato una guerra con l’Austria, facendola apparire come un’aggressione al Piemonte in modo tale da legittimare la richiesta di aiuto di quest’ultimo alla Francia nell’ambito di un’alleanza a carattere difensivo. Dopo la vittoria, l’assetto dell’Italia avrebbe dovuto essere il seguente: un regno dell’alta Italia sotto casa Savoia che avrebbe acquistato la Lombardia, il Veneto, l’Emilia e la Romagna; un regno dell’Italia centrale formato dalla Toscana e dai domini del pontefice, cui sarebbe rimasta la sovranità su Roma e i dintorni; un regno dell’Italia meridionale che avrebbe avuto i confini del regno delle Due Sicilie. Il regno sardo, quale compenso dell’aiuto ricevuto, avrebbe ceduto alla Francia Nizza e la Savoia. Al papa sarebbe andata inoltre la presidenza della costituenda confederazione fra gli stati italiani. Il matrimonio tra Gerolamo Napoleone, cugino dell’imperatore, e la figlia di Vittorio Emanuele II, Clotilde, doveva sanzionare l’alleanza, che venne siglata dai due sovrani tra il 24 e il 26 gennaio 1859, dopo che Napoleone III aveva fatto conoscere il suo disappunto per il deterioramento dei rapporti con gli Austriaci e Vittorio Emanuele II proclamato, nel discorso della corona, di non essere insensibile al “grido di dolore” che dall’Italia si levava verso il Piemonte. Il piano di una conferenza europea sulla questione italiana, caldeggiata dalla Gran Bretagna, parve a un certo punto fermare Napoleone III. Ma la decisione austriaca di rivolgere un ultimatum al Piemonte che armava con deliberata ostentazione volontari e costituiva, agli ordini di Garibaldi, il corpo dei cacciatori delle Alpi consentì all’alleanza di scattare. [142331] Il 26 aprile 1859, giorno in cui Cavour respinse l’ultimatum, ebbe inizio la seconda guerra di indipendenza. Le operazioni, poste sotto il comando supremo di Napoleone III, si conclusero entro giugno con la sconfitta degli Austriaci nelle battaglie decisive di Solferino contro i Francesi e di San Martino (24 giugno) contro i Piemontesi. Le ripercussioni della guerra e le vittorie degli alleati determinarono l’insurrezione delle regioni centrali, ma la presenza al loro interno di una forte componente favorevole all’annessione col Piemonte conferì agli avvenimenti una piega in contrasto con gli accordi di Plombières e quindi sgradita a Napoleone III. Questi decise unilateralmente di porre fine alla guerra in Italia e concluse l’11 luglio con l’Austria l’armistizio di Villafranca, in base al quale la Lombardia veniva ceduta alla Francia che l’avrebbe a sua volta ceduta al Piemonte, declassato in tal modo a partner di secondo rango; Mantova e Peschiera con le loro fortezze restavano in mano austriaca mentre nell’Italia centrale venivano ristabilite le autorità legittime. Vittorio Emanuele II accolse di buon grado una soluzione che ingrandiva il suo stato della regione più progredita d’Italia. Cavour, invece, rendendosi conto che l’accordo di Villafranca sarebbe stato inaccettabile sia per la Società nazionale sia per i repubblicani e che ciò avrebbe rilanciato il prestigio di Mazzini, protestò energicamente e diede le dimissioni il 13 luglio. Il 10 novembre i preliminari di Villafranca furono trasformati nella pace, firmata a Zurigo senza che venisse presa alcuna decisione concreta circa il futuro assetto dell’Italia centrale. Il 21 gennaio del 1860, dietro le pressioni francese e inglese, Cavour fu richiamato al potere. Approfittando di una svolta nella politica di Napoleone III, il quale, considerando politicamente dannoso reprimere con la forza il movimento che aveva egli stesso contribuito a suscitare nell’Italia centrale, fece pubblicare un opuscolo anonimo favorevole a una drastica riduzione dello Stato pontificio, Cavour decise di passare all’annessione delle regioni insorte. L’11 e il 12 marzo la Toscana, l’Emilia e i ducati espressero con un plebiscito la loro volontà di unione al regno di Sardegna. Il 15 aprile, sempre dopo i plebisciti, Nizza e la Savoia venivano cedute alla Francia. Mentre nell’Italia centro-settentrionale si svolgevano questi avvenimenti, nel regno delle Due Sicilie maturava la crisi definitiva. La morte di Ferdinando II e l’ascesa al trono del figlio Francesco II (1859-60) non contribuirono in alcun modo a migliorare i rapporti tra le forze liberali moderate e la dinastia; il re, infatti, bloccò ogni tentativo di rinnovamento delle istituzioni in senso parlamentare. In un simile quadro, il Partito d’azione, cui Garibaldi si era riavvicinato, ritrovò un proprio spazio di azione assumendo l’iniziativa di una spedizione nel Mezzogiorno a partire, questa volta, dalla Sicilia, dove esistevano condizioni più favorevoli al successo di una insurrezione sia per la tradizione antiborbonica e separatista sia per la migliore organizzazione della rete cospirativa sia, infine, per la possibilità di un ampio appoggio popolare. Un ruolo importante nella preparazione della spedizione ebbero gli esuli R. Pilo e F. Crispi: il primo recandosi in Sicilia a organizzare il movimento dopo la rivolta scoppiata, e sanguinosamente repressa, a Palermo (aprile 1860); il secondo, adoperandosi per guadagnare alla causa Garibaldi. I preparativi della spedizione, segretamente appoggiata da Vittorio Emanuele II dopo le rassicurazioni di Garibaldi sugli obbiettivi, si svolsero con l’opposizione di Cavour. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, un migliaio di garibaldini approssimativamente equipaggiati salparono con due navi da Quarto, nei pressi di Genova, alla volta della Sicilia dove giunsero l’11 maggio. Accolto con entusiasmo dalle popolazioni contadine, che vedevano in lui un “liberatore” anche sociale, Garibaldi poté contare sul loro appoggio e sulla inefficienza dell’esercito borbonico. A Calatafimi i Mille ottennero una prima importante vittoria, quindi puntarono su Palermo, che venne formalmente liberata il 6 giugno. Travolto dalle circostanze, Francesco II cercò di guadagnare alla propria causa i liberali moderati concedendo la costituzione del 1848; ma era ormai troppo tardi. Dopo un’aspra battaglia sostenuta a Milazzo, l’isola, fatta eccezione per la cittadella di Messina, venne liberata (20 luglio). Di fronte ai successi di Garibaldi, la politica di Cavour ebbe una svolta significativa. Tenendo conto del favore con cui Gran Bretagna e Francia guardavano agli avvenimenti del Mezzogiorno d’Italia, egli acconsentì all’invio di uomini e armi in Sicilia al fine da un lato di contribuire alla vittoria militare, dall’altro di condizionare Garibaldi e porre le basi per l’annessione della Sicilia al Piemonte. Il piano di Cavour urtava contro quello di Garibaldi: questi intendeva fare dell’isola la base per il proseguimento dell’impresa fino alla liberazione di Napoli e di ciò che restava dello Stato pontificio; quello temeva che il prestigio venuto ai democratici da un eventuale successo avrebbe potuto rimettere in discussione l’assetto politico-istituzionale del futuro stato italiano, che egli intendeva dovesse invece configurarsi come allargamento territoriale di quello sardo e delle sue strutture politiche e amministrative. Un tentativo di Cavour di organizzare un moto moderato a Napoli, che proclamasse l’annessione immediata al Piemonte precedendo l’arrivo di Garibaldi, fallì. A questo punto, in parte per realismo politico, in parte perché conquistato all’idea dell’unificazione italiana, Cavour rinunciò a opporsi alla guerra di liberazione. Mentre Garibaldi sbarcava in Calabria per entrare trionfalmente in Napoli il 7 settembre 1860 accolto come liberatore, egli, con l’appoggio di Napoleone, riprendeva in mano l’iniziativa, facendo occupare dall’esercito sardo le Marche e l’Umbria. Il conflitto tra Garibaldi e Cavour si fece acutissimo. Il primo chiese a Vittorio Emanuele II il licenziamento di Cavour. Il secondo, preoccupato dalla ripresa politica del Partito democratico – in settembre Mazzini e Cattaneo erano arrivati a Napoli – il cui programma era l’Assemblea costituente e la guerra per la liberazione di Roma, era deciso a imporre la propria soluzione. Nei giorni del 1°-2 ottobre Garibaldi ottenne la sua più grande vittoria nella battaglia sul Volturno. Il 3 le truppe piemontesi, guidate personalmente dallo stesso re, si misero in marcia verso il Mezzogiorno, mentre Cavour faceva approvare dalla camera una legge sull’annessione incondizionata delle terre liberate. La linea cavouriana venne attivamente sostenuta dalle classi dominanti meridionali, che considerarono l’annessione come una garanzia per la salvaguardia dei rapporti sociali esistenti. Per contro, la delusione delle classi contadine, che avevano appoggiato i garibaldini sperando che la cacciata dei Borboni avrebbe coinciso con l’avvio di un processo di emancipazione dalla miseria e dallo sfruttamento, fu grave e destinata ad alimentare quella vera e propria guerra sociale che passò sotto il nome di “brigantaggio”. Il 21 ottobre 1860 ebbero luogo, nei territori dell’ex regno delle Due Sicilie, i plebisciti che sanzionarono l’annessione. L’incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele II del 26 ottobre a Teano segnò il passaggio dei poteri nelle regioni meridionali dalle autorità garibaldine a quelle piemontesi. Il 4 novembre si tennero i plebisciti per l’annessione delle Marche e dell’Umbria e poco dopo cadevano le ultime roccaforti della resistenza borbonica. Garibaldi si ritirò allora sull’isola di Caprera, dopo aver manifestato la sua volontà di continuare la lotta fino alla liberazione di Venezia e di Roma. Il 17 marzo 1861 il primo parlamento nazionale proclamò a Torino Vittorio Emanuele II re d’Italia. Cavour e i liberali moderati avevano così vinto la loro battaglia su quel Partito d’azione che era stato capace di assumere l’iniziativa della spedizione dei Mille, ma non aveva potuto reggere il confronto politico e sociale con le assai più organiche forze guidate dallo stato piemontese. [14241] La guerra franco-prussiana trova le proprie premesse nell’azione politico-diplomatica di Bismarck, che fin dalla guerra austro-prussiana del 1866 e dalla crisi del Lussemburgo del 1867 si era convinto di poter compiere l’unità tedesca sotto l’egemonia della Prussia solo mediante una vittoria militare sulla Francia. Si adoperò pertanto a scegliere il momento per provocare la Francia a dichiarare la guerra. La candidatura del principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen al trono di Spagna, invisa alla Francia, offrì a Bismarck l’occasione del telegramma di Ems, che ebbe l’effetto desiderato (dichiarazione di guerra francese del 19 luglio 1870). La Francia, militarmente impreparata di fronte all’esercito prussiano e agli altri stati tedeschi, si trovò così coinvolta nel conflitto, al quale neppure diplomaticamente, con un opportuno gioco di alleanze, si era preparata. Infatti, né l’Austria-Ungheria, né l’Inghilterra, né l’Italia, né la Russia intervennero al suo fianco. L’intempestiva dichiarazione di guerra e gli errori della politica estera francese negli anni precedenti costituirono quindi le ragioni fondamentali della sconfitta, che segnò la fine del Secondo Impero. Dalla sconfitta maturò quel moto rivoluzionario passato alla storia come Comune di Parigi: un’esperienza di governo che sarebbe rimasta al centro delle riflessioni e dei dibattiti del movimento operaio e socialista fino a buona parte del Novecento. Operazioni militari. - La dichiarazione di guerra francese alla Prussia fu subito seguita dall’intervento dei governi alleati di Baviera, di Sassonia e del Württemberg. Il 24 luglio ebbe inizio fra il Reno e la Mosella la radunata delle truppe tedesche, sotto il comando del gen. Moltke. Il 1° agosto, 800.000 uomini erano già mobilitati; mentre in Francia, per l’inefficienza dei servizi logistici, si trovarono riuniti solo 300.000 uomini, raggruppati nelle due armate dell’Alsazia e della Lorena, alle dipendenze dei marescialli Mac Mahon e Bazaine. Dopo un primo successo dei Francesi a Saarbrücken (1° agosto), Moltke puntò direttamente oltre la Lauter nell’Alsazia del nord, dove, dopo un primo successo su Mac Mahon, lo batté il 6 agosto presso Woerth. Il Mac Mahon per non correre il rischio di rimanere isolato dal gruppo di Bazaine diresse i suoi tre corpi d’armata per Nancy fino a Châlons-sur-Marne dove, insieme al 12° corpo d’armata di nuova formazione, costituì l’armata di Châlons. Intanto, il 6 agosto, il generale Moltke impegnava i Francesi disseminati nel nord della Lorena, agli ordini del maresciallo Bazaine, che a Forbach-Spicheren fu irrimediabilmente battuto. Dinanzi alla nuova situazione Napoleone III decise il ripiegamento sul campo trincerato di Metz che, essendosi nel frattempo la 1ª armata tedesca portata sul corso medio inferiore della Nied, rimase virtualmente accerchiato; di qui, il 12 agosto, il nuovo ordine di Napoleone III a Bazaine di portarsi lungo la direttrice seguita da Mac Mahon nella sua marcia verso Châlons. Se non che il Bazaine, dal 12 agosto capo supremo effettivo delle forze francesi, si attardò intorno a Metz, dove rimase rinchiuso, dopo una serie di battaglie d’investimento, tutte perdute: Borny, Gravelotte, Saint-Privat, Rezonville (12-18 agosto). Malgrado lo sforzo di Canrobert per soccorrerlo, la ritirata rimase tagliata al Bazaine. Così si concludeva con risultati rovinosi la prima fase della guerra. Il piano strategico deciso da Napoleone III contemplava il ripiegamento in direzione di Parigi dell’armata di Châlons, per proteggere la capitale; ma l’opposizione dell’imperatrice Eugenia e del generale Cousin Montauban, capo del governo (dal 10 agosto), portò a un compromesso. Il Mac Mahon il 22 agosto puntava decisamente su Parigi. Intanto il Moltke muoveva con la 3ª armata verso Sedan. Un ordine del consiglio dei ministri frattanto imponeva a Mac Mahon di tentare di sbloccare Metz. Nonostante il successo tedesco di Beaumont (30 agosto) la Mosa fu oltrepassata dal grosso dell’armata di Châlons fra Mouzon e Remilly (31 agosto); ma questa era in tali condizioni che Mac Mahon tornò di nuovo al suo piano di ripiegare su Parigi, prendendo la via di Mézières. Il Moltke intanto spingeva a oriente e a occidente la 4ª e la 3ª armata, rispettivamente, sinché all’alba del 1° settembre Napoleone III e Mac Mahon erano accerchiati al completo. La battaglia di Sedan, che durò circa una giornata e mezza, fu pregiudicata per i Francesi anche dalla perdita, verificatasi all’inizio del combattimento, del comandante Mac Mahon (sostituito dal gen. E. F. Wimpffen); l’armata francese, serrata progressivamente su spazio sempre più ristretto dal fuoco delle artiglierie nemiche, si vide costretta alla resa. Alla notizia del disastro di Sedan, a Parigi scoppiò la rivoluzione: fu proclamata la caduta del regime imperiale, l’imperatrice Eugenia fu costretta a fuggire, mentre un governo di “difesa nazionale” assumeva il potere. Entrambi gli avversari si diressero verso Parigi: i Tedeschi con la 3ª e la 4ª armata, mentre i Francesi venivano raccogliendo nuove forze e organizzando nuovi eserciti per liberarla dall’assedio. A fine settembre Parigi era chiusa da un anello di forze tedesche distribuito intorno alla linea dei forti del campo trincerato. Dovevano trascorrere quattro mesi circa perché il governo di L. Gambetta riuscisse ad approntare mezzo milione di nuovi effettivi. Intanto cadevano in mano tedesca Strasburgo (28 settembre 1870) e Metz (27 ottobre). L’eroica resistenza dei Francesi all’invasore, tecnicamente e materialmente ad essi superiore, giustificò la frase coniata dal loro patriottismo del glorieux vaincu. Dalla fine di settembre a quella di ottobre, i due avversari furono occupati, in un primo periodo, l’uno a organizzare linee d’investimento, l’altro a dar vita alle nuove armate francesi di provincia. Nel secondo periodo (dalla fine di ottobre alla fine del 1870) si susseguirono infruttuosamente i tentativi francesi di infrangere il blocco tedesco di Parigi con sortite dal campo trincerato e attacchi in campo aperto, ad opera delle armate della Loira e del Nord. In un terzo periodo (dai primi di gennaio al 28, firma dell’armistizio), il comando tedesco, mentre perseguiva le armate repubblicane, imprimeva un nuovo vigore alle operazioni di assedio, iniziando il bombardamento della città vera e propria. Fallito l’ultimo tentativo di liberazione di Parigi con la sortita della guarnigione in direzione di Versailles (19 gennaio), i generali L.-J. Trochu e G. Vinoy firmavano il 28 la capitolazione. Mentre si svolgevano le operazioni di assedio contro il campo di Parigi, entravano in campo nelle province le armate nazionali, raggruppate nelle tre armate della Loira, del Nord, dell’Est. L’azione più importante perseguita dall’armata della Loira fu l’offensiva intrapresa il 22 novembre 1870 in direzione di Fontainebleau; ma il 2 dicembre l’armata fu battuta, sicché i Tedeschi, il 5, rientrarono in Orléans, liberata dai repubblicani l’8 novembre Sotto il comando di A. Chanzy, l’armata della Loira attaccata da ingenti forze tedesche era poi costretta a passare dalla foresta di Marchenoir al campo trincerato di Le Mans, di dove l’11-12 gennaio 1871 lo Chanzy, battuto, ripiegò sulla Sarthe e di qui si diresse a occidente, in Mayenne, per rinvigorire la sua armata e avanzare in direzione di Parigi, quando si ebbe la notizia della conclusione dell’armistizio. Senza alcun collegamento con la guarnigione della capitale e con l’armata della Loira, operò l’armata del Nord, che compì le sue migliori gesta col gen. L. Faidherbe, il “Senegalese”, che il 16 dicembre 1870 obbligava i Tedeschi a sgomberare Amiens; ma il Manteuffel il 23 riprendeva la città e quindi costringeva il nemico, dopo la battaglia dell’Hallue (combattuta nello stesso giorno), a riparare dietro la Scarpe. Quanto all’armata dell’Est (o dei Vosgi), soltanto dopo la caduta di Metz (27 ottobre) fu in grado di operare con efficacia contro il corpo del generale Werder, alle prese con l’assedio della capitale lorenese. Ma dopo il 27 ottobre, Moltke concesse importanti effettivi a Werder, che tenne in scacco l’armata, nonostante alcuni successi dei Garibaldini; il compito del Werder fu facilitato dal fatto che il Gambetta ai primi di novembre chiamava con tutti i suoi effettivi il gen. Crouzat, capo dell’armata dei Vosgi, a operare a sud di Parigi, insieme all’armata della Loira, per sostenere le sortite parigine. Se dopo Beaune-la-Rolande (28 novembre), si sperò nella congiunzione, i combattimenti di Champigny (30 novembre - 2 dicembre) tolsero ogni probabilità di sbloccare la capitale. Allora la “guerra a oltranza” del Gambetta prese un’altra direzione per liberare Parigi e battere i Prussiani, quella di una diversione verso l’est al fine di salvare Belfort (assediata dalla fine di ottobre), sollevare le province alle spalle dell’esercito tedesco, costringere il Moltke a diminuire la pressione su Parigi e riprendere l’offensiva verso la Germania meridionale. Il fallimento dell’offensiva, dovuto soprattutto alle deficienze organizzative e tecniche dell’armata dei Vosgi, convinse il Gambetta, il 20 dicembre, a trasferire la 1ª armata del complesso della Loira all’est, dove il Bourbaki si trovò a capo, a fine dicembre, di una rinnovata e rafforzata armata dell’Est di 150.000 uomini. Tuttavia, dopo il successo iniziale di Villersexel (9 gennaio 1871), il gen. Bourbaki fu battuto dal Werder, ritiratosi sulla Lisaine, a protezione diretta del fronte d’investimento di Belfort, presso Héricourt (15-17 gennaio). Il Bourbaki allora, saputo che il Manteuffel (succeduto nel comando del settore orientale al Werder) stava sopraggiungendo con forze imponenti, al fine di evitare la catastrofe, si ritirò dalla Lisaine a Besançon, dove per la fame, il freddo e la preponderanza del nemico i Francesi furono minacciati d’accerchiamento. Il Bourbaki tentò di uccidersi e il successore, il gen. Clinchant, riuscì, dopo il 26 gennaio, a evitare la catastrofe solo sconfinando in Svizzera, dove cedé le armi. Il successo riportato da Garibaldi, accorso fin dall’ottobre 1870 con i suoi volontari in difesa della Francia, nel combattimento di Digione del 23 gennaio non poteva pertanto influire in alcun modo, a favore dei Francesi, sull’andamento generale delle operazioni. Poiché, intanto, l’animoso Chanzy era stato battuto definitivamente a Le Mans (11-12 gennaio), e L. Faidherbe a San Quintino (19 gennaio), anche la guerra popolare repubblicana si concludeva con la sconfitta. Le trattative d’armistizio, cominciate il 15 settembre tra Jules Favre e il Bismarck, si conclusero il 28 gennaio. Delineatasi l’impossibilità di un successo francese, anche parziale, e dimessosi l’intransigente Gambetta (6 febbraio), l’armistizio fu esteso a tutta la Francia (15 febbraio) e successivamente rinnovato, fino a quando le trattative di pace, iniziatesi formalmente il 21 febbraio a Versailles, non si conclusero col trattato di Francoforte del 10 maggio 1871. La Comune di Parigi. - Sorta dalla sollevazione del popolo parigino il 18 marzo, contro il governo di Thiers, in un tentativo estremo di non piegarsi alle condizioni imposte dalla Prussia vincitrice alla Francia, la Comune fu successivamente ispirata nella sua azione di governo (organizzazione del credito, instaurazione di cooperative industriali, ecc.) a principi socialisti, e più particolarmente proudhoniani. La partecipazione e l’influsso dei gruppi aderenti all’Internazionale furono invece scarsi, anche se successivamente K. Marx esaltò il movimento come prima concreta presa del potere da parte della classe operaia. Il Thiers, rifugiato col governo legale a Versailles, scatenò una repressione di inaudita ferocia: ventimila tra i rivoltosi morirono nel corso della lotta o furono fucilati, e i tribunali decretarono migliaia di condanne e deportazioni (settimana di sangue fu detta la settimana dal 21 al 28 maggio 1871). [14251] Convocato per la revisione del trattato di Santo Stefano del 3 marzo 1878, col quale la Russia escludeva quasi del tutto la Turchia dai Balcani, il Congresso di Berlino durò dal 13 giugno al 13 luglio 1878. Con esso Bismarck riuscì a evitare una più vasta crisi internazionale determinata dall’irritazione dell’Inghilterra e dell’Austria contro l’estendersi dell’influenza russa nei Balcani. Il Congresso costituì la Bulgaria in principato autonomo; creò la provincia autonoma della Rumelia orientale; affidò l’amministrazione della Bosnia-Erzegovina all’Austria con diritto di guarnigione nel sangiaccato di Novi Pazar; riconobbe l’indipendenza del Montenegro, della Serbia e della Romania (che ebbe una parte della Dobrugia e cedette la Bessarabia alla Russia); consentì la cessione alla Russia dei territori di Kars, Ardahan e Batum (mentre l’Inghilterra ottenne dalla Turchia di occupare e amministrare Cipro). Il Congresso di Berlino, nell’annullare i vantaggi conseguiti dalla Russia a Santo Stefano, segnò la più vasta sistemazione dei problemi balcanici sino allora avutasi, mentre dietro le quinte affiorarono altre questioni come quella dell’Egitto (verso cui Bismarck incoraggiò l’Inghilterra) e della Tunisia, per la quale l’Inghilterra diede via libera alla Francia mentre Bismarck sottolineò il suo disinteresse ma incoraggiando contemporaneamente le aspirazioni italiane. Si creavano così le premesse della crisi italo-francese del 1882 e del sorgere della Triplice. Il congresso di Berlino diede vita a un equilibrio austro-russo, ma incrinò la secolare cooperazione fra la Prussia (poi Germania) e la Russia, aprendo la strada all’alleanza franco-russa (1891). [14261] Protagonista della nascita del Secondo Reich – sorto per iniziativa tutta dall’alto della Prussia con la definitiva soluzione a suo favore del dualismo con l’Austria –, il cancelliere tedesco Ottone von Bismarck (1815-1898, cancelliere federale dal 1871 al 1890) fondò essenzialmente il proprio potere sul sostegno della casta militare. Dopo la proclamazione del nuovo impero germanico – avvenuta a Versailles al seguito della vittoria contro la Francia – Bismarck era all’apice della sua potenza. La gestione bismarckiana mirò a consolidare il predominio di Junker e casta militare, con attenzione agli interessi della grande borghesia in ascesa, e a garantire al Reich una politica di sicurezza con l’appoggio della Russia e dell’Austria-Ungheria parallelamente all’isolamento della Francia. Bismarck ingaggiò una dura lotta contro le forze interne che si opponevano al centralismo prussiano (il Zentrumpartei cattolico) o che, come la socialdemocrazia in pieno sviluppo, si ponevano in antagonismo all’ordine politico e sociale esistente. Sul primo versante il Kulturkampf (1871-76) lo mise in urto non soltanto con il clero cattolico ma direttamente con Pio IX e la Chiesa di Roma; Bismarck pose termine ai suoi attacchi solo quando realizzò di potere ottenere l’appoggio dei cattolici in chiave conservatrice per fare fronte alla minaccia della socialdemocrazia. Le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio furono messe al bando con la legge antisocialista del 1878. Ma come nel caso dei cattolici, che dalla persecuzione trassero motivo di maggiore coesione, così nel caso del movimento operaio la legislazione repressiva non valse a frenare una crescita che era legata allo sviluppo industriale del Reich. Maggiore successo ebbe, nel frenare l’ascesa socialdemocratica, lo sviluppo precoce di una legislazione sociale (a cominciare nel 1881 dall’assicurazione sugli infortuni) precorritrice del moderno stato sociale. L’unità del blocco di potere di Junker e casta militare fu assicurata dalla forte politica protezionista e dalla decisione con cui Bismarck sostenne, anche di fronte al Reichstag, le leggi sull’ordinamento militare e gli stanziamenti militari. In politica estera Bismarck si prefisse come scopo fondamentale il mantenimento dello statu quo e l’opposizione ai conati di rivincita della Francia. Cercò pertanto di richiamare a nuova vita l’alleanza tra le corti monarchiche del Nord (Austria, Prussia, Russia), e si oppose nettamente a ogni restaurazione borbonica in Francia. La Alleanza dei tre imperatori (1872-73) entrò tuttavia in crisi, dopo un primo allentamento nel 1875, con la guerra russo-turca e il congresso di Berlino (1877-78): perciò Bismarck ricorse nel 1879 all’alleanza, diretta e precisa, con l’Austria-Ungheria, che doveva rimanere il caposaldo della politica germanica fino alla prima guerra mondiale. Tuttavia Bismarck, ben lungi dal voler secondare tutte le aspirazioni austriache nei Balcani e dal desiderare l’urto fra Austria e Russia, cercò costantemente di mantenere l’accordo anche fra Vienna e Pietroburgo: giunse (giugno 1881) a stipulare un trattato di alleanza fra Germania, Austria e Russia e riuscì, fino al 1885, a mantenere di fatto i buoni rapporti fra le tre potenze. La stipulazione della Triplice Alleanza, nel 1882, fra Germania, Italia e Austria-Ungheria, completava questo sistema, che lasciava la Francia isolata in Europa. Ma la crisi bulgara del 1886, l’urto presto conseguitone fra Russia e Austria, minacciarono alla base tutto il sistema. Bismarck rimediò, sia contraendo con la Russia il trattato di “controassicurazione” (1887), sia dando maggior valore alla Triplice Alleanza e, con ciò, rafforzando in essa la posizione dell’Italia (primo rinnovo della Triplice, 1887). In campo internazionale, dunque, grazie al Bismarck, la Germania riuscì in quegli anni ad affermare il proprio predominio politico e diplomatico in Europa con una politica costantemente rivolta al mantenimento della pace. Inizialmente contrario ad avventure coloniali, Bismarck fu anche protagonista del tardivo ingresso dell’Impero germanico nella gara coloniale, sotto la pressione dei circoli più imperialistici. Uscì di scena il 20 marzo 1890, di fronte all’incipiente crisi del blocco di potere e all’ambizione del nuovo Kaiser Guglielmo II (che era successo al breve regno di Federico III nel 1888), disturbato dalla presenza di una personalità ingombrante come il Bismarck, inviso ormai anche agli oltranzisti dello schieramento conservatore. Il nuovo cancelliere G. L. Caprivi sembrò inaugurare un “nuovo corso”, più attento in particolare agli interessi della borghesia, rivolti all’alleggerimento della protezione doganale, che ostacolava fra l’altro lo sviluppo di buoni rapporti con la Russia. Ma a partire dal 1895 la politica del Reich fu fortemente determinata dal blocco conservatore e militarista, e soprattutto dal regime personale di Guglielmo II, protagonista di iniziative spettacolari soprattutto sul terreno della politica estera. [14271] Nel 1870, pochi giorni dopo la sconfitta di Sedan (2 settembre 1870) nella guerra franco-prussiana e la cattura di Napoleone III, a Parigi, erano proclamate la Terza Repubblica e la costituzione di un governo provvisorio di difesa nazionale. Le gravi condizioni di pace subite dopo la sconfitta e la sanguinosa repressione della Comune di Parigi del 1871 dettero alla nuova Repubblica un carattere inequivocabilmente conservatore; lo stato trovava una definizione costituzionale solo nel 1875 con appena un voto di maggioranza e si sarebbe dovuto attendere il 1879 per vederlo consolidato, dopo il fallito colpo di stato legale di M.-E.-P. MacMahon. Pur tenendo sempre presenti l’Alsazia e la Lorena perdute, la politica francese di questo periodo seppe rinunciare al miraggio di una “rivincita” immediata; consolidò invece la posizione internazionale del paese con un’abile e fortunata politica coloniale (protettorato sulla Tunisia nel 1881, occupazione dell’Indocina e di Gibuti nel 1881-1885) e di questa riaffermata posizione raccolse presto i frutti in sede europea, spezzando l’isolamento nel quale Bismarck l’aveva posta, e annodando la Duplice Alleanza con la Russia (intesa generica nel 1891, alleanza formale nel 1893). La politica coloniale francese, sempre più intensa in Africa, costituiva un’incognita pericolosa per l’ostilità inglese che suscitava, e l’incidente di Fashoda del 1898 fu sul punto di far scoppiare una guerra tra la Francia e la Gran Bretagna; tuttavia fin dal 1899 si assisté a una distensione nei rapporti franco-britannici e nel 1904 si giunse all’Intesa cordiale, mentre il trattato commerciale del 1898 e gli accordi mediterranei del 1900 e 1902 sancirono un miglioramento dei rapporti italo-francesi. Più stentata fu invece la ripresa della vita politica interna francese. Legittimisti, monarchici costituzionali e bonapartisti minarono la Terza Repubblica nei suoi primi anni di vita; fu necessario superare le gravi crisi del boulangismo (1887-89), dello scandalo della Compagnia per il taglio dell’istmo di Panama (1892) e, soprattutto, la crisi provocata dall’ingiusta condanna del capitano Dreyfus, prima che la Terza Repubblica potesse superare il pericolo di un’involuzione clericale e dittatoriale, e porre le premesse di uno sviluppo democratico borghese. Solo attraverso una lunga campagna in favore di Dreyfus, che per l’ostinazione dei circoli clericali provocò di rimbalzo un periodo di acceso anticlericalismo, la politica francese incominciò a svolgersi entro il normale binario parlamentare. Le stesse forze operaie, riemerse dal lungo esilio cui le aveva condannate il fallimento della Comune, preferirono alla tradizione montagnarda-blanquista dell’insurrezione armata quella marxista di un partito socialista legale (scisso però tra il richiamo operaistico di J. Guesde e quello democratico-socialista di J. Jaurès; più tardi si aggiungerà il sindacalismo di G. Sorel). Intanto, i ripetuti tentativi tedeschi di paralizzare l’azione francese in Marocco (sbarco di Gugliemo II a Tangeri, 1905; colpo di Agadir, 1911) aggravarono i rapporti franco-tedeschi, nonostante le apparenti provvisorie sistemazioni (conferenza di Algeciras del 1906; accordo franco-tedesco dell’autunno 1911, che lasciava alla Francia il Marocco, in cambio della cessione d’una parte del Congo francese alla Germania). Il dissidio creato dalla questione dell’Alsazia-Lorena era incolmabile, e ciò spiega come, nel 1914, una volta scoppiata la prima guerra mondiale, la Francia nulla abbia fatto per diminuirne la portata. [14281] “Età vittoriana”, così è stato spesso definito quel periodo della storia della Gran Bretagna segnato da Vittoria (Kensington 1819 - Osborne House, isola di Wight, 1901), regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, imperatrice delle Indie. In realtà sarebbe forse più opportuno parlare di “età liberale”, per sottolineare l’aspetto caratterizzante dello sviluppo economico e della vita politica britannici durante il lungo regno dell’imperatrice Vittoria. Questo periodo fu infatti caratterizzato dall’ascesa della borghesia industriale e dall’espansione oltremare, ma anche da cospicui movimenti intellettuali e letterari. Appena diciottenne (1837) Vittoria ebbe la successione dello zio Guglielmo IV (con l’avvento di Vittoria la corona d’Inghilterra si separò da quella di Hannover, passata al duca di Cumberland), in un periodo di trasformazione sociale e politica. La riforma elettorale (1830-32) aveva aperto le porte del parlamento ai ceti industriali e commerciali, segnando la fine del predominio della grande aristocrazia terriera; si era agli inizi delle agitazioni irlandesi di O’Connel, e del movimento cartista; si era alla prima fase della campagna liberista e ai primi esperimenti di riforme sociali. Delicata era anche la situazione della monarchia, il cui prestigio era alquanto scosso dagli scandali del regno di Giorgio IV, sì che affioravano non trascurabili tendenze repubblicane. Vittoria seppe imporre la propria autorità, e presto, sotto la guida del primo ministro lord Melbourne, giunse a impadronirsi perfettamente dei suoi compiti di regina. Il decoro della vita privata (aveva sposato nel 1840 il principe Alberto di Sassonia-Coburgo) fece della corte vittoriana un modello di rispettabilità, esercitando grande influsso sulle idee morali dell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento. Particolare influenza il principe Alberto esercitò anche sulla politica estera, soprattutto negli affari italiani (nei quali ebbero un certo peso le parentele austriache di Alberto); Vittoria appoggiò decisamente la politica austrofila durante la guerra del 1859, disapprovò le annessioni sarde, entrando anche in contrasto con Palmerston, che aveva appoggiato la spedizione di Garibaldi. In politica interna, le simpatie di Vittoria andarono soprattutto ai conservatori, e il suo ministro prediletto fu Disraeli (per Gladstone nutriva una profonda diffidenza). Con Disraeli (1874-80) ebbe inizio l’ultima grande fase dell’imperialismo inglese, culminata con l’acquisto dell’isola di Cipro, l’insediamento in Egitto e in Afghanistan, l’occupazione di vastissimi territori africani, la guerra contro i Boeri. Nel 1876, Vittoria assunse il titolo di imperatrice delle Indie. I grandiosi successi di quest’ultimo periodo del regno, sostenuti dal formidabile sviluppo economico, innalzarono la personalità di Vittoria agli occhi del popolo inglese all’altezza della grande Elisabetta. [14291] Dalla guerra franco-prussiana e dal Congresso di Berlino era nata una nuova Europa. Non solo i lineamenti geopolitici del continente si erano modificati, ma anche i rapporti sociali ed economici interni ai vari paesi e, più complessivamente, le relazioni tra le potenze europee e tra queste e il resto del mondo. Le trasformazioni economiche e sociali prodotte dalla rivoluzione industriale (estesasi alla fine del secolo nei paesi scandinavi, in Svizzera, in Italia, in Russia, in molte parti dell’Austria-Ungheria e della Penisola Iberica, benché in varia misura e intensità) furono accompagnate da invenzioni e scoperte che nel giro di poco più di mezzo secolo mutarono in maniera radicale modi e livelli di vita e mentalità e comportamenti. Ferrovie e navigazione a vapore, fotografia e cinema, luce ed energia elettrica, automobile e aeroplano, telefono e radio si affermarono ovunque, tra il 1850 e il 1920, provocando una rivoluzione socio-culturale ancora più forte di quella economica e sociale. L’Europa fu allora di gran lunga più di quanto fosse mai stata il centro mondiale egemone. In base ad accordi definiti a Berlino, i vari paesi europei estesero i loro imperi coloniali o ne fondarono di nuovi. L’intera Africa (tranne l’Etiopia, che si difese vittoriosamente contro l’Italia nel 1896, e la Liberia) fu spartita fra loro; la Cina fu ridotta in uno stato di semidipendenza; i paesi latinoamericani trovarono una ragione di prosperità solo rendendo le loro economie strettamente complementari a quella europea. Il progresso materiale fu accompagnato da un lungo periodo di pace, alla quale finì col giovare il formarsi di una alleanza franco-russa (1890) in opposizione alla Triplice italo-austro-germanica (1882). Enorme fu pure l’incremento demografico. Ancor più sensibile fu, a sua volta, il mutamento culturale, con l’avvento di tendenze materialistiche e positivistiche in appariscente sintonia con i trionfi inauditi della tecnica e della scienza. Fu dovuta anche a questa filosofia la certezza che l’Europa rappresentasse la punta avanzata e, insieme, l’antesignana di un passaggio obbligato per tutta l’umanità. L’imperialismo si congiunse alla sottolineatura del “fardello dell’uomo bianco” nel conquistare per sé e quindi nel propagare la civiltà: altro concetto che, con quelli di storia e di progresso, di ragione e di umanità, contraddistingueva il pensiero del tempo. L’intervento collettivo delle grandi potenze in Cina per la rivolta dei boxer nel 1900 espresse appieno la radicata e diffusa convinzione della centralità europea nella storia del mondo. Politicamente l’epoca portò, oltre quello di una lunga pace, il segno di un’ampia confluenza di liberalismo e democrazia, di una prima affermazione di partiti socialisti e di un graduale riconoscimento di istanze da essi sostenute. Nello stesso tempo anche le Chiese, e soprattutto quella cattolica, cominciarono a portare una maggiore attenzione alle idee e alle questioni che si ponevano nella vita politica e sociale del tempo con così grande rilievo e urgenza. Nel 1864 era stata fondata a Londra una Associazione internazionale dei lavoratori, dove Marx riuscì a far prevalere le sue idee contro altre ispirazioni, quali quelle di Mazzini. Esauritosi rapidamente lo slancio di questa iniziativa, ne fu avviata una seconda nel 1889. I partiti socialisti si affermarono fortemente nei parlamenti di Gran Bretagna, Germania, Austria-Ungheria, Francia, Italia. Parallela fu la diffusione di grandi movimenti sindacali e di organizzazioni cooperativistiche e assistenziali. Nel 1891 l’enciclica di papa Leone XIII Rerum novarum precisò, a sua volta, il campo e i criteri direttivi dell’impegno sociale, oltre che politico, dei cattolici. Furono, tuttavia, le forze democratiche e liberali a dominare il campo, consentendo allora una serie di riforme politiche (culminanti in generale nel suffragio universale), amministrative (a livello di garanzie giudiziarie e nell’ambito dei governi municipali), sociali (edilizia popolare, assicurazioni e previdenza, diritto di associazione sindacale e di sciopero), culturali (istruzione obbligatoria, potenziamento delle università). La spinta comune fu a una generale democratizzazione della vita politica e sociale e a una prima affermazione della piccola borghesia connessa all’emergere della nuova società industriale come giuntura fondamentale di questa società. Anche in paesi come Germania e Austria-Ungheria il parlamento acquistò maggior peso. In Russia l’autocrazia zarista andò anch’essa verso una riforma politica con concessioni che culminarono nella convocazione della Duma. Sotto la luce splendente dell’egemonia mondiale e del progresso in atto si celavano, tuttavia, e a tratti apparivano, problemi e crepe di non lieve peso. Nella vita economica crisi periodiche e profonde (1873, 1893, 1907) ricordavano che l’ormai maturo capitalismo e la sua logica del mercato erano ben lontani dall’assicurare le prospettive di uno sviluppo tranquillo e fatale. Né l’economia industriale si rivelava in grado di assicurare lavoro e redditi sufficienti alla crescente popolazione e a quella che veniva disoccupata dal progresso tecnico. Nella seconda metà del secolo 19° da tutto il continente (meno qualche paese come la Francia, che aveva raggiunto condizioni di sostanziale stabilità demografica già dai primi anni post-napoleonici) partì verso il Nuovo Mondo un’emigrazione torrenziale. Il mito dell’America come paese della fortuna si affermò in tutta l’Europa. Le strutture politiche e le politiche sociali non riuscivano ad assorbire e risolvere per intero il dissenso e l’emarginazione di grandi masse. La diffusione del socialismo come ideologia della lotta di classe corrispondeva a uno stato di esasperazione presente pressoché ovunque. Ne fu anche espressione una tendenza anarchica che mise particolarmente piede in alcuni paesi (Russia, Italia, Spagna). All’interno dei vari paesi sussistevano sacche di depressione territoriale e settoriale che accrescevano le ragioni di conflitto e imponevano alle classi di governo un controllo della disciplina sociale destinato a provocare crisi dagli sviluppi non sempre prevedibili. Ma non tanto da tutto ciò quanto, piuttosto, dai contrasti fra le grandi potenze venne fuori la miscela esplosiva su cui si infransero l’ordine e la pace di quel mondo. Nonostante tutto, e sia pure attraverso difficoltà e contraddizioni, liberalismo e democrazia mostravano una complessiva capacità di assicurare alla lunga un quadro di risoluzione dei grandi problemi morali e materiali, sociali ed economici dell’epoca. Le gare di potenza vennero, invece, mostrando di non potere e non saper seguire che una logica di tempi assai stretti inconciliabile coi tempi lunghi degli sviluppi sociali. E ciò mentre anche su questo piano l’emergere degli Stati Uniti e del Giappone come grandi potenze economiche e militari (i primi batterono la Spagna nel 1898 e il secondo la Russia nel 1905) mostrava che l’egemonia mondiale dell’Europa non era più incontrastata. Alla fine le tensioni tra le potenze europee avrebbero portato, nel 1914, alla prima guerra mondiale. [142101] Alla fine dell’Ottocento i vecchi imperi zarista e ottomano sembravano fortemente indeboliti. Era soprattutto la grande compagine ottomana a mostrare segni di crisi ormai evidenti e inarrestabili. Nei primi decenni del 19° secolo, sultani energici come Selim III (1789-1807) e soprattutto Mahmud II (1808-39) tentarono di porvi riparo con organiche riforme soprattutto militari (sterminio e soppressione nel 1826 dei turbolenti giannizzeri), ma non riuscirono a impedire l’ulteriore disintegrarsi dell’impero (insurrezione greca del 1821, con susseguente distacco della Grecia dopo l’intervento europeo a Navarino, 1827; indipendenza effettiva dell’Egitto sotto Muhammad `Ali e campagne egiziane sin nel cuore dell’Anatolia; autonomia della Serbia sotto gli Obrenovic, 1830). Accanto alle riforme militari, fu allora tentato un radicale rinnovamento delle strutture statali, per adeguarne le basi agli stati moderni europei. Fu questo il periodo delle cosiddette Tanuemat (“ordinamenti” o “riforme”),: abbandonando i principi del diritto canonico musulmano, tali riforme sancivano l’uguaglianza dei sudditi dinanzi alla legge, indipendentemente dalla confessione religiosa, la libertà di coscienza e di culto, l’equa ripartizione delle imposte, mentre si istituivano tribunali civili e penali distinti da quelli religiosi. Ma neppure tali riforme valsero ad arrestare la decadenza interna e internazionale dello stato ottomano, nonostante l’interessato intervento in suo aiuto delle potenze europee (guerra di Crimea, 1853-56). Si fece allora più vivace il moto riformatore volto a ottenere una costituzione di tipo prettamente europeo. Questa, largita nel 1876 da `Abd ul-Hamid II (1876-1909), fu subito revocata dallo stesso sultano, che instaurò un regime reazionario e poliziesco. La seconda guerra russo-turca (1877-78) diede frattanto, con le decisioni del Congresso di Berlino, un colpo decisivo al dominio turco in Europa, con la creazione degli stati indipendenti di Serbia e Romania e di quello autonomo di Bulgaria. L’ultimo tentativo di superare la crisi entro l’antico quadro dell’impero plurinazionale fu la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, che depose `Abd ul-Hamid (1909), inaugurando un regime costituzionale sotto Maometto V (1909-18), presto evolutosi, per le difficoltà nella politica estera, in senso autoritario. Ma il processo di disintegrazione continuò e giunse a conclusione con la prima guerra mondiale e la nascita del nuovo stato turco. Nell’impero zarista, il regno di Nicola I (1825-55), apertosi con l’insurrezione decabrista, fu caratterizzato da una dura repressione interna, cui contribuì la creazione, nell’ambito della cancelleria privata dello zar, di una sezione destinata a compiti di polizia segreta (1826); sul piano economico, ebbe inizio una fase di crescita e di modernizzazione, stimolata dall’introduzione di una tariffa doganale protezionistica (1822) e dall’aumento delle esportazioni. Si cominciò a sviluppare una borghesia imprenditoriale e commerciale, mentre le questioni dell’abolizione della servitù della gleba e di una trasformazione dell’autocrazia in una monarchia costituzionale acquisivano sempre maggior rilievo nel dibattito politico e culturale. Sorsero in quegli anni i primi gruppi rivoluzionari che, richiamandosi all’esperienza dei decabristi, posero le basi per il successivo sviluppo del movimento populista, mentre le campagne continuavano a essere teatro di agitazioni contadine. Oltre a varare alcune riforme, lo zar Alessandro II (1855-81) promulgò, nel 1861, lo “statuto dei contadini liberati dalla servitù”. L’affrancamento fu accompagnato dall’assegnazione di un lotto di terra, soggetto a riscatto da parte del contadino, il cui ammontare venne anticipato dallo stato. Il pesante indebitamento connesso con il riscatto degli appezzamenti (spesso costituiti dai terreni peggiori e di dimensioni tali da non garantire la sussistenza) aggravò le condizioni economiche dei contadini, che nella maggior parte dei casi si trovarono costretti a rivendere i lotti ai pochi in grado di acquistarli. Accanto al permanere della grande proprietà terriera, pertanto, si ebbe la nascita di una limitata borghesia contadina, mentre lo sradicamento di una massa di contadini poveri o senza terra alimentava la formazione del proletariato urbano. Sotto Alessandro III (1881-94) e il successore Nicola II l’afflusso di investimenti e di prestiti esteri (specialmente francesi) contribuì a stimolare il processo di industrializzazione, e alla crescita della conflittualità sociale si accompagnò lo sviluppo delle organizzazioni operaie e socialiste. Nel 1905 un’ondata di agitazioni rivoluzionarie costrinse Nicola II ad accettare il principio di una limitazione del potere autocratico: nel 1906 fu così eletto un organismo rappresentativo (la Duma), i cui poteri e la cui rappresentatività vennero tuttavia progressivamente ridotti negli anni successivi; fu inoltre riorganizzato il Consiglio dei ministri (creato nel 1861, ma non più convocato dal 1881), responsabile verso lo zar, mentre veniva abolito il Comitato dei ministri. In campo internazionale, dopo gli sconvolgimenti del periodo napoleonico, il Congresso di Vienna sancì il ruolo di grande potenza ormai raggiunto dalla Russia in Europa; esso segnò anche il culmine dell’espansione a nord-ovest dell’impero zarista, che nel 1809 aveva sottratto alla Svezia la Finlandia e nel 1815 aveva ottenuto il regno di Polonia (teatro di due grandi insurrezioni, nel 1830-31 e nel 1861-63, duramente represse dall’esercito russo). La spinta espansionistica proseguì in Transcaucasia, dove, annessa la Georgia nel 1801, con il trattato di Gulistan (1813) e con quello di Turkmanciai (1828) Mosca ottenne l’Azerbaigian occidentale e l’Armenia orientale. Il confine con l’Impero ottomano continuò a essere teatro di ripetuti conflitti: ottenuta la Bessarabia con la pace di Bucarest (1812), imposta la propria egemonia nella regione con il trattato di Adrianopoli (1829), la Russia subì una pesante sconfitta con la guerra di Crimea (1853-55). Intorno alla metà del secolo Mosca riuscì a imporre il proprio dominio su tutto il Turchestan (all’epoca diviso nei tre khanati di Chiva, Buchara e Kokand). Dopo il 1870 la politica russa si ripresentò attiva nei Balcani, appoggiandosi a un’intensa propaganda panslavista: sconfitta la Turchia nel 1877-78, la Russia acquisì una posizione egemonica nella regione, sancita dal trattato di Santo Stefano (febbraio 1878); il contenuto di questo fu tuttavia fortemente ridimensionato in seguito all’intervento diplomatico delle altre potenze europee, sfociato nel Congresso di Berlino (giugno-luglio 1878). Riavvicinatasi agli Imperi centrali, la Russia se ne allontanò verso il 1891, quando strinse un’alleanza con la Francia; impegnatasi in seguito in una politica attiva in Estremo Oriente, fu sconfitta dal Giappone nel corso del conflitto (1904-05) per il controllo del Pacifico settentrionale. Dopo gli accordi del 1907 con la Gran Bretagna per la delimitazione delle rispettive zone di influenza in Persia e in Afghanistan, la Russia rivolse nuovamente la propria attenzione verso i Balcani, dove (subita l’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina nel 1908) promosse la Lega Balcanica del 1912, vittoriosa nel conflitto con la Turchia. Lo scoppio della prima guerra mondiale colse la Russia impreparata sul piano militare, ma inserita nel sistema di alleanze dell’Intesa e animata dalla volontà di realizzare antichi obiettivi dell’imperialismo zarista (Costantinopoli e gli Stretti). Impegnata sul fronte principale della Galizia e su quelli secondari della Prussia Orientale e dell’Asia Minore, la Russia si trovò in serie difficoltà dopo il fallimento dell’offensiva di A. A. Brusilov nell’estate 1916: le sconfitte subite e il logoramento morale e materiale costituirono le immediate premesse della rivoluzione del febbraio 1917 (marzo secondo il calendario gregoriano) che, con l’abdicazione di Nicola II, pose termine al regime zarista. [14311] Storicamente, l’industrializzazione ha rappresentato, per i paesi in cui si è affermata, il passaggio decisivo per la crescita del reddito e degli standard di vita della collettività; tale sviluppo si è infatti accompagnato a mutamenti nella struttura della domanda dei consumi, seguendo in ciò le leggi di Engel: riduzione della quota di domanda per beni di prima necessità e crescita esponenziale di quella per i manufatti industriali e i beni di investimento (indispensabili per accrescere le capacità produttive del sistema). È da osservare che, a partire dalla rivoluzione industriale, l’industrializzazione si è diffusa nel mondo con forme e intensità ineguali, per una serie di circostanze geografiche (diversa distribuzione di risorse naturali e umane), storico-politiche (particolare configurazione dei rapporti economici tra paesi industrializzati e non, a partire dal colonialismo e dall’imperialismo) e tecnologiche (complicarsi dei meccanismi necessari a innescare processi di industrializzazione). La valutazione del grado di industrializzazione per ciascuno stato viene effettuata mediante appositi coefficienti, nei quali si combinano gli indici dell’occupazione e del valore aggiunto industriale pro capite. Ancora oggi, nel gruppo di paesi a elevato grado di industrializzazione rientrano quelli con sistemi industriali a più antico impianto (o comunque notevolmente diversificatisi e sviluppatisi a partire dal secondo dopoguerra): Regno Unito, Germania, Francia, Stati Uniti d’America, Russia, Giappone, Italia, Canada. Seguono, quindi, gli altri paesi dell’Europa occidentale e alcuni dell’Europa orientale (Ungheria e repubblica ceca). Considerata nel suo apporto al valore aggiunto mondiale, l’industrializzazione, dunque, appare come fenomeno decisamente concentrato in queste ristrette aree. [143111] Il duplice fenomeno dell’industrializzazione e dell’urbanesimo (cioè la concentrazione demografica in aree urbane) modificò profondamente il concetto stesso di “città”. Sorsero centri urbani dalle caratteristiche mai precedentemente immaginate. L’edilizia e l’architettura industriale divennero tecniche progressivamente conosciute in tutti i maggiori paesi europei. La necessità di disporre di vasti ambienti, liberi da qualsiasi sostegno intermedio, e dotati di illuminazione naturale elevata e uniforme, così come l’esigenza di prevedere la possibilità di ampliamenti e di prevenire incidenti, insomma le esigenze tecniche e produttive dettarono le nuove regole architettoniche delle città industriali. Città ampiamente descritte da una folta letteratura d’epoca. Ma oltre che problemi di natura tecnica, la progettazione industriale mirava sempre più a risolvere complessi problemi di natura sociale, urbanistica e architettonica. Lo sviluppo della produzione industriale ha condotto infatti alla formazione di nuovi tipi di strutture architettoniche, adeguati alle necessità degli impianti e dei processi meccanici, e determinato la graduale trasformazione dell’opificio, già pensato come semplice “luogo” di lavoro, in un complesso e funzionale strumento, in una sorta di gigantesca e armonica macchina. Di qui la necessità di distribuire gli spazi e di sviluppare le strutture secondo una precisa funzione, di sfruttare tutte le possibilità dei nuovi materiali e delle nuove tecniche, di uniformarsi a una rigorosa economia, al fine di ottenere piena unità di forma e funzione. Infatti, se da un lato l’architettura industriale tende a un alto grado di funzionalità, dall’altro mira a raggiungere le migliori condizioni igieniche e ambientali per le maestranze, riunendo così due motivi essenziali del movimento per il rinnovamento dell’architettura: l’interesse per i problemi tecnici e quello per il problema sociale, che fin dal 19° secolo fu affrontato, anche se con un approccio di tipo utopistico (R. Owen, F.-M.-C. Fourier, J.-B.-A. Goudin). Invece le prime costruzioni industriali concepite con l’esplicito intento di trarre dalla distribuzione delle masse e dalla funzionalità delle strutture nuovi valori di composizione architettonica saranno quelle ideate, al principio del secolo 20°, in Germania da P. Behrens (stabilimenti AEG a Berlino, 1910), da H. Poelzig (fabbrica chimica a Luban, 1911-12), da W. Gropius e A. Meyer (stabilimenti Fagus ad Alfeld, 1910-24), da E. Mendelsohn (fabbrica a Luckenwald, 1921-23), e, in Finlandia, da A. Aalto (fabbrica di cellulosa a Sunila, 1936-39). Da allora si sarebbe venuto sempre più sviluppando il concetto che la fabbrica non sia soltanto un perfetto strumento di lavoro, ma il centro di una complessa funzione sociale, tanto da prevedere, oltre alla fabbrica con annessi uffici, anche un quartiere abitativo con i relativi servizi. [143121] A partire dal 19° secolo, in conseguenza della rivoluzione industriale, nei paesi investiti da questo processo di trasformazione rivoluzionaria dell’assetto territoriale e produttivo si verificò il fenomeno del moderno urbanesimo, con forti migrazioni dalle aree rurali, a insediamento estensivo, verso nuclei di concentrazione: le sempre più grandi città. L’industrializzazione, inizialmente, ebbe come fattore di localizzazione vincolante la presenza di giacimenti di materie prime, verso cui si diressero grandi flussi migratori dalle campagne, dando origine ad agglomerazioni urbane monocentriche. Il cuore dell’urbanesimo fu dunque, dapprima l’Europa occidentale (Gran Bretagna, Francia, Germania). Il connesso sviluppo dei trasporti marittimi e terrestri (ferrovie), con la conseguente intensificazione degli scambi, determinò poi l’allargarsi del fenomeno ai paesi che, progressivamente, giungevano allo stadio del decollo industriale, primi fra tutti gli Stati Uniti d’America. Intorno al 1870 si contavano, nel mondo, circa 160 “grandi città” (con più di 100.000 abitanti, ma alcune già oltre il milione: per prime, Londra e Parigi), parte delle quali, però, in aree con differente struttura economica ma in forte espansione demografica (India, Cina). Il culmine si raggiungeva intorno alla metà del secolo 20°, quando le “città milionarie” si avvicinavano al centinaio. In tempi più recenti, la sostituzione del petrolio al carbone come fonte di energia primaria e l’esplosione dell’automobilismo trasformavano, nei paesi avanzati, il modello insediativo della popolazione e delle attività economiche, dando luogo al progressivo decentramento delle residenze e delle unità produttive: dall’urbanesimo, centripeto, si passava così all’urbanizzazione, ovvero alla diffusione delle funzioni urbane sul territorio, con la progressiva perdita di peso demografico, in termini sia relativi che assoluti, da parte delle città “centrali” (fenomeno della controurbanizzazione) e la crescita di quelle medie e piccole. Continuavano a espandersi solo le agglomerazioni del Terzo Mondo, dove la mancata industrializzazione e gli effetti della decolonizzazione esaltavano il ruolo delle capitali politiche, con i loro immensi apparati pubblici e con attività terziarie banali e ripetitive, le quali tuttavia rappresentavano l’unico sbocco per l’imponente esodo rurale. [14321] Sulla spinta dell’industrializzazione e delle nuove esigenze emerse dal processo di sviluppo economico, fu nel mondo anglosassone (l’Inghilterra era stata la culla della prima rivoluzione industriale) che si verificarono i primi tentativi di applicazione delle macchine a vapore ai trasporti fluviali: nel 1802 sul canale Forth-Clyde, nel 1807 sull’Hudson (Albany-New York), nel 1812 sulla Clyde e poi sul Tamigi; la prima traversata dell’Atlantico col sussidio del vapore fu compiuta (1819) dal piroscafo americano Savannah, ancora fornito di vele. Successo più rapido ebbe l’applicazione del vapore alle ferrovie: nel 1825 G. Stephenson inaugurò la prima ferrovia a vapore fra Stockton e Darlington; cinque anni dopo fu aperto all’esercizio il tronco fra Liverpool e Manchester. In Inghilterra le costruzioni ferroviarie, numerose già nel 1840, si moltiplicarono nel decennio successivo, al termine del quale le ferrovie in esercizio raggiungevano complessivamente quasi 11.000 km. Nel 1848, in Francia esse superavano di poco i 1900 km e in Germania i 4800, mentre in Italia toccavano appena i 200. Gli Stati Uniti d’America avanzarono di pari passo con l’Inghilterra. La necessità di istituti di credito che rispondessero prontamente alle esigenze delle grandi imprese favorì l’affermazione di potenti gruppi finanziari che controllavano diverse attività su scala internazionale ed erano impegnati in primo luogo nella corsa alle costruzioni ferroviarie: l’esempio più cospicuo di queste dinastie di banchieri è la famiglia Rotschild, padrona delle ferrovie del Nord e largamente interessata alla Paris-Lyon-Méditerranée. In Germania lo Zollverein (1848) creò le premesse dello sviluppo capitalistico; già in possesso dei giacimenti di carbone (Saar, Alta Slesia e Ruhr), la Prussia acquistò nel 1870, con le miniere di ferro della Lorena, l’altra base dell’industria pesante la cui crescita caratterizzò il decollo industriale tedesco. In Italia il decollo industriale si avviò solo verso la fine dell’Ottocento, agevolato anche dall’intervento statale; favorite inizialmente da alcuni provvedimenti protezionistici, le industrie tessili sorsero intorno al 1880; la produzione italiana subì poi una grave flessione, per riprendere negli ultimi anni del secolo. Nell’impero zarista lo sviluppo industriale iniziò, promosso dallo stato, immediatamente dopo la liberazione dei servi (1861), limitato nei primi tempi al settore tessile, che aveva i suoi centri in Polonia (Lódz), nelle province baltiche e nella regione di Mosca; nei primi anni del secolo 20° si verificò in Russia il decollo dell’industria metallurgica, che nel 1910 impiegava oltre mezzo milione di operai. [143211] Nell’Europa dell’industrializzazione, lo sviluppo delle ferrovie rappresentò uno degli assi portanti del processo di estensione geografica di quella straordinaria trasformazione dei paesaggi – oltre che delle economie, delle società e delle politiche – innescata dalla rivoluzione industriale. La ferrovia è giunta allo stadio attuale di sviluppo traendo origine dal binario, cioè da una sede stradale speciale che consente il trasporto di grossi carichi ad alte velocità col minimo sforzo. Si è poi perfezionata sia nel sistema di trazione (animale in origine, poi meccanico ed infine termomeccanico e/o elettrico), sia nel tracciato (migliorato nelle curve e nelle pendenze e nell’attraversamento di ostacoli naturali, come montagne e corsi d’acqua). La ferrovia è nata, si può dire, nelle miniere inglesi, perfezionando il rudimentale sistema di trasporto del minerale, in atto sin dal secolo 17°, su carrelli che, spinti a forza di braccia o trainati da cavalli, correvano sopra guide parallele o di ferro. Le prime ferrovie con rotaie di ferro, installate all’aperto, furono messe in opera nel 1738 a Whitehaven con il nome di tramways. I primi tentativi di trazione con locomotiva a vapore risalgono agli albori del secolo 19°, in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America. Nel 1802 R. Trevithick per primo impiegò la locomotiva per far correre a Tydfil, in Inghilterra, un treno su strada ferrata. G. Stephenson, “padre della ferrovia” e pioniere della costruzione delle prime linee inglesi, lottò contro le prime opposizioni e perfezionò la locomotiva a vapore: il primo servizio ferroviario fu inaugurato nel 1825 sul tronco Stockton-Darlington, sotto la sua direzione, e fu finanziato da E. Pease. Il primo servizio viaggiatori fu istituito sul tronco Liverpool-Manchester, nel 1830, pure con locomotiva progettata da G. Stephenson, con la quale non si superava la velocità di 20 km/h; i 32 km/h raggiunti nel 1829 dallo stesso Stephenson con la famosa locomotiva “The Rocket”, suscitarono previsioni catastrofiche nel pubblico abituato alle modeste velocità delle carrozze a cavalli. Dalle prime rotaie di ghisa, lunghe qualche metro e poggiate su blocchi di pietra, si giunse a quelle di ferro e poi di acciaio, ottenute come profilati e poggianti su traversine di legno. Dalle prime, piccole locomotive trainanti carri scoperti, usati tanto per i viaggiatori quanto per le merci, si passò a macchine più razionali e più potenti che rimorchiavano carrozze viaggiatori analoghe a quelle a cavalli. In seguito si giunse all’accoppiamento degli assi della locomotiva, per ottenere la massima aderenza alle rotaie e rendere così possibile il rimorchio di treni più pesanti. Alcuni clamorosi incidenti ferroviari non valsero a ritardare il progresso della ferrovia che ben presto, offrendo tariffe più vantaggiose delle diligenze, aprì anche alle classi meno agiate la possibilità di viaggiare. Fino alla metà del secolo 19°, tuttavia, questo sviluppo fu in parte rallentato da una certa diffidenza verso il nuovo mezzo di trasporto, della cui convenienza economica, sicurezza e capacità di adattamento ai traffici si dubitava ancora, preferendo affidare alla via acquea, a canali e a fiumi i traffici più importanti. Il maggiore incremento si ebbe dapprima in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America Nel 1850 la rete mondiale era di 38.600 km, ma nel 1870 salì a 210.000 km, grazie soprattutto all’impiego di grandi capitali, al moltiplicarsi delle iniziative, al perfezionarsi della tecnica e al fondersi, per iniziativa privata, di molte piccole imprese in poderosi organismi destinati a gestire reti di migliaia di km. Nel trentennio successivo, fino agli albori del secolo 20°, iniziò a diminuire l’interesse dei privati per la costruzione e l’esercizio delle ferrovie, dato che problemi finanziari, quelli della concorrenza e delle tariffe e il sorgere di esigenze di carattere militare, per la possibilità di trasportare al fronte di guerra una ingente quantità di uomini e di mezzi in tempi celeri, determinarono un po’ dappertutto un più deciso intervento statale. Solo in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America la rete rimase di proprietà di privati, ma con più attivi controlli finanziari da parte dello stato. Dal 1900 al 1930 la rete mondiale passò da 790.000 a oltre 1.100.000 km e cominciò a diffondersi la trazione elettrica. In Italia, la ferrovia apparve relativamente tardi: il primo tronco di 8 km, da Napoli a Portici, fu inaugurato nel 1839, sotto il regno di Ferdinando II. Il carattere frammentario delle diverse piccole reti sorte, in seguito, nei vari stati italiani rese più difficile l’unificazione della rete nazionale dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Infatti le singole reti dei vari stati collegavano paesi e città di interesse locale, non necessariamente poste sulle grandi vie di comunicazione tra le città più importanti del nuovo stato italiano. Nel 1859 erano in servizio 1758 km di linee, così ripartite: Piemonte 803 km, Lombardia 202 km, Veneto 298 km, Toscana 256 km, Stato Pontificio 101 km, Regno delle Due Sicilie 98 km. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia la rete fu riordinata e assegnata a quattro società concessionarie, successivamente ridotte a tre, che nel 1885 gestivano circa 8800 km di ferrovia, mentre 1750 km erano affidati a numerose società minori. In seguito (1905) lo stato assumeva la gestione diretta di gran parte (circa l’80%) dei 15.700 km cui era giunto lo sviluppo dell’intera rete. Frattanto si realizzavano collegamenti con le reti estere, attraversando la barriera montuosa alpina mediante alcuni grandiosi trafori: Fréjus (1871), San Gottardo (1882), Sempione (1906). [143221] Nell’Inghilterra della rivoluzione industriale (dove le foreste erano relativamente scarse) e successivamente, anche se in modo assai differenziato, nei paesi europei investiti dal processo di industrializzazione del 19° secolo, il carbone era la fonte principale dell’energia motrice per le industrie e il combustibile fondamentale per le economie domestiche. Il tumultuoso fenomeno dell’urbanesimo aveva ulteriormente accelerato la domanda di questa materia prima, favorendo l’espansione dell’industria carbonifera. La necessità di trasportare il carbone incentivò lo sviluppo delle ferrovie che, a loro volta, necessitavano di carbone (per le macchine, ecc.) e di acciaio (per i mezzi, le travature, ecc.), producendo un circuito di consumo e produzione che tendeva persino ad autoalimentarsi in un rapporto reciproco di causa ed effetto. L’Ottocento, dunque, fu anche il “secolo del carbone e dell’acciaio”. Il carbone era noto fin da tempi remoti (il carbon fossile fu usato in Cina per usi metallurgici), ma in Gran Bretagna (dove nel secolo 17° l’esportazione era già notevole) l’invenzione della macchina a vapore creò una enorme richiesta di combustibile, diede impulso all’industria carbonifera, fornendo in pari tempo il mezzo meccanico per l’estrazione da profondità sempre maggiori e dando incentivo alle ricerche in altri paesi, specialmente Francia settentrionale, Lussemburgo, Belgio, Germania, Polonia e Stati Uniti. Il ritmo della produzione mondiale crebbe da circa 20 milioni di tonnellate annue (comprese le ligniti, ragguagliate in ragione del loro potere calorifico) nel 1800, a 100 milioni nel 1850, a 700 milioni nel 1900, per giungere a un massimo di 1260 milioni nel 1913 e, dopo la parentesi della prima guerra mondiale, di 1400 milioni nel 1929. Dopo di allora, però, sia i perfezionamenti introdotti nei generatori di vapore e nei forni metallurgici per abbassare il consumo specifico, sia la diffusione della elettrificazione e della trazione ferroviaria con motori a combustione interna provocarono una diminuzione del consumo con una flessione massima fino a 960 milioni di tonnellate nel 1932. Da quell’anno la produzione tornò lentamente a salire, riportandosi a 1330 milioni di tonnellate nel 1938, mentre dal 1939 si ebbe una nuova diminuzione per l’inizio della seconda guerra mondiale. L’acciaio come lega prodotta allo stato fuso, con tenore di carbonio inferiore al 2%, fu ottenuto per la prima volta nel 1740 da B. Huntsman a Sheffield, fondendo in un crogiolo del ferro cementato: questo processo si diffuse e si sviluppò rapidamente in Inghilterra e costituì per un lungo periodo (a causa del rigoroso segreto mantenuto, anche con apposite leggi penali, sul procedimento) la causa della preminenza inglese nell’arte siderurgica. Intanto, già nel 1783, per opera di H. Cort, era stato sperimentato il procedimento, detto poi puddellaggio, nel quale veniva usato, per la fusione, il carbone fossile invece del carbone di legna, con notevole economia complessiva. Una innovazione di carattere sostanziale fu quella (1855) di H. Bessemer con l’uso del convertitore, che consentì di produrre acciao in grande quantità e a basso costo. L’utilizzazione delle quantità sempre crescenti di rottami e di scorie residuate da operazioni metallurgiche di diverso tipo fu possibile dal 1865 con il forno a suola Martin-Siemens, il quale consentì inoltre di depurare gli acciai realizzandone la defosforazione e una sia pur limitata desolforazione. Il convertitore Thomas (1878), caratterizzato da rivestimento basico (al contrario del convertitore Bessemer che è a suola silicea e quindi acida), permise l’impiego di ghise fosforose per la diretta conversione in acciaio. Il forno elettrico introdotto nell’uso poco tempo dopo si rivelò particolarmente adatto per la produzione di acciaio di qualità, di sempre crescente importanza tecnica, e anche capace di una desolforazione assai più spinta di quella ottenibile con tutti gli altri processi; si ebbero poi i vari sistemi di conversione a ossigeno, messi a punto dal 1953 in poi. [14331] Spesso l’Ottocento è stato definito il “secolo della borghesia”. Rovesciati o profondamente incrinati i vecchi sistemi di tipo assolutistico-feudale, nell’Europa del 19° secolo erano gli industriali e i grandi produttori agrari, i finanzieri e i banchieri a svolgere un ruolo di primo piano nelle élites dirigenti dei paesi più avanzati. Questi settori sociali vennero elaborando, sia pure in modo lento e contraddittorio, una serie di valori – impegno mondano, rivalutazione dell’attività economica, separazione e autonomia sempre crescente della sfera della vita privata – che si affermavano dapprima inconsapevolmente, per diventare poi (già a partire dal 18° secolo) elementi di un’autonoma concezione del mondo. Rilevante, secondo M. Weber, nella formazione di una mentalità borghese-capitalistica, è stata in varie parti d’Europa l’etica protestante e in particolare il calvinismo: quest’ultimo, con l’esortazione perentoria ad agire nel mondo e la dottrina della predestinazione, impegnava al dovere di esercitare un lavoro o professione, non avendo per fine il successo e la ricchezza, ma in quanto questi rappresentano una conferma della salvezza. Va però segnalato che già dai primi del secolo 16°, lo svilupparsi dei grandi stati moderni unitari portò una parte della borghesia ad assumere importanti funzioni amministrative. In particolare in Francia, il peso crescente della burocrazia regia e degli uomini di cultura nella vita della nazione; l’essere essi depositari del sentimento unitario nazionale; e, in contrasto con ciò, il permanere degli antichi, sempre più anacronistici privilegi, feudali ed ecclesiastici: tutto ciò fa sì che la borghesia, sempre più conscia di sé e della sua forza, si ponga, come “terzo stato”, fuori e poi contro gli altri due, e infine come legittimo rappresentante della Francia nella sua totalità (Rivoluzione francese). Analogo, anche se meno tipicamente caratterizzato, lo sviluppo della borghesia in altri paesi, maturatosi già prima in Inghilterra, più tardi nel resto dell’Europa occidentale. Ma già nel 19° secolo è presente la distinzione tra vera e propria borghesia capitalistica (grande, grossa, grassa borghesia) e la classe costituita da artigiani, professionisti, piccoli possidenti, piccoli commercianti (media e piccola borghesia); questa, con caratteristica di “ceto medio” o Mittelstand, è relativamente aperta verso l’alto e verso il basso, e destinata a ricevere l’apporto dei nuovi strati impiegatizi che, a partire dalla fine del secolo 19°, conosceranno un notevole sviluppo. [14341] Il positivismo è quella corrente di pensiero affermatasi in Europa nella seconda metà del secolo 19°, la quale, contro l’astrattezza e la sterilità della metafisica, riteneva che la filosofia dovesse limitarsi a organizzare i risultati delle scienze sperimentali, senza trascendere la realtà direttamente sperimentabile, cioè i “fatti”, per cogliere supposte entità metafisiche. Il termine positivismo indica quindi un indirizzo filosofico del secolo 19°, il cui iniziatore è il francese A. Comte e i cui maggiori rappresentanti sono in Inghilterra J. Stuart Mill e H. Spencer, e in Italia R. Ardigò. Più in generale indica una cultura il cui atteggiamento fondamentale è riconducibile ai principi elaborati da tale indirizzo filosofico. Ne parteciparono scienziati, storici, letterati. Nel linguaggio ordinario si suole definire “positivista” o “positivo” chi è alieno da disegni e aspirazioni irrealistiche e invece tiene grandissimo conto dei condizionamenti ed è incline a pensare in termini utilitari. A questo abito corrisponde la situazione europea nel cui quadro il positivismo si sviluppò, situazione di rigoglio della società industriale, di crescita delle scienze e della tecnica. I filosofi positivisti sono pienamente consapevoli di essere i filosofi di questo tempo e tracciano anche il disegno di una società industriale razionale, ossia regolata secondo criteri scientifici. [143411] Filosofo (Montpellier 1798 - Parigi 1857). Allievo della Scuola Politecnica a Parigi nel 1814 e 1815; segretario di Saint-Simon dal 1817 al 1824, il suo primo interesse, sotto l'influenza appunto di Saint-Simon, è di ordine politico-sociale. Il problema di Comte è quello della riorganizzazione della società su basi scientifiche. Il motivo politico e quello scientifico, e la loro stretta connessione sono oggetto delle opere del Comte maturo, il Cours de philosophie positive e il Système de politique positive. Nel Discours sur l’esprit positif (1844) Comte elenca le accezioni del termine positivo, termine elevato ormai dall’uso corrente alla dignità filosofica, e con ciò individua i tratti generali più caratteristici della sua filosofia e, si può aggiungere, del positivismo in genere. La prima accezione è quella di reale, in opposizione a chimerico; e con questo si indica il volgersi della nuova filosofia a ricerche accessibili all’intelligenza umana, con esclusione dei misteri impenetrabili di cui si occupava la filosofia anteriore. La seconda accezione è quella di utile, in contrapposizione a ozioso; indica cioè il carattere pragmatico della nuova filosofia, rivolta al miglioramento della condizione dei singoli e della società e non alla soddisfazione di curiosità sterili. In una terza accezione il termine indica l’opposizione tra certezza e indecisione, ossia l’attitudine della filosofia positiva a costituire “l’armonia logica nell’individuo e la comunione spirituale nella specie”, in luogo di perseguire i continui dubbi delle filosofie precedenti. Una quarta accezione è quella di preciso in contrapposizione a vago, e designa la tendenza della filosofia positiva a raggiungere il grado di precisione compatibile con la natura dei fenomeni e con l’esigenza dei nostri bisogni, mentre la vecchia filosofia conduceva a nozioni vaghe che potevano diventare patrimonio comune attraverso una disciplina imposta e fondata su un’autorità soprannaturale. La quinta accezione designa il positivo in contrapposizione al negativo, e indica che la filosofia positiva non ha il compito di distruggere ma di organizzare. Queste definizioni possono valere come caratterizzazione dello stadio più avanzato dello sviluppo intellettuale (e storico) dell’uomo, il raggiungimento della sua piena maturità. Questo stadio Comte chiama appunto positivo, ed è il terzo stadio dopo quello teologico e quello metafisico. Tale successione è per Comte una legge, la legge dei tre stadi, che ha validità universale ed è verificabile sia nel corso storico (con riferimento particolare alla storia europea), sia nello sviluppo delle scienze, sia infine nello sviluppo psicologico individuale. Raggiungere lo stadio positivo significa liberarsi da criteri non scientifici (lo stadio positivo è chiamato anche stadio scientifico) nella considerazione dei fenomeni; significa non ricorrere più a entità immaginarie soprannaturali come nello stadio teologico, o ad astrazioni personificate come nello stadio metafisico. Nello stadio positivo l’intelletto si limita rigorosamente ai fatti e alle loro relazioni: alla causa subentra la legge, alla ricerca del perché la ricerca del come, all’assoluto subentra il relativo. Ogni ricerca di essenze è dunque antiscientifica e prescientifica: è, per esempio, antiscientifica una ricerca sulla natura del calore, mentre è scientifico stabilirne in termini matematici le leggi di propagazione, come ha fatto J.-B.-J. Fourier. Non tutte le scienze hanno raggiunto lo stadio positivo. Comte le classifica secondo una decrescente generalità e crescente complessità: matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia, sociologia. La sociologia, scienza che studia le leggi dei fenomeni sociali, è la scienza fondata da Comte (che crea il termine). La legge dei tre stadi è anche la legge del progresso storico: ora lo stadio positivo è lo stadio moderno, quello che dovrà seguire a una fase metafisica, ossia soltanto negativa e critica, che ha avuto inizio nel secolo 14° ed è culminata nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese. Della nuova fase storica positiva Comte traccia un quadro particolareggiato: Il nuovo ordine si fonda su una gerarchia di poteri, al cui vertice stanno i filosofi, anzi i sacerdoti filosofi. Al di sotto dei filosofi stanno banchieri, industriali, commercianti, agricoltori. Il nuovo mondo comtiano realizza l’imperativo dell’altruismo e si configura come mondo religioso, una religione il cui dio è l’Umanità e che non lascia alcun posto al trascendente. [143421] Filosofo ed economista (Londra 1806 - Avignone 1873). Figlio primogenito di James, che ne curò personalmente l'educazione, fu introdotto dal padre, in giovane età, nell'ambiente dei filosofi radicali. frequentò specialmente J. Bentham e studiò gli scritti di A. Smith e D. Ricardo. All'età di diciassette anni si impiegò nella Compagnia delle Indie Orientali (1823). Dal 1826 al 1828 attraversò una crisi spirituale che, come spiega nella sua Autobiography (1873), lo avvicinò alla cultura romantica e lo spinse a rifiutare alcune semplificazioni intellettualistiche rintracciabili nell'ambiente culturale in cui si era formato. Abbandonò la Compagnia delle Indie nel 1858; nello stesso anno, mortagli la moglie, si trasferì in una villa presso Avignone, dove abitò poi spesso anche se impegnato nell'attività politica come membro nella camera dei Comuni (1866-68). La sua vasta produzione copre i campi della logica, dell'etica e della teoria politica ed economica. Con Mill il positivismo assume una configurazione diversa da quella datagli da Comte. In realtà Mill si collega alla tradizione empiristica inglese (che tuttavia rivede attenuandone alcuni aspetti radicali) e in sostanza ha in comune con Comte soprattutto la parte negativa della sua filosofia, il rifiuto di ogni ricorso a spiegazioni teologiche o metafisiche, in una parola il rifiuto di ogni a priori. In questo Mill è di estremo radicalismo, come si ricava soprattutto dal System of logic (1843), che si fonda sul più rigoroso sperimentalismo. Tutto deriva dall’esperienza, tutto è induttivo: qualsiasi proposizione generale, e non solo le premesse maggiori dei sillogismi, ma gli stessi principi matematici, gli stessi principi logici sono il risultato di generalizzazioni empiriche. Non solo, ma Mill afferma che la logica in quanto scienza non è che una branca della psicologia. Egli è dunque un sostenitore di quello che si suole chiamare psicologismo contro la logica pura (ed è stato oggetto di molte confutazioni su questo punto). Sul piano politico la concezione di Mill è individualistica e liberale. Lo stato milliano interviene nella vita economica, ma interviene in senso antimonopolistico, per rimuovere gli ostacoli alla concorrenza (Mill prevede e auspica un progressivo associazionismo e la partecipazione degli operai ai profitti, ma resta fedele al principio della concorrenza), mentre il mondo economico di Comte è rigidamente organizzato. Mill è vicino a Comte in fatto di filosofia della religione, anche se poi svolge diversamente questo punto comune. Si è visto che Comte non esclude il sentimento religioso, ed anzi prospetta una sua espansione nello stadio positivo. Neppure Mill lo esclude, nel senso di non ritenere la religione incompatibile con la sua filosofia. E infatti traccia una sua teologia che parla di un dio finito, ossia non onnipotente, un principio buono non assoluto, che dunque deve fare i conti col mondo materiale e le sue leggi spesso crudeli. L’uomo è così un collaboratore di questa divinità finita. Inoltre la religione è pur sempre qualcosa di utile, perché rafforza la speranza dell’uomo in una realizzazione delle sue esigenze morali. Se la religione comtiana non lasciava posto al trascendente, quella di Mill postula un ente soprannaturale consono alla moralità umana. In entrambi i casi il presupposto antropologico è quello sentimentale (l’uomo non è soltanto e neppure prevalentemente ragione); il presupposto teorico (e in Mill più ancora che in Comte) è la propensione agnostica: la spiegazione razionale non esclude un certo margine di non-sapere e di inverificabilità. E un atteggiamento analogo si riscontra anche in altri pensatori che si richiamano al positivismo. [143431] Fisiologo (Saint-Julien 1813 - Parigi 1878). Nato da famiglia di modesti agricoltori frequentò scuole religiose a indirizzo prevalentemente umanistico. Diciannovenne lavorò come apprendista in una farmacia; trasferitosi a Parigi nel 1834 si iscrisse alla facoltà di medicina, contemporaneamente lavorando come preparatore al Collège de France nel laboratorio del fisiologo F. Magendie. Nel 1843 si laureò in medicina; nel 1854 fu chiamato dalla facoltà di scienze di Parigi alla cattedra di fisiologia generale, per lui istituita; l'anno seguente successe a Magendie al Collège de France; nel 1868 ebbe l'insegnamento della fisiologia generale al Musèe d'histoire naturelle. Bernard nella sua Introduction à l’étude de la médecine expérimentale (1865) è sostenitore di un rigoroso sperimentalismo (contano i fenomeni e le loro relazioni, nessun’altra spiegazione è scientificamente valida), e respinge quello che egli chiama il “sistema”, ossia la spiegazione unitaria dei fenomeni (materialismo, spiritualismo, ecc.). Considera la filosofia come diversa dalla scienza perché si occupa dell’indeterminato, di ciò che la scienza non può sperimentare, e attribuisce per questa via alla filosofia una funzione di stimolo per la scienza che dunque avanza nel suo territorio. Ma le esigenze che danno luogo alla filosofia (come ricerca non scientifica di principi) e alla religione sono ineliminabili. [143441] Filosofo (Derby 1820 - Brighton 1903); fu prima ingegnere ferroviario, poi (1848) viceredattore dell'Economist. Nella sua opera (10 volumi) Herbert Spencer partendo da un presupposto gnoseologico parla di una conoscenza relativa del condizionato e di un incondizionato inconoscibile. La religione rappresenta la consapevolezza di questo mistero e la rappresenta tanto meglio quanto più rinuncia a raffigurarlo, come pretendono le religioni primitive, e si limita a prendere atto della sua presenza-assenza. Da una parte dunque la scienza, dall’altra la religione, con due ben distinte sfere di competenza. Tuttavia per Spencer queste due sfere non sono irrelate, perché il condizionato, il fenomeno è manifestazione della realtà assoluta. E dell’incondizionato abbiamo tuttavia coscienza senza averne conoscenza. Della realtà relativa abbiamo una coscienza definita, e il rapporto tra le due realtà, relativa e assoluta, è un rapporto causale: la realtà assoluta è la “Causa sconosciuta” che produce in noi gli effetti chiamati materia, spazio, ecc. La filosofia ha il compito di generalizzare i risultati delle scienze, e questi risultati consentono a Spencer di formulare una teoria dell’evoluzione di applicazione universale. Tale evoluzione avviene ovunque nel senso della concentrazione, della differenziazione (per esempio, nel caso dell’evoluzione biologica o anche sociale: divisione in classi) e della determinazione (la determinazione è una concentrazione di fattori già differenziati e in sostanza prelude al decadimento: per esempio, il solidificarsi nell’età matura delle parti terminali delle ossa, il determinarsi delle funzioni – dirigenti, lavoratori, distributori – nei processi produttivi). Spencer formulò la sua teoria dell’evoluzione assai prima dell’apparizione di On the origin of species di Ch. R. Darwin (1859), influenzato da dottrine geologiche ed embriologiche oltre che da Lamarck. Accolse poi la dottrina di Darwin, senza però fare della tesi della selezione naturale un principio unico di spiegazione. Il suo evoluzionismo era più ampio (e naturalmente assai meno scientifico) e, sul piano biologico, egli restò fedele alla teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti (non accolse quella della continuità del plasma germinativo di A. Weismann). Sebbene Spencer parli di evoluzione e di dissoluzione, l’intonazione generale della sua filosofia è ottimistica. Nell’evoluzione sociale egli prevede un punto di approdo in cui i contrasti saranno appianati, in cui individuale e sociale, privato e pubblico saranno conciliati. In vista di questo punto di approdo Spencer sostenne in sede di dottrina politica tesi contrarie a ogni intervento dello stato (mentre era in atto il revisionismo liberale): bisognava lasciar svolgere il processo evolutivo senza favorire i “meno adatti”, con fiducia nel suo risultato positivo. Spencer fu il filosofo positivista che ebbe maggior fortuna: negli ultimi quaranta anni dell’Ottocento la sua filosofia ebbe una diffusione enorme. [143451] Filosofo (Casteldidone, Cremona, 1828 - morto suicida a Mantova 1920). Sacerdote (1851), insegnante (1852-67) nel seminario di Mantova, canonico (1863), fu poi professore (incaricato, dal 1864; titolare, dal 1869) di filosofia nel liceo pubblico della stessa città. Nel 1869, un suo discorso in memoria di P. Pomponazzi fu messo all'indice e la mancata ritrattazione da parte dell'Ardigò portò nello stesso anno, alla sua sospensione a divinis; nel 1871 smise l'abito ecclesiastico. Dal 1881 al 1920 fu professore di storia della filosofia nell'università di Padova, coprendo anche per alcuni anni gli incarichi di lingua e letteratura tedesca (1885-86) e di pedagogia (1888-91). Critico dell’inconoscibile di Spencer Ardigò non ammette un diverso e più autentico piano di realtà, ma si attiene al fatto e al verificabile. Il fatto viene accertato attraverso l’apprensione diretta, alla quale seguono le operazioni riflessive che distinguono (distinguono, per esempio, il soggetto dall’oggetto). Questo passaggio da un originario indistinto a successive distinzioni è un fatto del pensiero, ma è anche un fatto reale: la realtà stessa viene specificandosi in questo senso, onde ogni distinto è a sua volta indistinto rispetto a distinti ulteriori. Questo atteggiamento antidualistico (e in fondo antiagnostico) è condiviso anche da altri positivisti italiani, per esempio, da A. Angiulli, che lo teorizza con coerenza, ed è in fondo la caratteristica del positivismo italiano. [143461] Il positivismo ebbe diffusione anche in Germania, dove alcuni pensatori sentirono il bisogno di misurarsi con le sue proposte teoriche, di tenerne conto, spesso di giungere a conclusioni che le conciliassero con altre esigenze speculative e di metodo. Ma più che di una vera scuola positivistica tedesca si può parlare di “atmosfera positivistica” (antimetafisica, attenzione rivolta ai risultati delle scienze, problema dei limiti della conoscenza scientifica, problema dei rapporti tra scienza e filosofia). Si possono ricondurre al positivismo, in particolare al dualismo spenceriano, le posizioni del fisiologo E. Du Bois-Reymond, che presuppongono l’esistenza di un aspetto della realtà precluso alla scienza. Du Bois-Reymond elenca alcune difficoltà fondamentali della ricerca scientifica, alcuni “enigmi” di fronte ai quali essa si arresta: l’essenza della materia e della forza, l’origine del movimento, l’origine della vita, il finalismo naturale, l’origine della coscienza, il pensiero razionale e il relativo linguaggio, la libertà del volere. [143471] La mentalità positivistica promosse uno studio “scientifico” di molti fenomeni, studio che si configurò per un verso come tentativo di estendere le esattezze delle scienze praticamente in tutti i campi, per un altro come sforzo di rendere i fenomeni intelligibili risalendo alle condizioni in cui si sono manifestati (per esempio, dare del genio una spiegazione fisiopatologica). Particolarmente notevoli furono le suggestioni che dalla nuova mentalità positivistica ed evoluzionistica vennero agli studi storici e alle discipline sociali. Nacque un nuovo metodo storiografico, attento soprattutto a fattori ambientali, sociali, razziali, teso a comporre su queste basi il quadro d’insieme entro cui comprendere gli avvenimenti nelle loro molteplici connessioni, il ruolo delle singole personalità storiche (H. Th. Buckle, W. E. H. Lecky, H.-A. Taine, P. Villari). In Francia É. Durkheim pretese di fornire alla sociologia basi strettamente scientifiche, considerando come principio di spiegazione il fatto sociale inteso come una modalità del fatto collettivo che eserciti la sua costrizione sull’individuo (correnti d’opinione, istituzioni educative, credenze). E l’esigenza scientifica si estese nel contempo all’antropologia e alla psicologia (basti pensare all’opera di Taine De l’intelligence, d’ispirazione rigidamente analitica, in cui la vita psichica è vista come riconducibile ai suoi elementi più semplici). In linguistica ricevettero nuovo impulso le ricerche di carattere genetico e comparativo; la letteratura e le arti nel nuovo clima accentuarono in senso “sperimentale” il realismo romantico; il metodo positivo si affermò nella critica letteraria, si indagarono le basi fisiologiche di fenomeni complessi come quelli del gusto; l’attenzione al fatto stimolò innumerevoli ricerche filologiche e di erudizione; negli studi sulle religioni si tese a mettere in rilievo i fattori umani nello sviluppo dell’esperienza religiosa, mentre fiorivano ricerche etnografiche e paleoetnografiche volte allo studio comparato delle diverse forme e stadi della civiltà. Né vanno dimenticati i meriti del positivismo nei riguardi del rinnovamento della legislazione scolastica e penale. Parallelamente si ebbe l’affermarsi di un positivismo pedagogico (in Italia A. Gabelli, R. Ardigò, ecc.), che sottolineava il valore intrinseco delle conoscenze scientifiche, svalutando radicalmente l’atteggiamento religioso e promuovendo le tendenze spontanee e creative dell’alunno, e di una scuola positiva del diritto penale, i cui massimi esponenti vanno considerati C. Lombroso e E. Ferri: scuola che riteneva che il criminale fosse il prodotto di una serie di componenti biologiche (ereditarietà, dati anatomici e fisiologici) e sociali, spiegando così il delitto al di fuori di considerazioni morali e intendendo conseguentemente la pena non in senso afflittivo, ma in funzione della difesa sociale e della rieducazione del colpevole. [14351] A partire dalla seconda metà del 19° secolo – sull’onda delle grandi trasformazioni economiche e sociali innescate dalla rivoluzione industriale, dall’industrializzazione, dall’urbanesimo, e delle nuove idealità politiche ereditate dalla Rivoluzione francese – in Europa sorsero organizzazioni politiche formate da movimenti e partiti operai, socialisti, comunisti, associati sul piano internazionale con maggiore o minore grado di centralizzazione. La Prima Internazionale, o Associazione internazionale dei lavoratori, fu costituita a Londra nel 1864, per iniziativa soprattutto di lavoratori e militanti inglesi, francesi, tedeschi e italiani, allo scopo di coordinare lo sviluppo del movimento operaio che stava assumendo rilevanza sociale e politica in tutti i paesi europei in via di industrializzazione. Il programma e lo statuto furono stesi da K. Marx che, nell’Indirizzo inaugurale, ne dettò pure i principi costitutivi ispirati alla solidarietà internazionale del movimento dei lavoratori nella lotta per la liberazione dal dominio del capitale. L’associazione, tenuta in gran sospetto dalla borghesia e dai governi europei, ebbe rapido successo, costituì sezioni nazionali in vari paesi (Svizzera, Belgio, Francia, Germania e, dopo il 1867, Italia, Spagna, Paesi Bassi, Austria, Stati Uniti d’America, ecc.) e divenne punto di riferimento ideale e politico di larghi settori proletari; in particolare favorì, in Germania, la costituzione del primo partito socialista in Europa. Nel congresso di Ginevra (1866) fu approvato l’indirizzo di Marx, e nei successivi (Losanna, 1867; Bruxelles, 1868; Basilea, 1869) vennero discusse, tra l’altro, le questioni relative all’uso dello sciopero come strumento di lotta e l’organizzazione delle leghe di resistenza. Specie a partire dal 1869 emersero le polemiche politiche e di principio dell’ala anarchica, guidata da P.-J. Proudhon e soprattutto da M. Bakunin, contrari alla gestione centralistica dell’associazione e all’indirizzo, sostenuto in particolare da Marx e da F. Engels, di costituire partiti socialisti in tutti i paesi. Il dibattito sulla sconfitta della Comune di Parigi e le repressioni che ne seguirono provocarono la definitiva rottura tra le due tendenze e lo stesso Bakunin e gli anarchici vennero espulsi dall’associazione (congresso dell’Aia, 1872); questi costituirono un’internazionale libertaria che sopravvisse organizzativamente fino al 1877, ma che anche in seguito, come tendenza, ebbe influenza nel movimento operaio. Dopo aver deciso di trasferire la sede del consiglio nazionale a New York, la Prima Internazionale si sciolse nel congresso di Filadelfia del 1876. La Seconda Internazionale fu costituita a Parigi nel 1889 come luogo di discussione politica e strumento di coordinamento dei partiti operai e socialisti diffusi dagli anni Settanta in quasi tutti i paesi europei. Fino al congresso di Parigi del 1900, essa non ebbe una struttura organizzativa permanente e i congressi rimasero la sua massima espressione, anche se le risoluzioni congressuali non vincolavano i singoli partiti alla disciplina. Pur ereditando in parte dalla Prima Internazionale il dibattito tra socialisti e anarchici sulla forma partito, la Seconda Internazionale segnò il prevalere delle concezioni politiche marxiste in seno al movimento operaio europeo, che venne reso largamente omogeneo sul terreno dei principi dalla teoria e dalla pratica della lotta di classe e dal prevalere delle concezioni politiche della socialdemocrazia tedesca; emersero però ben presto, specie col nuovo secolo, in un ambito ormai prevalentemente socialista e marxista, linee tra loro diverse, per esempio riguardo alla tattica parlamentare e alla partecipazione ai governi borghesi, che alcuni settori più radicali intendevano meno vincolate a una strategia riformista di quanto non facessero i socialdemocratici tedeschi. Ma più ancora, soprattutto con i congressi di Stoccarda (1907) e Copenaghen (1910), divenne centrale la discussione sui problemi del colonialismo, del patriottismo e della guerra. A determinare la crisi dell’Internazionale intervenne infatti nel luglio 1914 lo scoppio del primo conflitto mondiale: i partiti socialisti di Germania, Austria, Gran Bretagna, Francia e Belgio aderirono alle politiche nazionali dei rispettivi governi, mentre altri partiti assunsero posizioni neutraliste (come l’italiano) o decisamente rivoluzionarie e antibelliciste; questa situazione esplicitò il fallimento dell’internazionalismo proletario, ma fece emergere, per opposizione, una sinistra rivoluzionaria (tra gli esponenti più noti V. I. Lenin e R. Luxemburg) che avrebbe percorso una strada autonoma e, dopo aver organizzato le conferenze socialiste contro la guerra di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916), confluì largamente nel movimento comunista. Nel dopoguerra, la sinistra socialista europea aderì in parte alla Terza Internazionale, mentre i riformisti tentarono di rifondare la seconda in opposizione al leninismo (congressi di Berna, 1919, e Ginevra, 1920), e un’altra tendenza dava vita all’Unione dei partiti socialisti per l’azione internazionale (conferenza di Vienna, 1921), talora ironicamente definita Internazionale due e mezzo. L’insistente polemica comunista e il riflusso del movimento rivoluzionario tesero a unificare queste due ultime nell’Internazionale operaia socialista (congresso di Amburgo, 1923), che ebbe una rilevante produzione teorica ma non riuscì a impostare una politica socialista di lungo respiro in grado di guidare un’efficace risposta per contenere l’ascesa dei fascismi. In bilico tra antifascismo e anticomunismo, tranne nel periodo dei fronti popolari e della guerra di Spagna (1934-38), anche l’azione dell’Internazionale operaia socialista si esaurì allo scoppio della seconda guerra mondiale (1940). Nel secondo dopoguerra l’Internazionale socialista fu ricostituita nel 1951 (conferenza di Francoforte), emanazione dei partiti socialisti e socialdemocratici. Il marxismo non vi figura come unico punto di riferimento dottrinario e il socialismo viene connotato come movimento per “la giustizia sociale, una vita migliore, la libertà, la pace mondiale”; tra i suoi temi, il rapporto Nord-Sud e l’ecologia. Vi aderiscono oltre cinquanta partiti di quarantacinque paesi. [15111] Nell’ambito artistico e letterario vengono designati come avanguardie storiche quei movimenti e gruppi sorti alla fine del secolo 19° e particolarmente fiorenti nei primi decenni del secolo 20°: simbolismo, fauvismo, cubismo, futurismo, espressionismo, dadaismo, suprematismo, Novembergruppe (“Gruppo di novembre”), imagismo, teatro politico di Piscator, ecc. Impegnate in un rinnovamento, puramente sperimentato nei linguaggi artistici o alimentato anche da ideologie politiche, le avanguardie si sono poste sempre in polemica con la tradizione e la cultura ufficiale, mettendo in discussione la stessa natura dell’arte e il rapporto con la società. I movimenti d’avanguardia del secondo dopoguerra (neo-avanguardie) si sono in parte riallacciati alle avanguardie storiche, ma se ne distinguono spesso configurandosi, più che come momenti eccezionali di rottura, come reiterate spinte di trasformazione del sistema produttivo, legate tuttavia ai canali istituzionali del mercato e della fruizione. [15121] Il movimento letterario, artistico e politico futurista venne fondato nel 1909 da F. T. Marinetti. Attraverso tutta una serie di “manifesti” e di clamorose polemiche, esso propugnò un’arte e un costume che avrebbero dovuto fare tabula rasa del passato e d’ogni forma espressiva tradizionale e che in effetti si informarono al dinamismo della vita moderna, della civiltà meccanica, proiettandosi verso il futuro e fornendo il modello a tutte le successive avanguardie. Il primo dei “manifesti” di Marinetti, pubblicato in francese nel Figaro del 20 febbraio 1909, e che contiene già tutte le linee essenziali del movimento, culmina in queste asserzioni: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa ... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia ... Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro ... Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore ...”. Donde i fondamentali postulati “tecnici” del futurismo letterario: distruzione della sintassi, abolizione della punteggiatura, “immaginazione senza fili”, comportante il predominio dell’analogia, “parole in libertà”. Successivi manifesti riguardano in particolare il teatro di varietà quale “teatro dello stupore”, il “teatro sintetico”, le arti figurative, la scenografia, la musica, e poi ancora l’aeropoesia, l’aeropittura, ecc. (l’ultimo manifesto è del tempo della seconda guerra mondiale). Il futurismo, ricollegandosi all’irrazionalismo filosofico e spingendo alle estreme conseguenze la confusione tra arte e vita delle poetiche di fine Ottocento, si fece promotore di un atteggiamento vitalistico e attivistico che avrebbe dovuto investire e modificare radicalmente ogni dominio artistico e culturale e la stessa politica. [151211] In campo letterario, eliminata ogni conseguenzialità logica e psicologica, sostituita alla mediatezza della costruzione sintattica l’immediatezza delirante dell’onomatopea, il futurismo promosse le “parole in libertà”, in cui un esasperato associazionismo analogistico si tradusse nell’iconismo della poesia visiva (“auto-illustrazione”) e nella rivoluzione tipografica, ma contagiò anche lo stile espressivo dei “manifesti”, che restano il risultato più notevole del movimento, e non rimase senza conseguenze neppure sulla vocazione letteraria dell’oratoria politica del tempo. Sorto in reazione, oltre che alla letteratura borghese dell’Ottocento, alla magniloquenza e all’estetismo dannunziani, il futurismo fu per molti aspetti la metodica radicalizzazione del dannunzianesimo, e la sua involontaria parodia, dissolvendo in un’orgia spesso meccanica di “rumori” la sensualità verbale di D’Annunzio. Il futurismo sfocerà in una problematica d’ordine politico, nelle manifestazioni interventiste al tempo della prima guerra mondiale, fasciste e imperialiste più tardi. D’altra parte l’importanza storica del futurismo va cercata proprio in questo suo attivismo o dinamismo pratico, in questa sua funzione disgregatrice e dissolutrice, che, fra tanti equivoci e confusioni, ebbe pur il merito di far giustizia di un passato irreparabilmente invecchiato, di una letteratura e di un’arte ridotta a convenzione e accademia; non già nell’ambito creativo, dove rimase, almeno per quanto riguarda la letteratura, scarso di risultati. Le vantate “sintesi” e “simultaneità” liriche futuriste spesso non sono che esperimenti velleitari, e le opere poetiche o drammatiche di Marinetti e dei suoi seguaci (L. Folgore, P. Buzzi, F. Cangiullo, B. Corra, E. Cavacchioli, ecc.) appaiono oppresse, pur fra qualità genuine, da una retorica che volendo essere antiretorica riesce anche più fastidiosa. Ciò non toglie che scrittori altamente dotati, da Soffici a Palazzeschi a Bontempelli, abbiano fatto le loro prime armi sotto l’insegna del futurismo, presi da quell’ansia di rinnovamento, di adeguazione a un piano di cultura europeo, di libertà espressiva, che era pure al fondo di questo tumultuoso movimento; né che lo stesso Pirandello si sia giovato, per il suo teatro, di certi ritrovati tecnici del futurismo. Tra gli altri paesi in cui si ebbero movimenti collegati in qualche modo, sia pure solo nominalmente, al futurismo italiano, vanno ricordati la Russia e la Polonia. Il futurismo russo espresse, attraverso personalità artistiche di grande rilievo come V. V. Majakovskij, D. D. Burljuk, V. V. Chlebnikov e R. L. Pasternak, l’esigenza di nuovi e rivoluzionari mezzi espressivi. Da esso, che ebbe nel 1913 il suo manifesto intitolato Poscëcina obscestvennomu vkusu (“Schiaffo al gusto del pubblico”), sono derivati tutti quei movimenti poetici che hanno affiancato la rivoluzione, interpretandone lo spirito. In Polonia il futurismo si sviluppò in modo particolare tra il 1917 e il 1922 a Cracovia e a Varsavia, dove furono pubblicati i Manifesty futuryzmu polskiego (“Manifesti del futurismo polacco”, 1921) dei poeti A. Stern e B. Jasienski. [151221] Nel 1910 i pittori U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla e G. Severini sottoscrissero il Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio), cui seguì il Manifesto tecnico della pittura (11 aprile). Boccioni stilò nel 1912 il Manifesto tecnico della scultura e, tra il 1912 e il 1913, un manifesto, rimasto inedito, dell’architettura futurista che ebbe poi, nel 1914, un’espressione ufficiale nel manifesto redatto da A. Sant’Elia. Alla programmatica necessità di un totale distacco dalla tradizione accademica e di una piena adesione alla vita moderna, corrispose un’intensa elaborazione teorica (in particolare da parte di Boccioni), pittorica e plastica dei concetti di dinamismo, simultaneità, compenetrazione dei piani, in un ampio ventaglio di sfumature, dalla sintesi soggettiva di Boccioni, all’analisi oggettiva della rappresentazione dinamica come sequenza o traiettoria di Balla, alla ricerca di una struttura di matrice cezanniana in Carrà, di effetti ritmici nella frammentazione della forma e del colore in Severini, alla simultaneità come sintesi mnemonica in Russolo; ricerche che affondavano le loro radici nel divisionismo e più ampiamente nella cultura europea tra simbolismo e decadentismo e trovarono stimoli fecondi nella contemporanea ricerca cubista, dalla quale i futuristi, tuttavia, perentoriamente presero le distanze per la fondamentale diversità d’impostazione del movimento. Le opere futuriste furono esposte, dal 1912, a Parigi, Berlino, Londra, ecc., accompagnate sempre da dichiarazioni. Nel 1914, nella mostra organizzata a Milano dal gruppo Nuove Tendenze, Sant’Elia espose, tra l’altro, le tavole della Città nuova e M. Chiattone disegni con edifici per appartamenti e costruzioni per una metropoli futura. Il campo della ricerca si allargò alla fotografia (A. G. Bragaglia sperimentò fin dal 1911 il fotodinamismo, ma un manifesto, firmato da Marinetti e Tato, fu elaborato solo nel 1930), al cinema (manifesto della cinematografia futurista, di Marinetti, E. Settimelli, B. Corra, A. Ginna, Balla, 1916), alla scenografia (nel 1915, dopo il manifesto del teatro sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra, E. Prampolini propose la sua Scenografia futurista). Nella pratica e nella teoria agli importanti spunti sul superamento dei tradizionali campi artistici (polimaterismo; manifesto della pittura dei suoni, rumori, odori, di Carrà, 1913, ecc.) e alla ricerca di un’arte totale che sembrò trovare nel teatro il suo luogo d’elezione, si accompagnò con il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, firmato nel 1915 dagli “astrattisti futuristi” Balla e Depero, la proclamazione della totalità dell’intervento creativo in chiave ottimistica e giocosa, impostazione che, dopo la morte di Boccioni e Sant’Elia nel 1916 e la drammatica frattura della guerra, sembra caratterizzare l’attività della seconda generazione futurista in ambiti che vanno dalla scena urbana all’arredamento e alla moda, dalla tipografia alla pubblicità, all’arte postale, dalla scenografia al teatro aereo, all’aeropittura, con incalzante proclamazione di manifesti (delle sinopsie o trasposizioni visive della musica, di Bragaglia, A. A. Luciani, F. Casavola, 1919; dell’architettura futurista dinamica, di V. Macchi, scritto nel 1919 e pubbl. nel 1924; del mobilio, di F. Cangiullo, 1920; del tattilismo, di Marinetti, 1921; dell’arte meccanica futurista, di E. Prampolini, I. Pannaggi e V. Paladini, 1923; dell’aeropittura, di Marinetti e M. Somenzi, 1929, riproposto nel 1931 sottoscritto, tra gli altri, da Balla, Depero, Dottori, Fillia, Tato; della cucina futurista, di Marinetti, 1930; ecc.). La presentazione del futurismo nelle più importanti città europee e la risonanza delle sue manifestazioni fin nel Giappone e negli Stati Uniti posero il futurismo a confronto con i più significativi gruppi d’avanguardia (in particolare cubismo e orfismo), con un polemico interscambio di stimoli. In Russia il termine cubofuturismo fu introdotto da Burljuk e Majakovskij nel 1913 in riferimento, sia nell’ambito letterario sia in quello artistico, a opere in cui si fondono elementi vicini alle soluzioni dei due movimenti, ma fu soprattutto usato per sottolineare la specificità della ricerca russa. Sempre in Russia, nel 1913 M. Larionov lanciò il raggismo e, in Gran Bretagna, P. W. Lewis pubblicò nel 1914 i polemici manifesti del vorticismo. [151231] Due manifesti del futurismo sulla musica apparvero nel 1910 e nel 1911. I criteri proclamati sono: 1) concepire la melodia come sintesi dell’armonia e considerare le definizioni di maggiore e minore, eccedente e diminuito come un unico modo cromatico atonale; 2) considerare la enarmonia come una grande conquista futurista; 3) creare la polifonia, fondendo armonia e contrappunto; 4) considerare la strumentazione sotto l’aspetto di universo sonoro incessantemente mobile; combattere i critici, lo stile grazioso, i conservatori, ecc. Teorico e compositore più noto fu F. Balilla Pratella. Altri aderenti sono stati S. Mix e F. Casavola. Una manifestazione vicina alla musicale è quella della cosiddetta Arte dei rumori creata nel 1913 da L. Russolo, con una prima orchestra di “intonarumori”, strumenti che intonano e regolano armonicamente e ritmicamente i rumori, anziché i suoni propriamente detti. [15131] Il grande pittore e scultore Pablo Picasso nacque a Malaga nel 1881 e morì a Mougins (Alpi Marittime) nel 1973. Figlio di José Ruiz, professore di disegno e conservatore del museo di Malaga, Picasso (dal 1901 firmerà con il cognome della madre) inizia giovanissimo a disegnare; quando la famiglia si trasferisce a Barcellona (1895), partecipa alla vita intellettuale della città, aperta a tutte le correnti d’avanguardia, lavora con frenesia sperimentando varie tecniche, disegna scene dal vero, ritratti di amici (Sabartés, De Soto, Gonzales), affiches per l’Hostels dels 4 Gats, ritrovo di giovani intellettuali. Nell’ottobre del 1900 si reca per la prima volta a Parigi e s’interessa prevalentemente all’arte di Steinlen, Toulouse-Lautrec, Vuillard. Negli anni seguenti Picasso torna a Parigi e infine nel 1904 vi si stabilisce (la lascerà soltanto per brevi periodi). Tra il 1901 e il 1904 le sue opere, che ripropongono nei temi espressioni dolenti di tragiche condizioni umane e sociali, sono caratterizzate da un disegno stilizzato e pungente, da una intonazione monocroma blu che definisce duramente i volumi (periodo blu). Dal 1904 acrobati, suonatori ambulanti, arlecchini popolano le sue tele e i suoi disegni, con note di tenera malinconia, mentre il blu è sostituito da tonalità grigio-rosa (periodo rosa). Il Ritratto di Gertrude Stein (1906, New York, Metropolitan Museum) prelude nella semplificazione e nella saldezza delle forme ai dipinti più direttamente influenzati dall’arte negra, di cui Picasso sente acutamente il fascino. Le Demoiselles d’Avignon (1907, New York, Museum of modern art) nella redazione definitiva (dopo tre versioni e numerosi studi) sono al centro di una ricerca ossessiva di tutte le possibilità espressive della figura umana nella scomposizione dei volumi e nel trattamento schematico dei piani (l’opera, mostrata solo a pochi amici, verrà riprodotta nel 1925 ne La révolution surréaliste e presentata nell’Esposizione universale di Parigi del 1937). Da queste premesse e da una nuova e approfondita conoscenza dell’opera di Cézanne nasce il cubismo. In una ricerca, che si svolge parallela a quella di Braque, Picasso analizza gli elementi volumetrici delle immagini mediante la loro scomposizione geometrica in piani sovrapposti e giustapposti, in un ritmo complesso che porta al superamento della tradizionale impostazione fondo-immagine. Con la presentazione simultanea delle varie facce dell’immagine, andando oltre la visione tridimensionale, realizza sul piano la quarta dimensione (le forme divengono simboli spazio-temporali) e contestualmente elabora anche le sue esperienze in scultura (Testa femminile, bronzo, 1909, Parigi, Musée Picasso). Dall’analisi e sezionamento dell’oggetto che conduce alla scoperta di forme, costituenti gli elementi formali della composizione (cubismo analitico), Braque e Picasso giungono alla scoperta del processo che, gradualmente, conferisce un significato oggettivo a composizioni di elementi puramente pittorici (cubismo sintetico); in questo processo grande importanza ha l’invenzione del papier collé e del collage. Nel 1915 Picasso ritorna alla rappresentazione oggettiva, dapprima ricalcando, soprattutto nei disegni, la via del rigoroso classicismo di Ingres, poi tentando di realizzare una nuova monumentalità in una serie di figure “colossali”; ma ben presto si rifà, specialmente nelle nature morte, alla scomposizione di tipo cubista. Contro la corrente classicistica, che domina in tutta Europa, Picasso insorge con un quadro di Danzatrici (1925, Londra, Tate Gallery), nel quale la scomposizione cubista si trasforma in una vera e propria deflagrazione formale. Benché Picasso non abbia esplicitamente aderito al surrealismo, le opere di questo periodo, in cui la deformazione giunge spesso a una voluta mostruosità, sono considerate surrealiste; solo nel periodo detto delle ossa (1928-29) si ha una vera e propria visione surrealista. Ma l’istinto formale, plastico dell’artista riprende il sopravvento sulla poetica del surrealismo: con un gruppo importante di sculture (1930-34; busti, nudi femminili, animali, costruzioni metalliche), nascono dipinti d’alto valore espressivo, nei quali la deformazione diventa apostrofe morale, simbolo delle deformazioni interiori dell’uomo moderno. Durante la guerra civile spagnola Picasso vive con forte impegno il dramma del suo paese; per un breve periodo è direttore del Prado. La spietata denuncia degli orrori del fascismo e della guerra che impronta le violente acqueforti che illustrano il poemetto Sueño y mentira de Franco, raggiunge i toni più alti del dramma in Guernica (ora nel Museo Reína Sofia), espressione dello sdegno più intenso dopo il bombardamento tedesco della cittadina, risolta in una ridotta gamma cromatica di bianchi e di neri: costretta l’azione nello spazio di una stanza, dalle macerie, lacerati brandelli della coscienza, affiora il toro, simbolo della violenza e della brutalità. L’opera, la cui denuncia va oltre l’episodio contingente che l’ha originata, esposta nel padiglione spagnolo dell’Esposizione Universale di Parigi del 1937, suscitò profonda commozione e consensi. Simboli d’orrore sono anche i Minotauri e le Tauromachie, come poi, durante la seconda guerra mondiale, le donne mostruosamente deformi e le nature morte. Dopo la guerra, è un nuovo periodo di distensione; iscritto al Partito comunista francese dal 1944, Picasso partecipa a vari congressi della pace ed esegue l’affiche con la colomba per quello di Parigi del 1949. Dal 1947 soggiorna a Vallauris, dove si dedica prevalentemente alla ceramica, poi a Cannes e dal 1961 si stabilisce a Mougins. Pur senza abbandonare la scomposizione violenta della forma, Picasso sa piegarla a esprimere affetti familiari, limpidi sentimenti umani; con maggiore serenità ricerca nei miti classici e nell’antichissima tecnica della ceramica il senso profondo dell’anima mediterranea. La sua tecnica prodigiosa, la sua dirompente forza creativa, il suo pathos ardente giungono a espressioni quasi idilliche come nel grande pannello La Pace, o di alto senso morale come in quello La Guerra (entrambi del 1952-54, Vallauris, Musée national Pablo Picasso). Tra le sue ultime opere si ricordano una serie di variazioni su Las Meninas di Velázquez (1957, Barcellona, Museo Picasso) e su Le déjeuner sur l’herbe di Manet (1961) e un grande murale per la sede dell’Unesco a Parigi (1958). Nel 1963 fu aperto a Barcellona il Museo Picasso, con dipinti, sculture e opere grafiche picassiane donate da J. Sabartés. Nel 1970 Picasso, in memoria dello stesso Sabartés, donò alla città di Barcellona circa mille opere tra dipinti, disegni e incisioni. A Parigi, nel Musée Picasso (aperto nel 1985) è stata raccolta la vastissima collezione di opere che Picasso ha lasciato alla Francia. [151311] Guernica y Luno è una cittadina della Spagna settentrionale, nella provincia di Biscaglia (20 km a Nord-Est di Bilbao) tristemente nota per essere stata rasa al suolo dall’aviazione tedesca (aprile 1937), intervenuta a sostegno delle forze franchiste, durante la guerra civile spagnola. Ma la città è famosa anche per la straordinaria tela realizzata da Pablo Picasso: Guernica, appunto. L’episodio del bombardamento, infatti, ispirò quello che sarebbe diventato uno dei più celebri dipinti di Picasso, presentato nel padiglione spagnolo dell’Esposizione internazionale di Parigi del 1937 ed esposto al Museo d’arte moderna di New York. Restituita alla Spagna nel 1985 per volontà espressa dall’artista, l’opera è stata esposta al Prado e poi trasferita, nel 1992, al museo Reina Sofia di Madrid. [15211] Le origini remote della guerra 1914-18 vanno ricercate in tutta la storia del cinquantennio successivo al trattato di Francoforte (1871) col quale si chiuse la guerra franco-prussiana: qui si richiameranno perciò solo i momenti che ebbero maggiore efficacia nel determinare le condizioni in cui si aprì e si svolse il conflitto. Bismarck, preoccupato di assicurare alla Germania i vantaggi della vittoria ottenuta, svolse dopo il 1871 una politica di conservazione della pace europea, che culminò nella creazione della Triplice alleanza fra Germania, Austria e Italia (1882), affiancata dall’alleanza dei tre imperatori (Germania, Austria e Russia) e da una politica di buoni rapporti con l’Inghilterra. Ma la Triplice associava sempre più strettamente la Germania alla politica di espansione balcanica che conduceva le potenze centrali a urtare contro le tradizionali aspirazioni balcaniche della Russia. Nel 1887, scaduta l’alleanza dei tre imperatori, essa era sostituita da un semplice trattato di controassicurazione; e caduto Bismarck (18 marzo 1890), e non rinnovato il trattato di controassicurazione, si ebbe invece un accostamento franco-russo che sboccò, tra l’agosto 1891 e l’agosto 1892, in una vera e propria alleanza (Duplice alleanza). Tuttavia l’aumentato interesse della Russia per l’Estremo Oriente condusse in quegli anni a una diminuzione dei suoi attriti con la Triplice e a un peggioramento dei suoi rapporti con la Gran Bretagna, la quale invece, proprio dalle sue controversie extraeuropee con Francia e Russia era indotta a cercare la possibilità di un accordo con la Germania; ma le trattative svoltesi in tal senso tra il 1898 e il 1901 non ebbero alcun risultato, essendosi venuto a frapporre tra i due paesi un nuovo e sempre più grave elemento di attrito con il crescente sviluppo commerciale e navale della Germania e la connessa costruzione di una grande flotta militare tedesca e con la Weltpolitik guglielmina: i segni del mutato stato d’animo apparvero chiari già nell’atteggiamento tedesco durante il conflitto anglo-boero. Ma la Gran Bretagna, alleatasi col Giappone (30 gennaio 1902), raggiungeva ugualmente il fine di ricacciare la Russia verso l’Europa, e iniziava l’accostamento alla Francia, che a sua volta aveva cominciato a intaccare il sistema della Triplice con un gruppo di convenzioni con l’Italia, culminate negli accordi che davano mano libera all’Italia in Libia e alla Francia nel Marocco e prevedevano la neutralità italiana in caso di attacco alla Francia (1900, 1902). Intanto tra Francia e Gran Bretagna era raggiunta l’“intesa cordiale” (8 aprile 1904); a rafforzarla si aggiunse la crisi di Algeciras, provocata dall’intervento tedesco a favore dell’indipendenza del Marocco contro le pretese francesi, che di fronte alle minacce tedesche condusse a un consolidarsi anche sul piano militare dell’intesa franco-britannica, mentre vide un’Italia in fondo più vicina alle potenze dell’Intesa che agli alleati della Triplice. L’anno dopo venne siglata l’intesa fra Gran Bretagna e Russia (31 agosto 1907), ricacciata dall’Oriente e spinta all’accordo con la Gran Bretagna sia dal bisogno di pace dopo la crisi interna del 1905, sia dall’abbandono inglese del dogma dell’integrità della Turchia, alla quale invece si andava legando ora maggiormente la Germania, con la sua politica di penetrazione economica nel Medio Oriente. Venivano così a costituirsi fin da questo momento i due gruppi che si troveranno di fronte nel 1914, e tuttavia la pace fu ancora conservata per sette anni, nonostante le crisi ricorrenti. Di queste, la prima si ebbe subito nel 1908, con l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria, che suscitò le proteste della Russia, appoggiate da Londra e Parigi, mentre una violenta indignazione manifestavano i nazionalisti serbi. La Russia, militarmente impreparata, dovette cedere e consigliare alla Serbia di fare altrettanto; ma l’accaduto rese più difficili i rapporti fra i due gruppi di potenze, e rinfocolò anche la diffidenza italiana verso la politica balcanica dell’Austria. Nel 1911, altra crisi marocchina causata dalla crescente penetrazione francese in quella regione, contro la quale la Germania reagì fra l’altro con l’invio di una cannoniera, la Panther, ad Agadir (10 luglio 1911), che suscitò vivo allarme e risolute dichiarazioni britanniche di solidarietà con la Francia. Questa ottenne piena libertà nel Marocco contro la cessione di una parte del Congo (4 novembre 1911); ma si diffuse nelle potenze la sensazione sempre più netta della inevitabilità della guerra, mentre in Francia l’avvento di R. Poincaré alla presidenza della repubblica dava l’avvio a una fase di più audace politica estera, in stretto rapporto con la Russia. Nel 1912, poi: guerre balcaniche con conseguente indebolimento della Turchia e irrigidimento austriaco contro le cresciute pretese serbe e l’avanzata russa, più esplicite dichiarazioni di solidarietà francese con lo zar, riscaldamento degli spiriti dei vecchi e nuovi stati balcanici e specialmente della Serbia, cresciuti armamenti russi in funzione nettamente anti-austrotedesca e finanziamenti francesi. Ormai erano molte le questioni che minacciavano la pace europea: Alsazia, Lorena, rivalità navale anglo-tedesca, il problema degli Stretti, irredentismi balcanici, crisi dell’Impero austro-ungarico e aspirazioni italiane. [152111] Pretesto immediato dello scoppio della prima guerra mondiale fu l’assassinio dell’arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando a Sarajevo (28 giugno 1914) compiuto da elementi di organizzazioni patriottiche e terroriste serbe, favoriti, e non troppo copertamente, da Belgrado: la trasformazione in senso trialistico dell’Impero – con una posizione degli Slavi identica a quella goduta da Austro-Tedeschi e Magiari – così come veniva attribuita a Francesco Ferdinando e ai suoi più vicini collaboratori, ove attuata avrebbe dato un duro colpo al processo di unificazione slavo-meridionale che, dal 1844, era il programma nazionale della Serbia. L’Austria, che nell’attentato vide l’espressione della politica serba, apertamente mirante alle province slave meridionali, risolse di stroncare la Serbia come influente fattore politico nei Balcani, e ottenne mano libera dalla Germania, convinta peraltro che non si sarebbe giunti alla guerra generale. La sera del 23 luglio fu consegnato alla Serbia un ultimatum – con obbligo di risposta entro 48 ore – che chiedeva lo scioglimento delle associazioni dedite a propaganda politica, la revoca dei funzionari e ufficiali compromessi, la partecipazione austriaca alle indagini sulle attività antiaustriache e sull’attentato. La Serbia avrebbe ceduto, ma tra il 20 e il 23 luglio, trovandosi a Pietroburgo R. Poincaré e R.-R. Viviani, presidenti della repubblica e del governo francese, che assicurarono l’appoggio francese sino in fondo, il governo dello zar decise i primi movimenti di mobilitazione e resistenza; e mobilitazione e resistenza consigliò la Russia alla Serbia, che all’ultimatum austriaco inviò una risposta solo apparentemente conciliativa, in buona parte invece negativa. Grande l’attività delle cancellerie, e specie del ministro degli Esteri britannico E. Grey, per trovare una soluzione pacifica. Ma mentre il governo russo veniva attuando la sua mobilitazione, misure militari preliminari erano in corso già da qualche giorno anche in Francia. Il 28 l’Austria dichiarava la guerra alla Serbia e tra il 29 e il 30 aveva inizio la mobilitazione generale russa, alla quale il 31 rispondevano quella austriaca e le prime misure tedesche. Poi, di fronte al rifiuto russo di smobilitare, la Germania il 1° agosto dichiarava la guerra alla Russia e mobilitava; lo stesso giorno era stata ordinata la mobilitazione francese e due giorni dopo (3 agosto) la Germania dichiarava la guerra alla Francia. La Gran Bretagna, pur sotto le pressioni francesi, esitava, alla ricerca di una estrema soluzione di compromesso; ma la violazione della neutralità del Lussemburgo e del Belgio, prevista dai piani tedeschi e attuata tra il 1° e il 4 agosto, persuase anche il parlamento e l’opinione pubblica britannica all’intervento: un ultimatum, rimasto senza risposta, fu inviato alla Germania il 4, e così ebbe inizio la guerra anglo-tedesca. Il 23 il Giappone entrava a sua volta nel conflitto, contro gli Imperi centrali. [152121] Sul terreno della strategia militare la prima guerra mondiale segnò una svolta epocale a motivo, in primo luogo, della diffusione delle armi automatiche che rendevano estremamente dispendioso in termini di vite umane il tradizionale attacco di fanteria o di cavalleria alle postazioni nemiche; ciò determinò l’evoluzione dalla guerra di movimento alla guerra di posizione o di logoramento. Luogo privilegiato dell’aspetto militare del conflitto fu dunque la trincea, mentre sul piano delle innovazioni tecnologiche nasceva in questo periodo uno dei protagonisti dei conflitti a venire, il carro armato, adottato dagli Inglesi nel 1916, ma la cui diffusione in tutti gli eserciti si sarebbe compiuta dopo la guerra. Tra le altre novità relative agli armamenti vanno considerati i gas asfissianti (che imposero l’obbligo della maschera antigas), l’aeroplano (che, sebbene armato di mitragliatrice, venne usato prevalentemente a scopo ricognitivo), il sottomarino. Inoltre, l’esigenza di coordinare e muovere enormi contingenti su un fronte molto ampio diede luogo a un considerevole sviluppo delle telecomunicazioni e a un massiccio impiego dei mezzi motorizzati, soprattutto per spostare le truppe dalle retrovie al fronte e viceversa. La leva di massa (furono mobilitati complessivamente sessantacinque milioni di uomini) e le ingenti spese militari determinarono il fenomeno, in quella misura inedito, della mobilitazione totale del paese belligerante: dalla produzione industriale stimolata dalle commesse statali al razionamento dei generi alimentari, dalla programmazione della produzione agricola alla censura sulla stampa, fino all’identificazione del territorio patrio come “fronte interno”, la guerra penetrò in tutti i gangli sociali delle nazioni, determinando in particolare il rafforzamento degli apparati burocratici e l’inasprimento del controllo repressivo statale. Questo assunse forme e contenuti particolarmente rilevanti tanto al fronte quanto nell’interno, attraverso la propaganda, l’imperio sui meccanismi produttivi, l’arresto dei dissidenti o dei pacifisti, giungendo, come in Germania, a forme di militarizzazione della società. In effetti, l’adesione delle popolazioni alle rispettive politiche nazionali non fu omogenea né continua nel tempo. In questo senso, il 1917 fu l’anno di maggior tensione sociale in molti stati europei (inclusa l’Italia); in Russia il malcontento delle popolazioni e dei soldati si legò ai disastri del fronte e alla determinazione dei rivoluzionari generando la Rivoluzione d’ottobre e il movimento comunista internazionale, che avrebbe alimentato gran parte delle lotte proletarie degli anni a venire. Il disagio del dopoguerra, connesso al venir meno del controllo sociale e alle difficili riconversioni delle economie di guerra, investì nuovamente le società europee nel loro insieme. Oltre alle tradizionali rivendicazioni del movimento operaio (che assunsero però ampiezza e radicalità inedite), vanno considerati i movimenti degli ex combattenti, i partiti e i movimenti contadini (soprattutto in Europa orientale), i movimenti delle donne (che avevano diffusamente sostituito alla produzione gli uomini mobilitati), le nuove formazioni politiche. In vari paesi (tra i quali l’Italia, dove l’esplosione dei movimenti di massa segnò la fine del regime liberale e fu all’origine del fascismo), l’insieme di queste tensioni causò gravi scompensi politici e istituzionali. Il mondo della cultura avvertì nella guerra la fine irrimediabile della lunga stagione di progresso, di pace e di ottimismo iniziata nel secolo precedente, e si fece più inquieto, permeabile a spinte irrazionalistiche, presago di ulteriori sventure. Altrettanto precario era il quadro politico mondiale che emergeva dagli accordi di pace. L’Europa nel suo complesso usciva dal conflitto indebolita dai lutti (circa otto milioni di morti e venti di feriti), dalle distruzioni, dai debiti. Sulla scena mondiale, gli Stati Uniti per la prima volta erano usciti dal loro isolazionismo (per rientrarvi con la sconfitta del partito di Wilson nel 1920) coinvolgendosi fortemente nelle vicende politiche europee; mentre la Russia sovietica rispondeva al tentativo di soffocamento durante la guerra civile con la fondazione dell’Internazionale comunista (1919). Inoltre, tutt’altro che risolutivi, i trattati di pace non superarono le rivalità nazionali che erano state all’origine della guerra, creando le premesse per ulteriori conflitti; in particolare, la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e le condizioni di resa imposte alla Germania riversarono le tensioni nazionali su molti dei nuovi stati nati sulle ceneri dei due imperi e sull’arretramento dei confini russi. Per altri versi, densi di tensioni si presentavano anche i rapporti tra le potenze vincitrici e la Germania, alla quale furono imposte condizioni politiche, economiche e militari talmente aspre da rivelarsi presto irrealistiche. Più in generale, falliva il tentativo (primo nel suo genere) della Società delle Nazioni di costruire un organismo per un nuovo sistema di rapporti internazionali. [15221] La prima guerra mondiale dimostrò l’obsolescenza del sistema politico e economico dell’impero russo, che subì una serie di schiaccianti sconfitte ed enormi perdite di vite e di territori. L’apparato repressivo, che aveva garantito la stabilità dell’assetto imperiale, stremato, divenne inaffidabile: nel febbraio 1917, scioperi e disordini per il pane, scoppiati a Pietrogrado, culminarono nell’ammutinamento della guarnigione. Travolto dagli avvenimenti, lo zar fu costretto ad abdicare (2 marzo), mentre la Duma costituì un governo provvisorio, presieduto dal principe G. E. L´vov, che in settembre proclamò la repubblica. Espressione della grande borghesia liberale, il governo doveva rimanere in carica fin quando non sarebbe stata convocata un’Assemblea costituente eletta democraticamente. A quest’ultima veniva rinviato l’esame delle principali questioni sociali (in particolare la riforma agraria), mentre gli sforzi si concentravano sulla prosecuzione dell’impegno bellico. Accanto al governo provvisorio emerse un secondo centro di potere, costituito dai soviet dei deputati degli operai. Il più influente fra questi, quello di Pietrogrado, con il decreto (1° marzo) sulla democratizzazione dell’esercito e la creazione di soviet unitari degli operai e dei soldati pose di fatto sotto il proprio controllo la guarnigione della città. Sotto la pressione degli Alleati, nel giugno 1917, il governo provvisorio (nel quale in maggio erano entrati menscevichi e socialisti rivoluzionari e che dal luglio fu presieduto da A. F. Kerenskij) lanciò una controffensiva sul fronte occidentale che portò a un’ulteriore sconfitta e alla totale demoralizzazione dell’esercito. Smobilitatasi di propria iniziativa, parte dei soldati (di provenienza prevalentemente contadina) tornò nelle campagne, procedendo all’occupazione delle terre. Dopo il fallimento del pronunciamento militare del generale Kornilov (settembre), i bolscevichi (che dall’aprile avevano adottato il programma proposto da Lenin, sintetizzato nella parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”) ottennero la maggioranza nei principali soviet e, con un colpo di forza pressoché incruento, il 25 ottobre 1917 rovesciarono il governo provvisorio. Lo stesso giorno si riunì a Pietrogrado il II congresso panrusso dei soviet che, investito del potere supremo dagli insorti, il 26 ottobre approvò la formazione di un governo (il Consiglio dei commissari del popolo), presieduto da Lenin e composto esclusivamente da dirigenti bolscevichi. Le elezioni per l’Assemblea costituente (novembre 1917) diedero la maggioranza assoluta al partito socialista rivoluzionario, espressione della popolazione rurale; tuttavia, nel corso della prima seduta (gennaio 1918), l’Assemblea costituente fu sciolta dai bolscevichi che, dopo un breve periodo di coalizione con il partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra (novembre 1917 - marzo 1918), stabilirono di fatto un regime monopartitico. Il primo decreto del governo di Lenin fu quello sulla terra (26 ottobre), che abolì la proprietà fondiaria e confermò la presa di possesso delle terre da parte dei contadini. Seguirono la legge sul controllo operaio della produzione e del commercio e i provvedimenti per la nazionalizzazione delle banche, della marina mercantile e delle grandi imprese industriali (novembre 1917 - giugno 1918). Un Consiglio superiore dell’economia nazionale, organo governativo con compiti di supervisione, fu costituito il 2 dicembre; pochi giorni dopo venne istituita la Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione, alla speculazione e al sabotaggio, conosciuta come Ceka, le cui funzioni di polizia politica divennero sempre più ampie. Rimasto senza seguito l’appello ai popoli e ai governi dei paesi belligeranti (26 ottobre) per la conclusione di una pace democratica, senza annessioni né contribuzioni, il governo avviò nel novembre le trattative per un armistizio con gli Imperi centrali: nel marzo 1918 venne quindi firmato il trattato di Brest-Litovsk, in base al quale la Russia rinunciava alle province baltiche, alla Polonia e all’Ucraina. Il crollo dell’Impero russo e l’occupazione tedesca fornirono inoltre l’opportunità per la proclamazione di indipendenza di Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania, Polonia, Bielorussia e Ucraina. Anche nelle province caucasiche furono proclamate repubbliche secessioniste e diversi centri di potere indipendente sorsero in Asia centrale e in Siberia, anche in seguito allo scoppio della guerra civile; questa dall’estate del 1918 contrappose l’Armata rossa, costituita dai bolscevichi in sostituzione del vecchio esercito, ai cosiddetti Russi bianchi (esponenti del vecchio regime e membri di vari partiti soppressi dopo l’ottobre 1917, guidati da ex ufficiali dell’esercito zarista, appoggiati e riforniti dai paesi dell’Intesa). Nel luglio 1918, quando fu approvata la prima Costituzione e proclamata la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR), il governo bolscevico controllava solo la parte centrale del vecchio Impero russo. Negli anni della guerra civile, l’Armata rossa e la Ceka costituirono non solo la struttura militare e coercitiva del regime, ma anche, insieme agli organismi del partito, gli effettivi centri di esercizio delle funzioni amministrative e di governo, a scapito dei soviet. In quegli stessi anni la politica adottata dal governo bolscevico, conosciuta come “comunismo di guerra”, fu caratterizzata dalla tendenza a un rigido accentramento del potere economico, attraverso la totale nazionalizzazione anche delle piccole imprese, la proibizione del commercio privato, la nazionalizzazione delle terre e la requisizione delle eccedenze di grano ai contadini. Ciò nonostante, questi ultimi, nel timore di una vittoria dei Russi bianchi, che avrebbe comportato la restituzione delle terre agli antichi proprietari, sostennero i bolscevichi (anche se furono numerosi gli episodi di ribellione armata nelle campagne). Grazie a questo sostegno, oltre che alla superiore capacità di comando e mobilitazione, i bolscevichi vinsero nel 1920 la guerra civile, i cui strascichi durarono comunque fino al 1922. Ritiratisi i Tedeschi nel novembre 1918, l’Armata rossa ristabilì fra il 1919 e il 1921 il controllo delle forze fedeli alla Russia sovietica in Ucraina, Bielorussia e nel Caucaso, sconfiggendo i diversi regimi secessionisti. L’indipendenza della Finlandia era stata invece riconosciuta nel 1917, ma il governo bolscevico vi sostenne un’insurrezione filosovietica nel 1918, dopo il cui fallimento firmò nel 1920 un trattato di pace con il governo conservatore di Helsinki. Nello stesso anno trattati di pace furono firmati anche con gli stati baltici (che erano stati coinvolti nella guerra civile), rinunciando a ogni futura rivendicazione su di essi. Dopo il tentativo polacco di conquistare l’Ucraina (1919-20), l’Armata rossa occupò a sua volta parte della Polonia, giungendo fino a Varsavia, dove fu sconfitta nel giugno 1920; con il successivo trattato di Riga (marzo 1921), veniva confermato il riconoscimento dell’indipendenza polacca (risalente al 1918) e stabilito il confine dell’Ucraina e della Bielorussia con la Polonia. La Bessarabia, staccatasi dalla Russia nel 1917, continuò a essere rivendicata da Mosca, mentre, fra il 1919 e il 1922 il governo della RSFSR ristabilì la propria autorità sull’Asia centrale e sulla Siberia. Nel dicembre 1922 fu ufficialmente costituita una nuova entità sovranazionale, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), come unione volontaria di quattro entità: la RSFSR, l’Ucraina, la Bielorussia e la federazione transcaucasica (composta da Armenia, Georgia e Azerbaigian). L’URSS fu il più grande stato del mondo, quasi uguale in termini di espansione territoriale alla Russia prerivoluzionaria, primo stato moderno eretto sul principio dell’autonomia territoriale di diverse etnie. La prima Costituzione, approvata nel 1923 (ed entrata in vigore nel 1924), lo definì come uno stato socialista federativo, aperto all’unione con altri stati socialisti, nucleo di una futura “repubblica socialista sovietica mondiale”. [152211] La Terza Internazionale (o Internazionale comunista, o Komintern) fu costituita con sede a Mosca nel marzo 1919, ebbe i caratteri e le aspirazioni di partito della rivoluzione mondiale e vi aderirono decine di gruppi e formazioni politiche di orientamento comunista. Nel secondo congresso (1920) furono stabilite le condizioni per l’adesione dei partiti e l’Internazionale assunse l’aspetto di un organismo centralizzato nel quale i comunisti sovietici, sia per motivi numerici e organizzativi che di prestigio, ebbero un ruolo largamente egemone, mentre si approfondiva, anche in virtù della polemica con il riformismo, la rottura con la tradizione politica socialista. Falliti i tentativi rivoluzionari in Europa, dalla metà degli anni Venti l’Internazionale comunista fu particolarmente attenta allo sviluppo dei movimenti contadini e favorì la crescita di formazioni comuniste e rivoluzionarie in molti paesi dell’Asia e dell’America Latina; contemporaneamente, con il predominio di Stalin all’interno del PCUS, veniva a cessare quasi completamente il dibattito interno e l’Internazionale diveniva sempre più strumento della politica estera dell’URSS. Negli anni tra il 1928 e il 1933 prevalse nell’Internazionale l’interpretazione della crisi economica come sintomo di un’imminente ripresa rivoluzionaria (di qui una rinnovata polemica contro il riformismo), ma l’ascesa del nazionalsocialismo costrinse il movimento comunista a correggere la rotta e aprire la strada alla politica dei fronti popolari (VII congresso, 1935). Irretita dalla complessa politica staliniana nei confronti della Germania, l’Internazionale ebbe un’ultima fase espansiva dopo l’attacco tedesco all’URSS (1941), per venire finalmente sciolta, in quanto ostacolo all’alleanza delle potenze antifasciste, nel 1943. Nel 1938 L. D. Trockij e i suoi seguaci avevano fondato la Quarta Internazionale, in opposizione alla Terza, da costoro giudicata asservita alla politica estera dell’URSS staliniana. La nuova organizzazione intese riproporre un programma comunista e rivoluzionario ispirato ai principi internazionalisti della “rivoluzione permanente”. Ha avuto una qualche fortuna specie in America Latina, negli Stati Uniti e in vari paesi europei. [15231] Le origini del fascismo si innestano nel processo di crisi e di trasformazione della società e dello stato, iniziato in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento con l’avvio dell’industrializzazione e della modernizzazione, accompagnate da fenomeni di mobilitazione sociale, che coinvolsero il proletariato e i ceti medi e diedero un forte impulso alla politicizzazione delle masse. Alcuni motivi culturali e politici che contribuirono alla formazione del fascismo sono presenti, alla vigilia della prima guerra mondiale, in movimenti radicali di destra e di sinistra (il nazionalismo, il sindacalismo rivoluzionario, il futurismo) come, per esempio, il senso tragico e attivistico della vita; il mito della volontà di potenza; l’avversione per l’egualitarismo e l’umanitarismo; il disprezzo per il parlamentarismo; l’esaltazione della funzione delle minoranze attive; la concezione della politica come attività per organizzare e plasmare la coscienza delle masse; il culto della giovinezza come aristocrazia dirigente; l’apologia della violenza e dell’azione diretta; la visione della modernità come esplosione di energie umane e conflitto di forze collettive, organizzate in classi o nazioni; l’aspettazione di un’incombente svolta storica che avrebbe segnato la fine della società borghese liberale e l’inizio di una “nuova epoca”. Nel fascismo confluirono anche temi e miti della contestazione antigiolittiana del radicalismo nazionale, che derivava dalla tradizione mazziniana la visione del Risorgimento come “rivoluzione incompiuta” perché non aveva realizzato, con l’unificazione territoriale, la nazionalizzazione delle masse. Socialmente, questa contestazione era una rivolta generazionale di giovani, appartenenti soprattutto alla piccola borghesia, i quali volevano abbattere l’ordine esistente, con una guerra o una rivoluzione, vagheggiando la rigenerazione morale e culturale degli Italiani in uno stato nuovo, più moderno ed efficiente, fondato su un più alto grado di integrazione fra governanti e governati. L’interventismo di molti giovani di fronte alla Grande guerra ebbe origine da questo spirito di rivolta: essi considerarono la guerra l’occasione rivoluzionaria per realizzare i loro miti e le loro ambizioni, identificandosi con la “volontà generale” della nazione. L’interventismo e l’esperienza della guerra favorirono, nel mito dell’italianismo, la fusione fra radicalismo di destra e radicalismo di sinistra, preparando il terreno per la nuova sintesi fascista. I movimenti antiliberali o antidemocratici di destra e di sinistra, esistenti in Italia prima della guerra, contribuirono alla formazione del fascismo, ma di per sé non possono essere considerati forme di protofascismo, perché in essi si formarono anche molti protagonisti dell’antifascismo. Nello stesso senso, risulta infondata la tesi secondo la quale lo stato liberale e la borghesia erano decisi, già prima della guerra, ad imboccare la strada della reazione antiproletaria e dell’autoritarismo: le condizioni per la nascita e il successo del fascismo furono poste dalla prima guerra mondiale e dalle sue conseguenze economiche, sociali, culturali e morali, che accelerarono violentemente la trasformazione della società e la crisi dello stato liberale, suscitando nuove forze che non si riconoscevano nella democrazia parlamentare. Lo stato liberale, che aveva superato vittoriosamente la prova della guerra, non resse alle tensioni e ai conflitti della nuova politica di massa. L’esperienza della guerra, l’esasperazione nazionalistica per la “vittoria mutilata”, il mito della rivoluzione bolscevica portarono alla radicalizzazione e alla brutalizzazione della lotta politica, che riesplose con episodi di vera e propria guerra civile, travolgendo il quadro istituzionale tradizionale e creando una profonda crisi di potere, di autorità e di legittimità. Nonostante i propositi di rinnovamento, la classe dirigente liberale fu incapace di far fronte all’irruzione di nuove masse nella politica, alla gravissima crisi economica e alle tensioni sociali durante il cosiddetto biennio rosso (1919-20), con una ondata di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in gran parte dal massimalismo socialista all’insegna di una imminente rivoluzione che avrebbe portato, anche con la violenza, alla dittatura del proletariato. La rapida successione di governi deboli, privi di solida base nel parlamento e nel paese, fra il 1919 e il 1922, diffuse la sfiducia verso lo stato liberale anche fra i ceti borghesi che fino ad allora lo avevano sostenuto, rendendoli disponibili a soluzioni autoritarie. Le elezioni politiche nel novembre 1919, col sistema proporzionale, segnarono la fine dell’egemonia parlamentare del liberalismo e l’affermazione del Partito socialista e del Partito popolare. Contro lo stato liberale scesero in campo anche nuovi movimenti politici che si richiamavano all’interventismo e al mito dell’esperienza di guerra, come il sindacalismo nazionale, il partito futurista, l’arditismo, il fiumanesimo: essi si consideravano avanguardie della “rivoluzione nazionale” che avrebbe realizzato l’integrazione delle masse nello stato e la nazionalizzazione delle classi, portando al potere l’“aristocrazia del combattentismo”. Il fascismo nacque nell’ambito di questi movimenti ma, in principio, nonostante la notorietà in campo nazionale del suo promotore, non fu il più numeroso e neppure il più influente. Alla riunione indetta a Milano il 23 marzo 1919 per dar vita ai Fasci di combattimento, parteciparono forse un centinaio di militanti della sinistra interventista: ex socialisti, repubblicani, sindacalisti, arditi, futuristi. Il termine “fascio”, tipico della tradizione repubblicana, derivava dai Fasci di azione rivoluzionaria, costituiti all’inizio del 1915 da un gruppo di sindacalisti con l’adesione di Mussolini, espulso dal PSI per la sua scelta interventista. L’espressione “movimento fascista” appare, forse per la prima volta, nell’aprile 1915, su Il Popolo d’Italia per definire un’associazione di tipo nuovo, l’“antipartito”, formato da “spiriti liberi” che rifiutavano i vincoli dottrinari e organizzativi di un partito. Anche i Fasci di combattimento nacquero come “antipartito” per mobilitare i reduci al di fuori dei partiti tradizionali. Il fascismo si proclamava pragmatico e antidogmatico, anticlericale e repubblicano; proponeva riforme istituzionali, economiche e sociali molto radicali. I fascisti disprezzavano il parlamento e la mentalità liberale, esaltavano l’attivismo delle minoranze, praticavano la violenza e la “politica della piazza” per sostenere le rivendicazioni territoriali dell’Italia e combattere il bolscevismo. Per tutto il 1919 il fascismo rimase un fenomeno trascurabile nonostante l’attivismo e la campagna a sostegno dell’impresa di Fiume condotta da G. D’Annunzio. Nel primo congresso nazionale (Firenze, ottobre 1919), gli iscritti erano poche centinaia, sparsi nell’Italia settentrionale, con rarissime presenze nell’Italia centrale e del Sud. L’insuccesso dei Fasci fu confermato dalla disfatta nelle elezioni politiche del novembre 1919: alla fine del 1919, in tutta Italia si contavano 37 fasci con 800 iscritti. Dopo la sconfitta elettorale il fascismo iniziò un cambiamento di rotta, sancito al congresso nazionale di Milano (maggio 1920) abbandonando il programma del 1919 per riproporsi, con una conversione a destra, come organizzazione politica della “borghesia produttiva” e dei ceti medi che non si riconoscevano nei partiti tradizionali e nello stato liberale. La svolta portò alla rottura con i futuristi, con gli arditi e con D’Annunzio. Le fortune del fascismo cominciarono soltanto alla fine del 1920, dopo l’occupazione delle fabbriche (settembre) e le elezioni amministrative dell’autunno, che segnarono l’inizio del declino del Partito socialista, mentre spinsero la borghesia e i ceti medi, convinti di non essere più tutelati dal governo, ad organizzare forme di autodifesa contro il “pericolo bolscevico”, che allora appariva ancora reale, per riaffermare i diritti della proprietà e il primato dell’ideologia nazionale. Il fascismo si pose subito all’avanguardia della reazione borghese, come artefice di una violenta offensiva antiproletaria condotta da squadre armate organizzate militarmente (lo squadrismo), che nel giro di pochi mesi distrussero gran parte delle organizzazioni proletarie nelle province della Valle Padana, dove leghe “rosse” erano giunte ad esercitare, spesso con metodi vessatori e intolleranti verso i ceti borghesi e talvolta verso gli stessi lavoratori, un controllo quasi totale sulla vita politica ed economica. Perciò l’offensiva squadrista, almeno nei primi tempi, fu accolta favorevolmente dai partiti antisocialisti come una “sana reazione” contro le violenze massimaliste, e ciò consentì al fascismo di accreditarsi come salvatore dell’Italia dal bolscevismo e di arrogarsi il monopolio del patriottismo. La crescita del movimento, dopo il 1920, fu rapida: gli iscritti aumentarono da 20.165 del dicembre 1920 a 187.588 nel maggio 1921, superando i 200.000 due mesi dopo. Questa massa costituiva un movimento nuovo rispetto all’originario “fascismo milanese”, perché era un aggregato di vari “fascismi provinciali” concentrati soprattutto nelle zone rurali della Valle Padana e in Toscana, mentre la presenza fascista era scarsa nelle zone industriali e quasi inesistente nelle regioni meridionali, salvo la Puglia. La borghesia agraria diede un sostanzioso contributo allo sviluppo del fascismo, mentre la borghesia industriale, anche se in qualche zona finanziò i Fasci, fu più esitante a sostenerlo. La classe operaia rimase in gran parte refrattaria alla propaganda fascista, che invece riuscì ad attrarre un consistente seguito fra i lavoratori della terra che aspiravano alla proprietà e volevano sottrarsi al controllo delle leghe rosse. Sociologicamente, il fascismo fu soprattutto una manifestazione della mobilitazione dei ceti medi, sia tradizionali che emergenti, i quali costituivano una massa sociale in gran parte nuova alla politica, e, avendo dato un contributo decisivo alla guerra, si consideravano i legittimi rappresentanti della “nuova Italia” cui spettava assumere la guida del paese. Ai ceti medi apparteneva la grande maggioranza dei dirigenti dei Fasci e dei capi dello squadrismo, come pure gran parte dei militanti: ufficiali smobilitati, organizzatori di mestiere, professionisti, impiegati, artigiani, commercianti, studenti e intellettuali. E fu soprattutto l’adesione dei ceti medi che diede al fascismo, in quanto movimento di massa, dinamismo e ambizioni politiche che lo spinsero al di là della funzione contingente di strumento della reazione antiproletaria. Forte della sua rapida affermazione, il fascismo partecipò alle elezioni del 1921 nei Blocchi nazionali, patrocinati da Giolitti, conquistando 35 seggi. Il vecchio statista pensava di porre fine allo squadrismo “parlamentarizzando” il fascismo ma, dopo il successo elettorale, Mussolini recuperò libertà di azione, mentre continuarono le violenze degli squadristi contro socialisti, comunisti, repubblicani, popolari ed esponenti parlamentari. Il perpetuarsi di queste violenze, con episodi di efferata crudeltà, suscitò la condanna anche dell’opinione pubblica borghese che, ritenendo esaurita la funzione della “sana reazione”, reclamava il ritorno alla normalità sotto l’impero della legge. Il governo Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) tentò di porre fine alla violenza politica favorendo un “patto di pacificazione” fra fascisti, socialisti e dirigenti della CGdL, sottoscritto il 3 agosto. Con questa iniziativa, Mussolini mirava ad inserire stabilmente il fascismo nella politica parlamentare, spingendosi fino ad ipotizzare una alleanza parlamentare con i popolari e i socialisti. Attraverso l’accettazione del patto, che aveva incontrato l’opposizione di molti esponenti dello squadrismo, Mussolini voleva anche far valere la sua autorità di capo sui “fascismi provinciali”, per porre un limite alle violenze squadriste che, sconfitto il socialismo, rischiavano di isolare il fascismo. La maggior parte dei capi dei “fascismi provinciali”, come Marsich, Grandi, Balbo, Farinacci, rigettarono il patto, contestando pubblicamente a Mussolini il diritto di considerarsi capo del fascismo. [152311] Al congresso di Roma (novembre 1921) Mussolini riuscì a far accettare ai capi dei "fascismi provinciali" definitivamente il suo ruolo di “duce” e la trasformazione del movimento in Partito nazionale fascista (PNF). Gli squadristi a loro volta ottennero l’abbandono del patto di pacificazione con i socialisti e i dirigenti della CGdl e la valorizzazione del loro ruolo nel nuovo partito. Dallo squadrismo il PNF derivò l’organizzazione e l’ideologia, assumendo definitivamente il carattere, per molti aspetti originale, del partito milizia. E ciò non solo perché l’organizzazione era dotata di un braccio armato, ma perché i fascisti si consideravano un partito diverso dagli altri, una milizia eletta di credenti e di guerrieri, animati dalla fede nel mito della nazione. La loro cultura politica rifiutava il razionalismo e assumeva, come forma superiore di coscienza politica, la fede nei miti di una religione laica fondata sul culto integralista della patria, sul senso comunitario del cameratismo, sull’etica del combattimento e sul principio della gerarchia. L’ideologia fascista era rappresentata esteticamente, in modo efficace e suggestivo, attraverso i riti e i simboli di un nuovo stile che si richiamava a una forma nuova di militarizzazione della politica. Nei confronti dello stato liberale e degli altri partiti, il fascismo rivendicava una diversità privilegiata, ponendosi al di sopra delle leggi in nome della pretesa superiorità della sua etica politica e della “volontà generale” della nazione, di cui pretendeva di essere l’unico interprete: chi si opponeva al fascismo era considerato un “nemico della nazione”, contro il quale era lecita qualsiasi forma di violenza. Nel 1922, con oltre duecentomila iscritti, un esercito privato, associazioni femminili e giovanili, sindacati con circa mezzo milione di aderenti, il PNF era la più forte organizzazione del paese, mentre gli altri maggiori partiti erano in crisi per le divisioni interne o per i continui assalti cui erano sottoposti da parte dello squadrismo. Il PNF esercitava un dominio incontrastato in gran parte dell’Italia settentrionale e centrale, operando come un vero e proprio “antistato” nello stato. Nella primavera del 1922, mentre la guida del paese era affidata al debole governo di Luigi Facta (febbraio-ottobre 1922), il fascismo riprese l’offensiva militare per estendere il suo predominio su altre zone del paese e moltiplicò gli attacchi contro le sinistre e il partito popolare, sfidando apertamente lo stato liberale con mobilitazioni di piazza e occupazioni di città. L’idea di una “marcia su Roma” maturò dopo il fallimento dello “sciopero legalitario”, proclamato all’inizio di agosto dall’Alleanza del lavoro per protestare contro il fascismo e contro la debolezza manifestata dal governo nei suoi confronti. Il PNF reagì con una violenta rappresaglia, distruggendo quel che rimaneva delle organizzazioni operaie. Allora risultò chiara l’impotenza dello stato liberale e l’incapacità dei partiti antifascisti, per reciproche rivalità, a trovare un accordo per dar vita a un governo capace di ristabilire l’autorità dello stato. Molti sottovalutavano ancora la forza del fascismo e la sua volontà di conquistare il potere, considerandolo un movimento destinato ad esaurirsi in breve tempo, per mancanza di una propria autonoma capacità d’esistenza, ovvero ad essere riassorbito nel vecchio sistema. Convinti di ciò, la classe dirigente, il mondo economico, le istituzioni tradizionali ritennero necessario, per risolvere il problema del fascismo, coinvolgere il PNF nelle responsabilità di governo, non cedendogli il potere, ma inserendolo in una coalizione presieduta da un esponente della vecchia classe dirigente. Mussolini fece mostra di essere disposto a un compromesso, per prevenire la formazione di una maggioranza antifascista, ma anche per evitare eventuali colpi di testa dei fascisti rivoluzionari. Alla vigilia della “marcia su Roma” (28 ottobre) il duce proclamò che il fascismo rispettava la monarchia e l’esercito, riconosceva il valore della religione cattolica, intendeva attuare una politica liberista favorevole al capitale privato e restaurare l’ordine e la disciplina nel paese. Contemporaneamente il PNF accelerò la crisi dello stato liberale esibendosi in nuove manifestazioni di forza contro il governo, come l’occupazione di Bolzano e di Trento (1°-3 ottobre). Mussolini attuò un abile gioco di trattative separate con i maggiori esponenti del liberalismo, facendo credere a ciascuno di essi di essere disponibile per una partecipazione al governo con moderate richieste, assicurandosi anche l’appoggio della massoneria (cui molti fascisti appartenevano) per sfruttare la sua influenza negli alti gradi dell’esercito e nei circoli di corte. Combinando la pratica terroristica con il compromesso politico, il PNF mise in atto con successo una nuova tattica di conquista del potere per mezzo di una “rivoluzione legale”: la “marcia su Roma” infatti non fu una vera e propria insurrezione armata, che sarebbe certamente fallita in uno scontro con l’esercito regolare, ma un’arma di pressione e di ricatto sul governo e sul re per indurlo a cedere alle pretese del PNF. E in questo senso, seminando la confusione ai vertici dello stato, la mobilitazione fascista conseguì il massimo risultato col minimo rischio, perché riuscì, specialmente per decisione di M. Bianchi, segretario generale del PNF, a far fallire l’ipotesi di un governo Salandra o Giolitti, auspicata dalla monarchia, dagli industriali e dagli stessi fascisti moderati, facendo alla fine prevalere la soluzione di un governo Mussolini, dopo il rifiuto del re di decretare lo stato d’assedio per stroncare l’insurrezione squadrista. [152321] Il 31 ottobre 1922 Mussolini formò il nuovo governo con i fascisti, esponenti liberali, popolari, democratici e nazionalisti. Il governo ottenne, con larga maggioranza, la fiducia dalla camera e dal senato, che concessero anche i pieni poteri al presidente del Consiglio per l’attuazione di riforme fiscali e amministrative. La sanzione parlamentare non cancellava però la gravità di quanto era avvenuto. Per la prima volta nella storia delle democrazie liberali europee e dello stato unitario italiano, il governo era affidato al capo di un partito armato, che aveva una modesta rappresentanza parlamentare, ripudiava i valori della democrazia liberale, esaltava la militarizzazione della politica e proclamava la sua volontà rivoluzionaria di trasformare lo stato in senso autoritario. In questa prospettiva, la “marcia su Roma” può essere considerata storicamente il primo passo verso il regime totalitario, anche se la trasformazione dello stato non seguì un disegno preordinato e chiaramente perseguito fin dall’inizio. Il consolidamento del fascismo al potere avvenne attraverso diverse fasi. Fino al delitto Matteotti (10 giugno 1924), Mussolini attuò una politica di coalizione con altri partiti disposti a collaborare, assimilando le forze affini come l’Associazione nazionalista (assorbita dal PNF nel febbraio 1923), servendosi dei mezzi legali di repressione per ostacolare l’attività dei partiti antifascisti, e cercando anche di contenere la violenza squadrista, che proseguiva al di fuori del suo controllo. Nello stesso tempo, Mussolini decise di togliere al PNF qualsiasi autonomia per sottoporlo alle sue direttive. Nel dicembre 1922 istituì un nuovo organo supremo del partito, il Gran Consiglio, di cui egli stesso era presidente, esautorando di fatto gli organi dirigenti nominati dal congresso del 1921. Inoltre, con l’istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (14 gennaio 1923), Mussolini legalizzò la milizia fascista, sottraendola al partito e ponendola sotto il suo diretto comando. Queste misure non bastarono a disciplinare il partito, né a frenare l’anarchico illegalismo dei capi squadristi (i “ras”) che continuavano a spadroneggiare nelle province, imponendo la loro volontà anche ai rappresentanti del governo. Fra il 1923 e il 1924 il PNF fu investito da una gravissima crisi, provocata dall’accorrere di migliaia di nuovi aderenti sul carro del vincitore e dalle rivalità di interessi e di ambizioni nella corsa all’arrembaggio delle cariche pubbliche. Ma la crisi assunse anche carattere politico con il proliferare di fazioni e di Fasci dissidenti e autonomi, e soprattutto con lo scontro fra i “revisionisti”, fautori della normalizzazione e della smilitarizzazione del PNF, e gli “integralisti”, che esaltavano il ruolo del partito milizia e volevano continuare la “rivoluzione fascista” fino alla conquista totale del potere e alla costruzione di uno stato nuovo. Mussolini, anche se non era insensibile ai miti della “rivoluzione fascista”, mirava invece a consolidare il suo potere principalmente attraverso il compromesso con le istituzioni tradizionali, con la chiesa e con il mondo economico, che formavano l’eterogeneo fronte dei fiancheggiatori del suo governo. Per ottenere una maggioranza parlamentare più ampia e sicura, fece varare una riforma elettorale, nota come “legge Acerbo”, approvata dalla Camera nel luglio 1923, che assegnava un premio di maggioranza alla lista vincente. Le elezioni politiche dell’aprile 1924, avvenute in un clima di intimidazioni e di violenze, assicurando una larga maggioranza al governo sembrarono far prevalere la politica mussoliniana. Ma l’assassinio di Matteotti, la profonda emozione che il delitto suscitò nel paese, la secessione parlamentare della maggioranza dei deputati antifascisti (Aventino), diedero un grave colpo alla politica di coalizione e fecero vacillare il governo. Mussolini riuscì comunque ad evitare la caduta perché le opposizioni antifasciste non seppero sfruttare politicamente la situazione e soprattutto perché la monarchia e i fiancheggiatori gli confermarono la fiducia, condizionandola però, in modo sempre più pressante, alla realizzazione di una vera normalizzazione e alla liquidazione dell’illegalismo fascista. La crisi Matteotti ridiede anche vigore allo squadrismo dei fascisti intransigenti, che costituivano l’unica vera forza del PNF di fronte al rischio di un licenziamento di Mussolini dal governo. E furono i fascisti intransigenti che alla fine del 1924, mentre il fronte dei “fiancheggiatori” cominciava a cedere, imposero al duce la via della dittatura. Con il discorso di Mussolini alla Camera, il 3 gennaio 1925, il fascismo entrò in una nuova fase di consolidamento al potere, mentre una raffica di misure repressive del governo e nuove violenze squadriste si abbatterono su partiti, giornali, uomini politici e intellettuali antifascisti. Da questo momento, la storia del fascismo si intreccia con la storia d’Italia, fino alla tragedia della seconda guerra mondiale. [152331] Forze politiche analoghe al fascismo italiano, talora esplicitamente a questo ispirate, sorsero fin dagli anni Venti in quasi tutti gli stati europei, e negli anni Trenta si delineò un movimento fascista internazionale che intrise della propria ideologia e del proprio costume, più o meno profondamente, anche regimi politici conservatori di impianto più tradizionale, ebbe ruolo decisivo nello scatenarsi della guerra, ne dettò le politiche di alleanza, accarezzò il disegno della costruzione di un “nuovo ordine” fascista in Europa. I fascismi europei, pur se non ispirati da un’unica direttiva politica (tranne durante la guerra), furono costituiti di movimenti di masse organizzati da un partito a struttura autoritaria (guidato da un leader carismatico), dotati di un apparato militare che perseguiva la conquista del potere anche con la violenza e considerava gli avversari nemici da sottomettere o annientare; l’ideologia di fondo fu di ispirazione nazionalistica, talora con i caratteri mistici di una religione laica, e la visione della politica assunse caratteristiche esclusive e totalitarie, assorbendo gran parte del vissuto (esaltazione di virtù guerriere, cameratismo, ecc.); in tutti i casi i nemici dichiarati furono il liberalismo, la democrazia parlamentare, il movimento operaio socialista, il marxismo. I regimi fascisti – in primis dunque l’italiano e il tedesco – furono a partito unico e pertanto forniti di speciali strumenti repressivi che pervennero sovente a forme persecutorie estreme; furono caratterizzati da una permanente mobilitazione delle masse e basati su un’organizzazione corporativa dell’economia che in teoria avrebbe posto tutte le classi sociali sotto il controllo dello stato, di fatto assicurò il controllo dello stato sui lavoratori; la politica estera fu caratterizzata da programmi di egemonia e di espansione imperiale; dalla fine degli anni Trenta l’antisemitismo (nella forma della discriminazione o della pratica dello sterminio) divenne comune ai regimi di ispirazione fascista interessati alla battaglia per la conquista dell’Europa. Se queste caratteristiche non furono proprie di tutti i regimi reazionari e autoritari europei degli anni Venti e Trenta (che, fondati su concezioni più tradizionali, talora spensero con la forza la carica eversiva dei movimenti fascisti), vi fu spesso tra quei regimi e questi movimenti uno scambio di ideologie e di uomini che rende problematica una definizione rigorosa del fascismo, per cui gli storici ricorrono talora a espressioni quali pseudofascismo o parafascismo o fascismo generico. Del resto, anche nei casi in cui i movimenti fascisti pervennero al potere, la tendenza “rivoluzionaria”, eversiva e radicale, scese a patti e si contaminò con le forze conservatrici e reazionarie della destra tradizionale. Infine, il fascismo internazionale si presentò come reazione anticomunista e antirivoluzionaria, e si giovò della crisi di credibilità delle democrazie: questa crisi, latente fin dalla prima guerra mondiale, espose i sistemi politici di ispirazione liberale alle più diverse pressioni destabilizzanti, sia di segno reazionario che rivoluzionario (specie in ambito politologico è stata pertanto utilizzata la categoria del totalitarismo, atta a fornire spiegazione unitaria delle dittature totalitarie europee, compresa l’URSS staliniana). Anche a motivo della grave recessione dei primi anni Trenta, la spinta formidabile all’espansione del fascismo avvenne con la presa del potere del partito nazionalsocialista in Germania nel 1933, che approfondì la crisi dell’equilibrio seguito alla prima guerra mondiale, alimentando ulteriormente le pulsioni destabilizzatrici presenti all’interno di molti paesi. In Austria – dove erano presenti fin dal dopoguerra le Heimwehren (“milizie patrie”), ispirate al fascismo italiano e da questo sostenute – la semifascistizzazione del paese fu avviata dalla cancelleria Dollfuss con il varo della costituzione corporativa del 1934, cui contribuì fortemente anche l’apporto del cattolicesimo. La carta del fascismo fu dunque giocata in chiave conservatrice ed ebbe funzione di opposizione alle mire espansionistiche della Germania, finché il rafforzarsi del partito nazionalsocialista austriaco e l’alleanza politico-diplomatica tra Italia e Germania posero le basi dell’Anschluss (1938), che segnava l’ormai acquisita egemonia politica del nazionalsocialismo sul fascismo italiano. Per qualche verso analoga l’evoluzione degli stati baltici: dal 1926 la Lituania e dal 1934 l’Estonia e la Lettonia sperimentarono governi nazionalisti e autoritari che – anche per la comprensibile diffidenza verso Germania, URSS e Polonia – guardavano con simpatia al fascismo italiano. In Portogallo, il regime autoritario, illiberale e corporativo di A. Salazar non venne edificato col supporto di movimenti di massa ma si innestò sul regime militare inaugurato nel 1926 dal colpo di stato del gen. Cardona. Altro passo decisivo all’espansione del fascismo in Europa fu la guerra di Spagna (1936-39), dove già la dittatura di M. Primo de Rivera (1923-30) aveva introdotto suggestioni del fascismo italiano (corporativismo, autoritarismo, ducismo, ecc.) e una larga sfiducia nella democrazia parlamentare. La Spagna segnò l’ultima vittoria “politica” del fascismo, che non sarebbe più riuscito a vincere in una nazione europea se non imposto militarmente dalla Germania o dall’Italia. La seconda metà degli anni Trenta segnò pertanto il declino di movimenti quali la British union of fascists in Gran Bretagna, fondata da O. Mosley nel 1932, o il movimento rexista (dalla casa editrice Christus Rex da cui prese le mosse) in Belgio, fondato nel 1932 da Léon Degrelle, che dopo il 1936 perse rapidamente consensi per la sua politica filotedesca. Prendeva invece forma in tutti i paesi europei il movimento della resistenza antifascista. Fu dunque lo scoppio della guerra a consentire l’ulteriore avanzamento del fascismo, in concomitanza con l’espansione della Germania in Europa, che valorizzò e rese egemoni nei regimi collaborazionisti le tendenze nazifasciste presenti nei diversi paesi. [15241] Dopo gli anni di dittatura aperti dal colpo di stato del generale M. primo de Rivera (1923) e chiusi col ripristino dell’ordinamento costituzionale (1930), la Spagna vedeva ancora irrisolti i problemi di fondo del paese; quindi, a seguito della vittoria dei repubblicani nelle elezioni municipali dell’aprile 1931, Alfonso XIII abbandonò la Spagna. Le elezioni per le Cortes costituenti del giugno 1931 furono vinte largamente da una coalizione di repubblicani di sinistra e socialisti (PSOE) e nel dicembre 1931 fu promulgata una costituzione di carattere democratico-sociale avanzato. Varato uno statuto di ampia autonomia per la Catalogna (1932), il governo del repubblicano M. Azaña cercò di limitare il peso della Chiesa e dell’esercito nella vita politica del paese, introdusse una più avanzata legislazione del lavoro, ma non riuscì ad arginare la crescente disoccupazione né a soddisfare la richiesta di terra proveniente dal proletariato agricolo. Le elezioni legislative del 1933 furono pertanto vinte dal partito radicale di A. Lerroux García e dalla Confederación española de derechas autónomas (CEDA), coalizione di partiti di destra nata per iniziativa di J. M. Gil Robles. Nell’ottobre 1934, contro l’ingresso di tre ministri della CEDA nel governo Lerroux, il PSOE proclamò uno sciopero generale, trasformatosi nella regione mineraria delle Asturie in un’insurrezione armata; quest’ultima fu ferocemente repressa dall’esercito, come il moto indipendentista scoppiato in Catalogna per timore che il governo centrale abrogasse lo statuto di autonomia e annullasse la legge di riforma agraria approvata dalla locale Generalitat. Il predominio delle destre fu interrotto nelle elezioni del febbraio 1936 dalla vittoria del Frente popular: l’annullamento delle riforme realizzate sino a allora e il timore dell’avvento di un regime di tipo fascista indussero repubblicani di sinistra, socialisti e comunisti (il Partido comunista de España, PCE, era nato nel 1922) a creare una coalizione elettorale, che poté contare anche sul tacito sostegno delle organizzazioni anarchiche (in particolare della potente Confederación nacional de trabajo, CNT, nata nel 1910). Mentre si moltiplicavano le occupazioni di terre da parte di contadini poveri, gli incendi e i saccheggi ai danni di chiese e monasteri, gli scontri tra formazioni paramilitari di destra e organizzazioni operaie, e il nuovo governo, composto esclusivamente da repubblicani, varava nuovi provvedimenti riformistici e anticlericali, il 17 luglio 1936 scoppiò in Marocco l’insurrezione del generale F. Franco, propagatasi il giorno seguente nella madrepatria; l’intervento dei lavoratori in armi contro i militari nelle principali città impedì il successo degli insorti, che poterono impadronirsi solo di Vecchia Castiglia, Navarra, Aragona, Galizia e Andalusia. Seguì una violentissima guerra civile (1936-39), durante la quale gli insorti fecero affidamento su consistenti aiuti in uomini e materiali da parte di Italia e Germania, nonostante i due paesi avessero formalmente aderito agli accordi di non intervento promossi da Francia e Gran Bretagna, mentre il governo legittimo, oltre all’aiuto di migliaia di volontari accorsi da tutto il mondo e organizzati nelle Brigate internazionali, poté contare sul sostegno dell’URSS. Sul piano militare, dopo il fallimento di un primo assalto a Madrid (novembre 1936) e delle successive offensive contro la capitale (Jarama, febbraio 1937; Guadalajara, marzo 1937), Franco diresse i suoi sforzi contro le regioni industriali del Nord, che riuscì a sottomettere entro l’ottobre 1937. Al vittorioso attacco repubblicano contro Teruel (dicembre 1937 - gennaio 1938), i franchisti risposero con la riconquista della città a febbraio e con un’offensiva che, raggiunte a primavera le foci dell’Ebro, tagliò in due la Spagna repubblicana (Catalogna e regione madrileno-mediterranea). Caduta la Catalogna (gennaio 1939), nel campo repubblicano si produsse una profonda spaccatura tra militari, favorevoli a trattare la resa, e comunisti, decisi a resistere a oltranza e dal 7 marzo 1939 infuriarono a Madrid violenti combattimenti tra esercito e comunisti. Il 28 marzo Franco, il cui governo era già stato riconosciuto anche da Francia e Gran Bretagna, entrò in città e il 1° aprile 1939 poté annunciare la fine del conflitto, costato alla Spagna incalcolabili danni materiali, circa un milione di morti e centinaia di migliaia di esuli. [15251] Il trattato di Versailles era viziato da gravi difetti e contraddizioni interne: le sue premesse, che addossavano alla Germania e all’Austria l’intera responsabilità, non solo giuridica, ma anche morale della guerra, non potevano alla lunga essere accettate dai Tedeschi; d’altra parte, le condizioni finanziarie e territoriali imposte alla Germania, mentre da un lato erano troppo dure, dall’altro non erano sufficienti a impedire la sua risurrezione militare e industriale. Si aggiunga che, scomparsa l’Austria-Ungheria, e, per allora, la Russia, come potenze capaci di contenere il revisionismo e l’espansionismo tedesco, stanche la Francia e l’Italia, scarso e impoverito il Commonwealth britannico, chiusisi gli Stati Uniti nell’isolazionismo, il mantenimento coattivo del trattato era praticamente impossibile. Anzi, le sue clausole costituirono il terreno di coltura per una rinascita del militarismo e del nazionalismo tedesco. Troppe erano inoltre le riserve mentali degli stipulatori di quel patto, nello spirito della concezione tradizionale della politica di forza; e d’altra parte il consolidamento della rivoluzione bolscevica, e il conseguente rafforzamento in tutta Europa dei partiti operai, intensificavano un po’ dovunque la resistenza dei non comunisti. S’imposero così movimenti e governi nazionalistici e autoritari, sull’esempio del fascismo, salito al potere in Italia nel 1922: ciascuno bensì determinato da cause e caratteristiche proprie, ma tutti in funzione anticomunista, e tutti più o meno aiutati anche dagli stati che avevano saputo conservare, pur nella loro opposizione al comunismo, le loro forme democratiche. L’avvento al potere di Hitler (1933) fu decisivo per le sorti dell’equilibrio così precariamente stabilito a Versailles. Inoltre, prima dell’avvento nazista, la tranquillità dell’Italia, della Germania e del Giappone, alle prese con i problemi del loro riassestamento economico, aveva alimentato nei più la fiducia nei programmi paneuropei e nella Società delle Nazioni quale strumento efficace per il mantenimento della pace: era nata così fin dal 1926 la Commissione preparatoria del disarmo, che giungeva il 2 febbraio 1932 all’apertura di quella Conferenza di Ginevra nella quale ben 62 nazioni furono rappresentate, ma il cui risultato negativo (14 ottobre 1933) fece emergere improvvisamente, e in maniera drammatica, la crisi in cui versava la sicurezza internazionale. Tuttavia, l’abbandono da parte di Hitler della Società delle Nazioni alla conferenza per il disarmo (abbandono che aveva appunto determinato il fallimento della conferenza) dimostrò nelle sue conseguenze la mancata consapevolezza nei paesi democratici della vera natura di quella crisi, se anzitutto il governo nazista poté sin d’allora dare libera attuazione a un massiccio incremento delle forze militari tedesche, in violazione delle limitazioni imposte dal trattato di pace. L’impresa giapponese in Manciuria (1931-32) aveva intanto inferto anche un primo colpo al principio della sicurezza collettiva. E seppure, quando l’Italia fascista volle anch’essa crearsi il suo “spazio vitale” attraverso la conquista coloniale in Africa (guerra d’Etiopia, 1935-36), gli stati membri della Lega, nel giustificato timore che l’inazione esautorasse definitivamente la Società delle Nazioni, decretarono il 18 novembre 1935 le sanzioni, queste non ebbero efficace applicazione. Inoltre, la Germania hitleriana approfittava del contrasto franco-britannico delineatosi con la crisi etiopica (la Francia essendosi allora opposta alla richiesta britannica di misure militari contro l’Italia) per procedere alla rioccupazione militare della Renania (7 marzo 1936). La tattica nazista ebbe successo, perché, abbandonando a sua volta il principio della sicurezza collettiva, la Gran Bretagna negava il suo consenso a un intervento attivo della Società delle Nazioni nella questione renana e questo il governo britannico faceva al fine di contrastare in Europa l’influenza dell’URSS, della Francia (legate, queste due potenze, col trattato del 2 maggio 1935) e dell’Italia. In tal modo, l’uscita formale dell’Italia fascista nel dicembre 1937 dalla Società delle Nazioni (dopo il suo abbandono da parte del Giappone, avvenuto all’atto della crisi del marzo 1932 in Estremo Oriente, e della Germania) sanzionava definitivamente la crisi della Lega. [152511] Mussolini aveva ormai da tempo maturato il suo distacco da quel dialogo con le potenze occidentali che, fino alle prime manifestazioni della politica violentemente eversiva dei trattati perseguita da Hitler, egli aveva attuato in funzione di un inserimento attivo dell’Italia nel quadro dell’equilibrio europeo e di una revisione negoziata della pace. Già l’accordo di Stresa (14 aprile 1935), il quale sembrò allineare l’Italia alla Francia e alla Gran Bretagna nell’affermato proposito di difendere l’indipendenza dell’Austria e di opposizione al riarmo germanico, era stato invece concepito da Mussolini quale strumento diplomaticamente efficace per conseguire, con il consenso franco-britannico, la conquista dell’Etiopia. Questa vide la Germania nazista a fianco dell’Italia fascista: si istituì allora un legame, che andò sempre più strigendosi, attraverso l’accordo circa l’annessione tedesca dell’Austria (11 luglio 1936), la nascita dell’Asse Roma-Berlino (incontro Hitler-Ciano a Berchtesgaden del 20-24 ottobre dello stesso anno), e finalmente la comune politica riguardo la guerra civile in Spagna (1936-39), attraverso la quale Mussolini tentò anche un’espansione, che era necessariamente in funzione antibritannica, nel bacino del Mediterraneo. Qui si misurarono per la prima volta direttamente le forze del fascismo e dell’antifascismo europeo. D’ora innanzi la scena politica internazionale sarà dominata dalle manifestazioni violente della volontà di potenza germanica, succedentisi le une alle altre secondo una logica che traeva ispirazione dalle tesi fondamentali del Mein Kampf di Hitler: progressivo disporsi degli stati europei entro l’orbita economico-politica della razza superiore germanica, al fine di creare una forza capace di affermarsi contro le maggiori esistenti nel mondo; volontà di potenza, che si giovò per tali suoi fini del concorso italiano (le contraddizioni implicite nella dittatura di Mussolini lo rendevano infatti inevitabile) e, ancor più, di quello indirettamente fornitole dalla politica britannica del “non intervento”. Si ebbe così l’annessione tedesca dell’Austria nel marzo 1938. La Gran Bretagna, acquiescente al fatto compiuto, se ne ripromise un impossibile distacco di Mussolini da Hitler: donde, il 16 aprile, l’accordo italo-britannico di Roma per l’Africa e il Mediterraneo. Ma le iniziative hitleriane incalzavano: le sue rivendicazioni sui Sudeti furono, di fatto, favorite dalla Gran Bretagna e dal venir meno della Francia alla sua alleanza con la Cecoslovacchia: onde si giunse all’accordo di Monaco (30 settembre 1938) che salvò provvisoriamente la pace, ma in effetti costituì la premessa della prossima guerra. Intanto nell’Europa centro-orientale la diplomazia armata di Hitler e di Mussolini conseguiva successi non meno decisivi verso quelle minori potenze che la Francia aveva precedentemente cercato, mediante i patti chiamati della “Locarno orientale” (primavera 1934), di stringere a sé contro la Germania in un accordo di sicurezza collettiva, appoggiato anche dall’Unione Sovietica. [152521] Dopo l’annessione dei Sudeti, l’occupazione della Boemia e Moravia da parte delle truppe hitleriane, con la conseguente dissoluzione della Cecoslovacchia (15 marzo 1939), rese chiara anche alla classe dirigente britannica l’impossibilità di addivenire a ulteriori compromessi con la volontà tedesca di potenza. Il governo di Londra dava ora inizio a un sistematico intervento diplomatico nell’Europa centrale e orientale: furono le garanzie britanniche alla Romania (19 marzo 1939), alla Polonia (6 aprile), alla Turchia (12 aprile), alla Grecia (13 aprile), presto rese efficacemente operanti da adeguate misure militari con lo stanziamento di 1322 milioni di sterline per le forze armate, il 25 aprile, e l’approvazione della coscrizione obbligatoria, il 27. Ciò tuttavia non dissuase la Germania: il 22 maggio 1939 veniva conclusa a Berlino l’alleanza italo-germanica (questa impegnava le parti a prestarsi aiuto immediato nel caso che l’una o l’altra si trovasse in guerra; ma l’Italia si riservava il diritto di non intervento durante tre anni, considerati necessari alla sua preparazione militare), mentre in funzione di una lotta che avrebbe impegnato prevedibilmente su scala intercontinentale la Germania contro la Gran Bretagna, e in prosieguo di tempo forse anche contro gli S.U.A. e l’URSS, si ricercò l’alleanza col Giappone. Questo allora rifiutò, perché, occupato come era sin dal luglio 1937 nella difficile guerra con la Cina, non intendeva impegnarsi in un conflitto con la flotta britannica ove prima la Germania non si fosse assunta obblighi di intervento contro l’URSS. Ma Hitler, ben sapendo che se avesse attaccato la Polonia, come appunto meditava di fare, la mancata solidarietà dell’URSS nella prevista eventualità di una guerra con le potenze occidentali lo avrebbe costretto a combattere su due fronti, cercò invece di raggiungere con Mosca l’accordo. E poiché i dirigenti sovietici erano altrettanto preoccupati che la guerra nazista trovasse la loro patria impegnata da sola ad affrontare la macchina bellica del Reich, al termine di contatti segreti iniziati tra i governi di Mosca e di Berlino il 12 aprile 1939 si giunse (23-24 agosto) alla firma del patto di non aggressione tedesco-sovietico, che costituì l’antecedente immediato, con la raggiunta sicurezza per i Tedeschi nel settore orientale, dell’attacco di Hitler alla Polonia e quindi della nuova guerra mondiale. Mentre trattative dirette fra Berlino e Varsavia venivano interrotte, rivelando ancora una volta l’inconciliabilità delle aspirazioni tedesche sul Corridoio e su Danzica con le esigenze nazionali della Polonia, il 1° settembre 1939 questo paese era invaso da truppe germaniche; il 3 Francia e Gran Bretagna dichiaravano la guerra al Reich. Mussolini fin dal 1° settembre aveva invece dichiarato la “non belligeranza” dell’Italia (consentendolo il patto concluso il 22 maggio con Hitler, ch’era persuaso della rapida definizione di un eventuale conflitto con Francia e Gran Bretagna), l’astensione dal conflitto essendo allora imposta tanto dall’impreparazione militare e morale del paese, quanto dall’ostilità della corona e di gran parte delle stesse sfere dirigenti fasciste. [152531] Il 31 agosto 1939, ratificato l’accordo tedesco-sovietico, le truppe tedesche davano inizio all’invasione della Polonia, distruggendone l’esercito in meno di tre settimane, realizzando, con manovre per linee esterne, una vasta battaglia di accerchiamento. Il 28 settembre, liquidata la resistenza della Polonia, che il 15 era stata invasa anche dalle truppe sovietiche, la firma di un trattato “di amicizia e frontiera” fra Germania e URSS definiva i rispettivi possessi nella Polonia e le zone d’influenza delle due potenze in Europa orientale. [152541] Dopo l’occupazione della Lettonia, Estonia e Lituania, nell’ottobre 1939 l’URSS, per assicurare la difesa di Leningrado, propose alla Finlandia condizioni che avrebbero sostanzialmente indebolito l’effettiva indipendenza di quella nazione. Helsinki mosse delle obiezioni, ma il 12 novembre il Cremlino si rifiutò di trattare oltre; il 30 novembre ebbe inizio quella campagna di Finlandia nella quale l’URSS, tenuta in scacco per cento giorni, subì una menomazione del suo prestigio, nonostante il successo finale. Essa, se per le sue finalità e per gli uomini e i mezzi impegnati rimase un episodio marginale della guerra mondiale, tuttavia, indirettamente, per le illazioni che se ne trassero da parte dei belligeranti, ebbe un influsso di notevole portata sull’intero conflitto. I Francesi, infatti, ne dedussero conclusioni positive per le capacità di resistenza della linea Maginot; nel campo tedesco (e anche alleato) la campagna finlandese contribuì a far sottovalutare le reali capacità dell’armata sovietica che, nonostante l’impiego in massa di mezzi potenti, non aveva conseguito successi adeguati. Ciò concorre a spiegare l’attacco tedesco del 22 giugno 1941. [152551] Nel quadro di un piano diretto a procurargli una linea di basi atte a circondare la Gran Bretagna, Hitler organizzò e scatenò la campagna contro la Danimarca e la Norvegia (9-27 aprile 1940); la successiva azione su Belgio e Paesi Bassi doveva completare la minaccia alla Gran Bretagna, mentre avrebbe duramente colpito anche la Francia. Mentre riesce comprensibile che la Danimarca, per la continuità territoriale, fosse occupata senza resistenza, in poche ore, da parte dei Tedeschi, lo strepitoso successo tedesco in Norvegia, in una zona cioè che implicava lo spostamento oltremare delle proprie forze combattenti, trova la sua spiegazione nella decisa superiorità aerea della Germania. [152561] Con l’attacco iniziatosi il 10 maggio 1940, i Tedeschi in tre giorni (10-13 maggio) sfondarono ogni difesa fra Namur e Sedan, laddove esistevano solo le deboli opere campali costruite in fretta nell’inverno 1939-40. Al comando francese, non ancora ben orientato sulla nuova tecnica d’assalto e di combattimento, la situazione apparve grave, ma non irreparabile. Siccome la rottura sulla Mosa misurava appena 50 km, e la linea Maginot era intatta, si pensò che sarebbe bastato prima concentrare, a nord e a sud delle colonne nemiche di sfondamento, truppe di riserva per tamponare il versamento, e prendere più tardi l’offensiva. Ma il comando francese non era preparato a sostenere una guerra manovrata quale era imposta dalle grandi unità corazzate tedesche. Di catastrofe in catastrofe (l’esercito olandese era capitolato il 15 maggio e il belga il 28), la battaglia della Manica si concluse, il 3 giugno, con la riuscita evacuazione di Dunkerque. Il 5 giugno, si iniziava il secondo e ultimo tempo della campagna dell’ovest, con la battaglia di Francia. La situazione appariva disperata e così il 22 giugno, a Rethondes, la Francia firmava l’armistizio con la Germania, e il giorno seguente con l’Italia, che era intervenuta il 10 giugno. Tra le conseguenze politiche del crollo francese è da includere il rafforzamento dell’Asse con la firma del Patto tripartito (27 settembre 1940) tra Germania, Italia e Giappone. [15261] Con la vittoria sulla Francia, tutta l'Europa settentrionale e continentale passava sotto il controllo della Germania nazista. La firma del Patto tripartito rafforzava la presenza tedesca sui nuovi scenari meridionale e orientale. Dalla seconda metà del 1940, il conflitto si allargò progressivamente nel Mediterraneo, in Africa, nei Balcani e poi sul fronte sovietico. In Europa rimaneva isolata la Gran Bretagna, che disponeva tuttavia di una netta superiorità sul mare e la cui invasione presentava difficoltà e incognite superiori a quelle incontrate in Norvegia. In estremo oriente il Giappone si avvantaggiava del Patto tripartito occupando l'Indocina francese e si preparava all'aggressione contro gli Stati Uniti. [152611] Il successo radicale sulla Francia, conseguito in una misura non prevista, pose all’improvviso al comando tedesco il problema di un grande sbarco in Gran Bretagna, che, ora guidata da W. Churchill, aveva respinto le nuove proposte tedesche di pace (19 luglio). Hitler e il gen. A. Jodl, autori del piano d’invasione, si proposero anzitutto la conquista della superiorità aerea sulla Manica, in modo da interdire durevolmente le acque di quel mare alla marina britannica. Un massiccio attacco aereo tedesco ebbe inizio l’8 agosto 1940 e si concluse, attraverso quattro fasi, il 31 ottobre con l’insuccesso degli attaccanti. L’aviazione di Goering infatti, per la mancanza di bombardieri a grande autonomia di volo, si rivelò impotente a sottoporre l’intero territorio nemico ad attacchi pesanti, prolungati e precisi contro obiettivi accuratamente scelti: e ugualmente inadeguata fu, dopo il 7 settembre, ad assolvere i nuovi compiti di attacco su Londra e sugli altri grandi centri abitati. Gli Inglesi, superiori nell’addestramento al volo strategico, si giovarono inoltre decisamente del radar, ancora ignoto ai Tedeschi, le squadriglie dei quali si trovarono sempre davanti alla sorpresa del contatto coi velivoli nemici nel luogo e tempo per questi più opportuni e in vantaggio di quota. Il fallimento della battaglia aerea d’Inghilterra ebbe conseguenze risolutive sull’esito della guerra per l’entità delle forze impiegate e l’impegno dimostrato dai due contendenti nell’attacco e nella difesa. [152621] Il 10 giugno l’Italia dichiarava la guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, nell’errata convinzione che le sorti del conflitto fossero in effetti decise, e nonostante i tentativi di dissuasione operati su Mussolini dal presidente statunitense Roosevelt e dal pontefice Pio XII. Per l’Italia la guerra, nell’impossibilità d’impiegare in maniera redditizia i sottomarini, ebbe come teatro esclusivo, in un primo periodo almeno, il Mediterraneo. Le battaglie di Punta Stilo (o della Calabria, come la chiamano gli Inglesi: 8-9 luglio 1940) e di Capo Spada (19 luglio 1940) misero in evidenza la superiorità che al nemico davano le corazzate e, più ancora, la tempestività dell’intervento nel combattimento da parte dell’aviazione. L’11 novembre la situazione italiana si aggravò ulteriormente per l’attacco aereo sferrato di sorpresa contro la flotta concentrata a Taranto. Nelle battaglie citate, come in quella combattuta il 27 novembre 1940 a Capo Teulada (detta dagli Inglesi, di Capo Spartivento Sardo), si mostrarono gli inconvenienti, per l’Italia, della mancanza di navi portaerei. Fu questa la ragione dell’assenza dell’aviazione italo-tedesca nella battaglia di Capo Matapan (27-28 marzo 1941) durante più ore di combattimento, assenza che si mostrò fattore decisivo della vittoria britannica, mentre l’uso notturno del radar da parte britannica aggravò la sconfitta italiana. [152631] Africa Orientale Italiana. - L’entrata dell’Italia nel conflitto portò l’Asse a contatto con l’Impero britannico in Egitto, nel Sudan, nell’Uganda, nel Kenya, in Somalia. Nelle più lontane regioni del suo Impero d’Africa lo stato maggiore britannico, per guadagnare tempo e per risparmiare energie e uomini, abbandonò le zone più minacciate dalla schiacciante superiorità iniziale italiana: così fu evacuata la Somalia britannica. La controffensiva fu preparata contemporaneamente in Africa Orientale e in Libia e nel primo territorio, per il netto squilibrio delle forze opposte, dopo circa un anno e mezzo di operazioni, la difesa italiana non poté evitare la vittoria britannica (27 novembre 1941, caduta di Gondar). Africa settentrionale. - Per stornare il pericolo di un insediamento delle forze dell’Asse nella zona del delta del Nilo, Churchill sfruttò il tempo trascorso tra il 12 settembre 1940 e l’8 dicembre per trasportare e organizzare in Egitto una prima armata, di modeste proporzioni ma dotata dei mezzi più moderni. L’offensiva del gen. Wavell (8 dicembre 1940 - 9 febbraio 1941) fu sferrata con uno scopo limitato, quello di disorganizzare i preparativi dell’attacco nemico; ma per la superiorità tecnica degli Inglesi i risultati sorpassarono largamente le previsioni, e il gen. Wavell decise allora di sfruttare a fondo il successo iniziale, minacciando gravemente in Africa l’Italia, in guerra con la Grecia dal 28 ottobre 1940. Fu allora che Hitler si decise a sollevare il suo alleato, inviando in Africa il 10° corpo aereo tedesco, di base in Sicilia, e un reggimento corazzato trasformatosi presto nell’Afrika Korps. Nonostante tutto, però, questa prima fase del duello anglo-tedesco si chiudeva con un vantaggio per gli Inglesi: l’occupazione di Tobruk, importante punto d’appoggio per le future operazioni. [152641] Per garantirsi i preziosi rifornimenti di petrolio, all’indomani del secondo arbitrato di Vienna (30 agosto 1940) la Germania (insieme all’Italia) accordava un trattato di garanzia al regno di Romania, in funzione antisovietica. Fu questo il primo indizio di un nuovo orientamento della politica tedesca in direzione dei Balcani. Il 7 ottobre 1940 una missione dell’esercito, comandata dal gen. Hansen, giunse a Bucarest, e ben presto seguì l’occupazione militare tedesca della Romania. Al fine di rafforzare la situazione diplomatica e militare dell’Asse nella Regione Balcanica, compromessa dagli insuccessi della guerra italiana in Grecia (già occupata l’Albania, le truppe italiane avevano invaso la Grecia il 28 ottobre 1940, ma l’intervento non si era dimostrato risolutivo), insediatosi in Romania, Hitler accentuava la pressione tedesca sulla Bulgaria, che il 1° marzo 1941 aderiva al Tripartito; il 2 marzo, le truppe tedesche penetravano in Bulgaria, pronte a intervenire a Salonicco e a Costantinopoli e a esercitare una pressione sulla Iugoslavia. Disposti in Macedonia due corpi d’armata lungo la frontiera greca, Hitler si trovò di fronte alla necessità di fronteggiare le conseguenze del colpo di stato antinazista in Iugoslavia il 27 marzo 1941. Il 6 aprile, 21 divisioni tedesche, delle quali 10 corazzate e 4 motorizzate, davano inizio alla campagna per l’occupazione della Iugoslavia, la quale non poteva contrapporre se non corpi tradizionali di fanteria e di cavalleria, senza formazioni blindate e motorizzate, senza aviazione e senza difesa antiaerea. Il 18 aprile la Iugoslavia, sconfitta, era costretta all’armistizio. Padroni di Salonicco, della valle del Vardar e della conca di Monastir, i Tedeschi intrapresero subito l’offensiva contro la Grecia; ancora una volta lo squilibrio delle forze consentì la realizzazione di una rapida campagna: il 3 maggio 1941, dopo soli 15 giorni, tutta la Grecia, infatti, era occupata. In 24 giorni, poi, fu operata la conquista aerea di Creta. La conquista tedesca dell’Europa sud-orientale era terminata, premessa necessaria all’imminente campagna contro l’Unione Sovietica. [152651] Dopo il vano tentativo di piegare la Gran Bretagna dal cielo e dal mare nel territorio metropolitano e gli infruttuosi tentativi di persuadere la Spagna franchista alla collaborazione militare, necessaria per un progettato attacco su Gibilterra e alle posizioni britanniche in Africa nord-occidentale, Hitler credette ora di poter risolvere il conflitto con l’invasione dell’URSS, nel timore d’un eventuale intervento sovietico contro la Germania. Inoltre fondate ragioni di preoccupazione erano fornite al dittatore nazista, nei confronti dell’URSS, dai recenti sviluppi espansivi di questa potenza verso occidente. In gara sotterranea con la diplomazia sovietica, l’Asse conseguirà adesso nuovi e decisivi successi in Europa centro-orientale: adesione nel novembre 1940 al Patto tripartito del 27 settembre di Ungheria e Romania seguite il 1° marzo 1941 dalla Bulgaria il cui governo accettava l’occupazione, di lì a poco, delle truppe tedesche; il 25 dello stesso mese infine sottoscriveva il Patto anche la Iugoslavia. La resistenza della classe dirigente di questo paese alla penetrazione politico-militare dell’Asse, penetrazione di cui erano facilmente prevedibili conseguenze nefaste per l’integrità del regno iugoslavo, fornì adesso all’URSS l’occasione per un significativo, sebbene momentaneo, successo diplomatico: il 27 marzo un colpo di stato militare rovesciò il governo Cvetkovic e depose il reggente Paolo elevando al trono il giovane Pietro II, che il 4 aprile firmò un patto di non aggressione con l’URSS. La reazione di Hitler fu immediata e l’attacco germanico portò in pochi giorni all’occupazione, effettuata col concorso bulgaro e ungherese, dell’intero territorio iugoslavo (e quindi di quello greco); a Vienna pertanto il 23 aprile la diplomazia italo-tedesca in sede di spartizione del bottino di guerra, sanciva di già la nascita del “Nuovo ordine” balcanico: condominio dell’Asse sulla Slovenia, assegnazione della costa dalmata all’Italia che otteneva anche il protettorato sul ricostituito Montenegro, compensi territoriali in Iugoslavia a Ungheresi e Bulgari. [152661] Dopo aver consolidato a proprio favore la situazione strategica lungo tutto il costituendo fronte orientale, Hitler diede inizio il 22 giugno 1941 alle operazioni di guerra contro l’URSS, convinto della loro rapida conclusione, che avrebbe consentito alla Germania di attendere con fiducia in occidente, sul progettato Vallo Atlantico, le conseguenze di una eventuale associazione delle forze britanniche e statunitensi. Il piano (denominato “Barbarossa”) approvato il 4 febbraio 1941 non fu quello graduato nel tempo e nello spazio dello stato maggiore, ma quello d’immediato totale annientamento, della “guerra lampo” (Blitzkrieg), ideato da Hitler. Questi era portato a sottovalutare l’effettiva consistenza militare del nemico. Per conseguire i suoi scopi, il comando supremo tedesco raggruppò i corpi corazzati in quattro armate, ciascuna comprendente 5 o 6 divisioni e sostenuta da formidabile flotta aerea. Il comando dell’Armata rossa, per evitare che i Tedeschi raggiungessero la linea geografica di Astrachan´-Gor´kij-Arcangelo impegnò il nemico quanto più a lungo fosse stato possibile, salvo, al momento critico, sospendere il combattimento e sottrarsi a esso facendosi scudo dello spazio. Talvolta, infatti, venivano interposte distanze anche di 250 km, che esaurivano di per sé stesse le formazioni motocorazzate, le quali giungevano alla fine delle loro tappe prive di carburante. Siccome poi le città e le campagne dell’URSS invasa erano state distrutte dal comando sovietico, secondo la tattica della “terra bruciata”, i grandi complessi corazzati tedeschi rimanevano fermi in attesa dei rifornimenti. Altro inconveniente gravissimo si rivelò il fatto che i mezzi corazzati su cingolo erano serviti da mezzi di trasporto a ruota che nelle piste fangose s’impantanavano mettendo le forze corazzate d’invasione, prive dei loro naturali appoggi, nell’impossibilità di piombare sui massimi centri vitali sovietici prima dell’autunno. Fu così che, anche per il ritardo imposto all’avanzata tedesca dai complessi difensivi della linea “Stalin”, solo il 10 novembre 1941 l’armata di Brauchitsch poté prendere contatto con il sistema difensivo di Mosca. Il fango e poi il freddo intervennero nella battaglia a potenziare la difesa organizzata dall’Armata rossa per la capitale. Il 6 dicembre, dopo circa 20 giorni di combattimenti, sostenuti nelle più avverse condizioni di clima e di terreno, l’immane meccanismo della Wehrmacht concentrato contro Mosca cessò di funzionare; si procedette così alla prima controffensiva sovietica d’inverno. Come la battaglia aerea di Londra, così la battaglia di Mosca ebbe conseguenze decisive sull’esito della guerra. [152671] Gli strepitosi ma illusori successi riportati dai Tedeschi nella campagna di Russia dell’estate-autunno 1941 avevano esaltato i circoli militari giapponesi, i quali ne avevano tratto la convinzione che la resistenza sovietica stesse per crollare e che fosse giunto per il Giappone il momento d’inserirsi finalmente nel conflitto in atto in Occidente. Così, il Patto tripartito progettato dalla diplomazia nazista, a cui il governo nipponico aveva fino allora rifiutato di dare la sua adesione, veniva stipulato il 27 settembre 1940, all’indomani della sconfitta francese, con lo scopo, da parte dei Giapponesi, che esso servisse ai loro propositi di penetrazione in Asia orientale. In effetti, la Germania imponeva al governo francese di Vichy quell’atteggiamento di sostanziale collaborazione, che consentì al Giappone di sottomettere gradualmente nel 1940-41 tutta l’Indocina francese. Perché, oltre a essere fonte preziosa di materie prime per l’impero nipponico, il possesso del Sud-Est asiatico doveva servire per rescindere ogni contatto degli S.U.A. con la Cina e l’intera Asia orientale, fino a Singapore; una volta sconfitta la Cina con l’occupazione delle vie di rifornimento statunitense in Birmania, gli Stati Uniti sarebbero stati infine costretti a riconoscere la preminenza in Estremo Oriente del Giappone, costruttore di un “Ordine nuovo” che avrebbe realizzato la “coprosperità” di un’immensa folla di popoli entro la “sfera della Grande Asia Orientale”. Lo stato maggiore nipponico riuscì a imporre le dimissioni del pacifista principe F. Konoye e la sua sostituzione con il gen. Tojo, a capo di un gabinetto prevalentemente composto di militari (18 ottobre 1941): il nuovo governo avviò trattative diplomatiche con Washington, ma, mentre queste si svolgevano, diede invece repentinamente inizio, mediante l’attacco di Pearl Harbour, alla guerra con gli S.U.A. Il 7 dicembre 1941 (un’ora prima che avesse luogo alla Casa Bianca l’udienza richiesta dalla rappresentanza diplomatica giapponese), con una prima ondata di forze aeree, navali e sottomarine mirabilmente coordinate, i Giapponesi avevano scatenato un violento attacco su Pearl Harbour. Il 10 dicembre, solo tre giorni dopo il disastro di Pearl Harbour, due unità britanniche a grande raggio d’azione furono affondate. In questo immenso vuoto strategico, in soli quattro mesi, il Giappone attuò la parte più importante del programma iniziale di espansione territoriale in Asia. Al fine di utilizzare nel modo strategicamente più redditizio il potenziale economico e militare che l’intervento in guerra degli S.U.A. aveva straordinariamente rafforzato, Churchill e Roosevelt s’incontrarono nella capitale statunitense, dove ebbe luogo la prima conferenza di Washington (22 dicembre 1941 - 14 gennaio 1942). Fu deciso di concentrare lo sforzo principale di guerra contro la Germania al fine d’impedire l’attuazione del suo piano di controllo di tutto il potenziale economico europeo mediante lo schiacciamento dell’URSS, e di restare provvisoriamente sulla difensiva nel Pacifico. Rimasti con poche corazzate a disposizione, dopo Pearl Harbour, gli Statunitensi si diedero a costruire a ritmo accelerato le portaerei, al fine di adeguarsi alle nuove esigenze della tattica aero-navale. Si assicurarono in tal modo il successo nelle battaglie del Mar dei Coralli (7-8 maggio 1942, che sventò la minaccia diretta verso l’Australia) e delle Midway (4-6 giugno 1942). [15271] La capacità sovietica di recupero, che trasformò quella che doveva essere la guerra lampo sul fronte orientale in una guerra di esaurimento, costituì la premessa utile a quel sostanziale mutamento nei rapporti fra le maggiori potenze mondiali che, attraverso decisivi interventi militari succedentisi nel quadro di una strategia da europea fattasi ormai intercontinentale, doveva inevitabilmente condurre al crollo totale dei piani tedeschi. Ma fu soprattutto in conseguenza dell’intervento americano (determinante nei confronti degli sviluppi militari avutisi nella seconda metà del 1942 e nella prima metà del 1943 in Estremo Oriente, in Africa settentrionale, nella battaglia navale dell’Atlantico, mentre si affermava la resistenza vittoriosa dei Sovietici sul fronte di Stalingrado) che si verificò la svolta risolutiva del conflitto a favore delle potenze in lotta con il Tripartito. Fatto politicamente e militarmente decisivo, in tal senso, fu soprattutto il riuscito sbarco anglo-americano in Marocco e Algeria (8 novembre 1942), cui fece seguito la costituzione del Comitato francese di liberazione, capeggiato ben presto dal gen. Ch. de Gaulle. Ebbero allora inizio in Francia e in tutti i paesi occupati dai Tedeschi (così anche in Italia, a iniziativa dell’antifascismo militante ma con la partecipazione sempre più vasta dell’opinione pubblica nazionale) le azioni della Resistenza: scioperi, sabotaggi e, decisive nei riflessi militari e più ancora politici per la conseguente formazione di una nuova coscienza democratica in Europa, le guerriglie dei partigiani. [152711] Riorganizzati i loro corpi corazzati, i Sovietici avevano portato l’esercito, nella pausa invernale, all’altezza dei compiti strategici della successiva estate, previsti come decisivi. Mentre nel 1941 i Tedeschi avevano operato contemporaneamente con tre gruppi di armate, del nord, del centro e del sud, nel 1942 lo sforzo venne a gravitare quasi soltanto sul gruppo sud. Questo gruppo, sotto il comando di F. von Bock, avrebbe dovuto distruggere le armate sovietiche distribuite fra il Mar d’Azov e la regione di Kursk, sfondare tra Voronez e Sachty, sul vertice della grande ansa del Don (di fronte a Stalingrado), quindi, risalito il Volga fino a Kujbysev, con un grande movimento di conversione, abbattersi sulla regione fra Penza e Gor´kij per marciare verso Mosca, presa da tergo. Le armate sovietiche sarebbero state allora costrette a combattere a fronte rovesciato senza aver più contatto con gli Urali, il Caucaso, il Caspio e l’Iran, e forse nemmeno più con la ferrovia di Murmansk. Il piano difensivo sovietico considerava obiettivo fondamentale il mantenimento del settore di Voronez, per evitare l’avvolgimento diretto di Mosca dall’est, indietreggiando fino al basso Volga e al Caspio, perché si volevano evitare a ogni costo le battaglie di accerchiamento. Intanto Stalin e il suo alto comando, per difendere il Volga e il caposaldo di Stalingrado, venivano ammassando dietro il più grande fiume russo le riserve strategiche. Ma i successi conseguiti nel luglio, nonché nella prima decade di ag., contro il nemico in rotta che abbandonava, decimato, immensi territori, condussero l’alto comando tedesco alla decisione, presa il 24 luglio, di sottrarre all’armata corazzata di von Bock, diretta verso Stalingrado, un buon terzo degli effettivi, per lanciarlo alla conquista dei petroli del Caucaso. La Wehrmacht si trovò in tal modo a perseguire simultaneamente due obiettivi separati l’uno dall’altro da distanze così enormi, e tanto disservite da vie di comunicazione, che tra le due sezioni di quella che era stata l’unica grande armata di von Bock si resero impossibili, con effetti decisivi sulla condotta delle operazioni, gli scambi degli uomini e dei mezzi. Stalin, inoltre, veniva organizzando la controffensiva: le officine nazionali lavoravano in pieno e, da sole, producevano più di quello che si consumava a Stalingrado: le forniture degli Anglo-Americani, inoltre, nonostante il pericolo sottomarino, seguivano una curva ascendente. Per questo, la controffensiva sovietica, lanciata il 19 novembre, aveva già raggiunto i suoi primi risultati il 23: la 6ª armata tedesca, senza più respiro strategico, si trovava prigioniera nel settore di Stalingrado, tra il Don e il Volga. Dopo questo successo iniziale, cominciò a svilupparsi la vera e propria controffensiva d’inverno, che ricacciò i Tedeschi, nel marzo 1943, sul medio Donec. La vittoria di Stalingrado poneva fine ai propositi tedeschi di guerra lampo per dare inizio alla guerra di esaurimento, a tutto vantaggio della coalizione anglo-russo-americana. Alla campagna di Russia presero parte anche unità italiane, al comando del gen. I. Gariboldi, che combatté la lunga e logorante battaglia difensiva del Don (autunno 1942 - inverno 1943), con la conseguente ritirata. [152721] All’inizio del secondo conflitto mondiale, il naviglio di superficie pesante franco-britannico era enormemente superiore a quello tedesco; nel naviglio leggero le distanze, sebbene inferiori, erano sempre grandi. I sottomarini vennero a costituire in questa seconda guerra mondiale, come nella prima, il nerbo della flotta navale tedesca; perciò a essi fu prodigata ogni cura nel corso delle ostilità. La lotta contro gli U-Boote si fece quindi per gli Alleati progressivamente più faticosa e drammatica. Gli Inglesi provvidero alla difesa col munire di reti parasiluri le navi destinate a occupare le posizioni esterne dei convogli, con l’entrata in servizio di nuove fregate a grande autonomia, con il sistema di rifornire in mare il naviglio di scorta meno efficiente, accrescendone l’autonomia, con l’impiego di nuovi aerei di più grande raggio e, in specie, con la realizzazione progressiva delle navi portaerei di scorta. Ma fu soprattutto, nell’aprile-maggio 1943, l’introduzione, per la localizzazione dei sottomarini, di nuovi apparecchi (radar e sonar), che pose in crisi la guerra tedesca ai convogli degli Alleati. E solo in parte i Tedeschi poterono, verso la fine del 1944, riprendere il loro piano di guerra ai convogli applicando agli U-Boote nuovi dispositivi (Schnorchel) che consentivano loro di stare a lungo in immersione, al riparo dall’offensiva aero-navale avversaria. [152731] Il generale C. Auchinleck (nuovo comandante britannico), con la sua offensiva del 18 novembre - 30 dicembre 1941, sorprese Rommel, che decise allora l’abbandono della Cirenaica. L’8ª armata britannica, provata dalla resistenza delle truppe dell’Asse, era giunta alla fine della sua seconda campagna di Libia con forze notevolmente assottigliate. I notevoli rinforzi ricevuti invece nel dicembre 1941 dai Tedeschi, favoriti da una maggiore attività degli U-Boote nel Mediterraneo e da un sistematico bombardamento di Malta, consentirono a Rommel l’offensiva del 21 gennaio - 10 febbraio 1942, la quale sorprese gli Inglesi, che dovettero, in questa quinta campagna di Libia, abbandonare la Cirenaica, a eccezione del porto di Tobruk, indispensabile per i rifornimenti e come base militare, dopo la perdita di Creta. Dall’11 febbraio al 26 maggio 1942, una tregua relativa subentrava nelle operazioni in Cirenaica. Nel frattempo l’entrata in guerra del Giappone costringeva l’alto comando britannico a stornare verso Singapore la maggior parte dei rinforzi destinati in Africa. Il momento sembrava venuto per lanciare una vigorosa offensiva verso Suez, in collegamento con gli avvenimenti in Estremo Oriente, dove il Giappone passava di successo in successo. La nuova offensiva, limitata dalla necessità di non allontanare forze importanti dal fronte russo, fu sferrata il 27 maggio; la fulminea capitolazione di Tobruk e la successiva caduta di Marsa Matruh, portarono all’inseguimento degli Inglesi fino a el-‘Alamein, dove il 30 giugno s’ebbe il primo arresto delle forze dell’Asse, stanche, deficienti di mezzi e lontanissime dalle basi di rifornimento, mentre agli Inglesi, che erano a ridosso dei più importanti centri dell’Egitto, giungevano i primi rinforzi. Di ritorno dalla prima conferenza di Mosca del 12-15 agosto 1942, Churchill affidava a B. L. Montgomery il comando dell’8ª armata, rinnovata nell’armamento e nell’organizzazione, col compito di preparare un’azione decisiva contro le forze dell’Asse. L’impiego in massa dell’artiglieria e di carri capaci di misurarsi con quelli tedeschi, il perfezionamento dei mezzi di lotta anticarro, la conquistata superiorità aerea, permisero agli Inglesi di porre in crisi in Africa la combinazione Panzer-Stukas. Dopo un’efficace preparazione d’artiglieria, la fanteria e il genio, fra il 23 ottobre e il 2 novembre 1942, attuavano la penetrazione nella cintura dei campi minati di el-‘Alamein. Con ciò il destino dell’Afrika Korps era segnato: nessun altro sistema di difesa mobile e immobile si trovava in Africa capace di arrestare l’8ª armata, d’un tratto divenuta virtualmente padrona del litorale fino alla Tunisia. Il colpo di grazia all’Asse in Africa fu dato dal contemporaneo sbarco degli Alleati in Marocco e in Algeria. Questa operazione mirava alla penetrazione alleata nel Mediterraneo e, attraverso l’eliminazione dell’Asse dall’Africa, alla cessazione della costante minaccia di attività tedesche nel Marocco e a Dakar; i margini di maggiore sicurezza e disponibilità di naviglio realizzati avrebbero permesso agli Alleati di raccogliere più celermente e su più grande scala le forze in Gran Bretagna per l’attacco finale. L’8 novembre gli Alleati sbarcavano nell’Africa settentr., dirigendosi, in accordo con l’8ª armata britannica, verso la Tunisia. Nonostante l’impegno posto dal comando tedesco nel mantenimento della testa di ponte tunisina, la guerra in Africa fu vinta dagli Anglo-Americani, in specie per preponderanza dei mezzi: fra il 7 e l’11 maggio 1943 tutte le forze dell’Asse in Africa furono eliminate dal conflitto. [152741] Conquistato il Nord-Africa (il 15 maggio era avvenuta in Tunisia la capitolazione italo-tedesca), gli stati maggiori alleati considerarono utile diversione, nel quadro strategico mediterraneo, la conquista della Sicilia. Nella notte dal 9 al 10 luglio 1943, infatti, fu sferrato l’attacco anfibio contro la maggiore isola italiana, che in breve cadde nelle mani degli Anglo-Americani (17 agosto). Con questo, la crisi politica e militare italiana entrava nel suo logico epilogo, con la caduta del fascismo. Il 25 luglio Mussolini fu congedato dal re Vittorio Emanuele III e arrestato; ciò ebbe il suo peso nella convocazione della prima conferenza di Quebec (17-24 agosto 1943) e sulle sue decisioni che si concretarono nel piano d’invasione dell’Italia che doveva determinare il collasso militare, impegnando nel contempo numerose divisioni tedesche a sud delle Alpi, mentre veniva assicurato il possesso di aeroporti dai quali battere con facilità la Germania e la Penisola Balcanica. Alla caduta del fascismo seguirono difficili trattative del nuovo governo Badoglio con gli Alleati, che portarono, con la firma dell’armistizio di Cassibile (3 settembre), a una resa incondizionata, all’abbandono italiano del Tripartito. L’8 settembre, con l’annuncio dell’armistizio, tutte le vecchie e nuove forze germaniche, calate in Italia successivamente al 26 luglio, occuparono contemporaneamente la penisola e fronteggiarono validamente lo sbarco effettuato lo stesso giorno dagli Alleati a Salerno. Con la disgregazione delle superstiti forze armate italiane, si ebbe anche l’occupazione tedesca della capitale, abbandonata dal re e dal governo che a Brindisi presero contatto con gli Alleati, a fianco dei quali, il 13 ottobre, l’Italia entrò in guerra contro la Germania, mentre i nazisti installavano poco dopo sotto il loro effettivo controllo il governo della Repubblica sociale italiana. Le circostanze meteorologiche, insieme con le difficoltà di un sistema montano come l’Appennino, contribuirono, infine, a sbarrare agli Anglo-Americani il passo sulla linea Gustav. Con l’impiego di ingenti mezzi, il fronte tedesco di resistenza, infine, fu spezzato; i tedeschi riuscirono tuttavia ad attuare tempestivamente la ritirata, con combattimenti di rallentamento e con l’aiuto del terreno favorevole, fino a raggiungere la Linea Gotica. Il 10 settembre 1944 tentarono invano di espugnare la “Gotica” per irrompere nella valle del Po. Ancora una volta il terreno e la tenace resistenza tedesca frustrarono i disegni degli Alleati, peraltro sostenuti dal movimento di Resistenza. Ma dopo il fallimento dell’offensiva delle Ardenne (16 dicembre 1944 - 30 gennaio 1945), l’accentuarsi della crisi morale tra le file tedesche si ripercosse anche sul fronte italiano dove l’esercito germanico, tra il 9 e il 24 aprile, fu, più che sconfitto, disintegrato. [152751] Il fronte occidentale. - Durante la seconda conferenza di Washington (19-25 giugno 1942), Roosevelt e Churchill stabilirono d’intraprendere qualche iniziativa, specie per alleggerire la pressione tedesca sui Sovietici. Alla fine del 1943 si giunse alla formulazione definitiva del piano d’invasione della Francia. Lo sbarco doveva essere effettuato in Normandia, che costituiva la sezione estrema del settore Zeebrugge-Cherbourg, la cui caduta totale o parziale avrebbe aperto la strada diretta alla regione economicamente più importante della Germania, quella compresa tra Colonia, Coblenza e la Ruhr. Il comando tedesco aveva perciò concentrato i suoi sforzi difensivi sul litorale della Manica; e in maniera del tutto particolare sulla sezione del Passo di Calais, capolinea della scorciatoia per la Ruhr, anche per la presenza nella zona delle armi germaniche “V”. Il “nastro” della difesa tedesca sul fronte occidentale, il Westwall, cominciò a essere fortificato con ritmo celere nell’inverno 1943-44, in seguito alla nomina di Rommel a ispettore del Vallo Atlantico. In tutto l’Occidente (esclusa naturalmente l’Italia) i Tedeschi disponevano di 64 divisioni, delle quali solo 18 comparabili per efficienza con le divisioni di fanteria plurima degli Anglo-Americani e dei Canadesi. Le forze totali degli Alleati, invece, ammontavano a 85 divisioni, delle quali 24 corazzate (contro 8 tedesche): assoluta era la prevalenza delle forze alleate sul mare; inoltre i Tedeschi fino al 6 giugno furono totalmente all’oscuro che erano stati approntati dei porti artificiali per facilitare lo sbarco. La stessa aviazione tedesca, nell’inverno 1943-44, poteva considerarsi finita come arma di combattimento. Dato uno squilibrio così grave fra le forze opposte, lo sbarco non poteva non riuscire felicemente; una volta poi conclusasi la battaglia delle spiagge (6 giugno - 1° agosto 1944), per evitare l’accerchiamento di gran parte delle loro forze, evacuarono rapidamente tutta la Francia, fino alla Mosa. L’operazione Anvil, cioè lo sbarco in Provenza, avvenuto il 15 agosto, 70 giorni dopo quello di Normandia, fece accelerare la marcia di D. D. Eisenhower verso Est e apportò forze nuove per gli eventi successivi al 15 sett. La battaglia di riconquista della Francia era terminata: stava ora per cominciare la conquista della Germania. Il fronte orientale. - Nell’estate del 1943 la situazione generale dei Tedeschi peggiorava mentre la superiorità numerica dei Sovietici era ormai notevole; di due a uno sull’insieme del fronte, di almeno quattro a uno nel settore scelto dall’esercito sovietico per l’offensiva. Inoltre le offensive aeree degli Anglo-Americani sull’Europa occidentale, sulla Germania e nel Mediterraneo avevano costretto le forze aeree di Goering a frazionarsi, mentre le squadriglie del maresciallo A. A. Novikov si erano arricchite degli ottimi cacciatori nazionali Mig e Jak, dei bombardieri-picchiatori Sturmovik, nonché d’imponenti quantità di apparecchi di fabbricazione anglo-americana. Il progresso del materiale presso l’Armata rossa s’era soprattutto affermato nell’artiglieria semovente a cingolo, atta, come i carri, a operare su terreni privi di strade moderne. In tali condizioni la formula adottata dai Tedeschi della difesa elastica (che faceva affidamento più sugli ostacoli come fattori di resistenza che non sullo spazio come fattore di esaurimento) doveva fallire completamente. Con la terza campagna invernale del 1943-44 e con la quarta campagna estiva del 1944, i Sovietici erano riusciti a portarsi contemporaneamente sulla Vistola, nei Balcani e in Ungheria, fino a Budapest. [15281] Quantunque la situazione della Germania, schierata con i suoi eserciti sulla Mosa fin dal settembre 1944, fosse disperata, tuttavia Hitler era determinato a resistere, nella speranza che gli Anglo-Americani giungessero a una rottura dell’alleanza con l’URSS per timore dell’espandersi dell’influenza sovietica nel centro dell’Europa, conseguente al crollo della Germania. Più ancora, Hitler voleva guadagnare tempo perché le truppe corazzate tra poco avrebbero disposto dei carri Maus di 100 t, l’aviazione di numerosi aerei a reazione, la marina da guerra degli U-Boote XXI, XXIII, XXIV, capaci di riprendere le distruzioni del 1942, perché, infine, nelle gallerie montane del Harz l’industria militare del Reich sembrava vicina a mettere a disposizione dell’alto comando dell’esercito l’energia atomica. Per conseguire un tale scopo, Hitler decise di attuare l’offensiva delle Ardenne: il fallimento della battaglia iniziata il 16 dicembre aggravò, com’era inevitabile, la situazione tedesca, resa rapidamente disperata dallo scatenamento dell’ultima offensiva invernale sovietica del 12 gennaio 1945. Ma quando i Sovietici entravano in una fase d’attesa e di recupero sul loro centro, Eisenhower scatenava l’attacco che doveva gradualmente investire e travolgere tutte le fortificazioni costruite a protezione della Germania occidentale. Ai primi di marzo 1945 gli Alleati poterono effettuare l’ardua operazione del passaggio del Reno. Già nei primi di marzo alcune armate raggiungevano i sobborghi di Düsseldorf e di Colonia; il 10 marzo poi, stabilirono una prima testa di ponte sulla destra del Reno. Intanto altre armate mossero, minacciando di aggiramento il triangolo Mosella - linea Siegfried - Reno. A sua volta, Stalin, il 23 marzo, dava inizio alla grande battaglia di Vienna; lo stesso giorno gli Anglo-Americani iniziarono la loro gigantesca operazione finale dell’oltre Reno con un lancio di paracadutisti. Con l’ausilio di un’enorme flottiglia, fra il 24 e il 25, il Reno era passato in più punti: le truppe del bacino della Ruhr furono quindi costrette alla capitolazione. Sperando in niente altro ormai che nei dissensi tra gli Alleati e, in ogni caso, preferendo arrendersi agli Anglo-Americani anziché ai Sovietici, lo stato maggiore tedesco non opponeva più valida resistenza alle armate alleate, che perciò avanzarono rapide verso l’Elba, mentre rinforzava di continuo la difesa opposta ai Sovietici. Tuttavia, il 13 aprile, cadeva Vienna; il 16, coronando i successi del fronte sud-orientale, i Sovietici iniziavano la battaglia di Berlino, o dell’epilogo, che doveva segnare la fine dell’estremo tentativo politico della strategia di Hitler. Dopo il suicidio di Hitler, il 2 maggio Berlino era presa dai Sovietici. Il 7 maggio, a Reims, fu firmata la resa senza condizioni della Germania agli Anglo-Americani. Il giorno successivo, a Berlino, fu firmata la resa ai Sovietici dal capo di stato maggiore tedesco W. Keitel. [152811] Le battaglie del Mar dei Coralli e delle Midway avevano sventato ogni minaccia verso l’Australia; i Giapponesi erano rimasti serrati su spazio più ristretto nel Pacifico sud-occidentale. Ormai una barriera insuperabile era stata elevata dagli Anglo-Americani davanti alle due posizioni-chiave dell’Estremo Oriente: le Indie e l’Australia. Racchiuso nel suo primo perimetro, il Giappone adeguò, secondo i piani, la sua strategia aeronavale alle esigenze di una difesa a cordone. La riconquista del Pacifico da parte degli Statunitensi fu resa possibile, oltre che dalla superiorità dei mezzi di combattimento, anche dal fatto che gli S.U.A. avevano meglio adeguato la loro preparazione alle esigenze della guerra aeronavale. Alla conferenza di Washington del 12-27 maggio 1943 fu deciso di accelerare i tempi dell’avanzata verso il Giappone. Più specificamente si decise che, data la superiorità aeronavale, invece di progredire linearmente attaccando le isole una dopo l’altra, si doveva procedere a sbarcare a parecchie centinaia di chilometri alle spalle delle posizioni nemiche più vicine alla linea del fronte. Nel golfo di Leyte, tra il 23 e il 25 ottobre 1944, i Giapponesi tentarono l’estrema difesa delle Filippine, in una battaglia decisiva per le sorti della guerra in Estremo Oriente e la più importante per l’entità delle forze impegnate. Ormai era aperta la via per l’invasione dello stesso Giappone; infatti, il 22 marzo 1945, gli Statunitensi sbarcavano a Okinawa, nelle isole Ryukyu. Il pericolo di bombardamenti sul Giappone vero e proprio diveniva gravissimo. La riapertura della strada Ledo-Birmania (28 gennaio 1945), la liberazione di quasi tutta la Birmania (fine maggio), il dominio assoluto del cielo acquistato in Cina dagli Alleati, i progressi americani a Okinawa avevano portato a un rovesciamento totale della strategia giapponese sul continente asiatico; tutte le forze furono concentrate a nord dello Yangtzekiang, che fu scelto come linea di difesa a oltranza. A causa della progressiva distruzione delle risorse belliche, il Giappone poteva considerarsi già battuto con l’impiego delle classiche armi aeronavali, quando, il 6 agosto, la bomba atomica cadeva su Hiroshima. Il 9 agosto scoppiava su Nagasaki la seconda bomba atomica; nello stesso giorno l’URSS apriva le ostilità contro il Giappone, in applicazione delle deliberazioni della conferenza di Jalta, nella quale l’URSS si era impegnata a dichiarare guerra al Giappone entro tre mesi dal crollo dell’esercito tedesco. La guerra era finita ufficialmente in Europa l’8 maggio; il 15 agosto, con la resa del Giappone, aveva termine la seconda guerra mondiale. [152821] Dopo la resa del Giappone, i leader delle potenze vincitrici si trovarono ad affrontare i delicati problemi della pace. Tali problemi erano stati trattati nella più alta sede politica già nel corso del conflitto, al tavolo di quelle conferenze tra i “tre grandi” (Teheran, 28 novembre-1° dicembre 1943; Jalta, 4-12 febbraio 1945) la cui efficacia, dimostratasi decisiva ai fini della risoluzione della guerra per la raggiunta coordinazione degli sforzi militari alleati, fu assolutamente determinante anche per la pace, con la comune enunciazione di principi ideali e politici e per la definizione, precisata a Jalta, delle rispettive sfere d’influenza nel mondo. Nella conferenza di San Francisco (25 aprile-15 giugno 1945) furono stabiliti gli statuti della futura organizzazione societaria internazionale, le Nazioni Unite. L’elaborazione dei trattati di pace fu opera esclusiva, nuovamente, delle potenze vincitrici: i ministri degli Esteri dell’URSS, degli S.U.A., del Regno Unito e della Francia li elaborarono nell’aprile-luglio 1946; a Parigi furono sottoscritti il 10 febbraio 1947 quelli riguardanti la Finlandia, la Romania, la Bulgaria, l’Italia e l’Ungheria. I trattati imponevano sanzioni economiche (riparazioni) e giuridiche (punizioni dei criminali di guerra; impegno di istituire le libertà democratiche), misure di disarmo, e vaste diminuzioni di territorio metropolitano e coloniale. I contrasti politici delineatisi nel dopoguerra fra gli Alleati hanno invece impedito la definizione del trattato di pace con la Germania; a quello col Giappone, sottoscritto il 7 settembre 1951 a San Francisco da 48 stati membri delle Nazioni Unite, non aderì l’URSS, che nel 1956 concluse col Giappone un trattato bilaterale; il trattato di pace con l’Austria fu concluso a Vienna il 15 maggio 1955. [152831] Gli elementi essenziali che contraddistinguono la seconda guerra mondiale sono connessi innanzitutto al carattere ideologico e totale del conflitto. A differenza della prima guerra mondiale – nella quale lo scontro non recava necessariamente con sé opzioni di carattere politico-sociale, configurandosi prevalentemente, anche se non esclusivamente, come conflitto nazionale –, nella seconda le alleanze nazionali e anche (quando necessarie) le opzioni personali acquistarono un carattere di scelta politica, civile, etica; la seconda guerra mondiale inoltre non solo si estese ai cinque continenti ma penetrò profondamente nella popolazione civile coinvolgendola sia attraverso le deportazioni, i bombardamenti delle città, gli stermini, sia attraverso le formazioni combattenti volontarie civili (per più versi la guerra civile di Spagna ne costituì, su scala ben più limitata, il modello). Sul terreno strettamente militare, i protagonisti furono da un lato il carro armato, che liquidava la guerra di trincea e restituiva il primato all’attacco, dall’altro l’aereo da bombardamento, il cui uso estensivo fu funzionale tanto alla distruzione di obiettivi militari (depositi, autocolonne, portaerei, ecc.) quanto alla demoralizzazione delle popolazioni e allo scompaginamento della vita civile; suo estremo sviluppo si ebbe con l’impiego dei missili (per es., le V1 e V2 tedesche nella battaglia d’Inghilterra) e, tanto più, con l’uso dell’arma nucleare (conseguita attraverso un’affannosa competizione scientifica tra Statunitensi e Tedeschi) che pose fine al conflitto aprendo l’era atomica. Per altri versi, furono innumerevoli gli sviluppi dell’industria bellica e applicata; il dato complessivo che ne risulta è che in tutti i paesi belligeranti lo sforzo produttivo fu strenuo e che vincitrice risultò la coalizione più forte sul piano economico, dato che la vittoria, più che sul terreno militare, risultava dalla possibilità di ridurre allo stremo la coalizione nemica. La pratica dunque dell’annientamento del nemico (che già aveva fatto la comparsa negli anni Trenta in situazioni belliche quali la guerra di Spagna, per es. col bombardamento di Guernica, o l’aggressione giapponese alla Cina) appare centrale nel complesso del conflitto. Essa fu fatta propria dal regime nazionalsocialista tedesco che l’applicò innanzitutto all’interno e ancora in periodo di pace, avviando il pianificato sterminio delle minoranze razziali e politiche attraverso i campi di concentramento, base di un disegno politico-militare per un nuovo ordine mondiale fondato su una gerarchia razziale. Non meno cruenta fu la risposta alleata (per es., con il bombardamento di Dresda e quelli di Hiroshima e Nagasaki), anche se priva delle motivazioni ideologiche che caratterizzavano l’aggressività dei primi. Fatto è che alla fine del conflitto sono stati calcolati oltre cinquanta milioni di morti (trenta nella sola Europa), oltre due terzi dei quali civili. Il disegno nazionalsocialista, che Hitler aveva peraltro esplicitato nei suoi scritti, non trovò un’immediata risposta sul piano militare (lo dimostra il crollo della Francia nel 1940) né sul piano politico, eccezion fatta per le minoranze antifasciste attive in Europa. La risposta internazionale divenne efficace allorché si costituì una larga alleanza di governi e stati che contrappose all’espansionismo dell’Asse una coordinata forza di contenimento e contrattacco; a questa forza diede un rilevante apporto la Resistenza, cioè i movimenti di liberazione delle nazioni occupate dall’Asse o dell’Asse stesso, e ciò contribuì a delineare il carattere sovranazionale ed etico, oltre che ideologico, della guerra. Le conseguenze politiche della seconda guerra mondiale si inseriscono in questo quadro. La disfatta dei fascismi, ovvero la sconfitta dei paesi dell’Asse, ne risolse infatti tutti gli aspetti militari. Intanto, gli Stati Uniti d’America erano usciti definitivamente dal tradizionale isolazionismo, sopportando una parte sostanziosa dello sforzo bellico, e avevano contribuito in modo decisivo alla vittoria alleata, assicurandosi per l’avvenire un ruolo preminente nella politica mondiale. Per altri versi, l’URSS emergeva dal conflitto stremata ma con enorme prestigio per aver bloccato in direzione orientale l’espansione tedesca. In una situazione in cui le altre potenze, anche le vincitrici, erano afflitte da giganteschi problemi di ricostruzione, fu attorno ai due grandi stati che si riorganizzò la vita politica mondiale (del resto, anche sul terreno internazionale, visto il fallimento della Società delle Nazioni, nel 1945 nasceva l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che assegnava un ruolo preponderante a cinque potenze vincitrici: Stati Uniti, URSS, Cina, Gran Bretagna, Francia). Nel contempo, l’alleanza del periodo bellico si trasformava rapidamente in rivalità portando a una divisione dell’Europa e del mondo in sfere d’influenza; questo nuovo equilibrio bipolare (costituitosi negli anni 1945-49) avrebbe contraddistinto la politica mondiale fino alla disgregazione del blocco sovietico (1989). In questo senso, la riunificazione tedesca (1990) ha costituito di fatto la soluzione della principale delle pendenze politico-territoriali rimaste aperte dopo il conflitto. [15291] Dalla guerra del 1939-45 (un conflitto ancor più “mondiale” di quello del 1914-18) il volto dell’Europa uscì profondamente mutato. L’Italia aveva perso le sue colonie e la Venezia Giulia. La Germania, amputata di tutte le sue regioni orientali, ridotta alla metà di quel che era nel 1914, era occupata per due terzi da Americani, Britannici e Francesi e per un terzo dai Sovietici, mentre Berlino fu divisa egualmente e costituì una enclave autonoma nella zona sovietica. La frontiera dell’URSS slittò fortemente verso ovest, e quella della Polonia si spostò nello stesso senso. Per il resto rimasero in vigore le frontiere prebelliche. Dopo di allora alcuni processi appaiono dominanti nella storia europea. In primo luogo, se la guerra aveva messo in evidenza l’ormai indiscutibile primato degli Stati Uniti, aveva pure qualificato l’Unione Sovietica come di gran lunga maggiore potenza del Vecchio Continente. Rapidamente apparve chiaro come non solo la Francia, ma neppure la Gran Bretagna vincitrice del conflitto fosse in grado di sostenere il peso extraeuropeo del suo impero e della sua posizione prebellica. L’Unione Sovietica risultava l’unica potenza europea con effettiva proiezione mondiale. E ciò anche perché, in ancora maggior misura di prima della guerra, aveva luogo una fortissima espansione internazionale del movimento comunista; Mosca poté così dare vita nel 1947 a una nuova Internazionale, il Cominform. L’elemento ideologico e quello costituito dal grado di potenza globale raggiunto dall’Unione Sovietica la fecero allora considerare in Occidente come un’“altra Europa”, estranea ed ostile alla più autentica tradizione europea. Si diffuse nella maggior parte dell’opinione occidentale la convinzione che la vera Europa s’identificasse con la “piccola Europa”, che ricalcava, con lieve eccesso, lo spazio dell’Europa carolingia. In secondo luogo, in questa piccola Europa ancor più rapidamente venivano risanate le ferite della guerra e si iniziava un’espansione economica, che ne avrebbe fatto di nuovo un’area il cui sviluppo era superato o pareggiato solo da quello degli Stati Uniti e del Giappone. L’Europa fu a lungo il teatro più rappresentativo e rischioso della “guerra fredda” così iniziata. Tra il marzo 1948 e il maggio 1949 si ebbe lo sviluppo cruciale del blocco della parte occidentale di Berlino da parte dei Sovietici. Solo con un gigantesco ponte aereo gli Stati Uniti e le potenze occidentali occupanti l’ex capitale germanica riuscirono a superare la grave crisi politica nata da un sostanziale assedio. Nello stesso tempo nei paesi orientali ricadenti nell’area di influenza sovietica (Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Romania, Iugoslavia, Bulgaria, Albania) venne imposto, conculcando ogni aspirazione e manifestazione di libertà, un regime comunista. Si formò così il campo delle cosiddette “democrazie popolari”, eufemismo che non celava la netta divisione europea tra regimi totalitari e regimi liberaldemocratici rispettivamente a Est e a Ovest. In Grecia solo una lunga guerra civile, fino al 1949, evitava uno svolgimento analogo. [152911] Alla fine della seconda guerra mondiale, Berlino, già colpita da distruttivi bombardamenti aerei, fu teatro di importanti combattimenti (battaglia di Berlino). La città fu occupata dalle forze sovietiche il 24 aprile 1945. Secondo quanto era stato convenuto nella conferenza di Jalta (1945), Berlino divenne sede della Commissione di controllo alleata per la Germania e fu suddivisa in quattro zone di occupazione militare, russa, inglese, francese e americana. La tensione politica internazionale impedì la costituzione di un’amministrazione unitaria dopo le prime elezioni, svoltesi il 20 ottobre 1946; la conferenza londinese delle potenze occidentali sulla questione tedesca (febbraio-marzo 1948), nella quale l’URSS vide un’infrazione agli accordi di Potsdam, determinò la cosiddetta crisi di Berlino, col blocco stradale e ferroviario di Berlino Ovest effettuato dai Sovietici, al quale si rispose da parte anglo-americana con contromisure anche attive (il cosiddetto “ponte aereo”). La situazione fu risolta in sede diplomatica con l’accordo delle quattro potenze occupanti (Washington, 5 maggio 1949), ma venne mantenuta, nonostante i propositi allora espressi di unificazione amministrativa, la divisione della città in due settori, orientale e occidentale, e dall’ottobre 1949 il settore orientale diventava capitale della Repubblica Democratica Tedesca. Nel giugno 1961 Chrušcëv consegnò a Vienna al presidente Kennedy un memorandum, nel quale l’URSS invitava le potenze occidentali ad acconsentire entro la fine dell’anno a una sistemazione del problema di Berlino comportante: la conclusione del trattato di pace con la Germania riunificata o con le due Germanie; la costituzione di Berlino Ovest in città libera e smilitarizzata, la fine dei diritti d’occupazione degli alleati a Berlino. Nel clima di tensione determinato dal memorandum sovietico e dalla risposta negativa degli occidentali, il 15 agosto le autorità della Repubblica Democratica Tedesca davano inizio all’erezione del cosiddetto “muro” sulla frontiera tra le due Berlino, lungo il quale numerosi tentativi di passaggio hanno avuto un tragico epilogo. [152921] Nel periodo compreso fra la prima e la seconda guerra mondiale Berlino visse una vera e propria esplosione dell’area metropolitana; essa si estese dai 200 chilometri quadrati del 1914 agli oltre 800 chilometri quadrati del 1939, nei quali si addensava una popolazione di 4.340.000 abitanti. Il secondo conflitto segnava paurose distruzioni, con 50.000 edifici rasi al suolo e altri 200.000 più o meno gravemente danneggiati; la popolazione, nel 1946, era ridotta a 3.200.000 abitanti. Con la guerra fredda, già prima della costruzione del “muro”, l’agglomerato urbano veniva diviso in due settori (con superfici rispettive di 480 chilometri quadrati, l’occidentale, e di 403 chilometri quadrati, l’orientale) e la ricostruzione avveniva, pertanto, seguendo uno sviluppo nettamente divaricato. Berlino Ovest, rimasta priva del centro degli affari, polarizzava le attività finanziarie, culturali e amministrative lungo un nuovo asse direzionale (Kurfürstendamm), mentre le attività industriali si localizzavano nei quartieri settentrionali (Tegel, Spandau) e lungo il Canale di Teltow, interessando comparti manifatturieri di carattere innovativo e tradizionale (elettrico, meccanico, chimico-farmaceutico, elettronico, manifattura di tabacco). L’andamento demografico, dopo una fase iniziale di ripresa, diveniva stagnante per l’emigrazione delle classi giovani verso il territorio della Repubblica Federale Tedesca, con il conseguente invecchiamento strutturale della popolazione, che portava ben presto alla “crescita zero”; si arrestavano anche le correnti di immigrazione dai paesi dell’Europa meridionale e, soprattutto, dal settore orientale, dopo la costruzione del muro. La condizione di città-stato isolata riduceva anche le potenzialità del sistema di comunicazioni: nonostante rimanessero aperti sette tronchi ferroviari e due autostradali, i collegamenti con la Repubblica Federale erano affidati prevalentemente al trasporto aereo (scali di Tempelhof, Tegel e Gatow, con linee per Hannover, Amburgo e Francoforte sul Meno). Berlino Est, viceversa, favorita dalla funzione di capitale della Repubblica Democratica Tedesca, espandeva sia le attività terziarie di carattere burocratico-amministrativo, sia quelle industriali (nei quartieri di Treptow e Lichtenberg), orientate verso la metallurgia e la lavorazione della gomma, ma tendenti anche a duplicare le specializzazioni del settore occidentale. La contiguità territoriale con la stessa Repubblica Democratica permetteva una migliore apertura commerciale, che si avvaleva, tra l’altro, del buon porto fluviale e dell’aeroporto di Schönefeld. All’interno dell’area urbana complessiva, l’artificiosa situazione geopolitica determinava una cesura nelle reti dei servizi pubblici tale da impedirne l’assetto organico. Gli stessi flussi turistici, richiamati dal grande prestigio della città, ne risultavano pesantemente condizionati. L’abbattimento del muro e la riunificazione tedesca hanno aperto nuove prospettive di centralità, per Berlino, nel contesto dei rapporti fra CEE e paesi dell’Europa orientale. [152101] Alla ricostruzione economica europea del secondo dopoguerra contribuì in maniera decisiva il cosiddetto “piano Marshall”: offerta di aiuto e di impegno per la ripresa economica e il risanamento finanziario di tutti i paesi europei già belligeranti, che gli Stati Uniti avanzarono nel 1948. L’Unione Sovietica respinse l’offerta, e costrinse a respingerla anche paesi come la Cecoslovacchia, ricadenti nella sua sfera di influenza. Ma alla fine degli anni Cinquanta era già evidente una netta differenza del ritmo di sviluppo rispettivo dell’Occidente e dell’Oriente europeo, che, quindi, consolidava la contrapposizione delle due Europe. Al fattore di potenza e a quello economico se ne aggiungeva, nel determinare lo stesso effetto, un terzo, legato alla rottura delle alleanze di guerra, che erano state cementate ben più dal bisogno di contrastare l’espansione e le ideologie dei paesi vinti che da effettiva solidarietà politica e ideale fra democrazie occidentali e comunismo sovietico. In opposizione alla forte pressione sovietica e comunista, si ebbe prima una Unione europea occidentale (Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo) e poi, nell’aprile 1949, il Patto Atlantico (NATO) con l’adesione dei paesi dell’Unione e di Stati Uniti, Canada, Italia, Portogallo, Norvegia, Danimarca e Islanda. Nello stesso tempo in Germania la zona di occupazione occidentale e quella orientale si organizzavano in due stati, l’uno federale e democratico con capitale Bonn, l’altro comunista con capitale Berlino Est. La Germania Federale aderì nel 1954 al Patto Atlantico, al quale rispose allora il Patto di Varsavia fra l’URSS e i paesi comunisti dell’Europa orientale. Fra questi non era più dal 1948 la Iugoslavia, che aveva rotto i suoi rapporti con Mosca, rifiutando la “satellizzazione” imposta di fatto dall’Unione Sovietica nella sua sfera d’influenza. Nel 1952 erano entrati nell’alleanza atlantica anche Grecia e Turchia. La divisione della Germania divenne, a tutti gli effetti, il principale fattore di contrasto fra le due alleanze, contrasto consolidato dalla costruzione di un muro fra Berlino Est e Berlino Ovest nel 1961. La diminuzione di potenza europea induceva le classi dirigenti occidentali a un profondo ripensamento della posizione internazionale dei rispettivi paesi, che si concretò in una serie di iniziative comunitarie che prospettavano la “piccola Europa” come una sempre più concreta area unitaria, capace anche di costituire un nuovo soggetto storico. Il declino europeo era rapidamente confermato dal processo di decolonizzazione dei grandi imperi delle antiche maggiori potenze. Iniziata con l’indipendenza riconosciuta dalla Gran Bretagna all’India (e, in sostanza, anche ai suoi vecchi dominions), già nel 1947, e poi via via alle altre colonie britanniche, la decolonizzazione ebbe aspetti più drammatici per la Francia in Indocina e in Algeria, per i Paesi Bassi, o per il Belgio. Alla fine degli anni Sessanta solo piccoli resti dei vecchi imperi mantenevano lo status di colonie europee. Ultime, a seguito di lunghe guerriglie, a ricevere l’indipendenza erano, negli anni Settanta, le colonie portoghesi. D’altra parte, dopo il 1945, la Gran Bretagna si lasciava rapidamente sostituire dagli Stati Uniti nei suoi impegni nelle sue antiche aree coloniali. [1521011] In URSS la dittatura di Stalin toccava l’apice dopo la guerra, culminando in quello che fu definito un culto della personalità. Alla sua morte, nel 1953, sembrò aprirsi una fase di disgelo sia nelle relazioni fra Est e Ovest che all’interno. Nel 1956 essa assunse l’aspetto di una destalinizzazione ad opera di Chrušcëv. Non si toccò, però, in nulla la sostanza totalitaria del regime, che, caduto Chrušcëv, sembrò messa in ulteriore e nuova evidenza sotto Breznev, segretario del PCUS dal 1964 e poi presidente e maresciallo dell’URSS. Nei paesi satelliti la morte di Stalin, il disgelo e la destalinizzazione provocarono una serie di agitazioni e rivolte (a Berlino nel 1953, in Polonia e Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968, in Polonia nel 1970 e 1976), tutte represse con la forza o con l’intervento armato sovietico. Nella politica internazionale fasi di distensione si alternarono con fasi di aspro contrasto e di vera e propria crisi (in particolare, per l’impianto di missili sovietici a Cuba nel 1962), benché le prime tendessero a prevalere. Con Breznev la politica di potenza e di espansione ideologica sovietica toccò, comunque, il massimo. L’URSS si dotò di armamenti competitivi rispetto a quelli americani e occidentali, appoggiò i movimenti antioccidentali in ogni parte del mondo (specialmente in Indocina e nei paesi arabi) e giunse nel 1979 a invadere l’Afghanistàn. Solo alla morte di Breznev nel 1982 si sarebbe aperto un processo davvero diverso. [1521021] Nel secondo dopoguerra la leadership americana trovò una varia resistenza nelle forze della sinistra e del nazionalismo europei. Nel 1956 l’intervento armato franco-britannico contro la nazionalizzazione egiziana del Canale di Suez fu osteggiato duramente e fermato dagli Stati Uniti, sancendo clamorosamente il rispettivo ben diverso grado di potenza. In Francia si ebbe una crisi del regime parlamentare, che portò al potere nel 1958, con una nuova costituzione presidenzialista, de Gaulle, al quale si dovette una politica di autonomia rispetto al Patto Atlantico e all’URSS. Inoltre, si manifestò, nella seconda metà degli anni Sessanta, un notevole mutamento del clima politico e culturale. Anche nel mondo cattolico si ebbe un rivolgimento profondo col papato di Giovanni XXIII (1958-1963) e col concilio Vaticano II da lui indetto. Nel 1968 esplose la “contestazione”, una rivolta ideologica ai valori “occidentali” quali erano stati fino allora intesi, che sembrò mettere a repentaglio la stessa presidenza di de Gaulle in Francia. Sul tronco di essa si innestarono movimenti extraparlamentari di estrema sinistra e negli anni Settanta anche gruppi terroristici, particolarmente forti in Germania e in Italia (dove nel 1978 fu assassinato Aldo Moro). Negli stessi anni Settanta agitò i paesi europei occidentali una grave crisi economica, innescata anche da una nuova politica dei prezzi da parte dei paesi produttori di petrolio, e da grandi agitazioni sindacali, lotte sociali, dissensi clamorosi. Le spinte di sinistra, forti dopo il 1945, ma riassorbite nella dialettica democratica durante gli anni Sessanta e Settanta, toccarono allora il massimo, così come il processo di revisione e di critica del ruolo dell’Europa nella storia del mondo moderno, esplicitato da forti simpatie e solidarietà per i movimenti antioccidentali e anticolonialisti, per i paesi (come la Cina) che sembravano prospettare nuovi modelli di civiltà, per cause particolari come quella del Vietnam o dei Palestinesi. In Grecia il regime democratico era sovvertito (1967) da una dittatura militare. Nello stesso tempo il solido edificio dello stato nazionale veniva messo in discussione da agitazioni regionali, che davano o ridavano attualità politica a esigenze che apparivano sopite (specialmente nei Paesi Baschi in Spagna e tra Fiamminghi e Valloni in Belgio), mentre si ponevano con forza imprevista anche tensioni internazionali, come quelle per l’Ulster tra Irlanda e Gran Bretagna e per Cipro tra Grecia e Turchia. Nella Repubblica Federale di Germania tendenze naturali e aspirazioni alla riunificazione nazionale si fondevano nella Ostpolitik, la nuova politica verso l’Est, che impegnava la socialdemocrazia tedesca e il suo leader Willy Brandt in un’azione di distensione internazionale e di cooperazione e di penetrazione economica tedesca, che sollevava più di una preoccupazione nei paesi occidentali. E ciò anche perché nello sviluppo economico dell’Europa postbellica la Germania Occidentale si configurava da sola come un gigante economico in grado di rivestire ruoli politici non meno protagonistici di quello rivendicato alla Francia da de Gaulle. In Italia la vicenda politica del paese, in cui era presente il più forte partito comunista dell’Occidente, appariva fossilizzata da una mancanza di alternativa al governo dei democratici cristiani e dei partiti centristi che dal 1947, integrati nel 1964 dai socialisti, erano al potere. Cadevano, infine, gli ultimi regimi illiberali: in Portogallo nel 1974, ma dando luogo ad un periodo di agitazioni, che dopo alcuni anni lasciò una solida base alla democrazia; in Spagna dopo la morte di Franco nel 1975, con passaggi graduali che durarono anch’essi alcuni anni; in Grecia nel 1974, con maggiore tranquillità, ma soffrendo molto della questione di Cipro, che portò ad una crisi nei rapporti con la NATO. [152131] La decolonizzazione ha tratto il primo e più determinante avvio dallo svolgimento stesso della colonizzazione, sia per i risultati e le conseguenze dell’azione svolta dai governi e dalle amministrazioni coloniali, sia soprattutto per le reazioni provocate nella popolazione locale da quell’azione, anche in contrasto con gli intenti che la ispiravano, ne fosse essa consapevole o meno. L’azione per lo sviluppo economico dei territori soggetti, intrapresa dai governi coloniali (anche se diretta all’interesse metropolitano), e la connessa promozione sociale (con la diffusione dell’assistenza sanitaria e, sia pure talora con certi limiti, dell’istruzione scolastica), provocarono un profondo mutamento delle strutture sociali tradizionali, determinando la formazione di élites culturalmente evolute, sempre più consistenti, che divennero l’elemento propulsore delle rivendicazioni politiche. La politica coloniale della Gran Bretagna, e in qualche misura anche quella di altre potenze, avviò, sia pure con lenta gradualità, i territori coloniali verso una sempre più ampia autonomia amministrativa, premessa per l’ulteriore progresso verso l’indipendenza politica, favorendo il formarsi di una evoluta élite locale; a questo risultato pervenne egualmente la politica, tipica della Francia, che mirava alla assimilazione, cioè teoricamente alla progressiva completa fusione, su un piano di parità, fra la madrepatria e le colonie. Questa élite, assunti come propri gli ideali e i metodi politici occidentali e rivendicate, con particolare vigore nel mondo arabo e in Asia, le proprie tradizioni, si è fatta interprete presso e contro i governi coloniali delle aspirazioni, sempre più nette e forti, verso l’autonomia e verso l’indipendenza; essa promosse la creazione e l’organizzazione di movimenti, di associazioni, di partiti che variamente contribuirono a dare forza, risolutezza e progressiva diffusione nelle masse agli ideali “nazionalistici”. La pressione delle rivendicazioni, spesso espressasi attraverso disordini, tumulti, sollevazioni popolari, anche violente, e talora invece attraverso manifestazioni organizzate di resistenza passiva o non-cooperazione (Gandhi), ha certamente contribuito in misura rilevante a far progredire e ad accelerare il processo verso l’indipendenza; a tale meta si è giunti in alcuni casi attraverso un’aspra e lunga guerra di “liberazione nazionale”, alla quale ha aderito la maggioranza della popolazione (l’Indocina e l’Algeria ne hanno dato gli esempi più drammatici). Con la pressione esercitata dalle popolazioni soggette o almeno dagli esponenti politici che se ne facevano portavoce, convergeva l’azione di movimenti ideologici, di partiti e di altre organizzazioni (sindacati, ecc.), che all’interno degli stati coloniali affermavano ideali e programmi di decolonizzazione. Teorie e affermazioni anticolonialiste avevano, per altro, precedenti lontani, contemporanei agl’inizi stessi dell’espansione coloniale europea. Le istanze decolonizzatrici provenivano specialmente dai partiti e dai movimenti di sinistra; la dottrina socialista e poi l’elaborazione leninista del marxismo condannarono decisamente l’espansione coloniale considerandola come un aspetto e un fondamento essenziale del capitalismo; perciò i partiti comunisti dei paesi europei, come quasi sempre quelli socialisti, si schierarono a favore delle rivendicazioni dei popoli coloniali. Durante la prima guerra mondiale le popolazioni asiatiche e africane avevano affiancato le potenze dell’Intesa nello sforzo e nel sacrificio, acquistando coscienza delle proprie capacità e rendendosi conto di deficienze e di limiti, prima ignorati, dei popoli europei. Al termine del conflitto, mentre le potenze vincitrici si apprestavano a decidere il nuovo assetto mondiale, in qualche territorio coloniale, specialmente in Asia e nel mondo arabo (ove l’Egitto tornerà indipendente nel 1922) si annunciavano richieste di maggiore libertà e autonomia, quasi a compenso del contributo recato alla vittoria, a favore dei Negri d’America e d’Africa si levavano dagli Stati Uniti d’America le voci, pur con impostazione e con toni diversi, del movimento panafricanista, iniziatosi al principio del secolo, e del movimento pannegro. Nella Carta della Società delle Nazioni, notevolmente ispirata dalle idee del presidente Wilson, si affermò, sia pure con una formula molto blanda, il principio che i governi coloniali dovessero “assicurare un equo trattamento agli indigeni” (art. 23), mentre l’art. 22 creava l’istituto del mandato, nei cui successivi sviluppi può scorgersi l’inizio concreto del processo di decolonizzazione. Già nel periodo fra le due guerre mondiali (1919-1939), mentre si accentuavano in diversi territori coloniali le rivendicazioni decolonizzatrici che assumevano spesso forme organizzate e violente, con la fine del mandato britannico l’Iraq nasceva nel 1932 quale stato indipendente. Durante il secondo conflitto mondiale – il cui svolgimento nell’Africa orientale, con la resa delle forze italiane, restituiva l’indipendenza all’Etiopia (1941) – la stessa propaganda di guerra, esaltando i valori della democrazia e della libertà, nel cui nome gli Alleati combattevano, e la dichiarazione della Carta Atlantica (1941), affermando il diritto dei popoli all’autodeterminazione, suscitavano le speranze delle popolazioni coloniali la cui partecipazione al conflitto, con notevole contributo di uomini e di mezzi, accentuava le conseguenze psicologiche già avutesi nella prima guerra mondiale e rinnovava l’aspirazione a un compenso sul piano politico. Negli incontri internazionali che preparavano l’assetto politico internazionale del dopoguerra, le istanze decolonizzatrici furono sostenute, con motivazioni e prospettive diverse, dalle due massime potenze mondiali, Stati Uniti d’America e URSS, e trovarono espressione nella Carta dell’ONU (1945); il cap. XI fissava i principi direttivi e alcuni precisi obblighi ai quali dovevano attenersi i governi che amministravano “territori non autonomi” (fra l’altro, di “sviluppare l’autogoverno delle popolazioni, di prenderne in debita considerazione le aspirazioni politiche e di assisterle nel progressivo sviluppo delle loro libere istituzioni politiche...”); i capp. XII e XIII creavano l’istituto dell’“amministrazione fiduciaria”, il cui scopo era esplicitamente indicato nell’autogoverno o nell’indipendenza e la cui applicazione era prevista per i territori già sotto mandato, ed eventualmente per quelli sottratti agli stati vinti e per quelli che le potenze responsabili volessero liberamente sottoporre al nuovo regime. I principi decolonizzatori sanciti nella Carta si espressero con crescente vigore nell’attività dell’Assemblea generale e degli altri organi dell’ONU, anche per l’accrescersi del numero degli stati membri già sottoposti alla dominazione coloniale; fra di essi, infatti, si andò stabilendo una solidarietà a favore dei paesi che rivendicavano l’indipendenza, solennemente affermata nella conferenza afroasiatica di Bandung (aprile 1955) e riconfermata negli anni seguenti in altre conferenze intercontinentali o continentali (panafricane). [1521311] La decolonizzazione in Asia precedette, nell’insieme, l’analogo processo nel continente africano. Nell’Asia mediterranea già parte dell’Impero ottomano, la Siria e il Libano, ex-mandati della Società delle Nazioni affidati alla Francia, conseguirono effettivamente nel 1946 l’indipendenza, ottenuta in via di principio sin dal 1941. Nello stesso 1946 cessò il mandato britannico su quella parte della Palestina che era stata eretta nel 1923 in regno di Transgiordania; l’altra parte fu divisa nel 1948 fra il nascente Stato di Israele e la Transgiordania, che prese nel 1949 il nome di Giordania. Nell’Asia orientale pervennero all’indipendenza nel 1946 le Filippine (4 luglio), alle quali gli Stati Uniti d’America nel 1935 avevano concesso una larga autonomia promettendo l’indipendenza entro un decennio. A conclusione di una graduale e complessa evoluzione, l’India cessava di essere britannica nel 1947 con la nascita (15 agosto) dell’Unione Indiana a prevalenza indù, e del Pakistan, a prevalenza musulmana; ambedue entrarono a far parte del Commonwealth. Analoga fu la scelta di Ceylon (attualmente Sri Lanka), indipendente dal 4 febbraio 1948, mentre la Birmania (indipendente dal 4 gennaio 1948) non entrò nella Comunità britannica. Ben diversamente, cioè attraverso aspri contrasti, con fasi anche di conflitto armato, si svolse il processo di decolonizzazione nell’Indonesia olandese, indipendente dal 27 dicembre 1949. Ancor più drammatico il processo della decolonizzazione nell’Indocina francese: al concludersi della seconda guerra mondiale, durante la quale la regione era stata occupata dai Giapponesi, le forze nazionaliste proclamarono la Repubblica democratica del Vietnam (2 settembre 1945); dopo complesse e alterne vicende, culminate in aspro conflitto contro la Francia, si giunse agli accordi di Ginevra (luglio 1954) che sancivano la completa indipendenza della Cambogia, del Laos e del Vietnam, quest’ultimo rimasto diviso fino al 1975 in due stati a diverso regime politico. Attraverso un graduale processo evolutivo acquistava l’indipendenza il 31 agosto 1957 la Federazione malese, che dal 1948 riuniva i due Stabilimenti dello Stretto (Penang e Malacca) e i nove Stati malesi; sei anni più tardi (31 agosto 1963), lo Stato di Singapore (autonomo dal 1958) e i territori del Borneo settentrionale Sabah e Sarawak, accedendo all’indipendenza, si univano alla Federazione malese formando la Federazione della Grande Malesia o Malaysia. Dal 1° gennaio 1984 acquistava l’indipendenza il Brunei. [1521321] In Africa dopo l’ultima guerra la decolonizzazione ha preso avvio con la decisione dell’Assemblea generale dell’ONU sulla sorte delle ex colonie italiane: la Libia diveniva indipendente il 24 dicembre 1951 quale Regno federale; la Somalia nel 1950 era affidata in amministrazione fiduciaria all’Italia per un periodo decennale; in Eritrea, unita nel 1952 all’Etiopia in forma federativa, ma poi privata di qualunque autonomia, si sviluppò a partire dagli anni Sessanta un forte movimento di guerriglia indipendentista che nel 1991 ha assunto il controllo del paese. Il Marocco e la Tunisia, ove da tempo, anche in connessione con il risveglio spirituale e politico dell’intero mondo arabo, si erano affermate aspirazioni nazionalistiche, ottennero la cessazione del protettorato francese e la piena indipendenza rispettivamente il 2 e il 20 marzo 1956 (il 7 aprile terminò anche il protettorato spagnolo sul Marocco settentrionale). Dal 1° gennaio 1956 era divenuto indipendente anche il Sudan già sottoposto a condominio anglo-egiziano. Il primo territorio dell’Africa nera nel quale giunse a compimento il processo di decolonizzazione fu la colonia britannica della Costa d’Oro, che assunse il nome di Ghana (6 marzo 1957); con esso si fuse la parte del Togo affidata in amministrazione fiduciaria alla Gran Bretagna. Nell’Africa nera francese, avviata all’autonomia con la Loi cadre del 1956, la strada verso l’indipendenza fu aperta dalla costituzione della Comunità Francese, sottoposta a referendum il 28 settembre 1958: la sola Guinea non aderì e divenne indipendente il 2 ottobre 1958; gli altri territori ebbero lo status di repubbliche autonome ma successivamente, nel corso del 1960, ottennero l’indipendenza: Senegal, Mali, Madagascar, Dahomey (attualmente Benin), Niger, Alto Volta (attualmente Burkina Faso), Costa d’Avorio, Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Mauritania. Nello stesso 1960, che fu detto “l’anno dell’Africa”, conseguirono l’indipendenza: la parte del Camerun amministrata dalla Francia (1° gennaio), cui si unì il 1° ottobre 1961 il lembo meridionale della parte amministrata dal Regno Unito; il Togo (27 aprile), già amministrazione fiduciaria della Francia; il Congo belga, ora Zaire (30 giugno); la Somalia (1° luglio), alla quale si unì il Somaliland britannico; la Nigeria (1° ottobre), che aveva seguito il modello di graduale evoluzione costituzionale proprio dei territori britannici (ad essa si unì, 1961, il lembo settentrionale della parte del Camerun già amministrata dalla Gran Bretagna). Nella sostanziale analogia dello schema di evoluzione costituzionale, ciascun territorio britannico compì con tappe cronologicamente diverse il proprio cammino verso l’indipendenza, alla quale nel 1961 pervennero la Sierra Leone (27 aprile) e il Tanganica (9 dicembre), già amministrazione fiduciaria; e il 19 ottobre 1962 l’Uganda. Nel 1962 (1° luglio), dal territorio del Ruanda-Urundi amministrato dal Belgio, nacquero i due stati indipendenti del Ruanda e del Burundi. L’Algeria è tra i paesi del continente africano che hanno conquistato l’indipendenza con più lunga, intensa e drammatica lotta; dal novembre 1954 il Fronte di liberazione nazionale algerino iniziò la guerriglia, estesasi successivamente a gran parte del paese; i governi francesi, mentre reagivano con estrema durezza sul piano militare, cercarono con crescenti difficoltà una soluzione politica alla questione, resa complessa per la presenza nel territorio di una rilevante collettività europea, da tempo insediata e con ingenti interessi economici, e per lo status giuridico ad esso conferito di territorio metropolitano. A una soluzione negoziata si giunse, infine, nel 1962, con il riconoscimento dell’indipendenza (3 luglio). Anche in alcuni territori britannici la presenza di collettività europee, restie a ogni concessione che minacciasse il loro predominio politico-economico rispetto alla popolazione africana numericamente in maggioranza, ha reso più laborioso e contrastato il processo di decolonizzazione: così il Kenya, ove il malcontento della popolazione africana si espresse nella sanguinosa rivolta dei Mau Mau, giunse all’indipendenza il 12 dicembre 1963. Ancor più tormentata l’evoluzione dell’Africa centrale, i cui territori nel 1953 erano stati riuniti in una Federazione, che appariva strumento della supremazia della popolazione di origine europea; con la dissoluzione della Federazione si affrettava l’accesso all’indipendenza del Nyasaland (6 luglio 1964, con il nome di Malawi) e della Rhodesia del Nord (24 ottobre 1964, con il nome di Zambia); mentre nella Rhodesia del Sud la minoranza bianca, nell’intento di conservare il controllo sul paese e nel dissidio con il governo britannico, proclamava unilateralmente l’indipendenza (11 novembre 1965); successivamente, dopo anni di trattative politico-diplomatiche con la Gran Bretagna e di guerriglia dei locali movimenti di liberazione, si giungeva a un compromesso che portava alla nascita del nuovo stato dello Zimbabwe (18 aprile 1980). Il processo di decolonizzazione nell’Africa britannica aveva già toccato Zanzibar e Pemba (indipendenti dal 10 dicembre 1963 e uniti al Tanganica, il 25 aprile 1964, nella Repubblica di Tanzania) e si completava con l’indipendenza della Gambia (18 febbraio 1965) e dei protettorati dell’Africa australe: Bechuanaland (30 settembre 1966, col nome di Botswana), Basutoland (4 ottobre 1966, col nome di Lesotho), Swaziland (6 settembre 1968). Il 12 marzo 1968 perveniva a sua volta all’indipendenza la colonia britannica di Maurizio; il 12 ottobre dello stesso anno la Guinea Equatoriale. Nel corso degli anni Settanta si è compiuta la cosiddetta “seconda indipendenza dell’Africa”, conquistata cioè dai territori già portoghesi attraverso una dura lotta armata, iniziata fra il 1962 e il 1964, congiunta a un processo rivoluzionario. Grazie a questa lotta, al concreto appoggio degli Stati africani vicini, alla solidarietà più volte ribadita dall’ONU, nonché alla evoluzione democratica del Portogallo dall’aprile 1974, si giunse alla indipendenza della Guinea Bissau, il 10 settembre 1974 (già unilateralmente proclamata il 24 settembre 1973), del Mozambico (25 giugno 1975), dell’arcipelago del Capo Verde (5 luglio 1975), di São Tomé e Principe (12 luglio 1975), dell’Angola (11 novembre 1975). Nella seconda metà degli anni Settanta ottennero l’indipendenza anche le isole Comore (6 luglio 1975), a eccezione di Mayotte, che volle restare legata alla Francia, le isole Seicelle (28 giugno 1976) e la Repubblica di Gibuti (26 giugno 1977), cioè l’ex Territorio degli Afar e degli Issa (ancor prima Costa francese dei Somali). Nel 1990, infine, ha raggiunto l’indipendenza, dopo una lunga lotta, anche la Namibia, ex colonia tedesca (Africa del sud-ovest) affidata in mandato all’Unione Sudafricana nel 1920 e mantenuta dal governo di Pretoria sotto la propria amministrazione anche dopo la seconda guerra mondiale, malgrado le ripetute condanne dell’ONU. [1521331] Nel mondo arabo la decolonizzazione poté ritenersi conclusa, a parte la questione palestinese, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. Sotto la pressione della lotta armata del Fronte nazionale di liberazione e delle dichiarazioni dell’ONU la Gran Bretagna si ritirò da Aden e il 30 novembre 1970 fu proclamata l’indipendenza dello Yemen del Sud (unificatosi nel 1990 con lo Yemen del Nord nella Repubblica dello Yemen). La presenza e l’influenza britanniche sulle regioni costiere della penisola arabica cessarono del tutto alla fine del 1971 quando, fallito il progetto patrocinato da Londra d’una vasta federazione dell’Arabia meridionale, proclamarono la propria indipendenza il piccolo stato insulare del Bahrein (14 agosto 1971), l’emirato del Qatar (3 settembre 1971), la federazione degli Emirati Arabi Uniti (2 dicembre 1971) limitata ad Abu Dhabi, Dubai e altri cinque sceiccati minori della cosiddetta Costa dei Pirati. Per il sultanato dell’Oman l’ammissione all’ONU nell’ottobre 1971 rinnovò il riconoscimento internazionale d’una indipendenza formalmente mai cessata. [1521341] Nell’America Centrale e Meridionale sono giunti all’indipendenza: dal 1962 la Giamaica (6 agosto) e le isole Trinidad e Tobago (31 agosto); la Guiana già britannica dal 26 maggio 1966, le Barbados dal 30 novembre 1966, le isole Bahama dal 10 luglio 1973 (dopo quasi un decennio di autogoverno), Grenada dal 7 febbraio 1974 (dal marzo 1967 “stato associato” al Regno Unito), Suriname (ex Guiana Olandese) dal 25 novembre 1975, Dominica dal 3 novembre 1978 (dal 1967 “stato associato”), Saint Lucia dal 22 febbraio 1979 (“stato associato” dal 1967), Saint Vincent dal 27 ottobre 1979 (già da dieci anni “stato associato”), Belize (ex Honduras Britannico) dal 21 settembre 1981 (con autonomia interna già dal 1964), Antigua dal 1° novembre 1981 (“stato associato” dal 1967), Saint Christopher-Nevis dal 19 settembre 1983 (“stato associato” dal 1967). Nell’Oceano Indiano si è attuata il 26 luglio 1965 l’indipendenza del sultanato delle Maldive, trasformatosi in repubblica l’11 novembre 1968. [1521351] Nell’Oceania hanno conseguito l’indipendenza: il 1° gennaio 1962 le isole Samoa occidentali; il 31 gennaio 1968 la repubblica di Nauru, ex amministrazione fiduciaria dell’Australia e già dal 1966 dotata dell’autogoverno; le isole Tonga e le isole Figi rispettivamente il 4 giugno e il 10 ottobre 1970; Papua-Nuova Guinea il 16 settembre 1975 (dopo due anni di autonomia); le isole Salomone, già britanniche, il 7 luglio 1978 (autonome dal 1976) e nello stesso anno, il 1° ottobre, le isole Tuvalu, staccatesi nel 1975 dalle Gilbert, le quali a loro volta sono divenute indipendenti il 12 luglio 1979 con il nome di Kiribati; nel 1980, il 30 luglio, le Nuove Ebridi, con il nome di Vanuatu. L’ammissione all’ONU nel 1971 del Bhutan può segnare in certo modo la completa indipendenza di questo stato, le cui relazioni internazionali erano state curate prima dalla Gran Bretagna e poi dall’India; non può invece interpretarsi propriamente quale decolonizzazione l’indipendenza di Singapore che dal 9 agosto 1965 è uscito dalla Federazione della Malaysia, e del Bangla Desh, l’ex Pakistan orientale, staccatosi il 26 marzo 1971 dall’altra parte del Paese. [1521361] Dei vasti domini coloniali di un tempo resta ormai ben poco, ove si prescinda dai territori antartici, che, per il fatto di essere pressoché totalmente disabitati, non possono essere considerati alla stregua degli altri possedimenti; e anche dalla Groenlandia, che dal 1979 è una contea largamente autonoma del Regno di Danimarca. La Gran Bretagna amministra tuttora una decina di colonie (alcune con autonomia interna), la Francia amministra nove tra dipartimenti e territori d’oltremare, ai Paesi Bassi rimangono i circa 1000 kmq delle Antille Olandesi (tra le quali Aruba gode di una particolare autonomia in vista dell’indipendenza), al Portogallo resta solo Macao fino al 20 dicembre 1999. La Spagna conserva alcune plazas de soberanía sulla costa del Marocco. Gli Stati Uniti amministrano 12.000 kmq in isole dell’America Centrale e dell’Oceania. Per quanto riguarda la Repubblica Sudafricana, indipendente dal 1910, ma nella quale la maggioranza negra è stata discriminata e privata dei diritti politici, un processo di graduale democratizzazione è stato avviato nel 1990. La decolonizzazione ha dato luogo alla nascita di nuovi stati formalmente indipendenti e sovrani, ma ancora fortemente condizionati dal passato coloniale. Essi hanno, specialmente in Africa, ereditato i confini delle antiche colonie, confini che spesso non tenevano conto degli elementi geografici, sia fisici sia umani. Sono così risultati politicamente divisi territori unitari per motivi naturali o etnici, determinando coabitazioni forzate di gruppi umani diversi e rivali oppure un frazionamento di gruppi legati da storia e cultura comune e da economie complementari. In taluni casi le risorse continuano a essere utilizzate, secondo logiche coloniali, dagli antichi dominatori o da altri paesi che si sono a essi sostituiti (neocolonialismo); in altri casi i nuovi governanti non sono stati in grado di riconvertire adeguatamente le attività economiche. La ripartizione della popolazione tra campagna e città e tra le varie parti di ogni singolo paese risulta ancora spesso condizionata da modelli estranei alle culture e alle esigenze locali. Vari tentativi di rinnovamento (per esempio, l’abbandono di certe colture agrarie di tipo speculativo o i cambiamenti di sede delle capitali) rivelano la tendenza a una nuova organizzazione territoriale che rifletta la reale e integrale indipendenza dei paesi. [152141] Nell’Europa della ricostruzione e della “guerra fredda”, fu dalla Gran Bretagna – la vecchia potenza coloniale che dopo la seconda guerra mondiale si era lasciata rapidamente sostituire dagli Stati Uniti nel controllo di molte aree – che partì l’appello a una nuova collaborazione; questa si concretò nella istituzione di un Consiglio d’Europa (5 maggio 1949), inteso come organismo di collaborazione politica fra i paesi membri. Non fu, però, la collaborazione politica, bensì quella economica a far registrare i maggiori successi, con varie iniziative culminate prima in una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, tra Francia, Italia, Germania Federale, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo) nel 1951, poi in una Comunità economica europea (CEE) o Mercato comune e in una Comunità europea per l’energia atomica (Euratom, fra gli stessi paesi) nel 1957, a cui si affiancò nel 1959 una Associazione europea di libero scambio (EFTA), promossa dalla Gran Bretagna (con Svezia, Norvegia, Danimarca, Svizzera, Austria e Portogallo) anche in concorrenza col Mercato comune. Un grave insuccesso toccò, invece, nel 1954 al tentativo di una Comunità europea di difesa (CED, tra gli stessi paesi della CECA), confermando la difficoltà di un’integrazione politica, alla quale si opponevano in pari misura le correnti del nazionalismo ancora forti specialmente in Francia, i vari partiti comunisti e la riluttanza britannica a rinunciare alla propria tradizione di mani libere nei confronti del continente, oltre che al perseguimento di un rapporto speciale con gli Stati Uniti. Tuttavia, negli anni Settanta gran parte dei paesi dell’EFTA entravano nel Mercato comune e la “piccola Europa” a sei della CEE diventava in ultimo l’Europa dei Dodici (con in più Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna e Portogallo), con iniziative importanti come un nuovo Sistema monetario europeo (SME) nel 1978, la messa a punto di una politica energetica comune nel 1979 e la fissazione al 1° gennaio 1993 di una fase di più stretta integrazione nella circolazione dei beni e delle persone. D’altro canto, superate le varie resistenze, anche l’integrazione politica riprese slancio, con l’elezione di un parlamento europeo, parallelo alla CEE, a suffragio universale a partire dal 1979 e con la frequente assunzione di posizioni comuni sui grandi problemi internazionali. Ma la sfasatura tra economia e politica rimaneva e non permetteva ancora di parlare davvero di unione europea. A questi processi ad Occidente, Mosca opponeva nel 1949 la formazione di un Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON), che però non riuscì ad assumere un peso analogo a quello delle comunità europee occidentali. [152151] L’elezione a cancelliere della Repubblica Federale di Germania del socialdemocratico W. Brandt, nel 1969, con il contemporaneo avvio di una politica estera tedesco-occidentale di apertura verso i paesi dell’Est (Ostpolitik), contribuì notevolmente allo sblocco della situazione berlinese. Dopo una serie di incontri, avviati nel marzo 1970, si giunse così all’accordo quadripartito (Stati Uniti d’America, URSS, Gran Bretagna e Francia) del 3 settembre 1971, con il quale, prendendo atto dell’impossibilità di un’intesa sulla definizione giuridica dello status di Berlino, si cercò di pervenire a una sua regolamentazione di fatto. Esso riconobbe i legami politici, economici e finanziari tra Berlino Ovest e la Repubblica Federale di Germania; affidò a quest’ultima la rappresentanza di Berlino Ovest in sede internazionale; regolò il transito delle persone fra le due parti di Berlino e fra Berlino Ovest e la Repubblica Democratica Tedesca; regolò il traffico civile fra Berlino Ovest e la Repubblica Federale di Germania (questa parte fu completata da un accordo fra le due Germanie e da un’intesa fra il Senato berlinese da una parte e il governo della Repubblica Democratica Tedesca dall’altra, entrambi del dicembre 1971). Tale situazione rimase invariata fino alla fine degli anni Ottanta, quando la crisi della Repubblica Democratica Tedesca pose le premesse per la riunificazione della città. Infatti, era stata soprattutto l’erogazione di servizi sociali che aveva procurato un certo consenso da parte della popolazione tedesco orientale, malgrado la crescente burocratizzazione del sistema politico, che non consentì mai una reale partecipazione popolare né libertà di espressione culturale. Il permanente conflitto con gli intellettuali e il regime di controllo poliziesco non consentirono di porre salde radici politiche al regime, che fu fortemente screditato dalle ripetute fughe verso l’Ovest. Tuttavia, fin quando non fu travolta dalla resistenza dei capi del Partito di unità socialista (Sozialistiche Einteitspartei Deutschlands, SED) a prendere coscienza della grande trasformazione avviata in tutti i paesi dell’Est dalle riforme di M. S. Gorbacëv in URSS, la Repubblica Democratica Tedesca era riuscita a conservare un suo pur precario equilibrio. Dopo il trattato con la Repubblica Federale, nel quadro della distensione internazionale, la Repubblica Democratica Tedesca ottenne il massimo consolidamento della sua situazione internazionale: la visita nella Repubblica Federale di Germania di E. Honecker, ricevuto a Bonn nel settembre 1987 con gli onori dovuti a un capo di Stato straniero, sembrava quasi convalidare, a onta di ogni riserva, la tesi della Repubblica Democratica Tedesca dell’esistenza di due stati tedeschi. Paradossalmente, proprio alla vigilia delle celebrazioni per il 40° anniversario della fondazione della Repubblica Democratica Tedesca, si manifestò la crisi che doveva portare al suo dissolvimento: la crescita inarrestabile delle fughe verso l’Ovest, acuitasi nell’estate 1989, mise in evidenza le gravi difficoltà del paese, privo ormai di sostegni dall’Est, così dal punto di vista economico come dal punto di vista politico. È impossibile dire se un tempestivo mutamento di rotta dei dirigenti della SED e una rapida realizzazione di riforme avrebbero assicurato la sopravvivenza della Repubblica Democratica Tedesca; certo è che il ritardo con il quale avvenne il tentativo di revisione non giocò a suo favore. Quando nel novembre 1989 la pressione popolare costrinse all’estromissione di Honecker ebbe inizio una rapida quanto pacifica dissoluzione del vecchio sistema “stalinista” (per impropria che sia questa definizione). Contrariamente alle aspettative del nuovo presidente del Consiglio H. Modrow, che sperava di negoziare una unificazione concordata con la Repubblica Federale per salvaguardare la specificità della Repubblica Democratica Tedesca, Bonn, per bocca del cancelliere H. Kohl, non lasciò sussistere alcun dubbio che qualsiasi aiuto alla Germania orientale era subordinato alla prospettiva di un suo rapido assorbimento nelle strutture statali della Repubblica Federale: non della unificazione tra due stati si sarebbe trattato, ma del dissolvimento della Repubblica Democratica Tedesca all’interno della Repubblica Federale. L’apertura del “muro” e l’avvio della libera circolazione tra le due Germanie il 9 novembre 1989 aveva rapidamente trasformato la pacifica rivoluzione del novembre nella richiesta pura e semplice di adozione del modello occidentale. Le elezioni del 18 marzo 1990 per la nuova Volkskammer (il parlamento della Repubblica Democratica Tedesca) videro la vittoria dei partiti conservatori, in particolare la CDU, che più decisamente puntavano alla rapida annessione (sulla base del Grundgesetz) della Germania orientale da parte di quella occidentale. La Repubblica Democratica Tedesca, con l’intesa per l’unificazione monetaria ed economica, entrata in vigore il 1° luglio 1990, sacrificò di fatto la sua sovranità a quella della Repubblica Federale, che, con intransigenza ideologica, impose il passaggio immediato dall’economia statalizzata all’economia di mercato, aprendo una crisi senza precedenti nel tessuto sociale delle regioni orientali. Il 1° luglio 1990 fu la tappa decisiva nel processo di assorbimento della Repubblica Democratica Tedesca, formalizzato con l’unione politica del 3 ottobre successivo. Presupposto fondamentale di quest’ultima era stata la definizione con le potenze, e in particolare con l’Unione Sovietica, del nuovo statuto internazionale della Germania, in sostituzione di fatto di un trattato di pace che dopo la seconda guerra mondiale non fu mai concluso. In questo contesto, veniva anche definitivamente confermata la linea Oder-Neisse come confine orientale della Germania unificata: dopo una risoluzione in tal senso approvata in giugno sia dal Bundestag che dalla Volkskammer, essa era formalmente riconosciuta come frontiera tra Germania e Polonia nel trattato firmato dai due stati nel novembre 1990. Gli accordi dell’autunno 1990, pertanto, oltre a ripristinare l’unità della Germania, chiusero veramente le pendenze della seconda guerra mondiale. Oggi, possiamo dire che la struttura urbanistica e socio-economica di Berlino è destinata a subire profondi mutamenti, con la razionalizzazione degli apparati amministrativi e produttivi, una grande mobilità delle forze di lavoro e il recupero dei quartieri resi in passato marginali dalla prossimità al confine politico. L’effettiva acquisizione delle funzioni di governo della Repubblica Federale di Germania dovrebbe rappresentare, poi, il definitivo riscatto della metropoli, proiettandola al vertice della gerarchia urbana tedesca. [15311] Nel corso della seconda guerra mondiale la cinematografia dei paesi belligeranti ebbe prevalentemente finalità propagandistiche, ma a partire dal 1942 si andò formando in Italia una scuola, il neorealismo cinematografico (detta anche neoverismo), destinata a esercitare una profonda influenza nella storia del cinema. Neorealismo in quanto propugnava la creazione di un cinema realistico, popolare e nazionale. Precedenti del neorealismo si possono riscontrare nel realismo francese sviluppatosi intorno al 1939 principalmente per opera di J. Renoir, J. Duvivier e M. Carné, e nel verismo o naturalismo di alcuni film italiani del periodo 1914-15, derivati dal teatro napoletano (Assunta Spina, Sperduti nel buio, ecc.). Nel 1943 L. Visconti realizzava Ossessione, ove faceva la sua prima comparsa la vita quotidiana delle classi popolari, narrata in uno stile che aveva saputo far propria la lezione del “realismo poetico” (Visconti era stato a lungo assistente di Renoir); nello stesso anno venivano realizzati (entrambi su sceneggiatura di C. Zavattini) I bambini ci guardano di V. De Sica, che criticava l’ipocrisia della famiglia italiana, e Quattro passi fra le nuvole di A. Blasetti, che, pur nell’ambito della commedia brillante, denotava l’assunzione di uno stile più popolare e realistico. Di fondamentale importanza nella storia del neorealismo fu Roma città aperta (1945) di Rossellini, girato subito dopo la liberazione di Roma sui luoghi stessi dell’azione, che si impose proprio per la sua attualità e autenticità; a esso Rossellini fece seguire Paisà (1946), che descriveva sei episodi della guerra in Italia dal 1943 al 1945 per poi prendere strade diverse, caratterizzate però sempre da un estremo rigore formale. De Sica e Zavattini davano vita a un efficace quadro dell’Italia del dopoguerra con film nei quali l’autenticità della descrizione e l’incisività della denuncia sociale venivano talora soppiantate da un facile sentimentalismo e da un generico umanitarismo, mentre si affermava un’abbondante produzione di argomento resistenziale, dai toni epici e spettacolari (Il sole sorge ancora, 1946, di A. Vergano; Il bandito, 1946, di A. Lattuada; Caccia tragica, 1947, di G. De Santis). Nel 1948 Visconti realizzava uno dei migliori film del neorealismo con La terra trema (1948), caratterizzato da un estremo realismo e nello stesso tempo da una potente capacità plastica, cui fece seguire numerosi film, tutti a ottimo livello (per lo più trasposizioni di testi letterari), incentrati sul tema dei rapporti tra il mondo degli affetti e dei legami familiari e la struttura sociale. È in quest’ambito che si formano i due autori che, insieme a Visconti e Rossellini, costituiranno le maggiori personalità del cinema del dopoguerra: F. Fellini, che comincia a fianco di Rossellini ma rivela immediatamente (da Lo sceicco bianco, 1952, a Le notti di Cabiria, 1957) un immaginario personale, una notevole capacità di integrare onirismo e realismo, mentre M. Antonioni nello stesso periodo (da Cronaca di un amore, 1950, a Il grido, 1956), apre il cinema italiano ai temi esistenziali della cultura europea e della società industriale creando uno stile affatto personale. Sono anche gli anni in cui la spinta al rinnovamento emersa nell’immediato dopoguerra degrada nella commedia di costume, nel bozzetto regionale e satirico (di cui Totò, creatore di un patrimonio comico di eccezionali doti mimiche, fu il notevole protagonista), mentre crescono nuovi generi popolari, come il mitologico e il melodramma. Si ha al contempo un grande sviluppo del mercato cinematografico che vede l’affermarsi anche all’estero di uno star system nazionale (S. Loren, G. Lollobrigida, A. Magnani). Nel frattempo negli Stati Uniti d’America proseguiva l’opera dell’inglese A. Hitchcock, che perfezionò il genere dei film a suspense secondo moduli di eleganza narrativa, anche se prevalentemente commerciali, mentre si andava affermando una generazione di giovani registi, che propugnavano un cinema maggiormente aderente al reale e la cui attività fu pertanto in un primo tempo duramente ostacolata dalla Commissione per le attività anti-americane: J. Dassin, E. Kazan, J. Huston, J. Losey, F. Zinnemann, N. Ray, R. Brooks, R. Aldrich, B. Wilder. Verso la metà degli anni Cinquanta, per fronteggiare una grave crisi della cinematografia statunitense, dovuta sia allo scadente livello medio della produzione sia alla sempre crescente concorrenza della televisione, furono introdotte nuove tecniche (3 D o cinema tridimensionale, cinerama, cinemascope, rilievo, triplo schermo, schermi panoramici, ecc.), che favorirono la realizzazione di colossal (Vera Cruz, 1955; The ten commandments, 1956; Ben Hur, 1959; Lawrence of Arabia, 1962; It’s a mad, mad, mad, mad world, 1963; Myfair lady, 1964; Doctor Zhivago, 1965). In Francia, mentre proseguiva l’attività del “realismo poetico”, si affermavano R. Bresson e J. Tati. Il primo, nelle sue realizzazioni caratterizzate da un estremo rigore stilistico (è sua la definizione che il cinema “non è uno spettacolo, ma una scrittura”), affronta essenzialmente la tematica dei rapporti tra la realtà e i valori individuali e religiosi; J. Tati è il creatore dello stravagante Monsieur Hulot, la cui delicata sensibilità viene messa a contrasto con una società rozza e superficiale. Notevole successo riscossero inoltre i film a suspense di H.-G. Clouzot. Gli anni Cinquanta videro anche l’affermazione internazionale del Giappone con il cinema (che fu detto neorealistico) di K. Mizoguchi, H. Gosho, A. Kurosawa e S. Yamamoto. [15321] Col sopraggiungere degli anni Sessanta si vanno affermando un po’ dappertutto quei movimenti (comunemente definiti “nuovo cinema”), che si contrappongono programmaticamente alla cinematografia tradizionale; loro caratteristiche principali sono il rifiuto dei tradizionali canoni del racconto cinematografico, la sperimentazione di tecniche nuove (per esempio, il piano-sequenza al posto del montaggio a stacchi brevi), un maggiore impegno sociale e la ricerca di un sistema di diffusione alternativo, indipendente dai condizionamenti commerciali. In Francia si formò (attorno al critico A. Bazin e alla rivista Cahiers du Cinéma) il movimento della nouvelle vague, che comprendeva autori piuttosto diversi tra loro e che assai presto presero strade divergenti, accomunati però dalla ricerca di uno stile più cinematografico e meno letterario (rifacendosi pertanto come modelli a Renoir, Rossellini, Bresson, Hitchcock); tra questi: C. Chabrol, F. Truffaut, A. Resnais, J.-L. Godard, J. Rivette, L. Malle, E. Rohmer. Contemporaneo alla nouvelle vague francese è il movimento del free cinema inglese (parallelo a quello degli “arrabbiati” in letteratura), costituito da giovani registi che, continuando (e in parte criticando) la scuola documentaristica di Grierson, realizzarono dapprima documentari sulla vita delle classi popolari inglesi e quindi film più o meno duramente polemici nei confronti del sistema; tra questi: il critico e regista L. Anderson, K. Reisz, T. Richardson, J. Schlesinger. Risultati di maggior valore conseguirono due registi americani trasferitisi a Londra: J. Losey, che analizza con uno stile rigoroso e personale i rapporti umani all’interno di una società profondamente divisa in classi, e S. Kubrick, egualmente impegnato in un’opera di riflessione sulla società moderna. In Svezia, a fianco dell’opera di I. Bergman, che nella sua vasta produzione (in cui spazia da temi metafisici ai problemi della coppia, a riflessioni sull’arte, a temi schiettamente lirici) ha saputo dar vita a un raffinato stile personale, sono presenti fermenti di novità nell’attività di registi maggiormente politicizzati, quali B. Widerberg, V. Sjöman, J. Troell. In Germania, “libertà dalle esperienze convenzionali, dalle coercizioni dell’industria, dalle influenze di gruppi esterni” è alla base dello Junger deutscher Film di cui A. Kluge, J.-M. Straub, V. Schlöndorff, P. Fleischmann appaiono le personalità più interessanti. Impegno, revisione di storiografie e valori ufficiali, coraggiosa sperimentazione di intrecci e linguaggi contraddistinguono in Cecoslovacchia la nová vlna nella quale troviamo V. Chytilova, J. Nemec, J. Jres, J. Menzel, E. Schorm, I. Passer, S. Uher e, soprattutto, M. Forman (in seguito trasferitosi negli Stati Uniti d’America). La liberazione da ogni forma di colonialismo, la denuncia sociale, un profondo legame con le tradizioni nazionali sono alla base, in Brasile, del cinema nôvo di N. Pereira, G. Rocha (il maggiore teorico e autore), L. Hirszman, R. Guerra, P. C. Saraceni, C. Diegues. Benché tutti questi movimenti siano fenomeni d’avanguardia di più o meno rapida integrazione nella logica del mercato, sono tuttavia forse da considerare l’ultima significativa esplosione di ricerca formale, produttiva, ideale ovvero, anche, l’ultima grande reazione del mondo del cinema in un sistema di comunicazioni di massa segnato dall’egemonia televisiva. Le acquisizioni, tuttavia, sono profonde: l’influsso di una messa in scena basata sull’unicità dell’inquadratura senza montaggio (il piano-sequenza) che trova nel cinema dell’ungherese M. Jancsó e del greco T. Anghelopulos un’applicazione ossessiva e rituale; la continua sperimentazione percettiva e la ricerca documentaria del new American cinema e dell’underground di J. Mekas, R. Kramer, S. Brakhage, A. Warhol, K. Anger (che affiorerà spesso nel cinema statunitense del decennio successivo); soprattutto la pratica di un cinema d’autore capace di comunicare conoscenze, emozioni e idee prima di annullarsi nella ricerca dell’intrattenimento. Tutto ciò crea le condizioni di crescita o sviluppo di numerosi registi come i polacchi A. Wajda, R. Polanski, J. Skolimovski, K. Zanussi, gli ungheresi A. Kovács e I. Szabó, i giapponesi N. Shima, S. Imamura, S. Terayama, Y. Yoshida, gli svizzeri A. Tanner e C. Goretta, gli spagnoli C. Saura e L. Berlanga, il portoghese M. de Oliveira, lo iugoslavo D. Makavejev, il canadese M. Snow, i cileni M. Littin e R. Ruiz, il boliviano J. Sanjinés, il messicano A. Ripstein, il filippino L. Brocka, L. J. Peries dello Sri Lanka, D. Mehrjui e S. Shadid-Saless dell’Iran e, infine, per la cinematografia sovietica S. Pardzanov, T. Abuladze, W. Suksin, M. Chuciev, J. Sepit´, O. Ioseliani, E. e G. Sengelaja, A. Koncalovskije, in particolar modo, A. Tarkovskij. In Italia, dove tali tendenze sono rappresentate da E. Olmi, M. Ferreri, P. P. Pasolini, M. Bellocchio, B. Bertolucci, i fratelli P. e V. Taviani, si perfeziona intanto la commedia di costume, ricco caleidoscopio grottesco e satirico in cui si rispecchiano (grazie ad autori-attori come A. Sordi, N. Manfredi, U. Tognazzi, V. Gassman) le rapide trasformazioni di una società che da contadina diventa industriale. Tra i più versatili registi della commedia troviamo M. Monicelli, D. Risi, L. Comencini, oltre a P. Germi e A. Pietrangeli, in cui non mancano venature di scetticismo; sul tracciato di un cinema di denuncia e indagine politica e sociale lavorano invece G. Pontecorvo, F. Rosi, E. Petri. Va inoltre ricordato il cinema di V. Zurlini ed E. Scola, F. Maselli e M. Bolognini, V. De Seta e N. Loy e, nell’ambito del cosiddetto western all’italiana, S. Leone e, del genere giallo, D. Argento. Gli anni Sessanta sono caratterizzati anche da un autentico interesse per l’emergere di nuove cinematografie, da quella indiana (che vanta autori come S. Ray e M. Sen), a quella cubana (con registi come T. G. Alea e J. G. Espinosa), a quella cinese (dal vastissimo mercato sin dagli anni Trenta e Quaranta), mentre talune novità interessanti provengono dall’Africa, laddove la cinematografia sta compiendo i passi iniziali (il primo lungometraggio è del 1955 e del 1963 è il notevole Borom Saret del senegalese U. Sembene). Tra i paesi arabi si segnala soprattutto l’Egitto con registi come Y. Chanine, S. Abu Seif, T. Salah, mentre in Turchia, dove emerge A. Yilmaz, la cinematografia è presente sin da prima della guerra. Negli anni Settanta la cinematografia degli Stati Uniti d’America conosce un profondo rinnovamento grazie alle produzioni indipendenti e ad autori come J. Cassavetes, D. Hopper, R. Altman, W. Allen, P. Bogdanovich, F. Coppola, B. De Palma, S. Peckinpah, A. Penn, A. Pakula, W. Friedkin, S. Pollack, B. Rafelson, M. Scorsese, P. Kaufman, M. Cimino. Sono costoro a ricodificare profondamente i modelli della finzione cinematografica (ripensando e rielaborando inesauribilmente il cinema classico) e a mettere a punto complesse rappresentazioni della realtà contemporanea che risentono dell’influenza europea, istituendo inoltre un nuovo star system (A. Pacino, R. De Niro, D. Hoffman, J. Fonda, R. Redford) che integra con abilità i maggiori attori delle generazioni precedenti (M. Brando, P. Newman, R. Mitchum). In Italia gli anni Settanta vedono i grandi autori del dopoguerra dare ancora salda testimonianza della propria presenza: da De Sica (Il giardino dei Finzi Contini, 1971) a Rossellini che inizia a sperimentare programmi storico-didattici per la televisione; da Visconti (Morte a Venezia, 1971) a Fellini (Amarcord, 1973), ad Antonioni (Professione: reporter, 1975), mentre giungono a maturità espressiva, sulla scia delle utopie liberatorie del decennio precedente, registi come Bertolucci (Ultimo tango a Parigi, 1972) e Ferreri (La grande bouffe, 1973). Anche in campo internazionale, peraltro, continua l’opera di maestri delle generazioni passate come Hitchcock (Frenzy, 1972), Buñuel (Le charme discret de la bourgeoisie, 1972), Bergman (Scener ur ett äktenskap, Scene da un matrimonio, 1974), Kurosawa (Dersu Uzala, 1975) Mentre in Germania si fa intanto largo una generazione di registi (R. W. Fassbinder, W. Herzog, W. Wenders, M. von Trotta) che, nel solco dello Junger deutscher Film, si imporrà sul mercato internazionale con film dallo stile raffinato e metaforico e dal contenuto spesso duramente polemico nei confronti del sistema sociale tedesco, in Australia si mette in luce un gruppo di registi (P. Noyce, B. Beresford, F. Schepisi e P. Weir) di solida professionalità. Nella seconda metà degli anni Settanta in Italia si ha l’esordio di una nuova generazione di registi quali P. Avati, N. Moretti, P. Del Monte, G. Amelio, S. Piscicelli, e all’inizio del decennio successivo quello di autori-attori per lo più provenienti dal cabaret e dalla televisione, come R. Benigni, C. Verdone, M. Troisi. Caratteristica comune di questa nuova cinematografia è il trovarsi ad operare in una realtà profondamente condizionata dalla proliferazione incontrollata dell’emittenza televisiva liberalizzata nel 1976, alla quale si deve sia la brusca contrazione del mercato, sia la notevole difficoltà degli spazi di sperimentazione, e ciò malgrado l’appoggio produttivo cui la RAI si era impegnata fin dagli anni passati. [1611] Oggi l’Unione Europea è una realtà sovranazionale in piena espansione, le cui prospettive di allargamento sono all’ordine del giorno. L’UE è composta dai quindici Stati che, a partire dalla fondazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, passando per il lungo cammino della Comunità economica europea, hanno aderito in tempi diversi al processo di integrazione europea: Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo dal 1951; Regno Unito, Irlanda e Danimarca dal 1973; Grecia dal 1981; Spagna e Portogallo dal 1986; Svezia, Finlandia e Austria dal 1995. Ma già alla vigilia dei grandi avvenimenti del 1989 e, successivamente, all’indomani della firma del Trattato di Maastrich - quando i dodici stati membri sancirono la nascita dell’Unione - si aprì il dibattito sul possibile allargamento dell’organizzazione. Un dibattito di cui vale la pena ripercorrere le tappe essenziali. Infatti, l’europeismo della seconda metà degli anni ottanta è fiducioso e dinamico. Uscita finalmente dal lungo tunnel delle crisi petrolifere e dell’inflazione galoppante, l’Europa si rimette al lavoro. L’obiettivo, soprattutto per i soci fondatori della Comunità originaria, è politico: la creazione di un grande soggetto federale. Ma la strategia resta fondamentalmente quella fissata da Jean Monnet negli anni cinquanta. Per fare l’Europa politica occorre deviare lungo le strade più lunghe, ma più facilmente percorribili, dell’unione economica. Occorre sostituire il ‘mercato comune’ dei Trattati di Roma con un ‘mercato unico’ e sopprimere di conseguenza tutte le barriere non tariffarie che ancora impediscono la libera circolazione degli uomini, delle merci, del denaro e dei servizi; e occorre, poi, completare il ‘mercato unico’ con una moneta comune. Se ogni paese conservasse la propria sovranità monetaria e fosse libero di variare il valore del proprio denaro, gli scambi e la distribuzione delle risorse ne sarebbero turbati a vantaggio degli uni e a svantaggio degli altri. Benché perseguiti con diversi accordi internazionali, due obiettivi - mercato unico, moneta comune - sono quindi complementari. I progressi maggiori si concentrano nell’arco di dodici mesi fra l’incontro del Consiglio europeo a Maastricht, in cui fu approvato il progetto di Trattato sull’Unione Europea (10 dicembre 1991), e l’avvio del mercato unico (1° gennaio 1993). Non basta: questi progressi coincidono con la morte del comunismo e la disintegrazione dell’URSS. La coincidenza fra i due avvenimenti - la costruzione di una nuova Europa e il collasso dell’impero sovietico - assume, pertanto, un significato simbolico. Delle due Europe che si sono confrontate per più di quarant’anni attraverso il sipario di ferro, la prima, quella delle libertà, tocca alcuni dei suoi più ambiziosi traguardi proprio nel momento in cui l’altra appare irrimediabilmente condannata. Qualcuno si spinge sino ad affermare che i progressi fatti dalla Comunità Europea nel corso degli anni ottanta sono una delle cause della crisi di sfiducia che si è abbattuta sull’URSS. Tra il Consiglio europeo di Maastricht e la scomparsa dell’Unione Sovietica (25 dicembre 1991) corrono appena due settimane. È cambiata, in quelle due settimane, la carta d’Europa e, con questa, si sono modificati i termini del dibattito sulle prospettive di allargamento. Può considerarsi una diretta conseguenza del Trattato di Maastricht l’accordo - firmato a Porto il 2 maggio 1992 - che la nuova Unione Europea stabiliva con i sette paesi della Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA, European Free Trade Association): Austria, Finlandia, Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svezia, Svizzera. Era il preludio a quel processo di ‘allargamento’ della UE che si prospettava in combinazione con il cosiddetto ‘approfondimento’ avviato con il Trattato di Maastricht. E in queste due parole si trovano fin da allora sintetizzati i problemi, i propositi e gli sviluppi che dominano la storia dell’europeismo degli anni novanta. L’Accordo di Porto, mirante alla creazione di uno “spazio economico europeo”, apriva strada ai negoziati per l’adesione all’Unione Europea di Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia, mentre quella della Svizzera rimaneva bloccata dall’esito negativo del referendum del 6 dicembre 1992. Ne1 luglio 1990 avevano presentato domanda di adesione la Repubblica di Cipro e la Repubblica di Malta. Ma l’attività delle istituzioni della nuova Unione Europea nel suo primo ano di vita (è entrata formalmente in vigore il 1° novembre 1993) è dominata dai problemi di messa in opera del Trattato, tra i quali va acquistando un peso sempre maggiore - e drammatico - quello dell’occupazione e, su un altro terreno, quello della capacità operativa della progettata unione politica e di difesa, messa subito a dura (e negativa) prova dalla catastrofe iugoslava. [16111] Col negoziato per l’adesione dei quattro paesi dell’EFTA si è aperto il dibattito sui problemi istituzionali derivanti già da questo ulteriore allargamento e a maggior ragione da quello ancor più ampio e variegato che si prospettava. I precedenti allargamenti si erano effettuati in dimensioni e con gradualità tali da consentire adeguamenti di facile applicazione al quadro istituzionale esistente prima di Maastricht. Ma già a Maastricht, oltre alla prevista conferenza intergovernativa del 1996 per verificare lo stato di attuazione del Trattato e intraprendere le opportune revisioni, una ‘dichiarazione’ indicava la scadenza del giugno 1994 per la revisione del numero dei componenti della Commissione e del Parlamento in conseguenza dell’unificazione della Germania e del previsto ingresso dei paesi dell’EFTA. E nel dicembre del 1993 un’altra ‘dichiarazione’ del Consiglio europeo riunito a Bruxelles annunciava e disponeva che la Conferenza intergovernativa convocata per il 1996 “oltre all’esame della funzione legislativa del Parlamento europeo e agli altri punti stabiliti nel Trattato della Unione Europea, avvierà l’esame del problema del numero dei membri della Commissione e della ponderazione dei voti degli Stati membri in sede di Consiglio. Esaminerà inoltre le misure necessarie ad agevolare i lavori delle istituzioni e a garantirne l’efficace funzionamento”. Tre mesi dopo, i dodici paesi della Unione pre-allargamento, in una riunione informale del Consiglio Affari generali tenutosi a Ioánnina (sotto la presidenza greca, 26-27 marzo) giungevano alla decisione - con quello che fu poi chiamato il “compromesso di Ioánnina” - di invitare il Parlamento, il Consiglio e la Commissione a elaborare relazioni riguardo alla messa in opera del Trattato di Maastricht, da trasmettere a un gruppo di lavoro composto da rappresentanti dei ministri degli Esteri, istituito dal Consiglio europeo di Corfù nel giugno 1994 e incaricato di elaborare proposte di riforma delle istituzioni europee per la prevista Conferenza intergovernativa del 1996. Il singolare ricorso al ‘compromesso’ in luogo della decisione, dovuto soprattutto a esigenze e obiezioni avanzate dal governo britannico, è chiaramente indicativo della complessità e difficoltà di trovare soluzioni istituzionali adeguate ai problemi derivanti dall’intreccio di ‘approfondimento’ e ‘allargamento’ dell’Unione. Di fronte a tali problemi e prospettive, che si proiettano sulle sorti e sul ruolo dell’Europa alla fine di questo secolo, il progetto di riforma - anzi, di nuovo impianto istituzionale - più organico e lungimirante è certamente quello del Progetto Herman approvato dal Parlamento europeo. Esso potrebbe davvero inaugurare una nuova epoca per l’europeismo, rendendone protagonisti non gli Stati nazionali, ma i cittadini d’Europa. Questo è il significato profondamente innovativo del passaggio dal Trattato alla Costituzione come base giuridica e progettuale dell’Unione: all’origine e a fondamento, non più la volontà, le esigenze e convenienze degli Stati nazionali sovrani, bensì i diritti e i doveri dei cittadini europei. Quindi impianto istituzionale non più prevalentemente intergovernativo, ma interamente sovranazionale e capace di realizzare, finalmente, il proposito federalista che ha sempre animato l’europeismo. [1621] Nei primi anni novanta, dopo il crollo del “muro” di Berlino e la riunificazione tedesca, il problema preliminare per l’allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Europa centrale e orientale era quello di creare le condizioni economiche e politiche per consentire la graduale integrazione nel tessuto economico e politico del mondo occidentale e in particolare la loro transizione verso l’economia di mercato. A tal fine sono stati stilati, nel corso degli anni 1991-1992, accordi di ‘associazione’, prima con Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia (l’accordo con quest’ultimo paese è stato in seguito sostituito da due accordi distinti con la Repubblica Ceca e con la Slovacchia) e poi con Romania e Bulgaria. Accordi di cooperazione sono stati stipulati nel 1992 anche con i tre paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Il quadro complessivo dei problemi e anche dei risultati di tale intreccio di rapporti nella prospettiva dell’allargamento è stato presentato in termini chiari ed esaurienti al Consiglio europeo di Corfù (nei giorni 24-25 giugno 1994), che può considerarsi quasi il punto d’arrivo del decennio che qui abbiamo preso in esame. Seguendo l’ordine cronologico delle domande di adesione, quel Consiglio constatava: 1) che l’adesione di Cipro e Malta poteva considerarsi ormai “prossima”; 2) che “gli accordi europei con l’Ungheria e la Polonia sono ora in vigore” e che i due paesi “hanno presentato rispettivamente il 31 marzo e il 4 aprile 1994 la domanda per diventare membri della UE”; 3) che per quanto riguarda la Turchia sarà perseguito il “completamento della unione doganale prevista dall’accordo di associazione del 1964”; 4) che, come ha stabilito il Consiglio europeo di Copenaghen del giugno 1993, “i paesi associati dell’Europa centrale e orientale che lo desiderino possono diventare membri dell’Unione Europea non appena saranno in grado di soddisfare agli obblighi che ne derivano”, parallelamente al “dialogo politico che dovrebbe essere pienamente ed efficacemente attuato in via prioritaria”; 5) che va perseguita la conclusione di accordi di associazione con gli Stati baltici in preparazione della “successiva adesione alla Unione”; 6) che “proseguiranno i contatti con la Slovenia al fine d’instaurare le migliori condizioni per una cooperazione accresciuta con tale paese”. Intanto le domande di adesione di Austria, Finlandia e Svezia sono state accolte (la Norvegia è assente perché il referendum sull’adesione ha dato esito negativo) e i tre nuovi membri hanno partecipato al Consiglio europeo tenutosi a Cannes nei giorni 26-27 giugno 1995. Riunitosi per la prima volta con quindici membri, questo Consiglio ha accolto, nella sua seconda giornata, i rappresentanti dei nuovi paesi associati: sei dell’Europa centrale e orientale (Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca), tre baltici (Lettonia, Lituania, Estonia) e i rappresentanti di Malta e Cipro, candidati all’adesione. [1631] In occasione della prima riunione con tutti i 15 stati membri dell’Unione Europea, il Consiglio europeo tenutosi a Cannes nei giorni 26-27 giugno 1995 rivolse la sua attenzione, oltre che alle prospettive di allargamento dell’Unione verso Est, anche verso Sud, sollecitando “i paesi dell’Unione Europea e i loro partners nel Mediterraneo a cooperare maggiormente affinché il bacino del Mediterraneo diventi una zona di scambi e di dialogo che garantisca la pace, la stabilità e il benessere di quanti vivono sulle sue sponde”; perché “una politica di cooperazione ambiziosa al Sud costituisce il complemento della politica di apertura all’Est e conferisce coerenza geopolitica all’azione esterna dell’Unione Europea”. La Conferenza ministeriale euromediterranea (convocata a Barcellona il 27 e 28 novembre 1995) doveva costituire “un’occasione senza precedenti per i paesi dell’Unione Europea e i loro partners nel Mediterraneo occidentale e orientale di definire insieme le loro relazioni future”. Viene così accolta la proposta avanzata dalla Commissione il 19 ottobre 1994 nella sua ‘comunicazione’ al Consiglio e al Parlamento europeo su Una politica mediterranea più incisiva per l’UE: instaurazione di un nuovo partenariato euromediterraneo. Le tappe del percorso per raggiungere tale obiettivo sono cosi indicate: prima, una “zona di libero scambio sostenuta da un cospicuo aiuto finanziario”; seconda, una “più intensa cooperazione politica ed economica”; per giungere, terza tappa, a una vera e propria “associazione”; e per creare finalmente una “zona euromediterranea di pace e stabilità”. È evidente il ruolo di iniziativa e di guida di cui l’Italia si trova di fatto investita, data la sua posizione centrale nel Mediterraneo e considerato l’interesse suo preminente alla instaurazione di quella “pace e stabilità”. [1641] Dopo la riunificazione tedesca, il dibattito sull’allargamento dell’Europa comunitaria indusse i paesi più europeisti a chiedere con maggiore urgenza l’adeguamento della ‘costituzione’ europea alle funzioni e agli obiettivi dell’Unione. Se l’Europa comunitaria era destinata ad allargarsi occorreva affrontare e risolvere anzitutto il problema dei suoi meccanismi decisionali. È questa la ragione per cui si decise che i negoziati sull’allargamento sarebbero cominciati soltanto sei mesi dopo la fine della Conferenza intergovernativa convocata a Torino, nella primavera del 1995, per aggiornare tra l’altro la ‘costituzione’ europea. Ma un ostacolo, sorto improvvisamente sulla strada dell’Europa all’inizio degli anni novanta, fu la disintegrazione della Iugoslavia. In una prima fase la Comunità intervenne per restaurare lo status quo. Occorreva salvare, per quanto possibile, lo Stato iugoslavo e soprattutto evitare che qualche repubblica approfittasse di quella difficile fase di passaggio per rimettere in discussione le frontiere originali della Federazione. La Comunità adottò a tal fine due politiche diverse: in un primo tempo - con un piano proposto dal suo mediatore, lord Carrington - cercò di favorire una soluzione ‘soffice’, sperando di convincere le repubbliche a mantenere in vita alcune strutture comuni; in un secondo tempo riconobbe la Slovenia, la Croazia e successivamente la Bosnia nella speranza di tagliare il vecchio tessuto federale lungo le ‘cuciture’ repubblicane e evitare così lo strappo della guerra civile. Le due politiche rispondevano a uno stesso fine: il rispetto dei confini. Il 29 luglio del 1991 - poche settimane dopo la proclamazione dell’indipendenza croata e slovena - i dodici ministri degli Esteri della Comunità “dichiararono [...] i confini interni [...] inviolabili quanto i confini internazionali”. Che i maggiori responsabili dell’ordine europeo cercassero di tenere chiuso il vaso di Pandora delle rivendicazioni territoriali, era perfettamente comprensibile. Ma nella realtà iugoslava questo obiettivo si scontrò con un altro principio - il diritto dei popoli all’autodeterminazione - che le potenze europee avevano proclamato nell’Atto di Helsinki del 1975 e nella Carta di Parigi del 1990. Era impossibile perseguire il primo senza trascurare il secondo; era impossibile ammettere il secondo senza violare il primo. Fu questa la contraddizione di cui l’Europa divenne prigioniera nell’estate del 1991. Finché voleva conservare l’unità della Federazione, l’Europa era obiettivamente alleata di Belgrado, dei Serbi e di tutti coloro che traevano vantaggio o soddisfazione dall’unità dello Stato; quando modificò la propria linea politica e decise di tutelare per quanto possibile l’integrità territoriale delle repubbliche costitutive, divenne obiettivamente alleata di coloro - prima i Croati, poi i Bosniaci - che volevano separarsi da Belgrado senza perdere i territori prevalentemente abitati da popolazioni serbe. La posizione dell’Europa fu resa ancora più difficile dall’atteggiamento degli Stati Uniti. Allo scoppio della crisi George Bush, allora presidente, disse esplicitamente che il problema era europeo e lasciò chiaramente intendere che il suo paese non si sarebbe lasciato coinvolgere. Ma il suo successore, Bill Clinton, decise di dare retta a quei settori dell’opinione pubblica che chiedevano agli Stati Uniti maggiori iniziative e intraprese, da allora, una politica alquanto diversa da quella che gli Europei stavano perseguendo sul terreno. Aiutò i Croati e i Bosniaci musulmani, favorì la creazione di una federazione antiserba, disapprovò e respinse i piani di pace del mediatore europeo, raccomandò azioni di rappresaglia dall’aria contro le forze serbe. Mentre gli Europei, sul terreno, cercavano laboriosamente di conciliare l’intangibilità delle frontiere e l’autodeterminazione dei popoli, gli Americani videro nella crisi iugoslava l’occasione per valorizzare il ruolo della NATO vale a dire dell’alleanza che garantisce agli Stati Uniti la leadership politico-militare del continente europeo. Per due anni, fra il 1993 e il 1995, l’Europa e l’America seguirono nella vecchia Iugoslavia politiche diverse, potenzialmente conflittuali: sino al giorno in cui la dissennata offensiva serba contro Srebrenica offrì all’America l’occasione per una grande offensiva militare dall’aria. Nelle settimane seguenti gli Americani strapparono agli Europei la direzione politica della crisi e imposero ai Serbi gli accordi Dayton. Fu questa, per grandi linee, l’evoluzione della situazione iugoslava. Lo scacco dell’Europa non fu dovuto soltanto alla mancanza di una politica estera comune e di uno strumento militare unitario. Fu dovuto anche e soprattutto alla decisione degli Stati Uniti di perseguire obiettivi diversi e alle continue interferenze della politica americana in quella europea. L’opinione pubblica vide nelle vicende di quei mesi l’impotenza dell’Europa. Ma non prestò sufficiente attenzione al fatto che l’impotenza era il risultato di un problema irrisolto: i rapporti politico-militari fra l’Europa e gli Stati Uniti. Per comprendere la natura di quei rapporti conviene tornare a un’altra brutta pagina di storia europea: il fallimento del progetto per la creazione di una Comunità Europea di Difesa. Il trattato cadde al Parlamento francese, nell’agosto del 1954, quando comunisti e gollisti si coalizzarono per impedirne la ratifica. Fu quello il momento in cui gli europeisti decisero di abbandonare per il momento i loro ambiziosi progetti politico-militari e di puntare sull’integrazione economica. Più tardi, in molte occasioni, riesumarono dai loro archivi gli statuti dell’UEO (Unione dell’Europa Occidentale) e cercarono di farne l’organizzazione militare di una politica estera europea. Ma ogni tentativo si scontrò con il ricordo dell’esperimento fallito e soprattutto con l’inconfessata ostilità degli Stati Uniti per qualsiasi progetto destinato a promuovere l’autonomia militare dell’Europa. È questa una delle ragioni per cui la PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) fu sempre un esercizio retorico, una clausola di stile oppure, nella migliore delle ipotesi, un auspicio inserito - a futura memoria - nei documenti che gli Europei sottoscrissero durante gli anni seguenti. Per la politica estera e militare dell’Europa fu adottata di fatto una massima simile e opposta a quella che Gambetta raccomandò ai suoi connazionali dopo la sconfitta del 1870: fu deciso che occorreva parlarne sempre e non farla mai. Giustificato negli anni della guerra fredda, quando la minaccia sovietica sconsigliava una crisi euro-americana, questo atteggiamento divenne meno comprensibile negli anni in cui la scomparsa dell’URSS avrebbe dovuto suggerire un diverso equilibrio nei rapporti fra l’Europa e gli Stati Uniti. Ma la crisi iugoslava dimostrò che l’Europa non aveva né i mezzi né la voglia di affrontare l’America su questo terreno. Poco importa che la dimostrazione avesse avuto luogo nella peggiore delle condizioni possibili e che gli Europei, in molte circostanze, avessero dato prova di grande pazienza, tenacia, immaginazione diplomatica. Le apparenze dettero ragione all’America e torto all’Europa. [1651] Al fallimento della politica estera e militare dell’Unione Europea in Iugoslavia risale un giudizio negativo che si accentuò ed estese nel corso degli anni novanta. L’Europa, nel giudizio dei suoi critici, è soltanto economica e monetaria. Non ha “un’anima” politica, culturale, sociale. È un arido codice di clausole finanziarie, incapace di dare una risposta ai grandi problemi dell’epoca: la disoccupazione giovanile all’interno delle sue frontiere, la crisi dei paesi dell’Est, la domanda di lavoro dei paesi sottosviluppati. Questo dibattito è strettamente collegato con la sorte di un documento che fu per qualche tempo, in quegli anni, al centro del dibattito europeo: il Libro Bianco su crescita, competitività, occupazione, voluto da Jacques Delors, allora presidente della Commissione delle Comunità europee, negli ultimi mesi della sua presidenza. Delors constatò la gravità della recessione, ma ricordò che essa concerneva soltanto gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone senza investire la Cina e altre economie asiatiche. Non una crisi generale, quindi, ma una crisi che risaliva per molti aspetti all’apparizione sul mercato mondiale di nuovi soggetti economici, dinamici e intraprendenti. “Tocchiamo ora il fondo di tale crisi - continuava Delors - e riesce estremamente difficile impedire che l’opinione pubblica, incoraggiata da molti uomini politici, identifichi la costruzione europea con la recessione economica, benché il buon senso permetta di affermare che anche senza costruzione europea resterebbero oggi due grandi problemi a preoccuparci, l’avvenire del lavoro e dell’occupazione e la competitività delle economie europee”. Per superare la crisi ed evitare che essa suscitasse un’altra ondata di ‘euroscetticismo’ occorreva, secondo Delors, agire in quattro direzioni: approfondire il mercato interno per meglio sfruttarne le potenzialità; realizzare “grandi reti per fornire a questo grande spazio economico i mezzi per circolare più rapidamente e a costi minori”; puntare sulla rivoluzione informatica; continuare il processo di unione economica e monetaria. “Quanto più la recessione dura, scriveva Delors nella sua prefazione - tanto più è messa in discussione la filosofia dell’UEM (Unione Economica e Monetaria). La constatazione empirica [...] dimostra che i paesi che hanno beneficiato della stabilità monetaria hanno realizzato risultati economici migliori e hanno creato un numero di posti di lavoro superiore a quelli che hanno conosciuto l’instabilità monetaria”. In altre circostanze economiche il doppio programma di Delors - rilanciare l’occupazione, unificare le economie e le monete - avrebbe avuto qualche possibilità di successo. Nelle condizioni politiche ed economiche degli anni successivi il documento non ebbe fortuna. Costretti a scegliere fra il rilancio dell’occupazione e il perseguimento dei criteri di convergenza fissati dal Trattato di Maastricht - debito pubblico, deficit, inflazione, tassi d’interesse - i governi dei paesi dell’Unione scelsero risolutamente il secondo obiettivo. Si avverarono quindi le previsioni di Delors e si fece strada in una parte dell’opinione pubblica il falso convincimento che Europa e recessione fossero termini complementari di uno stesso fenomeno. [2111] Per “europeismo” si intende il movimento politico e di idee che, sulla base delle fondamentali affinità culturali e storiche che legano tra loro i popoli d’Europa, tende a promuovere un progressivo avvicinamento tra i vari stati nazionali europei, fino alla costruzione di un’Europa spiritualmente e politicamente unita. Sebbene motivi che alludono a una civiltà europea come unità culturale siano presenti già in epoca prerinascimentale (D. Alighieri, P. Dubois), soprattutto come lascito della tradizione cristiana medievale, e ritornino con una qualche insistenza e sempre maggior pregnanza politica fino ai secoli 18° (Voltaire, I. Kant) e 19° (G. Mazzini, C. Cattaneo, V. Hugo), gli spazi per un movimento politico europeista si aprono dopo la fine della prima guerra mondiale, uno dei momenti decisivi della crisi del tradizionale assetto europeo, basato sulla contrapposizione tra gli stati. Ma nel primo dopoguerra le tendenze sovranazionali quali il nuovo ruolo degli Stati Uniti e della Società delle Nazioni e, per altri versi, la rivoluzione comunista, posero in difficoltà l’unità europea come progetto politico, che infatti restò patrimonio di minoranze quali l’associazione Paneuropa di R. Coudenhove-Kalergi (1923). In quel tempo la tragedia della guerra e la successiva ascesa dei fascismi indussero intellettuali come S. Freud, J. Benda, J. Maritain, J. Huizinga, ecc., a descrivere gli anni Venti come il crollo di quella civiltà e di quella cultura europee di cui si iniziava ad avvertire l’assenza in modo lacerante. Sul terreno politico le iniziative non furono all’altezza della drammaticità della situazione; lo stesso piano di A. Briand per la nascita degli Stati Uniti d’Europa e per la formazione di una sorta di unione federale degli stati europei membri della Società delle Nazioni (settembre 1929) ebbe scarsa o nulla rispondenza. In ogni caso, tutte le iniziative di questo genere vennero travolte dall’ascesa al potere dei nazisti in Germania. Mentre il progetto di un nuovo ordine fascista in Europa minacciava l’intero continente, una prospettiva politica europeista emerse proprio dall’interno dello schieramento delle nazioni e delle forze politiche in lotta con il nazifascismo, sia nella versione federalista (Manifesto per l’Europa libera e unita, Ventotene 1941, di E. Rossi e A. Spinelli), sia in quella confederale, che suggestionò sin dai primi anni Quaranta leader quali Ch. de Gaulle e W. Churchill, convinti che la fine della guerra avrebbe segnato anche la fine dei nazionalismi in Europa aprendo una nuova fase di cooperazione internazionale nella quale vi sarebbe stato spazio per gli Stati Uniti d’Europa come concerto di nazioni libere e indipendenti. In realtà, l’Europa che emerse dalla seconda guerra mondiale era profondamente segnata dagli equilibri di forza tra le due superpotenze e divisa in zone d’influenza, al punto che le spinte unitarie – alimentate anche da gruppi di intellettuali presenti in vari paesi occidentali, raccolti soprattutto nel Movimento federalista europeo (fondato nel 1943) – ne rimasero in parte soffocate. Sia nei paesi socialisti sia in quelli del blocco atlantico, prevalsero infatti, e si accentuarono con la guerra fredda, tendenze alla competizione economica, politica e militare (Patto Atlantico, 1949; Patto di Varsavia, 1955). In particolare, mentre nei paesi dell’Europa Orientale la paralisi da questo punto di vista fu pressoché totale, nell’Europa Occidentale giocava un ruolo non secondario nell’ostacolare processi di unificazione politica l’eterogeneità dei regimi e dei governi. Non a caso, dunque, le spinte in direzione dell’unificazione europea si manifestarono, sin dalla fine degli anni Quaranta, non tanto sul terreno politico quanto economico, lasciando prevalere una visione “funzionalista” del processo di unificazione – che passa cioè per accordi settoriali – e privilegiando l’esigenza di allargare gli scambi e le intese commerciali e produttive attraverso molteplici organismi. [2121] CECA è la sigla di Comunità europea del carbone e dell’acciaio, costituita con il trattato di Parigi del 18 aprile 1951. Il 10 febbraio 1953 fu aperto per 155 milioni di consumatori il mercato comune (esclusi i territori oltremare) del carbone, del minerale di ferro e dei rottami, il 1° maggio 1953 fu esteso all’acciaio e il 1° agosto 1954 agli acciai speciali. Ideata dal francese R. Schuman, simboleggia il desiderio di creare in Europa nel dopoguerra un clima nuovo tra i paesi del vecchio continente in una prospettiva di pace e di unione. Fino alla nascita dell’Unione Europea era composta dagli stati membri della CEE. Il profilo giuridico ed il sistema istituzionale, in origine imperniati su schemi propri, si sono via via venuti modellando su quelli della Comunità europea, di cui la CECA condivideva, in particolare, le istituzioni. Questa progressiva assimilazione è dovuta non solo al prevalente rilievo che la CEE ha assunto nel contesto europeo, ma anche a specifiche difficoltà programmatiche e di funzionamento che la CECA ha dovuto sopportare negli ultimi decenni. I problemi della CECA erano dovuti, da un lato, ad una riconsiderazione delle fonti energetiche, per motivi economici ed ambientali che hanno finito con il penalizzare i combustibili solidi; dall’altro, alla crisi progressiva dell’industria carbo-siderurgica. L’uso del carbone già da molto tempo è in continuo calo ed ha raggiunto alla fine degli anni Ottanta il limite del 21% del consumo energetico. Non mancano incentivi, da parte dei produttori europei, a favore della conversione degli impianti industriali a carbone, ma con scarsi risultati. Solo nel settore cementifero, dove il carbone presenta chiari vantaggi rispetto agli altri combustibili, il quadro appare confortante. Dal 1974 in poi l’industria siderurgica ha subito una grave recessione a causa della notevole contrazione della domanda per usi strumentali e manufatti e per la concorrenzialità da parte dei paesi di recente industrializzazione. Nel corso degli anni Ottanta la Comunità europea ha intrapreso un ampio sforzo di riorganizzazione che ha portato a drastici tagli nella capacità produttiva. Nel 1991 la produzione di acciaio si è assestata su circa 130 milioni di tonnellate, nel contempo è stata portata avanti, nel quadro del programma Phare, la cooperazione con i paesi dell’Europa centrale ed orientale in questo settore. Sotto il profilo squisitamente giuridico la CECA può essere considerata un’impresa comune in quanto persegue un obiettivo economico limitato, anche se dispone di importanti prerogative decisionali. Tra queste ricordiamo la possibilità di intervenire sui prezzi, stabilire quote di produzione, comminare ammende alle imprese, vegliare sulla concorrenza proibendo, se del caso, intese e concentrazioni. Alla CECA sono stati attribuiti poteri normativi formali e sostanziali, anche se limitati ai settori di competenza, aventi lo stesso rilievo giuridico di quelli delle altre Comunità. Allo stesso modo gli atti CECA hanno gli stessi caratteri e uguale portata, anche se diversa terminologia degli altri atti comunitari. Analogamente la Comunità dispone di risorse proprie costituite, oltre che da prestiti, anche, e soprattutto, da imposizioni sulla produzione di carbone e di acciaio, denominati prelievi. Il trattato di Maastricht non ha modificato la sostanza delle norme del trattato CECA. Al fine, tuttavia, di assimilare questo trattato a quello CEE, ha introdotto anche in questo caso la disciplina di nuove situazioni giuridiche, in particolare, per esempio, il diritto di petizione del cittadino al Parlamento europeo e la costituzione della figura del Mediatore abilitato a ricevere le denunce. [2131] CEE è la sigla di Comunità economica europea, l’organizzazione internazionale creata, secondo principi e modalità proprie del diritto internazionale convenzionale, con un Trattato firmato dai rappresentanti di sei paesi (Italia, Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) a Roma il 25 marzo 1957. Nella stessa occasione, con distinto atto, fu costituita anche la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA, detta comunemente Euratom). I due enti venivano ad aggiungersi alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), sorta con il trattato di Parigi del 18 aprile 1951. Anche se perseguivano gli stessi obiettivi fondamentali ed erano governate da istituzioni comuni, le tre organizzazioni operavano ciascuna in maniera autonoma e i loro organi adottavano le decisioni sulla base, ed entro i limiti, delle competenze fissate dai rispettivi trattati. Nel gennaio 1995, prima dell’adesione di Austria, Finlandia e Svezia all’Unione Europea sorta dopo il trattato di Maastricht, la CEE comprendeva dodici stati: i sei paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), Regno Unito, Danimarca e Repubblica d’Irlanda (dal 1° gennaio 1973), Grecia (dal 1° gennaio 1981), Spagna e Portogallo (dal 1° gennaio 1986). La nascita dell’Europa comunitaria ha una data storicamente certa. Il 9 maggio 1950 l’allora ministro degli Esteri francese R. Schuman presentò il piano, da lui elaborato insieme a J. Monnet, per la creazione di quella che, l’anno successivo, fu la CECA, e lo illustrò con una celebre “dichiarazione” che rappresenta il programma di base dell’integrazione politica. Aderendo alla concezione “funzionalista”, nella speranza rivelatasi vana di coinvolgere la Gran Bretagna nel disegno comune, Schuman proclamava che l’Europa “non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme, essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. In questo modo, nella disputa tra “federalisti”, assertori di un’organizzazione politica dell’Europa con poteri sovrani, e i fautori di una più morbida “cooperazione intergovernativa”, egli sosteneva una terza via che consentisse di mediare le opposte tesi sulla base di una integrazione progressiva, limitata di preferenza al settore economico. Saranno questi il metodo e i contenuti che da allora caratterizzeranno il processo europeo. I grandi progetti politici, al contrario, a causa delle diffidenze nazionali che suscitava la necessità di ritagliare in essi un ruolo paritario alla Germania postbellica, non approdarono a risultati concreti. Sintomatico al riguardo è il progetto del piano per la costituzione della Comunità europea di difesa (CED), che, dopo un dibattito durato quattro anni, fu respinto nel 1954 dall’Assemblea francese, preoccupata all’idea della ricostituzione dell’esercito nazionale tedesco. Al contrario, il successo della CECA, creata come detto nel 1951, dovuto alla sua filosofia dell’integrazione economica, favoriva l’esplorazione di forme simili di cooperazione sia a livello settoriale sia a carattere “orizzontale”, estesa, cioè, contemporaneamente a più settori di intervento. Nel giugno 1955 i ministri degli Esteri della CECA dettero mandato ad un comitato intergovernativo, presieduto dal belga P.-H. Spaak, di studiare la possibilità di creare un’unione economica generale ed un’unione in campo nucleare. Nascevano così, il 25 marzo 1957, a Roma, in Campidoglio, la CEE e la CEEA (Euratom). I tentativi ulteriori di far procedere l’Europa sulla via dell’integrazione hanno ruotato attorno alla Comunità economica europea (CEE): certamente delle tre Comunità la più importante sia per l’ampiezza dei suoi programmi economici sia per la sua stessa valenza politica. In questa ottica gli anni Sessanta videro, innanzitutto, il puntuale rispetto del programma CEE concernente la realizzazione dell’unione doganale: l’azzeramento, anzi, dei dazi doganali e dei contingenti intracomunitari fu acquisito a partire dal 1° luglio 1968, con un anno e mezzo di anticipo, cioè, sulla data fissata. Ed alla fine del decennio era stata già creata la maggior parte delle organizzazioni di mercato, vale a dire degli strumenti fondamentali della politica agricola comune. Dal punto di vista istituzionale, il dato più significativo riguarda la cosiddetta “fusione degli esecutivi”, sancita nel 1965 da un Trattato entrato in vigore il 1° luglio 1967 il quale istituiva un Consiglio unico e una Commissione unica per le tre Comunità, accanto all’Assemblea e alla Corte di giustizia che fin dall’inizio erano organi comuni. Nello stesso periodo, però, l’Europa comunitaria doveva registrare la più grave crisi della sua storia. Il colpo fu inferto dalla Francia, che il 1° luglio 1965 ritirò i suoi rappresentanti dai lavori, a tutti i livelli, del Consiglio, mettendo in atto la cosiddetta politica della “sedia vuota”. In questo modo Ch. de Gaulle, che perseguiva un progetto europeo in cui confluissero, allo stesso tempo, elementi “confederalisti” e “funzionalisti” (per la salvaguardia di questo progetto si era opposto nel 1963 alla adesione della liberoscambista Gran Bretagna alla Comunità), intendeva giungere alla conclusione della disputa che l’opponeva a quanti (e tra questi, in primo luogo, lo stesso presidente della Commissione, il tedesco W. Hallstein) erano per maggiori poteri al Parlamento, per una Commissione che assumesse il profilo di un vero esecutivo e, conseguenzialmente, a quanti speravano in un indebolimento del Consiglio. La controversia si incentrava su di un punto – il passaggio, nelle delibere del Consiglio, dal sistema di votazione all’unanimità alle altre regole di voto (di preferenza a maggioranza), secondo quanto previsto dal Trattato per le ulteriori fasi di sviluppo del mercato comune – apparentemente privo di interesse politico. In effetti, però, il mantenimento del criterio dell’unanimità avrebbe garantito la Francia e ciascun governo degli altri paesi dal rischio di veder progredire la Comunità verso traguardi che non fossero stati da tutti concordati. Il “compromesso di Lussemburgo” chiuse la disputa a vantaggio delle tesi di de Gaulle. La Commissione, emblematicamente tenuta fuori dall’accordo, uscì ridimensionata nella sua aspettativa riguardo a una funzione trainante nel processo di unificazione. Il Consiglio, che da allora, anche in deroga alle singole disposizioni del Trattato, avrebbe adottato tutte le decisioni all’unanimità, conservava il ruolo centrale nell’assetto istituzionale della Comunità. A partire dai primi anni Settanta gli avvenimenti più significativi sono stati: l’ampliamento della Comunità che passò, con adesioni successive, da sei a dodici stati; l’approvazione del sistema delle “risorse proprie” (il regime di autofinanziamento CEE, i cui cespiti sono dati dai dazi derivanti dalla tariffa doganale esterna comune, dai prelievi agricoli – i cespiti, cioè, gravanti sulle importazioni di derrate alimentari provenienti da paesi extra-comunitari – e dal gettito dell’IVA nella misura dell’1,4%), l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Ma è solo nella seconda metà degli anni Ottanta che la costruzione europea ha registrato significative accelerazioni. Il metodo seguito è stato quello pragmatico di ampliare, con successive modifiche dei Trattati, la sfera di interessi e di competenze della Comunità europea. In tale prospettiva sono stati approvati l’Atto unico europeo (AUE) firmato il 17 e 18 febbraio 1986, rispettivamente a Lussemburgo e all’Aia, e, successivamente, il TUE, firmato a Maastricht (Paesi Bassi) il 7 febbraio 1992. Le innovazioni introdotte da questi due atti, e in particolare dal TUE, appaiono di notevole portata politica e di significativa rilevanza giuridica. Entrano, infatti, a far parte del progetto politico europeo settori quali l’unione economica e monetaria e la moneta unica, la politica estera e di difesa comuni, oltreché una stretta cooperazione nazionale nel campo della giustizia e degli affari interni. Con l’entrata in vigore, nel 1993, del Trattato di Maastricht, la denominazione CEE è stata sostituita da quella di Comunità Europea (CE). [21311] L’Unione europea occidentale (sigla UEO) è l’alleanza politico-militare fondata nel 1954, comprendente Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Regno Unito, Italia, Repubblica Federale di Germania, Grecia, Spagna e Portogallo. Nata sulle basi del Trattato di Bruxelles che nel 1948 aveva creato l’Unione occidentale contro una possibile rinascita di una minaccia tedesca, si trasformò nel 1954, con l’allargamento dell’alleanza alla Repubblica Federale di Germania, che veniva invitata a entrare nella NATO, e all’Italia. La ragione politica di tale trasformazione risiedeva nella necessità di assicurare alla comune difesa dell’Europa Occidentale il necessario contributo della Repubblica Federale di Germania, permettendo, al tempo stesso, il controllo del riarmo tedesco; la UEO rappresenta pertanto una soluzione alternativa dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (CED, creata col trattato firmato il 27 maggio 1952 dai rappresentanti degli stessi paesi aderenti alla CECA, ma non entrato mai in vigore a causa della mancata ratifica da parte della Francia nell’agosto 1954) determinato, oltre che dalla mancata ratifica da parte della Francia, dagli eccessivi poteri sovranazionali ad essa attribuiti dal Trattato di Parigi del 1952. Rimasta pressoché inattiva per 30 anni, essendo la sua funzione difensiva espletata dalla NATO, l’UEO venne riattivata nel 1984 per la creazione di un’identità europea di difesa. Da allora i membri mirano da una parte a fare dell’UEO un nucleo europeo all’interno dell’Alleanza atlantica; e dall’altra, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, ad affidarle il compito di elaborare e porre in essere le decisioni e le azioni dell’Unione Europea nel settore della difesa, con l’obiettivo di sviluppare una politica di difesa comune. Questo duplice obiettivo è problematico: una difesa europea affidata all’UEO al di fuori della NATO porterebbe a una costosa duplicazione di sforzi per gli stati membri di entrambe le organizzazioni; peraltro, realizzare tale difesa interamente all’interno della NATO la svuoterebbe della sua valenza specificatamente europea. Nel 1996 è stato proposto un accordo per cui la NATO fornirebbe i propri mezzi, ivi compresi quelli degli Stati Uniti d’America, per eventuali azioni militari condotte dall’UEO a cui gli Stati Uniti d’America avessero deciso di non partecipare. Tali situazioni potrebbero insorgere nel caso di crisi regionali che non coinvolgano direttamente i paesi membri e quindi non facciano scattare l’impegno NATO (art. 5) alla difesa reciproca. A questo proposito si ricorda che nel 1992 l’UEO ha deciso di contribuire a missioni di mantenimento della pace su mandato della CSCE (dal 1994 OSCE) e dell’ONU. In questo quadro si inseriscono le operazioni di interdizione navale in Adriatico e sul Danubio effettuate dal 1993 al 1995 per controllare (di concerto con la NATO) il rispetto dell’embargo decretato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU verso gli stati della ex Iugoslavia. L’UEO consiste di un Consiglio, con sede a Bruxelles, di un Segretariato che nel 1993, nel quadro della crescente collaborazione con NATO e UE, è stato portato da Londra a Bruxelles; di un’Assemblea parlamentare, di un’Agenzia per il controllo degli armamenti e di un Istituto di ricerca, con sede a Parigi. Come la NATO e la UE, anche l’UEO, dopo il 1989, ha allacciato rapporti di collaborazione con i paesi ex membri del Patto di Varsavia, molti dei quali mirano a diventare membri di tutte e tre le organizzazioni. [2141] Euratom è il nome convenzionale della Comunità europea dell’energia atomica (sigla CEEA) creata a Roma con il trattato del 25 marzo 1957, entrato in vigore il 1° gennaio 1958, firmato dai plenipotenziari del Belgio, della Repubblica Federale di Germania, della Francia, dell’Italia, del Lussemburgo e dei Paesi Bassi. Compito della Comunità: contribuire, creando le premesse necessarie per la formazione e il rapido incremento delle industrie nucleari, all’elevazione del tenore di vita degli stati membri e allo sviluppo degli scambi con gli altri paesi; a tale scopo, il trattato ha previsto l’instaurazione, a partire dal 1° gennaio 1959, di un mercato comune dei materiali e delle attrezzature nucleari. L’Euratom ha personalità giuridica di diritto internazionale e di diritto interno degli stati membri. Contrariamente alle previsioni e agli auspici, l’Euratom non ha costituito la base di un’industria nucleare comune e nemmeno è riuscito a far sì che gli stati membri svolgessero programmi di ricerca complementari per l’uso pacifico dell’atomo sia per la produzione di energia elettrica, sia per applicazioni in campo agricolo, industriale e medico. L’attività dell’Euratom è stata seriamente ostacolata da due ordini di fattori: la scarsissima propensione degli stati membri a far fronte agli obblighi previsti dal trattato istitutivo e a realizzare un’autentica ed efficace collaborazione; l’evoluzione della cooperazione nucleare a carattere mondiale. Le uniche iniziative di cooperazione degne di nota si sono avute e si hanno, in Europa, sul piano bilaterale o trilaterale, piuttosto che su quello comunitario. Inoltre, le esigenze di carattere mondiale connesse con le iniziative intese a promuovere il disarmo nucleare hanno ridotto la portata delle funzioni attribuite all’Euratom in materia di controlli di sicurezza, fino all’entrata in vigore (1977) dell’accordo tra Euratom e AIEA, di applicazione del trattato di non proliferazione delle armi nucleari, che ha investito l’Euratom di nuovi e più ampi poteri, in coordinamento con l’AIEA. La crisi petrolifera dell’ottobre 1973 ha poi indotto i paesi occidentali a ricercare la soluzione dei problemi del reperimento, della produzione e della distribuzione di energia non su scala comunitaria o regionale bensì su scala mondiale. Il Centro comune di ricerche, istituito dall’Euratom, ha i suoi impianti ad Ispra (Varese) per la fisica dei reattori e la ricerca fondamentale, Geel (Belgio) sede dell’Ufficio centrale delle misure nucleari, Karlsruhe (Germania) per lo studio del plutonio e degli elementi transplutonici, Petten (Paesi Bassi) per lo studio dei materiali nucleari. Per realizzare il primo programma quinquennale (1958-62), l’Euratom disponeva di un bilancio di 215 milioni di dollari; per il secondo programma quinquennale (1963-67) la spesa totale ammontava a 456 milioni di dollari. Per il quinquennio 1968-72 non fu possibile, a causa dei contrasti tra gli stati membri, pervenire all’adozione di un programma a lungo termine e si procedette sulla base di programmi annuali. Finalmente, nel febbraio 1973 i nove stati membri approvarono il terzo programma pluriennale del Centro comune di ricerche (fino al 1976) con uno stanziamento di 160 milioni di unità di conto comprendente sia ricerche comuni nel settore della sicurezza dei reattori e della protezione dell’ambiente sia attività complementari riguardanti solo alcuni tra gli stati membri. Per il quadriennio 1977-80 fu approvato un quarto programma pluriennale con attività, seppur ridotta, analoga a quella precedente, seguito da un programma (1988-92) che prevedeva uno stanziamento di 735 milioni di ECU per ricerche nel campo della fusione termonucleare controllata; dal 1988 l’Euratom ha intrapreso una collaborazione con il Giappone, l’ex URSS e gli Stati Uniti d’America per la progettazione di un reattore termonucleare sperimentale. [21411] Le basi per un’azione comune dei paesi della Comunità nel settore energetico risalgono ai trattati costitutivi della CECA (1951) e dell’Euratom (1957). Una politica unitaria aveva ricevuto un certo impulso soltanto nel 1973, in seguito alla prima crisi petrolifera. Essa si fondava principalmente sulla definizione di obiettivi europei a medio termine e sul ricorso a determinati strumenti comunitari volti a completare o ad armonizzare l’azione e le misure legislative degli stati membri. Il contesto politico in cui la Commissione europea ha continuato ad operare fino al 1988, che basava l’azione della CEE in campo energetico sulla regola delle decisioni all’unanimità, non ha consentito all’intero settore di ottenere fino a quella data risultati apprezzabili né di progredire speditamente. Un nuovo stimolo nel campo dell’energia è stato fornito nel 1988 dalla decisione della Comunità (approvata nel 1990) di realizzare il mercato interno anche nel settore energetico, consentendo, secondo i casi, di fare ricorso anche all’art. 100 A del Trattato che prevede decisioni a maggioranza qualificata. Nel gennaio 1991, nel corso della conferenza intergovernativa sull’Unione politica, la Commissione ha presentato la proposta di inserire nel Trattato uno specifico capitolo dedicato all’energia. Da allora, gli obiettivi della politica energetica hanno dovuto essere la sicurezza di approvvigionamento, la stabilità dei mercati, la realizzazione del mercato interno, l’adozione di misure in periodi di crisi, l’utilizzazione razionale dell’energia, la promozione delle fonti nuove e rinnovabili, la compatibilità delle azioni intraprese nel settore energetico con la protezione dell’ambiente e della salute dei cittadini. Le procedure decisionali sono state prese a maggioranza qualificata unitamente alla cooperazione – e non alla sola consultazione – con il Parlamento europeo. [2211] Nel decennio 1984-1994 si possono distinguere, per effetto della caduta del muro di Berlino, due fasi esattamente corrispondenti a due quinquenni. Nonostante tale distinzione, la continuità dell’impulso ideale e politico che si usa designare con la parola ‘europeismo’ risulta, nel corso dell’intero decennio considerato, sempre prevalente ed evidente e ha, per così dire, anche una sua configurazione istituzionale e personale nella figura di Jacques Delors, ininterrottamente presidente della Commissione della Comunità Europea e poi della Unione Europea (UE) dal gennaio 1985 al gennaio 1995. Il Consiglio europeo riunito nei giorni 25 e 26 giugno 1984 a Fontainebleau, sotto la presidenza francese, si era occupato soprattutto di problemi di finanziamento e di bilancio della Comunità. Esso, tuttavia, aveva anche preso in esame lo stato dei negoziati con Spagna e Portogallo per la loro adesione alla Comunità: un terzo ‘allargamento’, dopo le adesioni di Regno Unito, Irlanda, Danimarca e poi Grecia. Dieci anni dopo, come vedremo, il problema dell’allargamento assumerà un peso e una dimensione di portata storica, epocale. Gli ‘atti di adesione’ vennero firmati il 12 giugno 1985 a Madrid per la Spagna e a Lisbona per il Portogallo; il l° gennaio 1986 i due paesi diventarono membri a pieno diritto della Comunità Europea. Contemporaneamente al processo di allargamento si delineavano anche una prospettiva e un impegno di ‘approfondimento’ della Comunità: e vedremo che tutto il corso del decennio qui considerato sarà dominato dalla dialettica e dal ‘combinato disposto’ di quelle due dinamiche - in profondità e in estensione - dell’europeismo. All’inizio del 1984, il 14 febbraio, il Parlamento europeo aveva infatti approvato un Progetto di trattato della Unione Europea, del quale fu promotore e protagonista Altiero Spinelli. Si manifestava, con tale iniziativa, una inversione di tendenza rispetto ai segnali di affievolimento che si potevano cogliere nelle vicende dell’europeismo all’inizio degli anni ottanta. Contro quella tendenza il Parlamento europeo, sollecitato dall’iniziativa instancabile di Spinelli, proponeva un rafforzamento dei suoi poteri, una ridefinizione dei ruoli e dei poteri del Consiglio e della Commissione, nonché l’introduzione e l’applicazione di quel criterio di ‘sussidiarietà’ che, come vedremo, assumerà grande rilievo nel Trattato di Maastricht. Da quel progetto scaturì poi il cosiddetto ‘Atto Unico’ europeo, firmato il 17 febbraio 1986 da nove Stati membri e il 28 febbraio da Italia, Grecia e Danimarca, che avevano atteso i risultati (favorevoli) del referendum danese: tale Atto delineava l’effettiva prima riforma dei Trattati di Roma (istitutivi della Comunità economica europea - CEE - e della Comunità europea per l’energia atomica - Euratom). L’iniziativa era partita, formalmente, dal Consiglio europeo di Milano (28-29 giugno 1985) con due deliberazioni: 1) convocare una conferenza intergovernativa incaricata di predisporre un progetto di trattato “su una politica estera e una politica di sicurezza comuni”; 2) procedere alle modifiche del Trattato CEE necessarie all’attuazione degli adeguamenti istituzionali riguardanti il processo decisionale del Consiglio, il potere esecutivo della Commissione, i poteri del Parlamento, oltre che l’estensione delle competenze a nuovi settori di attività. La nuova Commissione presieduta da Delors esordì con il proposito, preannunciato dal presidente nel suo discorso di presentazione al Parlamento (il 14 gennaio 1985), di perseguire l’abbattimento “di tutte le frontiere all’interno dell’Europa entro il 1992”. Intraprese quindi senza indugio l’elaborazione e stesura di un ‘Libro Bianco sul completamento del mercato interno’, che venne presentato, nel giugno successivo, al Consiglio europeo riunitosi a Milano e da questo approvato. Esso costituiva un programma globale, scandito da un calendario articolato e vincolante, per l’abolizione entro il 1992 delle frontiere geografiche, tecniche e fiscali. Con tale iniziativa la Commissione dava vigorosa e solenne espressione all’esigenza - tradotta più volte in pressanti e formali proposte della Commissione al Consiglio nel corso dei primi anni ottanta - di eliminare barriere e intralci che ancora ostacolavano la completa realizzazione del ‘mercato comune’. Nel giugno 1984 aveva infatti trasmesso al Consiglio un documento che costituiva un vero e proprio programma mirante alla eliminazione, nel corso di due anni, di tutti gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali, dei servizi, delle attività delle imprese e delle persone. Un comitato ad hoc, nominato dal Consiglio (denominato poi Comitato Dooge, dal nome del suo presidente) presentò un rapporto al Consiglio europeo di Dublino nel dicembre 1984, nel quale si sollecitava la creazione di un vero e proprio mercato interno europeo “come tappa essenziale verso l’obiettivo finale della Unione Economica e Monetaria”. Ma la portata storica del Consiglio europeo di Milano del giugno 1985 non fu dovuta soltanto all’approvazione di quel Libro Bianco. Per iniziativa congiunta del cancelliere Kohl e del presidente Mitterrand esso deliberò la convocazione di una conferenza intergovernativa per la riforma del Trattato CEE, con il duplice mandato di preparare un progetto di trattato su “una politica estera e una politica di sicurezza comuni” e di procedere alle modifiche del Trattato necessarie all’attuazione degli adeguamenti istituzionali riguardanti il processo decisionale del Consiglio, il potere esecutivo della Commissione e i poteri del Parlamento, e anche lì - va notato - il Consiglio non faceva alcun riferimento al Progetto di trattato sulla Unione Europea approvato dal Parlamento. La portata e l’ambizione del Libro Bianco sopra citato appaiono in chiara evidenza nel rapporto presentato da un ‘gruppo di esperti indipendenti’, presieduto da Tommaso Padoa-Schioppa, incaricato dalla Commissione, nell’aprile 1986, di “studiare le conseguenze economiche di due decisioni prese dal Consiglio europeo nel 1985: l’allargamento della Comunità alla Spagna e al Portogallo e la creazione di un mercato europeo senza frontiere interne entro l’anno 1992”. Dalla ‘lettera di trasmissione’ di quel rapporto si può ricavare una nitida rappresentazione sintetica della portata dei problemi e delle soluzioni da adottare. Vi si prevede che “nel 1992 un’area di 320 milioni di consumatori e produttori, nella quale i beni, i servizi e i fattori della produzione circoleranno liberamente, costituirà un avanzamento sostanziale, in termini di efficienza, benessere e influenza nelle questioni economiche mondiali, rispetto al mercato del 1985, assai più ristretto e diviso da innumerevoli barriere interne. Questo progresso, però, avrà profonde conseguenze per le due funzioni della politica economica che, in ogni sistema e anche in quello comunitario, integrano e completano la Politica di allocazione delle risorse e interagiscono con questa. Tali funzioni sono la stabilizzazione dell’economia e la ridistribuzione del reddito”. Inoltre, viene richiamata l’attenzione su due tensioni che si manifesteranno con evidenza e a volte con drammaticità negli anni successivi: “da un lato, la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale non è compatibile con il regime di stabilità dei tassi di cambio e di considerevole autonomia nella condotta delle politiche monetarie nazionali; dall’altro, la completa apertura del mercato interno di una Comunità allargata avrà effetti distributivi più e più laceranti di quelli manifestatisi negli anni sessanta, quando l’integrazione commerciale procedette fra paesi meno eterogenei e in un contesto di crescita economica più rapida”. E in effetti tale previsione può valere come descrizione di quanto si verificò negli anni successivi. Perciò veniva raccomandata, da quel ‘gruppo di esperti’, “una strategia sistematica, rivolta congiuntamente alle tre funzioni della politica economica: l’integrazione dei mercati, la stabilizzazione dell’economia e l’equa distribuzione dei benefici”. E questi sono tre ordini di problemi con i quali si cimenteranno le istituzioni comunitarie nel corso del decennio che qui stiamo considerando: come prevedeva quasi contemporaneamente anche un altro rapporto elaborato sempre per incarico della Commissione da un gruppo di esperti ‘indipendenti’ e anch’esso presieduto da un economista italiano, Luigi Spaventa, sul “futuro delle finanze comunitarie”, presentato nel settembre 1986. [2221] Nel corso del processo di riforma del trattato CEE, nel settembre del 1985 ebbe inizio la Conferenza intergovernativa deliberata dal Consiglio europeo di Milano; l’accordo finale venne raggiunto nel Consiglio europeo di Lussemburgo il 17 dicembre, con l’approvazione dell’“Atto unico europeo” che entrò in vigore il l° luglio 1987, dopo il deposito degli atti di ratifica da parte di tutti gli Stati membri. La distanza di ben due anni - dal 1985 al 1987 - tra il raggiungimento dell’accordo e l’inizio della sua applicazione è chiara indicazione della complessità e lentezza, non soltanto procedurali, cui è costretto il faticoso percorso dell’europeismo: e tuttavia quell’Atto unico, pur con i suoi limiti, apriva la strada a ulteriori riforme e progressi, instaurava procedure atte a facilitare le decisioni per le misure previste dal Libro Bianco. La novità più importante dell’Atto unico era quella riguardante la ‘cooperazione politica’. Questo termine aveva avuto fino ad allora il significato ben delimitato di una procedura di cooperazione, tra i singoli governi nazionali e non tramite le istituzioni comunitarie, su problemi di politica estera (tranne quelli concernenti la difesa). Con l’Atto unico quella procedura veniva trasferita nell’ambito delle istituzioni comunitarie ed estesa anche alla difesa: anzi, vi si dichiarava che “una più stretta cooperazione anche riguardo ai problemi della sicurezza europea” avrebbe contribuito “allo sviluppo di una identità dell’Europa in materia di politica estera”. Ma a questa proclamata ambizione non corrispondevano adeguate innovazioni sul terreno istituzionale e procedurale: l’obiettivo dell’unione politica - rispetto al quale la politica estera e di sicurezza comune rappresentava un primo passo - postulava invece l’impianto di nuove istituzioni o almeno di istituzioni sostanzialmente rinnovate e potenziate. La Commissione assumeva di fronte al Parlamento, prima ancora dell’entrata in vigore dell’Atto unico, l’impegno di “portare l’Atto unico al successo”: così si intitolava infatti il programma di lavoro che, a nome della Commissione, Delors presentò al Parlamento il 18 febbraio 1987 e al Consiglio europeo di Bruxelles il 29 giugno. Dall’Atto unico il programma della Commissione faceva derivare - come dichiarò lo stesso Delors - “l’obbligo di realizzare simultaneamente il grande mercato senza frontiere, una maggiore coesione economica e sociale, una politica europea della ricerca e della tecnologia, il rafforzamento del sistema monetario europeo, la creazione di uno spazio sociale europeo, azioni significative in materia di ambiente”. Approvato quasi all’unanimità dal Parlamento nel novembre successivo, quel programma passò all’esame del Consiglio, e cioè di varie riunioni di Consigli dei ministri e di Consigli europei (di capi di Stato e di governo), accompagnate dal lavoro della Commissione che traduceva gli orientamenti in specifiche proposte e quindi in decisioni. Particolarmente importante fu la decisione, adottata nel giugno 1988 ad Hannover dal Consiglio europeo, di affidare a un comitato - presieduto da Delors - l’incarico di studiare e proporre il percorso che doveva condurre all’unione economica e monetaria, cioè un rapporto, detto ‘rapporto Delors’, che venne puntualmente presentato al Consiglio europeo riunito a Madrid nei giorni 26-27 giugno 1989. Quel rapporto è certamente, per il suo contenuto e anche la sua data, un documento di particolare importanza per la storia della Comunità Europea e quindi nella vicenda dell’europeismo. Precedendo di meno di cinque mesi la caduta del muro di Berlino, tale rapporto assumeva, di fatto, il significato di un progetto mirante a creare, con l’“approfondimento”, le condizioni per l’“allargamento” della Comunità. Esso si articolava in tre fasi: completamento del mercato interno e rimozione degli ostacoli alla integrazione finanziaria; formulazione e approvazione del nuovo Trattato; unione monetaria, fino alla creazione della moneta comunitaria unica. Era il percorso che doveva condurre, nel 1992, al Trattato di Maastricht, seguito poi da un nuovo importante rapporto della Commissione, noto come Libro Bianco di Delors, nel 1993. Pochi giorni prima del Consiglio europeo di Madrid, nei giorni 15-18 giugno, era stato nuovamente eletto - per la terza volta a suffragio universale - il Parlamento europeo. [2231] L’anno 1989, con il crollo del muro di Berlino, chiudeva un’epoca e ne apriva una nuova (un “nuovo inizio”, come si usò dire). In meno di un anno la Germania era unificata. Appena un anno dopo si disfacevano il Partito Comunista dell’Unione Sovietica e la stessa URSS. Ne derivò un’accelerazione del cammino intrapreso verso l’Unione economica e monetaria europea. Ma cominciò anche a porsi l’interrogativo geopolitico: quale Europa? Un’Europa più ampia, e però anche - e prima ancora - un’Europa più saldamente e profondamente unita, capace di sostenere l’espansione geografica? Si profilava quella che doveva essere l’alternativa, la rincorsa o meglio la dialettica di ‘approfondimento e/o ‘allargamento’: questione centrale nel dibattito, nelle iniziative e nelle decisioni del primo quinquennio degli anni novanta. La riunificazione della Germania faceva balzare in primo piano, finalmente, il problema e l’obiettivo della unificazione ‘politica’ dell’Europa, a cominciare dalla unione in materia di politica estera e sicurezza. Ciò comportava – come ebbe a dire allora, con lungimiranza, François Mitterrand - un “glissement vers le fédéral”, cui peraltro si opponeva ostinatamente il governo britannico guidato da Margaret Thatcher. Il danno causato dal ritardo nel procedere su questa via apparve evidente, di lì a poco, con la manifesta impotenza e inerzia dell’Europa di fronte all’aggressione dell’Iraq contro il Kuwait (la cosiddetta crisi e poi guerra del Golfo) e più tardi, in modo clamoroso e scandaloso, di fronte alla catastrofe iugoslava. Nel 1990 due Consigli europei, tenutisi a Roma nei giorni 29-30 ottobre e 14 dicembre, stabilivano le direttive per le due conferenze intergovernative incaricate di tracciare il percorso verso il compimento dell’unione economica e monetaria e dell’unione politica, indicando gli obiettivi generali della politica estera e di sicurezza comune e le competenze e funzioni attribuite alle istituzioni comunitarie. Ma il segno più evidente dell’inizio della nuova epoca era ben percepibile nell’attenzione che il Consiglio europeo di dicembre dedicava alle relazioni con l’Unione Sovietica e con i paesi dell’Europa centrale e orientale. Laboriosi e complessi furono i negoziati in seno alle due conferenze intergovernative nel corso del 1991. Il negoziato più arduo era certamente quello concernente la difesa europea comune, a proposito della quale occorre qui ricordare l’esistenza dell’Unione europea occidentale (UEO) costituita nel 1954 dai sei paesi fondatori della Comunità, ai quali si aggiunsero in seguito Regno Unito, Spagna e Portogallo. L’accordo sul nuovo trattato venne finalmente raggiunto nel Consiglio europeo tenutosi nei giorni 9 e 10 dicembre 1991 a Maastricht, la città olandese nel cui nome si sente ancora l’eco della sua origine come fortilizio a difesa del ponte romano della Mosa, ad Mosam traiectum. Nella stessa città il 7 febbraio 1992 il Trattato venne firmato dai ministri degli Esteri e delle Finanze degli Stati membri. [22311] L’apertura del “muro” di Berlino e l’avvio della libera circolazione tra le due Germanie il 9 novembre 1989 furono momenti decisivi per la storia europea e rappresentarono le premesse per la riunificazione tedesca. L’atto politico più rilevante che accompagnò il compimento formale dell’unificazione fu costituito dalle elezioni pantedesche del 2 dicembre 1990: per la prima volta dal 1932 la popolazione di tutta la Germania tornava a votare per il parlamento di un unico stato tedesco. E contemporaneamente tornava a votare unitariamente la popolazione di Berlino, ora Land della Germania unificata. La consultazione fu caratterizzata da un calo (6% circa rispetto al 1987) della partecipazione elettorale che indicava l’esistenza di riserve nella popolazione di entrambe le parti del paese nei confronti delle modalità con le quali era stata realizzata l’unificazione: all’ovest il timore di compromettere con i costi dell’unificazione il benessere raggiunto, all’est la sfiducia in una rapida ripresa dell’economia e la paura di rimanere a lungo cittadini di seconda classe. Dal punto di vista della composizione del nuovo Bundestag (pur nella difficoltà di fare raffronti con le situazioni ben diverse del passato) la CDU-CSU conservava la sua posizione di partito di maggioranza relativa (perdendo tuttavia un punto in percentuale) grazie alla ripartizione equilibrata dei suoi voti nelle due aree ora unificate della Repubblica Federale. Avanzavano i liberali della FDP, grazie ai voti delle circoscrizioni orientali. Subiva viceversa una nuova sconfitta la SPD, che confermava in particolare lo scarso consenso di cui godeva nella parte orientale. Venivano penalizzati (anche dal meccanismo elettorale) i Verdi della parte occidentale, che uscivano dal Bundestag dopo due legislature di feconda presenza parlamentare, mentre il meccanismo elettorale favoriva l’ingresso in parlamento di modeste rappresentanze dell’elettorato delle circoscrizioni orientali. Emergeva dunque in linea di massima un comportamento di cauto plauso all’operato del cancelliere Kohl (che confermò la coalizione con i liberali), in una situazione sostanzialmente di attesa. E in effetti gli sviluppi successivi della Germania unita sono stati segnati dai problemi politici, economici e sociali sollevati dall’unificazione, rivelatisi non risolvibili con la rapidità nella quale aveva confidato il governo di Bonn né senza richiedere alla popolazione pesanti sacrifici. La difficoltà di unificare veramente le due parti della Germania, con l’assorbimento della ex Repubblica Democratica Tedesca nell’ordinamento giuridico, politico e sociale della Repubblica Federale, è stata aggravata dallo squilibrio economico accentuato dall’affrettata privatizzazione delle strutture dell’Est, dalla persistenza di diverse culture politiche, dalla delusione di molte aspettative. L’epurazione della pubblica amministrazione a tutti i livelli, la mancanza di una classe dirigente dell’Est, i sospetti sollevati su una cerchia assai larga di persone dai dossier della Stasi (Staatssicherheit), il servizio di sicurezza della RDT, il tentativo di inscenare processi esemplari (come nel caso Honecker) nei confronti di dirigenti della RDT hanno contribuito ad accentuare i problemi dell’unificazione (cui non sono estranei i gravi episodi di xenofobia e di neonazismo verificatisi in particolare nelle regioni orientali). Anche per queste ragioni la Germania unita non è ancora riuscita a esprimere a livello internazionale un ruolo adeguato alle sue accresciute dimensioni e responsabilità. [2311] Il Trattato di Maastricht (basato sull’accordo raggiunto dal Consiglio europeo tenutosi nei giorni 9 e 10 dicembre 1991 in questa città olandese e firmato dai ministri degli Esteri e delle Finanze degli Stati membri) è stato ampiamente e ripetutamente presentato, illustrato e commentato come una costruzione ‘a tre pilastri’, che si trovano disegnati a grandi linee già nel secondo articolo (art. B), con l’enunciazione dei seguenti fondamentali obiettivi: “- promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l’instaurazione di un’unione economica e monetaria il cui esito finale sia una moneta unica, in conformità delle disposizioni del presente trattato; - affermare la sua identità sulla scena internazionale, segnatamente mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune che potrebbe, successivamente, condurre a una difesa comune; - rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione; - sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni”. Vediamo allora come si configurano più precisamente e operativamente i tre pilastri, secondo i successivi articoli del Trattato. Il primo è quello della Comunità Economica (CE), che unifica le tre Comunità preesistenti (CEE, CECA, Euratom) sotto la guida - anzi si potrebbe dire sotto il governo - del Consiglio, del Parlamento e della Commissione. Viene ipotizzato uno sviluppo graduale ha condotto alla completa fusione nella Unione Economica e Monetaria (UEM), con banca centrale europea e moneta unica. Questa operazione viene qualificata come ‘federale’ in virtù del cosiddetto “principio della sussidiarietà” enunciato nell’art. 3B, Titolo 11, del Trattato, secondo il quale “nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque [...] essere meglio realizzati a livello comunitario”. Fermo restando questo principio, il Trattato amplia e rafforza le competenze della Comunità specialmente in materia di ricerca e sviluppo tecnologico, di ambiente, di legislazione sociale, di promozione culturale. Il secondo pilastro è costituito dalla Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), “istituita e disciplinata” - come annuncia l’art. J - dal Titolo V, artt. Jl-J7. In realtà in questi articoli la PESC è proiettata nel futuro, non ancora istituzionalizzata. Soggetti attivi sono, nel corso di tutto il Titolo V, gli “Stati membri” che “si informano reciprocamente e si concertano in sede di Consiglio”, il quale “ogniqualvolta lo ritenga necessario, definisce una posizione comune” (art. J2). È affermata, peraltro, la volontà di coordinamento delle politiche nazionali e di ricerca di posizioni comuni in seno alle organizzazioni internazionali; per la difesa è istituito un legame organico tra Unione Europea e UEO, alla quale - in quanto “parte integrante” dello sviluppo dell’Unione Europea - viene richiesto “di elaborare e di porre in essere le decisioni e le azioni della Unione aventi implicazioni nel settore della difesa” (art. J4/2). Il terzo pilastro consiste nella “cooperazione intergovernativa” in funzione della “cittadinanza europea istituita con l’art. G/C del Titolo I: in pratica riguarda principalmente la libera circolazione delle persone attraverso le frontiere degli Stati membri (come già a suo tempo convenuto tra Francia, Germania e Benelux con l’Accordo di Schengen del 1985) e perciò la responsabilità giudiziaria e di polizia in tale ambito. L’esilità di questo pilastro risulta particolarmente evidente al confronto con il Progetto di costituzione della UE che il Parlamento europeo ha votato nel febbraio 1994, approvando così il rapporto presentato dal deputato belga Fernand Herman (aderente al Partito Popolare Europeo), dove va subito notata e sottolineata l’attribuzione alla Corte di giustizia della competenza a pronunciarsi “su qualsiasi ricorso presentato da un privato, inteso ad accertare la violazione da parte dell’Unione di un diritto dell’uomo garantito dalla Costituzione” (art. 38 del Progetto). Dal punto di vista istituzionale il Trattato di Maastricht va incontro in misura assai cauta e limitata all’esigenza di colmare il cosiddetto ‘deficit democratico’: esigenza che si traduce in primo luogo nella proposta di estendere e rafforzare le competenze, le funzioni e i poteri del Parlamento europeo al riguardo. Tuttavia sul terreno della Unione Economica e Monetaria l’estensione dei poteri del Parlamento è rilevante e configura entro certi limiti un ruolo di ‘co-decisione’. Importante è anche il conferimento al Parlamento del potere d’investitura della Commissione, già esercitato nei confronti della Commissione nominata all’inizio del 1995. Ma in materia di politica estera e di sicurezza comune, il Parlamento, oltre a essere informato e consultato, può perfino “rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio. Esso procede ogni anno a un dibattito sui progressi compiuti nell’attuazione della politica estera e di sicurezza “ (Titolo V, art J7), Sostanzialmente identiche sono le disposizioni concernenti il ruolo del Parlamento riguardo alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni” (Titolo VI, art. K6). Sempre rispetto alla suddetta esigenza democratica è importante - e promettente - l’istituzione del Comitato delle Regioni, con funzioni soltanto consultive, che pero aprono canali di partecipazione più articolata e decentrata. La Commissione presieduta da Delors collaborò attivamente e pochi giorni dopo la firma del Trattato inviò al Consiglio una comunicazione intitolata Dall’Atto Unico al dopo Maastricht: i mezzi per realizzare le nostre ambizioni, alle quali, tuttavia, non giovarono certo le resistenze e le esitazioni che si manifestarono clamorosamente, in Danimarca con l’esito negativo del referendum sul Trattato (poi superato con una ratifica ottenuta al prezzo di alcune deroghe concesse a quello Stato), e in Francia, con un esito del referendum, che, anche se positivo, metteva in evidenza una vasta opposizione nell’opinione pubblica di quel paese. Il contributo più sostanzioso fornito dalla Commissione al consolidamento della Unione Europea fondata a Maastricht lo si trova nel Libro Bianco sulla strategia a medio termine per la crescita, la competitività e l’occupazione, presentato dalla Commissione al Consiglio europeo di Bruxelles il 10 dicembre 1993. Al centro vi è il problema della occupazione. Già nel par. 3 dell’introduzione il Libro Bianco avverte che l’Unione Europea si trova di fronte a una “disoccupazione di massa” che investe 17 milioni di persone, pari all’11% della popolazione attiva: impressionante aumento rispetto ai 12 milioni, pari all’8%, del 1990; esso enuncia e illustra, per far fronte a questa situazione “drammatica” e ai “problemi strutturali” che la determinano, una “strategia di crescita” animata da un energico “spirito di solidarietà” e articolata in una serie di precise proposte in materia soprattutto di “ricerca e innovazione, organizzazione del lavoro, qualità dei prodotti, nuovi mercati, iniziative nei settori dei trasporti, dell’energia, delle telecomunicazioni”, associate a “nuove politiche” di educazione e formazione, miranti a un “nuovo modello di sviluppo economico”. [23111] Il Sistema monetario europeo (SME) è un sistema monetario internazionale valido su base regionale, comprendente cioè solo alcuni paesi in ambito europeo. Lo SME, entrato in vigore il 13 marzo 1979, è nato sotto il forte impulso politico dato dal presidente francese V. Giscard d’Estaing e dal cancelliere tedesco H. Schmidt, con l’obiettivo di creare in Europa una “zona di stabilità monetaria” in un contesto, come quello degli anni Settanta, caratterizzato da elevata inflazione e instabilità dei cambi. L’elemento centrale dello SME è costituito dagli Accordi europei di cambio (AEC), i quali prevedono la fissazione di una parità centrale per i cambi bilaterali dei paesi membri (griglia di parità) che possono muoversi all’interno di una banda di oscillazione che fino al settembre 1992 è stata del ±2,25% e successivamente è stata portata al ±15%. Per la lira italiana la banda è stata invece del ±6% dal 13 marzo 1979 fino al 31 dicembre 1989; da quella data al settembre 1992 la lira passò nella banda stretta (e contestualmente la parità centrale fu leggermente svalutata). Aderiscono agli AEC i seguenti paesi: Germania, Francia, Gran Bretagna (dall’ottobre 1990 al settembre 1992), Italia, Spagna (dal luglio 1989), Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Portogallo (dall’aprile 1992), Irlanda, Lussemburgo, Austria (dal 1° gennaio 1995) e Finlandia (dall’ottobre 1996). La Grecia non aderisce agli AEC, pur partecipando allo SME. Nel settembre 1992 l’Italia e la Gran Bretagna abbandonarono gli AEC in seguito a una grave crisi dei cambi che colpì i paesi caratterizzati da andamenti di fondo più squilibrati, ma nel novembre 1996 l’Italia ha aderito nuovamente agli accordi di cambio. Gli AEC prevedono che se il cambio raggiunge i margini della banda, le banche centrali dei paesi interessati sono obbligate a intervenire acquistando o vendendo valuta (interventi marginali). Del resto è spesso avvenuto che le banche centrali dei paesi a valuta debole abbiano effettuato interventi anche all’interno delle bande (interventi infra-marginali) i quali non sono però obbligatori. Gli AEC prevedono inoltre la possibilità di modifiche delle parità centrali (riallineamenti) da parte del Consiglio dei ministri finanziari delle Comunità europee nel caso di andamenti fortemente divergenti delle economie. Di questa facoltà è stato fatto uso frequente dal 1979 al 1987 e soprattutto dal 1979 al 1983, mentre dal riallineamento del gennaio 1987 fino al settembre 1992 le parità centrali sono rimaste stabili, tranne che per la lira. Un secondo elemento importante dello SME è rappresentato dall’ECU, il quale, nelle intenzioni originarie, avrebbe dovuto costituire l’indicatore di divergenza (la variazione del cambio di ciascuna valuta con l’ECU consente di individuare la moneta che devia rispetto all’insieme di tutte le altre, e quindi il paese chiamato a intervenire sul mercato dei cambi), nonché l’unità di conto e lo strumento di regolazione delle posizioni debitorie tra le banche centrali all’interno dello SME. L’ECU, tuttavia, non ha mai svolto la funzione di indicatore di divergenza, soprattutto per l’ostilità mostrata dalla Germania verso i tentativi volti a introdurre una maggior simmetria degli interventi nello SME (in quanto limitativi della sua sovranità monetaria), ed è stato utilizzato principalmente come unità di conto (ECU ufficiali) e riserva di valore nelle transazioni finanziarie private (ECU privato). Un ulteriore pilastro dello SME è costituito dalle facilitazioni creditizie a brevissimo, breve e medio termine. L’accesso alle facilitazioni di credito a brevissimo termine è consentito in quantità illimitate e senza condizioni per gli interventi marginali sul mercato dei cambi. Dal settembre 1987 (accordi di Nyborg) la durata iniziale dei finanziamenti è stata estesa a 75 giorni (contro i precedenti 45) dalla fine del mese in cui ha avuto luogo l’intervento e, soprattutto, l’accesso alle facilitazioni è stato autorizzato anche per gli interventi infra-marginali (ma solo per somme limitate, previa autorizzazione della banca centrale che emette la valuta di intervento). Il sostegno monetario a breve termine è concesso, senza condizioni, dal Comitato dei governatori per un periodo di 3 mesi. Il concorso finanziario a medio termine, invece, è concesso dal Consiglio dei ministri finanziari della Comunità europea per un periodo di 2÷5 anni ai paesi membri posti di fronte a gravi difficoltà della bilancia dei pagamenti. Un quarto elemento chiave dello SME è la centralizzazione, presso il FECoM (Fondo europeo di cooperazione monetaria), del 20% delle riserve auree e del 20% delle riserve in dollari detenute da ciascuna banca centrale in cambio della creazione di conti in ECU (ECU ufficiali). Lo scambio di riserve internazionali ed ECU tra ciascuna banca centrale e il FECoM assume la veste di riporti (swap) rinnovabili ogni tre mesi. La centralizzazione delle riserve risponde all’obiettivo della creazione di una banca centrale europea, abbandonato ma poi ripreso con il rapporto Delors del 1989, nel quale si sono stabilite le fasi fondamentali per il raggiungimento di una Unione monetaria europea (UME), in seguito codificate con la conferenza intergovernativa di Maastricht del 1992 (Trattato di Maastricht). La prima fase, terminata alla fine del 1993, prevedeva il rafforzamento dello SME attraverso un maggiore coordinamento delle politiche monetarie, la partecipazione di tutte le monete agli AEC e l’ulteriore liberalizzazione dei movimenti di capitale. Con la seconda fase, avviata nel 1994, è stato costituito l’Istituto monetario europeo (IME), con sede a Francoforte, con il compito di accentuare il coordinamento volontario delle politiche monetarie (che rimangono ancora sotto la responsabilità dei singoli paesi), di preparare la fase finale dell’UME e di assumere le funzioni svolte dal FECoM. La terza fase ha segnato l’inizio della vera e propria unione monetaria, con l’istituzione di un Sistema europeo di banche centrali (SEBC), composto dalla Banca centrale europea (BCE) e dalle preesistenti banche centrali nazionali, responsabile della politica monetaria, e con l’introduzione di una moneta unica in sostituzione delle valute nazionali (euro). Il 31 dicembre 1998 sono stati decisi i definitivi tassi di conversione tra le monete nazionali e la nuova moneta unica; una lira italiana è stata valutata pari a 1936,70 euro. Quindi, dal primo gennaio 1999 gli stati aderenti hanno iniziato a coniare le nuove banconote, a emettere i titoli del debito pubblico esprimendoli in euro, a “ridenominare” i vecchi titoli per permettere la conversione valutaria. Usate in tutte le operazioni monetarie che non necessitano di contanti, solo a partire dal primo gennaio 2002 le nuove banconote entreranno in circolazione per soppiantare le vecchie monete nazionali, al termine di un periodo di transizione controllato dalla Banca centrale europea. [2321] All’inizio degli anni Novanta – dopo la svolta del 1989, l’abbattimento del “muro” di Berlino, la riunificazione tedesca, il crollo dell’Unione Sovietica – si delineava la prospettiva di una considerevole ricomposizione più unitaria e omogenea del mondo europeo, analoga a quella prevalsa nel secolo 19° e interrotta dal 1914, sotto il segno delle idee liberaldemocratiche, socialdemocratiche e democristiane. Tornavano in auge sia i principi dell’economia di mercato che i valori della società industriale avanzata e “affluente”, mentre dal Terzo Mondo e dall’Europa Orientale si rovesciava sulla prospera Europa Occidentale, in declino demografico, una grandiosa ondata immigratoria. Nei decenni precedenti erano ricorsi spesso i timori di una vera e propria finis Europae e i paralleli con altri momenti ed esperienze storiche: in particolare, con la fine dell’Impero romano e della civiltà “classica”. Ma ad una riflessione minimamente più approfondita risultava chiara la profonda novità della nuova e inedita fase della sua storia che l’Europa andava vivendo. La leadership tecnica e scientifica e la forza centripeta e formativa della cultura non erano più un suo monopolio. Su questo piano l’Europa si trovava a un livello medio tra la sua ridotta forza politica e militare e la sua cresciuta e crescente forza economica e culturale. Ma soprattutto apparivano vitali e attive molte delle idee-forza e dei valori che ne avevano sorretto lo sviluppo millenario. Discussi in Europa, le idee-forza e i valori della nazione, del progresso, della libertà, della democrazia erano stati affermati e rivendicati al di fuori di essa e costituivano largamente i principi in nome dei quali ci si era ribellati e ci si ribellava ad essa e alla sua tradizione. Non era, quindi, lo spettro di un “nuovo medioevo” a dominarne l’orizzonte quanto, piuttosto, il profilo di un travaglio faticoso e profondo in vista di una trasformazione che ora più che mai, e sia pure in un quadro mondiale così mutato, riguardava insieme l’Europa e il resto del mondo. [2411] Uomo di stato tedesco (Colonia 1876 - Rhöndorf, Bonn, 1967). Fra i capi del partito cattolico tedesco, si fece notare per probità e perizia nell’amministrazione locale di Colonia, dove fu poi primo borgomastro dal 1917 al 1933: a lui si deve la definizione del piano regolatore, la nuova università, la costruzione del porto e la creazione della grande fiera internazionale. A tale carica unì, dal 1920 al 1933, quella di presidente del Consiglio di stato prussiano. Per la sua ferma lotta contro l’ascesa dei nazionalsocialisti, nel 1933, con l’avvento di Hitler al potere, fu esonerato da ogni carica politica e amministrativa e per due volte ebbe a soffrire la prigione. Di nuovo borgomastro nel 1945, fu tra i fondatori, dopo la seconda guerra mondiale, della Christliche Demokratische Union (CDU), che rappresentava la continuazione del vecchio Zentrum. Il 18 settembre 1948 fu eletto cancelliere della Repubblica Federale di Germania e nel marzo 1951 ebbe anche la carica di ministro degli Esteri. Alla sua opera di governo, sorretta da largo prestigio, si deve la rinascita della Germania occidentale dalle conseguenze politiche ed economiche della guerra: primo obiettivo di Adenauer è stato il raggiungimento della sovranità statale, ottenuto attraverso l’inserimento della Germania nel sistema politico occidentale, grazie agli accordi di Parigi del 23 ottobre 1954, che segnarono la fine del regime di occupazione, nel 1955 la Germania aderiva alla NATO. Lasciata la carica di ministro degli Esteri, nel 1957, forte di questi successi e della formidabile ripresa economica tedesca, in pieno svolgimento, Adenauer veniva rieletto cancelliere. Le vicende della lotta politica interna portarono poi a una relativa diminuzione della sua popolarità e del suo prestigio, sì che alla nuova rielezione a cancelliere (1961) si giungeva solo dopo lunghe e difficili trattative politiche. Obiettivo proclamato della politica di Adenauer nell’ultimo periodo continuò ad essere la riunificazione delle due Germanie e la difesa della libertà di Berlino, congiuntamente all’integrazione europea, ma il complicarsi della situazione internazionale in seguito al nuovo corso della politica sovietica, e soprattutto di quella statunitense, portò a un certo oscuramento della prima chiarissima linea europeistica e filo-americana di Adenauer, che fu tratto ad accentuare i motivi dell’autonomia europea rispetto agli Stati Uniti d’America da una parte e alla Gran Bretagna dall’altra, orientandosi verso un vigoroso rafforzamento dei legami politici, militari ed economici con la Francia di de Gaulle. Nell’ottobre 1963 lasciava la carica di cancelliere, sostituito da Erhard, non peraltro l’attività politica, nella quale continuò ad impegnarsi fino alla morte. [2421] Statista italiano (Pieve Tesino, Trento, 1881 - Sella di Valsugana 1954). Studente in lettere a Vienna, partecipò nel 1904 alle dimostrazioni universitarie di Innsbruck per l’istituzione d’una facoltà giuridica italiana, subendo per ciò un arresto di 22 giorni. Laureatosi, militò nel 1905 nell’Unione politica popolare; direttore del giornale Il Trentino (1906), difese l’italianità culturale e gli interessi economici della sua regione. Deputato del collegio di Fiemme nel 1911, prese posizione per una sempre più completa autonomia trentina, finché il 25 ottobre 1918, insieme con gli altri deputati italiani al parlamento di Vienna, proclamò la volontà delle popolazioni trentine di essere annesse all’Italia. Dopo l’annessione egli, tra i membri più in vista del Partito popolare italiano, fu deputato alla Camera (1921). Ostile al fascismo, dopo la marcia su Roma sostituì L. Sturzo, andato in volontario esilio, alla direzione del partito e fu membro attivo del Comitato dell’Aventino; fu condannato a 4 anni di carcere per antifascismo. In seguito fu impiegato nella Biblioteca Vaticana. Riorganizzò durante la Resistenza il Partito popolare con il nome di Democrazia cristiana; dopo la liberazione di Roma, fece parte del ministero Bonomi come ministro senza portafogli. Ministro degli Esteri nel secondo gabinetto Bonomi e in quello Parri (dicembre 1944 - dicembre 1945), fu poi ininterrottamente presidente del Consiglio fino all’agosto del 1953, governando dapprima insieme coi socialisti e coi comunisti e, dopo il 31 maggio 1947, con la partecipazione soltanto dei partiti di centro. Tentò poi, nel breve ministero del 16 luglio 1953, un governo di soli democristiani. Presidente della CECA dal maggio 1954, resse anche, dal settembre 1953 al luglio 1954, la segreteria del suo partito. Di particolare significato rimane l’opera svolta da De Gasperi per la ricostruzione del paese dalle rovine della guerra. La sua politica estera fu inoltre risolutamente tesa all’inserimento dell’Italia nell’ambito dell’Alleanza atlantica e alla realizzazione dell’Europa unita. [2431] Uomo politico tedesco (nato a Ludwigshafen, 1930). Militante, dal 1947, dell’organizzazione giovanile dell’Unione cristiano-democratica (CDU), nel 1959 fu eletto membro del parlamento della Renania-Palatinato di cui fu in seguito primo ministro (1969-76). Presidente della CDU (dal 1973), dall’ottobre 1982 cancelliere di un governo di coalizione composto da democristiani e liberali. Protagonista del processo di riunificazione tedesca (1990), dopo le elezioni del 1991 è stato confermato cancelliere della Germania fino all’ottobre 1998. [2441] Uomo politico francese (Jarnac, Charente, 1916 - Parigi 1996). Dopo aver preso parte alla Resistenza, fu deputato del gruppo radical-socialista dal 1946, ministro della Francia d’Oltremare nel 1950-51, ministro di stato nel 1952-53; si dimise nel settembre 1953 in segno di protesta contro la politica coloniale del governo Laniel. Ministro nei successivi gabinetti Mendès-France e Mollet, senatore dal 1959, fu fra i più accesi oppositori di de Gaulle, cui contese la presidenza della Repubblica (1965). Presidente della Federazione della sinistra democratica e socialista (1965-68), a partire dal 1969 fu l’artefice del rinnovamento socialista e al congresso di Épinay-sur-Seine, fondato il Parti socialiste, ne divenne segretario generale (1971). Tenace propugnatore dell’unità della sinistra, sottoscrisse il programma comune con i comunisti (1972) e nel 1974 fu candidato alle elezioni presidenziali, vinte da V. Giscard d’Estaing. La politica di unità della sinistra, cui dal 1977 il PCF tentò di sottrarsi, si tradusse in crescenti consensi per il PS, e nel 1981 Mitterrand veniva eletto presidente della Repubblica (51% dei voti) anche con il sostegno comunista. Mitterrand costituì un governo di socialisti, radicali di sinistra e comunisti (questi uscirono dalla maggioranza nel 1984). Dopo l’esito, per le sinistre sfavorevole, delle elezioni del 1986, iniziò una fase di “coabitazione” tra il presidente socialista e il primo ministro J. Chirac. Il duello tra Mitterrand e Chirac nelle presidenziali del 1988 si risolse in favore del primo (54%) e nelle successive elezioni politiche i socialisti riguadagnarono la maggioranza relativa. Le elezioni del 1993, nuovamente sfavorevoli alle sinistre, aprivano un nuovo periodo di coabitazione tra Mitterrand e il primo ministro J. Balladur. Tra gli scritti: Un socialisme du possible (1971), Politique (2 voll., 1977-82), L’abeille et l’architecte (1978), Réflexions sur la politique extérieure de la France (1986). [2451] Uomo politico ed economista francese (Cognac 1888 - Montfort-l’Amaury, Parigi, 1979). Organizzatore dei rifornimenti durante la prima guerra mondiale e delegato al Supremo consiglio economico interalleato, fu poi (dal 1919) vicesegretario generale della Società delle nazioni. Dal 1923 si dedicò a un’intensa attività nell’alta finanza internazionale e con lo scoppio della seconda guerra mondiale si adoperò per impedire l’armistizio della Francia e per far trasferire il governo nell’Africa del Nord. Ad Algeri dal 1943, fece parte del Comitato francese di liberazione nazionale come commissario all’armamento, all’approvvigionamento e alla ricostruzione, e nel dicembre 1945 elaborò il Plan de modernisation et d’équipement dell’economia francese (detto piano Monnet), che fu adottato nel 1947, per modernizzare l’industria e l’agricoltura. È stato uno dei creatori, accanto a Robert Schuman, della CECA e, dal 1952 al giugno 1955, presidente dell’Alta Autorità di questa organizzazione. Convinto federalista, dal 1956 al 1975 è stato presidente del Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, da lui proposto. Ha scritto Les États-Unis d’Europe ont commencé (1955); Mémoires (1976). [2461] Uomo politico francese (Lussemburgo, 1886 – Sey-Chazelles, Metz, 1963). Deputato democratico-popolare per la Moselle dal 1919, durante la seconda guerra mondiale, pur avendo votato i pieni poteri a Pétain, si schierò apertamente contro i nazisti e fu deportato in Germania (1940). Evaso nel 1942, entrò nelle file della Resistenza partecipando, più tardi, alla fondazione del MRP. Deputato del MRP dal 1945, ministro delle Finanze nel 1946-47, presidente del Consiglio nel 1947-48, dopo effimere formazioni ministeriali fu ministro degli Esteri nel gabinetto Queuille (settembre 1948) e rimase con tali funzioni in vari ministeri sino al dicembre 1952. Il nome di Schuman è legato al piano, lanciato il 9 maggio 1950, per la creazione di un’alta autorità comune della produzione del carbone e dell’acciaio franco-tedesca. La proposta di Schuman, aperta anche agli altri paesi dell’Europa occidentale, dette origine alla CECA. [2471] Uomo politico italiano (Roma 1907 - ivi 1986). Militante comunista e antifascista, nel 1927 fu arrestato e condannato dal tribunale speciale fascista al carcere e poi al confino. Uscito dal PCI (1937), negli anni della seconda guerra mondiale maturò la convinzione che solo una federazione degli stati europei avrebbe potuto evitare, in futuro, il ripetersi di nuovi conflitti mondiali. Tale elaborazione condusse al celebre Manifesto di Ventotene (1941), scritto al confino insieme a E. Colorni ed E. Rossi, ripreso poi nel programma del Movimento federalista europeo, fondato da Spinelli nel 1943, non appena tornato in libertà. Dopo aver partecipato alla Resistenza nelle file del Partito d’Azione, dedicò il suo impegno politico alla realizzazione del progetto di unificazione europea, prima come segretario del Movimento federalista europeo in Italia (1947-63), poi come membro della Commissione delle Comunità europee (1970-76), infine, eletto come indipendente nelle liste del PCI, in qualità di deputato (1976-83) e parlamentare europeo (dal 1976). Fra i suoi scritti: Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa (1950); Manifesto dei federalisti europei (1957); Il lungo monologo (1968); Avventura europea (1972); La mia battaglia per un’Europa diversa (1979); Il progetto europeo (1985); Discorsi al Parlamento europeo 1976-1978 (1986); Diario europeo (post., 1989). [2481] Personalità politica francese, nata a Nizza il 13 luglio 1927. Deportata in Germania durante la seconda guerra mondiale come ebrea, conobbe gli orrori dei campi di sterminio di Auschwitz (ove morirono il padre, la madre e le sorelle) e di Bergen-Belsen. Studente di giurisprudenza a Parigi, si sposò col compagno di scuola Antoine Veil (1947), e si laureò l’anno successivo. Magistrato dal 1956, fu segretario generale del Consiglio superiore della magistratura dal 1970 al 1974. Ministro della Sanità nei gabinetti Chirac (1974-76) e Barre (1976-79), promosse l’approvazione di una legge per la liberalizzazione dell’aborto (dicembre 1974). Membro del Parlamento europeo dal 1979, ne fu presidente dal 1979 al 1982. Dal 1993 al 1995 fu nuovamente ministro della Sanità, degli Affari sociali e dello Sviluppo urbano nel governo Balladur. [25111] Annuncio del Piano Schuman (elaborato dal ministro degli Esteri francese insieme a Jean Monnet) per una Comunità europea del carbone e dell’acciaio. [25121] I rappresentanti di Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo firmano il Trattato di Parigi per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). [25131] I paesi aderenti alla CECA firmano il trattato per la costituzione della Comunità europea di difesa (CED). L’accordo non entrerà mai in vigore a causa della mancata ratifica da parte della Francia nell’agosto 1954. Questo fallimento porta alla nascita dell’Unione europea occidentale (UEO). [25141] Firma del Trattato di Roma da parte dei sei paesi membri della CECA; creazione della Comunità economica europea (CEE) e dell’Euratom (nome convenzionale della Comunità europea dell’energia atomica, sigla: CEEA). [25151] Entra in vigore il Trattato di Roma. [25161] “Fusione degli esecutivi” di CEE, CECA ed Euratom; viene istituito un Consiglio unico e una Commissione unica per le tre comunità, le cui amministrazioni vengono unificate nella Comunità Europea (CE). [25171] Con un anno e mezzo di anticipo sulla data prevista, viene realizzata l’unione doganale. [25181] Accordo di Basilea; viene istituito il cosiddetto “serpente monetario”: un sistema di cambi tra le monete europee, che prevede un margine di fluttuazione bilaterale del 2,25%. [25211] La Norvegia, in seguito al risultato negativo di un referendum popolare, ritira la propria domanda di adesione alla CEE. [25221] Primo allargamento: Danimarca, Repubblica d’Irlanda e Regno Unito entrano nella Comunità Europea. [25231] Creazione del Sistema monetario europeo (SME) e della moneta di riferimento: ecu. [25241] Entra in vigore il Sistema monetario europeo. [25251] Prime elezioni dirette per il Parlamento europeo. [25261] La Grecia diventa il decimo paese membro della Comunità Europea. [25271] Il Parlamento europeo approva un Progetto di trattato della Unione Europea promosso da Altiero Spinelli. Da questo progetto scaturisce poi l’Atto unico europeo. [25281] Per la seconda volta vengono eletti i rappresentanti al Parlamento europeo. Avanzano i partiti socialisti e l’estrema destra; si affermano i verdi; flessione dei comunisti e dei liberali. [25311] Il francese Jacques Delors ricopre per dieci anni la carica di presidente della Commissione della Comunità Europea e poi della Unione Europea. [25321] Al Consiglio europeo di Milano l’esecutivo comunitario presenta il “Libro bianco” sul “completamento del mercato interno”. Tale mercato potrà essere realizzato solo attraverso l’accordo degli stati membri “sull’abolizione delle barriere di qualsiasi natura, sull’armonizzazione delle norme, sul ravvicinamento delle legislazioni e delle strutture fiscali, sul rafforzamento della cooperazione monetaria e sulle misure di accompagnamento necessarie per indurre le imprese europee a collaborare”. [25331] Accordi di Schengen sull’abolizione dei controlli tra le frontiere. [25341] Adesione di Spagna e Portogallo alla Comunità Europea. [25351] Firma dell’Atto unico europeo: è la prima revisione sostanziale del Trattato di Roma del 1957; il 17 a Lussemburgo è firmato da nove Stati membri, il 28 all’Aia da Italia, Grecia e Danimarca. [25361] Entra in vigore l’Atto unico europeo. [25371] Il vertice di Madrid approva il programma delle “tre fasi” per l’Unione economica e monetaria europea. [25381] Per la terza volta viene eletto il Parlamento europeo. [25411] Crollo del muro di Berlino. [25421] Viene varato un sistema monetario comune tra Repubblica Federale e Repubblica Democratica Tedesca. [25431] Inizia la “prima fase” dell’Unione economica e monetaria europea. [25441] Unione politica tra le due Germanie. La Repubblica Democratica viene assorbita dalla Repubblica Federale Tedesca. [25451] La “Carta di Parigi” conferma la fine della guerra fredda. [25461] Viene approvato il progetto di Trattato dell’Unione europea [25471] Firma del Trattato di Maastricht. [25481] Le forti oscillazioni dei mercati monetari, provocate dalla speculazione finanziaria, portano alla revisione del Sistema monetario europeo. [25511] Entra in vigore il Trattato di Maastricht. Nasce l’Unione Europea (UE). [25521] Inizia la “seconda fase” dell’Unione economica e monetaria. [25531] Per la quarta volta si tengono le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. [25541] La Norvegia per la seconda volta è fermata dal risultato negativo di un referendum e ritira la propria adesione all’Unione Europea [25551] Austria, Finlandia e Svezia entrano nell’Unione Europea. [25561] I paesi aderenti al Patto di Schengen aboliscono i controlli sui viaggiatori tra le loro frontiere. [25571] Il summit di Madrid conferma per il 1° gennaio 1999 l’entrata in vigore dell’euro, la moneta unica europea. [25581] Si apre a Torino la Conferenza intergovernativa. [25611] La Conferenza intergovernativa chiude i suoi lavori col vertice di Amsterdam; viene approvato il Trattato di Amsterdam. [25621] La Commissione europea pubblica “Agenda 2000”, sulle prospettive di allargamento e riforma dell’Unione. [25631] Al summit di Lussemburgo si decide l’avvio dei negoziati per l’allargamento dell’Unione con sei paesi. Sono in corso trattative con altri cinque paesi. [25641] Vengono stabiliti quali sono i paesi (undici, tra cui l’Italia) che possono partecipare alla “prima fase” della moneta unica europea. [25651] Sono fissati i tassi definitivi di conversione tra le monete nazionali e quella unica; un euro è pari a 1936,70 lire. [25661] Inizia la “terza fase dell’Unione economica e monetaria”; entra in vigore l’euro, la moneta unica europea. [25671] Elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Inizia la quinta legislatura. [25681] Per questa data è prevista la messa in circolazione dell’euro. Le vecchie monete nazionali saranno gradualmente eliminate entro il 1° luglio dello stesso anno. [31111] Lo stato belga venne costituito ufficialmente nel 1830-31; ma le condizioni ideali e politiche del suo sorgere risalgono alla seconda metà del secolo 16°, quando i contrasti religiosi e la lotta contro il dominio spagnolo determinarono nel 1579 la scissione tra Paesi Bassi cattolici (poi Belgio: il nome è già d’uso generale nel secolo 16°) e Paesi Bassi protestanti (Olanda), fra i Paesi Bassi del Sud e quelli del Nord. Rimasti, anche dopo la separazione dell’Olanda, sotto il dominio della Spagna, i Paesi Bassi cattolici ebbero una vita assai travagliata perché furono teatro delle continue guerre fra le potenze europee, e perché fecero le spese di non pochi accordi diplomatici (il trattato di Vestfalia del 1648 segnò la chiusura della Schelda e la morte economica di Anversa). Passati, alla fine della guerra di successione spagnola (1714), sotto il dominio degli Asburgo d’Austria, ebbero una netta ripresa economica, pur non riuscendosi ad ottenere la riapertura della Schelda; ma le riforme introdotte dall’imperatore Giuseppe II incontrarono l’opposizione del clero e dei conservatori tradizionalisti. [31121] Nel 1789 scoppiò la “rivoluzione brabantina” che costituì il paese nella repubblica degli Stati Uniti del Belgio (États Belgiques Unis): il contrasto tra i conservatori o “statisti”, capitanati da Enrico van Nost, e i progressisti, guidati da H. E. Vonck, favorì il ritorno delle milizie austriache, ma le vittorie di Jemappes (1792) e di Fleurus (1794) segnarono ben presto l’annessione del paese alla Francia (confermata dai trattati di Campoformio e di Lunéville), nonostante la violenta resistenza cattolica e tradizionalista al regime giacobino (guerra dei contadini: 1798-99). Con l’amministrazione napoleonica, la Schelda venne riaperta al traffico. Le province belghe furono riunite dal congresso di Vienna (1815) a quelle olandesi nel regno dei Paesi Bassi, concepito come un baluardo all’espansione francese, sotto Guglielmo I, che ne favorì lo sviluppo economico e culturale, ma la resistenza cattolico-clericale allo statalismo protestante e al predominio politico olandese si unì, fin dal 1828, a quella liberale contro il sistema della Restaurazione; la situazione tesissima si risolse in rivoluzione sull’esempio delle giornate parigine del luglio 1830. [31131] Battuto l’esercito olandese, soprattutto con il concorso dell’elemento vallone, si costituì un governo provvisorio che proclamò l’indipendenza e convocò un’assemblea nazionale (24 ottobre 1830), la quale si espresse per la monarchia costituzionale con esclusione perpetua degli Orange-Nassau (22-24 novembre 1830) e emanò la nuova costituzione (7 febbraio 1831), mentre i democratici, con a capo L. De Potter, si opponevano invano alla prevalenza dei moderati monarchici. Visto con interessata simpatia dalla Francia, con conseguente diffidenza dal governo inglese, con ostilità impotente dall’Austria impegnata in Italia, e dalla Russia impegnata in Polonia, mentre la Prussia non osava intervenire da sola, il nuovo stato venne riconosciuto dalla diplomazia per opera del Talleyrand (20 dicembre 1830). Il rifiuto di unire al Belgio anche il Lussemburgo e Maastricht provocò mesi di grave tensione e nuovi urti armati con l’Olanda; ma alla fine il nuovo re Leopoldo di Sassonia Coburgo, incoronato il 4 giugno 1831, dovette fare accettare al paese il duro “trattato dei 24 articoli” (Londra 15 novembre 1831) che divenne definitivo solo dopo otto anni di controversie (19 aprile 1839). Il trattato, pur sancendo l’indipendenza del paese, gli impose un regime di neutralità perpetua, garantita da Austria, Russia, Gran Bretagna e Prussia. [31141] Superata la fase iniziale dei ministeri di coalizione cattolico-liberali, col 1847 prese il sopravvento il Partito liberale (fondato nel 1846); il suo predominio segna la riorganizzazione dell’esercito e la rinascita economica, ma anche l’inizio delle grandi lotte tra i liberali e i cattolici, i quali vanno sempre più piegando verso l’intransigenza e la conservazione e vengono battuti nel 1856, dopo un breve periodo di attività governativa. Ma il progresso industriale, favorito da un’agricoltura floridissima e da un’industria metallurgica e tessile in grande espansione, e l’opera di Leopoldo I mantennero, pur nelle lotte politiche, l’unità del paese, che così poté resistere alla crisi del 1865-66, dopo la morte del re, quando si parlò della spartizione del nuovo stato tra Francia e Prussia. Negli anni seguenti lo sviluppo del movimento cattolico portò alla formazione di un partito cattolico organizzato (1884) e all’affermazione della sua egemonia (maggioranza assoluta in parlamento dal 1884 al 1919). Esso si fece portavoce, in particolare, degli interessi ecclesiastici in campo scolastico (vincendo un duro scontro con i liberali nel 1879-84), di quelli dei ceti rurali e del nascente nazionalismo fiammingo, mentre il movimento socialista (costituzione del Partito operaio belga nel 1885) si diffuse soprattutto nella Vallonia industrializzata. La conquista (1893) del suffragio universale, seppur limitata dal voto plurimo concesso ai capifamiglia di condizione agiata e in possesso di un titolo di studio secondario, consentì l’ingresso in parlamento dei primi deputati socialisti. [31151] Leopoldo II (1865-1909) era riuscito nel 1885 a costituire lo Stato libero del Congo come suo possesso personale: nel 1908 il Congo fu annesso al Belgio e acquisì lo statuto di Colonia. Sottoposto a una dura occupazione tedesca durante la prima guerra mondiale (nonostante la resistenza animata da Alberto I, succeduto a Leopoldo II nel 1909), il Belgio ottenne dal trattato di Versailles l’abolizione del regime di neutralità obbligatoria, i cantoni di Eupen e Malmédy e, come mandato internazionale, una parte dell’Africa orientale tedesca. Col “patto renano”, firmato a Locarno nell’ottobre 1925, il trattato di Londra veniva abrogato e il Belgio riacquistava il pieno esercizio della propria sovranità, per quanto l’inviolabilità della frontiera renana fosse dal patto internazionalmente garantita. L’introduzione di un effettivo suffragio universale maschile nel 1919-21 (con l’abolizione del voto plurimo che ne aveva limitato la portata nel 1893) fu accompagnata da una serie di riforme sociali e da una crescita dell’influenza del Partito operaio belga, che divenne il secondo partito del paese, dopo quello cattolico. Emergeva intanto il problema dei rapporti tra fiamminghi e valloni, aggravato dalla politica antivallona attuata durante la guerra dall’occupante tedesco. A partire dal 1930 fu approvata una serie di leggi che riconoscevano il nederlandese come unica lingua ufficiale delle province fiamminghe (lo stesso dicasi per il francese in Vallonia): il Belgio veniva così diviso in due aree linguistiche rigidamente separate. Sul piano internazionale, il nuovo sovrano Leopoldo III, salito al trono nel 1934, proclamò nel 1936 la necessità di porre termine all’alleanza con la Francia stabilita nel 1920 e di assumere una posizione neutrale. Tale linea, posta effettivamente in atto dal Belgio negli anni successivi, non gli impedì comunque di essere invaso dalla Germania nel maggio 1940. Firmata dal re la resa contro la volontà del governo (rifugiatosi dapprima in Francia, poi a Londra), il paese conobbe una nuova occupazione tedesca, anche questa volta caratterizzata in senso antivallone, cui oppose una crescente resistenza fino alla liberazione ad opera delle forze alleate nel settembre 1944. Costituito un governo di unità nazionale (cattolici, socialisti, liberali e comunisti) e avviata la ricostruzione, le forze politiche si divisero ben presto sulla “questione regia”. [31161] Nel settembre 1944, in assenza di Leopoldo III (portato in Austria dai tedeschi), era stato nominato reggente il principe Carlo, fratello del sovrano. Dopo la liberazione di quest’ultimo (1945), i socialisti (dal 1945 Partito socialista belga), i comunisti e i liberali, a causa del suo atteggiamento ambiguo nei confronti degli occupanti, si opposero al suo ritorno in Belgio, che era invece sostenuto dai cattolici. Il conflitto, caratterizzato anche sul piano etnico (favorevoli a Leopoldo III erano soprattutto i fiamminghi), assunse toni drammatici nel 1950, quando in un referendum consultivo (marzo) il 57% dei votanti si espresse per il ritorno del re e il paese apparve sull’orlo della guerra civile. La crisi si risolse soltanto con l’abdicazione di Leopoldo III in favore del figlio Baldovino, salito al trono nel luglio 1951. Dopo la rottura dell’unità nazionale (luglio 1945) e alcuni governi di coalizione fra socialisti, liberali e comunisti (1945-47), i cattolici, il cui vecchio partito si era diviso nel 1945 in un’ala fiamminga (il Partito cristiano popolare) e un’ala vallona (il Partito cristiano sociale), associate in forma federativa, riaffermarono ben presto la propria egemonia, alleandosi dapprima con i socialisti (1947-49), quindi con i liberali (1949-50), e conquistando infine la maggioranza assoluta nelle elezioni del giugno 1950 (sin dalle precedenti elezioni del 1949 il diritto di voto era stato esteso anche alle donne), seguite dalla formazione di un monocolore cattolico (1950-54). Contemporaneamente il Belgio si inseriva nel sistema occidentale con l’adesione all’Unione occidentale (1948), alla NATO (1949) e all’Unione europea occidentale (1954), nonché con la costituzione del Benelux (1948), la partecipazione alla CECA (1951) e infine alla CEE (1957). [31171] Dopo la parentesi di un gabinetto socialista-liberale (1954-58), i cattolici tornarono stabilmente al governo, alternando l’alleanza coi liberali (1958-61, 1966-68, 1974-77) a quella coi socialisti (1961-66; 1968-73) o con entrambi (1973-74), mentre lo sviluppo economico del dopoguerra si accompagnava a una crescita relativa, economica e demografica, delle province fiamminghe rispetto a quelle vallone, che contribuiva ad aggravare i contrasti fra i due gruppi linguistici. Dopo le tensioni suscitate nella prima metà degli anni Sessanta dalla difficile decolonizzazione del Congo (accompagnata nel 1962 da quella del Ruanda-Urundi), tali contrasti divennero sempre più il principale problema del paese, provocando, fra l’altro, la formazione su base etnica di nuovi partiti di ispirazione federalista (come la fiamminga Unione popolare e il Fronte democratico dei francofoni) e la divisione delle stesse forze politiche tradizionali lungo la frontiera linguistica. Così, dal 1968 i due partiti cattolici divenivano totalmente autonomi e nel corso degli anni Settanta il Partito della libertà e del progresso (nome assunto nel 1961 dal vecchio Partito liberale) diveniva esclusivamente fiammingo, in seguito al distacco della componente francofona che nel 1979 dava vita al Partito riformista e liberale; nel 1978, infine, anche il Partito socialista si divideva in due organizzazioni indipendenti, l’una vallona e l’altra fiamminga. A ciò corrispose a partire dai primi anni Settanta l’avvio di un progetto di riforma dello stato in senso federale, sancito dal cosiddetto “patto di Egmont” del 1977. Promosso dal governo di coalizione costituitosi in quell’anno fra cattolici, socialisti, Unione popolare e Fronte democratico dei francofoni, il patto prevedeva la formazione di tre regioni autonome (Fiandre, Vallonia e Bruxelles), ma la sua attuazione fu bloccata dall’ostilità dei fiamminghi per il conferimento a Bruxelles dello status regionale: questo avrebbe infatti consentito ai valloni il controllo di due regioni su tre, dato che la capitale, pur essendo situata in territorio fiamningo, è abitata per l’85% da francofoni. Ciò determinò una crisi del gabinetto di coalizione, seguita da elezioni anticipate (dicembre 1978) e da una fase di acuta instabilità politica, con continui cambi di governo, proseguita fino al 1981. [31181] Nel 1980 si procedette all’approvazione dello statuto di autonomia per le Fiandre e la Vallonia e al rinvio della regionalizzazione di Bruxelles, ma la situazione rimase difficile, soprattutto per le conseguenze della crisi economica e per i suoi riflessi sugli stessi rapporti fra le due comunità linguistiche. Sviluppatesi a partire dalla metà degli anni Settanta, in relazione all’andamento della congiuntura internazionale, cui il Belgio è assai sensibile per l’elevato grado di apertura della sua economia, le difficoltà economiche del paese si sono tradotte in un’ulteriore accentuazione degli squilibri tra le Fiandre e la Vallonia, colpita in particolare dalla crisi dei settori industriali tradizionali, come la siderurgia. La caduta degli investimenti e l’aumento della disoccupazione, soprattutto nel sud, provocavano a loro volta un forte incremento della spesa pubblica (sussidi di disoccupazione, misure a sostegno del reddito e dell’occupazione, ecc.) e un notevole peggioramento della situazione finanziaria dello stato, accentuando i contrasti tra le forze politiche. Nel dicembre 1981, dopo nuove elezioni anticipate, il cristiano-popolare W. Martens costituì un governo di coalizione fra i due partiti cattolici e i due liberali (riconfermato dopo le consultazioni dell’ottobre 1985), che condusse una politica di austerità suscitando forti proteste sociali. Solo alla fine degli anni Ottanta si verificò una consistente ripresa dell’economia, anche se permanevano i gravi squilibri regionali e i problemi di ordine finanziario e occupazionale (alla fine del 1991 la disoccupazione superava l’11% della forza lavoro). [31191] Dopo una lunga crisi, seguita alle elezioni anticipate del dicembre 1987, Martens costituì una nuova coalizione (maggio 1988) fra i due partiti cattolici, i due socialisti e l’unione popolare, che rilanciò il processo di federalizzazione: nel luglio 1989 veniva finalmente istituita la regione di Bruxelles, ma nei due anni successivi il governo non riusciva a portare a termine il programma di ampliamento delle autonomie regionali e nelle consultazioni del novembre 1991 subiva un ridimensionamento della sua maggioranza parlamentare, soprattutto a vantaggio degli ecologisti e dei nazionalisti fiamminghi di estrema destra. Un nuovo gabinetto veniva costituito nel marzo 1992 dal cristiano-popolare J. L. Dehaene, con la partecipazione dei due partiti cattolici e dei due socialisti. La coalizione, sempre sotto la guida di J.L. Dehaene, tornò al governo anche dopo le consultazioni politiche del maggio 1995. Nell’aprile 1996 governo, imprenditori e sindacati firmavano un accordo teso a stimolare la ripresa economica e diminuire il forte tasso di disoccupazione. Nella seconda metà del 1996 il governo Dehaene fu investito da una grave crisi, acutizzatasi nella prima metà del 1997 quando la politica di tagli alla spesa pubblica perseguita per adeguarsi ai parametri di Maastricht provocò una dura reazione dell’opinione pubblica (gennaio 1997). [31211] La storia della Francia come potenza assoluta dell’Occidente europeo ebbe inizio con Carlomagno (768-814). Questi combatté con successo contro Longobardi (774), Arabi, Sassoni (772-804), Avari, creando un dominio che si estendeva dall’Ebro all’Elba, dalla Frisia a parte dell’Italia. Durante il suo regno promosse una vasta opera di riordino legislativo e giuridico e favorì un’importante, per quanto effimera, rinascita intellettuale. All’antico regnum Francorum, sempre sussistente, si sovrappose, con la consacrazione di Carlomagno a imperatore, da parte di Leone III (800), l’universalità del Sacro Romano Impero sorto in quell’occasione. La storia di questo supera di gran lunga gli stretti limiti di una storia di Francia. Una dimensione propriamente francese della storia dei Carolingi si rintraccia durante le lotte tra il successore di Carlomagno, Ludovico il Pio (814-840), che con l’Ordinatio imperii dell’871 aveva tentato di affermare il criterio dell’unità imperiale, e i figli che a ciò si ribellarono, e poi durante le lotte intestine tra quegli stessi figli. L’esito di questa lotta fu il trattato di Verdun (843), che sancì la divisione dell’Impero carolingio in tre zone che prefiguravano tre rispettive future entità politiche: mentre a Lotario restò il titolo imperiale, la Lotaringia e l’Italia, a Carlo il Calvo (843-877) toccò il territorio francese tranne le terre a Est della Mosa, Saône e Rodano, e a Ludovico il Germanico il regno orientale tra l’Elba e il Reno. Con il trattato di Ribermont (880) il confine tra le future Francia e Germania venne spostato ad Ovest della Mosa e sulla Schelda. Carlo il Calvo venne riconosciuto come re dei Franchi occidentali e lui e i suoi successori, pur continuando a nutrire aspirazioni imperiali, assunsero di fatto una figura sempre meglio definita di sovrani di un determinato territorio. Il loro potere fu però ridotto sempre più a poca cosa. Mentre fin dall’840 la Francia veniva devastata dalle incursioni normanne (nell’885 i Normanni entravano a Rouen e assediavano Parigi) e non cessava la minaccia degli attacchi degli Slavi e degli Arabi, sul piano interno Carlo il Calvo veniva costretto nell’assemblea di Quierzy (877) ad acconsentire alla pratica di una trasmissione pressoché ereditaria dei feudi in linea di primogenitura maschile, riconoscendo così uno stato ormai di fatto. Deposto Carlo il Grosso (887), che si era dimostrato incapace di affrontare l’invadenza normanna, l’aristocrazia francese scelse come re un proprio pari, il difensore di Parigi dai Normanni Eude o Oddone (887-898), figlio di Roberto il Forte, conte di Parigi. Per un secolo la Francia oscillò fra gli ultimi rampolli della gloriosa dinastia carolingia e quelli della nuova dinastia dei conti di Parigi, mentre la stessa autonomia della Francia veniva messa più di una volta in forse dall’intervento degli imperatori tedeschi. Nel 987 la partita fu definitivamente vinta da Ugo Capeto (figlio e successore del potentissimo conte di Parigi Ugo), che i grandi riconobbero loro sovrano. [31221] La monarchia, che sarà poi detta capetingia, fu tipicamente feudale. I re si consideravano signori di diritto di tutte le terre che si estendevano dalla Schelda all’Ebro; ma di fatto erano signori solo del paese a Nord della Senna, dell’Île-de-France. Il regno franco, a parte la dipendenza di molte terre dall’Impero germanico (Lorena, Borgogna, Provenza), fu un mosaico di terre feudali di tutte le grandezze. Alla fine del secolo 10°, i Capetingi furono costretti a una politica meramente difensiva. Durante il regno di Filippo I (1060-1108) le dinastie feudali e i duchi di Normandia (dal 1066 anche re d’Inghilterra), i conti di Fiandra, i conti d’Angiò, i duchi di Aquitania, i conti di Tolosa avevano ricchezze e forze militari di gran lunga maggiori di quelle del signore dell’Île-de-France con cui del resto essi avevano ormai rotto quasi ogni vincolo. I re Capetingi (il termine però è tardo, degli inizi del 13° secolo) si trovarono a lungo nell’impossibilità di imporre alcuna politica unitaria. Riuscirono comunque ad attuare una lenta e costante espansione del possesso regio diretto e un rafforzamento del potere, mirando a imporre la successione dinastica in linea maschile. Ma qualsiasi consolidamento del potere centrale si scontrava con l’opposizione dei maggiori signori feudali, in un contesto di anarchia diffusa e di guerre private cui la Chiesa, in concorso con la monarchia, tentò di mettere un limite istituendo le “paci di Dio” e poi canalizzando queste tensioni verso l’esterno, contro gli infedeli, con la crociata. Un crescente prestigio religioso circondava la figura del re, in relazione alla consacrazione divina che riceveva per il tramite della Chiesa e alle virtù taumaturgiche che venivano attribuite ai sovrani in relazione alla loro funzione. A partire dall’11° e più ancora nel 12° secolo si avvertì un primo rifiorire dell’economia con i nuovi dissodamenti e una ripresa del commercio e della vita produttiva legata alle città. Elementi che concorsero a modificare il quadro delle forze sociali del paese. Con il successore di Filippo I, Luigi VI (1108-37), si ebbe il primo tentativo organico di affermare la sovranità della corona: egli si preoccupò anzitutto d’imporre la sua autorità ai vassalli diretti ribelli e di ristabilire la pace nelle proprie campagne; in un secondo momento di controbilanciare il potere nobiliare ricercando anche un più diretto collegamento con i nuovi ceti emergenti nella città. Luigi VI operò anche un’accorta politica matrimoniale, riuscendo a combinare l’unione tra suo figlio, il futuro Luigi VII (1137-1180), e Eleonora, erede del ducato di Aquitania (1127): con queste nozze la dinastia capetingia portava i suoi confini ai Pirenei. Ma quando Luigi ripudiò la moglie Eleonora, questa strinse nuove nozze con il più temibile vassallo avversario della dinastia francese, Enrico Plantageneto, conte d’Angiò e duca di Normandia e, dal 1154, re d’Inghilterra. Il conflitto che scoppiò tra Enrico II e Luigi VII continuò anche sotto il successore di Luigi VII, Filippo Augusto (1180-1223), che approfittò della difficile situazione dell’Inghilterra sotto Riccardo I e suo fratello Giovanni Senzaterra, riuscendo a confiscare agli Inglesi la maggior parte dei loro possedimenti sul continente. La vittoria riportata dai Francesi a Bouvines nel 1214 contro le forze dello stesso Giovanni, del conte di Fiandra e dell’imperatore, risultò un vero trionfo della monarchia, che era riuscita in quell’occasione a suscitare un concorso di forze contro i nemici esterni che costituì, in una Francia ancora tutta spezzettata feudalmente e divisa per istituzioni, costumanze e lingua, una prima espressione di sentimento nazionale. Fin dal secolo 11° aveva cominciato a profilarsi il risveglio delle città, che avevano conquistato franchigie e si erano date ordinamenti politici liberi, aiutando la monarchia nella difficile opera di limitazione dei privilegi feudali. Liberatesi dalla soggezione al signore, esse si appropriarono del diritto di giudicare, di emanare norme e imporre tributi, di avere un proprio esercito: nella Francia settentrionale sorsero i comuni con a capo i maires, nella meridionale i consolati con a capo i consoli che presero il posto dei feudatari (nei luoghi dove il trapasso dei poteri non fu completo la città riuscì a ottenere solo alcune franchigie pattuite col signore, al quale rimase soggetta: erano le città dette di borghesia o di prevosteria, dal prevosto che le governava in nome del signore). In questa situazione, forte della vittoria ottenuta e del prestigio derivatogli, Filippo Augusto poté riorganizzare l’amministrazione e la burocrazia del regno, perseguendo una politica di centralizzazione, riorganizzando la corte e il consiglio del re dove diede spazio all’elemento borghese e istituendo magistrati regi e tribunali d’appello. Fissò definitivamente la capitale del regno a Parigi, che con la sua università divenne presto uno dei maggiori centri di irradiazione di cultura in Europa. Nello stesso tempo poté intervenire nel Sud della Francia, ove la monarchia non aveva mai goduto di alcun potere. Approfittando della vittoriosa crociata contro gli Albigesi e dell’insediamento di Simone di Montfort nella contea di Tolosa, dove in particolare si era concentrata una forte presenza albigese trovandovi protezione, nel 1215, Filippo Augusto intervenne in una lotta che all’obiettivo del ripristino dell’ortodossia religiosa sommava la necessità di risolvere il problema politico della sopravvivenza, in vaste zone del Mezzogiorno, di forti sacche di autonomia dal potere regio. Filippo riuscì a far aggiudicare alla corona i possessi del conte di Tolosa e degli altri signori accusati di eresia. I successori ne continuarono la politica e consolidarono le conquiste, anche se la repentina morte di Luigi VIII (1223-26) rese necessaria una reggenza, funestata da torbidi di carattere feudale. Con Luigi IX (1206-70) la Francia raggiunse l’apice del suo prestigio morale e politico: il re “santo” venne spesso invocato dagli altri sovrani europei come arbitro delle loro contese. Luigi IX svolse un’intensa, anche se sfortunata, politica meridionale e mediterranea, perseguendo a un tempo, nella VI e nella VII crociata, l’antico ideale della conquista cristiana e le più recenti sollecitazioni a una politica di potenza provenienti dal nuovo re di Sicilia, il fratello Carlo d’Angiò. Sul piano interno, domò una rivolta della grande feudalità, mentre nei confronti dell’Inghilterra Luigi ottenne, con il trattato di Parigi del 1259, la formale rinuncia di Enrico III alle pretese sui possessi inglesi nel continente. Con il regno di Luigi IX si perfezionò l’organizzazione del potere regio. Egli creò ispettori con il compito di controllare il funzionamento amministrativo delle province e l’operato dei balivi, che a ciò erano stati preposti a suo tempo da Filippo Augusto, istituì un tribunale permanente (il Parlamento, 1250 circa), un organismo di controllo delle finanze (corte dei conti) e avviò una vera politica monetaria. Con i suoi successori Filippo III l’Ardito (1270-85) e Filippo IV il Bello (1285-1314) il programma di espansione e di egemonia della potenza francese venne perseguito con finalità esclusivamente politiche (intervento nella penisola iberica, politica italiana di Filippo di Valois, pretesa di Filippo il Bello alla corona imperiale). Un aspetto particolare di questo programma fu il contrasto che pose l’uno di fronte all’altro Filippo il Bello, con il suo stuolo di giuristi e di pubblicisti teorici della sovranità nazionale, e il papa Bonifacio VIII, ostinato assertore dell’universalismo teocratico; il conflitto si chiuse con la cattura del pontefice e con l’episodio dello “schiaffo di Anagni” (1303) e, infine, con la capitolazione del papato alla monarchia e l’elezione di un papa francese, Clemente V (1305), e il conseguente trasferimento della sede pontificia ad Avignone (1309). Nella lotta che lo vide opporsi al potere pontificio, Filippo poté valersi del concorso di tutta la nazione, forte anche del sostegno dei rappresentanti dei ceti borghesi chiamati per la prima volta a sedere negli Stati generali del 1302 a fianco della nobiltà e del clero. Filippo ampliò inoltre i possessi regi aggiungendovi la Champagne e il Lionese. Proclamato re di Navarra (1289), riuscì ad annettersi la Fiandra di lingua francese (1304). Una politica di potenza questa, che andò di pari passo con un riordino delle finanze che potesse sostenerla. In questo quadro di limitazione dei poteri concorrenti a quello regio va intesa la soppressione dell’Ordine dei Templari voluta da Filippo IV con il concorso del papa Clemente V e l’incameramento di tutti i beni dell’ordine. [31231] Prima che la Francia potesse divenire realmente un forte stato, era necessario che il duello anglo-francese avesse fine. Questo duello si riaccese alla morte di Carlo IV (1328) per l’opposizione del re d’Inghilterra Edoardo III a riconoscere l’avvento sul trono francese del ramo capetingio dei Valois; e fu la guerra dei Cent’anni, che nel suo periodo centrale si trasformò anche in guerra intestina della feudalità francese, divisa tra le due opposte fazioni degli armagnacchi (fautori, per lo più, dei re di Francia) e dei borgognoni (fautori degli Inglesi). A dispetto dei durissimi colpi subiti, la Francia seppe trovare, grazie all’azione di Giovanna d’Arco, di colei che rappresentò quella che è stata definita la “soluzione mistica” del problema nazionale, l’energia necessaria per superare il pericolo. La pace del 1453 ridusse così il dominio inglese in Francia alla sola Calais, che sarà riunita alla Francia solamente nel 1558. Rimarginate, nel corso del regno di Carlo VII (1429-61), le più gravi ferite del lungo conflitto, la monarchia francese riacquistava in pieno la sua potenza per l’abile politica del figlio e successore Luigi XI (1461-83), il quale, mentre intuì che l’avvenire della monarchia era legato a un’intesa con la borghesia, completò l’opera di indebolimento della feudalità iniziata dai suoi antecessori. Sconfitto dal potente duca di Borgogna Carlo il Temerario, Luigi XI poté portare innanzi il suo programma approfittando della lotta che oppose il duca agli Svizzeri. Anche se, dopo la battaglia di Nancy (1477), vide parte dei possessi di Carlo passare agli Asburgo quale dote di sua figlia Maria, sposa di Massimiliano I, Luigi XI tuttavia riuscì ad annettersi la Borgogna. Occupato l’Angiò, si annetteva nel 1480 anche la Provenza per l’estinzione del ramo angioino e, con il matrimonio del figlio Carlo VIII con Anna di Bretagna, preparava la riunione alla corona francese di quest’ultimo grande dominio feudale. Nel secolo 16° il rifiorire del diritto romano ispira intanto la nuova dottrina monarchico-assolutista. Gli ordinamenti del regno hanno nel frattempo seguito il mutare dei caratteri della monarchia: il progressivo consolidarsi di questa tende a contrapporre alle autonomie municipali e feudali una centralizzazione sempre più perfezionata per mezzo di ufficiali stabili alla diretta dipendenza del re. Alla curia regia, assemblea dei principi, dei vescovi, dei vassalli, dei rappresentanti delle città, convocata sempre più di rado a partire dal secolo 13°, si sostituiscono a poco a poco gruppi ristretti di curiales che assolvono le funzioni tecniche dell’amministrazione centrale. A partire dal secolo 16°, oltre agli ufficiali della corona (conestabile, cancelliere, ecc.), sono accanto al re segretari di stato, fissati in numero di quattro, che diverranno, dopo la nomina del ministro di stato (1626), subordinati di quest’ultimo. Organo fondamentale della monarchia centralizzata è il consiglio del re, che assiste il sovrano senza limitazione di competenza nel suo lavoro. Gli stati generali, derivati anch’essi dalle curie, rappresentano il complesso dei vassalli laici ed ecclesiastici, e dei deputati delle città, convocati dal sovrano per richiesta di aiuto e di consiglio. Ma con l’affermarsi dell’assolutismo monarchico, essi non saranno più convocati (dal 1614 al 1788). Anche l’ordinamento provinciale si perfeziona man mano che i territori feudali sono assorbiti dal regno: l’amministrazione regia è rappresentata, nelle singole terre, dal prevosto (prévôt), con competenze sempre più limitate e, a partire dal secolo 16°, soltanto giudiziarie. Accanto ad esso, e con funzioni ispettive, vi sono balivi (baillis) e siniscalchi (sénéchaux), col fine di tutelare gli interessi del re; mentre nelle province turbate da guerre o discordie fin dal 13° secolo furono mandati governatori. A questi funzionari si aggiunsero intendenti di giustizia, di polizia, di finanza, inviati direttamente dal re. Gli stati provinciali, organi di autogoverno, furono soppressi nel secolo 15° (saranno rimessi in vigore da Luigi XVI). Nell’amministrazione finanziaria il controllo era tenuto dapprima da una sezione della curia regia, la Camera dei denari, sostituita nel ’300 dalla Camera dei conti; nel secolo 16° sono istituiti dapprima gl’intendenti di finanza, poi un controllore generale, e in seguito un sovrintendente delle finanze (soppresso da Luigi XIV, che conferì la direzione finanziaria al controllore delle finanze). Nell’ordinamento giudiziario, coll’affermarsi del principio che ogni giustizia emana dal re, decadono le diverse giustizie signorili o municipali: i più antichi tribunali regionali regi furono quelli dei prevosti, e poi dei balivi e dei siniscalchi, sostituiti nel secolo 16° dai loro assessori. Tribunale di ultima istanza erano i parlamenti, dei quali quello di Parigi fu il più importante. [31241] Con l’avvento al trono di Carlo VIII (1483-98), la politica francese subisce una svolta: portata da Luigi XI a contatto degli Asburgo, si allontana ora da questo settore e preferisce rivolgersi alla penisola italiana, facendosi erede delle pretese dinastiche degli Orléans-Visconti. S’iniziano così le guerre d’Italia (1494-95: spedizione di Carlo VIII nel Regno di Napoli; 1499: conquista del Ducato di Milano da parte di Luigi XII; 1500: campagna di Luigi XII nel Regno di Napoli d’accordo con Ferdinando d’Aragona, e successivo conflitto franco-spagnolo; 1515: riconquista del Ducato di Milano da parte del re Ferdinando I); ma sarà proprio in questo nuovo settore italiano che la politica francese vedrà risorgere davanti a sé gli Asburgo, divenuti ora, nella persona di Carlo V, anche gli eredi della politica italiana degli Aragonesi e, comunque, accerchianti in una morsa di ferro la stessa nazione francese. Dal 1520 al 1559 il conflitto ebbe sorti alterne, ma la strapotenza, almeno iniziale, di Carlo V non riuscì mai a infliggere un colpo decisivo alla Francia e la pace di Cateau-Cambrésis, sostanzialmente, sancì la vittoria del successore di Francesco I, Enrico II (1547-59); l’accerchiamento ispano-asburgico era rotto, non essendo più il regno di Spagna unito ai possessi ereditari asburgici né alla corona imperiale, e se la penisola italiana restava chiusa alla Francia, questa tuttavia accresceva il proprio territorio nazionale con Calais, Metz, Toul e Verdun. La sostanziale vittoria francese era dipesa in parte dalle complicazioni religiose sorte in seno all’Impero di Carlo V per effetto della Riforma protestante; ma ora la Riforma, con le guerre di religione, metteva in pericolo l’esistenza dello stato francese. L’antica stabilità che l’istituto monarchico traeva dalla sua intima unione tra i principi cristiani e l’organizzazione ecclesiastica, era infatti seriamente messa in dubbio dal “rivolgimento” religioso. Gran parte della nobiltà, aderendo alla Riforma, tentava di incrinare l’autorità del monarca e di recuperare, fosse pure con l’uso della forza, una parte dei privilegi che il potere centrale aveva progressivamente annullato. I ceti subalterni, quello artigiano e mercantile delle città, mescolavano poi le loro aspirazioni sociali ad un forte afflato mistico: la rivolta di Lione (1529) era stata il segno più evidente della inquietudine crescente che covava nelle classi popolari. A sua volta la parte più reazionaria del clero rimproverava alla monarchia di non prendere a sufficienza le difese della Chiesa minacciata nei dogmi e nei beni. Essa cercava quindi di recuperare un’autorità sulla corona da molto tempo compromessa e di sostituire la sottomissione di fatto del clero al proprio principe con una teocrazia più o meno dichiarata: tale era la dottrina che andavano predicando tra il popolo gli ordini mendicanti, favoriti dalla Sorbona, e che sfociò nei disordini politici della Lega cattolica. Contemporaneamente, le persecuzioni religiose e la guerra civile spinsero il mondo protestante verso posizioni antimonarchiche e i numerosi libelli dei monarcomachi giunsero ad ipotizzare il tirannicidio. Peraltro, già prima della protesta luterana, agli inizi del secolo 16°, vi erano stati in Francia notevoli fermenti legati al movimento dell’evangelismo, che aveva avuto tra i propri esponenti J. Lefèvre d’Étaples e la stessa sorella di Francesco I, Margherita d’Angoulême, se ne era fatta protettrice. Ma la successiva penetrazione del calvinismo in Francia fece sorgere il problema della convivenza tra cattolici e riformati. I calvinisti francesi, detti ben presto ugonotti, si reclutarono soprattutto nella classe nobile (nel 1558-59 aderirono alla nuova Chiesa anche due principi del sangue, Antonio di Borbone e Luigi di Condé); tale fatto fece sì che gli ugonotti, sempre ferma restando la base ecclesiastico-religiosa del loro programma e delle loro rivendicazioni, si facessero anche i portavoce della reazione dell’alta nobiltà alle tendenze accentratrici dell’incipiente assolutismo monarchico. Analogo programma aveva anche l’altra frazione della nobiltà rimasta fedele al cattolicesimo, che era guidata dalla potente famiglia dei Guisa. Pertanto, scomparsi i sovrani Francesco I (1515-47) ed Enrico II (1547-59), che a partire dal 1533 avevano svolto con successo una politica di repressione del calvinismo e, comunque, avevano mantenuto alto il potere della corona, il problema religioso divenne lo schermo di una aspra lotta politica, preannunziatasi durante il breve regno di Francesco II (congiura di Amboise) e scoppiata apertamente durante la reggenza di Caterina de’ Medici e nel periodo d’indebolimento del potere monarchico costituito dai regni di Carlo IX (1560-74) ed Enrico III (1575-89). Fu peraltro in tale travagliato periodo che attorno alla reggente si formò un’équipe di governo con lo scopo di restaurare il prestigio della monarchia. Ne fecero parte rappresentanti del partito dei politiques, vale a dire dei teorici della preminenza del fattore politico (di qui il nome) su quello confessionale, che ebbe a suo maggior esponente J. Bodin. Ciononostante, le gravi difficoltà in cui era costretta a dibattersi, spinsero Caterina de’ Medici ad attuare una difficile politica di equilibrio, che di volta in volta la rendeva schiava ora dei Borboni ugonotti ora dei Guisa cattolici. Mentre la corona trovava la salvezza solo in atti di spietata energia (tipica la strage della notte di s. Bartolomeo del 1572), le guerre di religione si susseguirono incessantemente e la Francia stessa divenne la posta di un più ampio gioco diplomatico internazionale (larvato appoggio dei paesi riformati agli ugonotti; accordo dei Guisa con Filippo II di Spagna, e negli ultimi anni aperto intervento armato della Spagna). L’assassinio di Enrico III (1589), risposta al precedente assassinio del duca di Guisa, ponendo il problema della successione al trono per l’estinzione del ramo regnante dei Valois-Angoulême, segnò anche la risoluzione delle guerre di religione. Erede al trono era il capo degli ugonotti, Enrico di Borbone Navarra; questi capì che la maggioranza cattolica della Francia non avrebbe tollerato un re calvinista e con una pronta conversione al cattolicesimo seppe abilmente far cadere ogni ostacolo. Arrivato per ben due volte fino alle porte di Parigi ma sempre respinto, Enrico IV trovò un alleato decisivo nella stanchezza che il governo dei Sedici aveva generato nella borghesia e nel popolo di Parigi e, alla fine, fu invocato come unico re di Francia dagli Stati Generali del 1593. Il 22 marzo 1594 egli entrava trionfalmente a Parigi. Riaffermata la potenza francese all’estero nella guerra nazionale contro la Spagna (1595-98), pacificata all’interno la Francia e garantiti i diritti dei suoi ex correligionari con l’editto di Nantes (1598) e con la concessione, a titolo di garanzia, di alcune piazzeforti (le “places de sûreté”), come La Rochelle, Enrico IV (1594-1610) diede un notevole impulso alla vita economica del regno grazie all’opera intelligente del ministro Sully. Negli ultimi anni di regno riprese la tradizionale linea antiasburgica della politica francese, ma i suoi piani furono troncati dal pugnale del fanatico Fr. Ravaillac. La reggente Maria de’ Medici per il piccolo Luigi XIII (1610-43) attenuò la politica antiasburgica e cercò di allineare la Francia su posizioni di intransigente cattolicesimo controriformista, e anche la nobiltà si agitò e cercò di riprendere le posizioni di un tempo; ma la Francia non precipitò nel baratro delle guerre civili né conobbe una nuova crisi dell’autorità monarchica grazie soprattutto allo sviluppo della borghesia che, favorita già dalla politica di Enrico IV e del Sully, ora si fece paladina dell’autorità monarchica e dell’indipendenza nazionale. In ciò sta la ragione della grande potenza raggiunta dalla monarchia francese con Luigi XIII e con Luigi XIV. Liberatosi con un colpo di stato dalla reggenza materna (1617), dopo alcuni anni d’incertezza (governo del favorito duca di Luynes, contrasti e anche guerra armata con la madre), Luigi XIII ebbe il merito di comprendere il genio politico di Richelieu e, dimenticando che questi era stato l’uomo di C. Concini e di Maria de’ Medici, di chiamarlo al potere (1624). L’azione di Richelieu si svolse in una duplice direzione: all’interno, egli si adoperò per limitare il potere politico della nobiltà (un aspetto particolare di questa politica fu la lotta contro gli ugonotti, cui tolse le “piazze di sicurezza”, e contro gli stessi principi del sangue, fra cui Gastone d’Orléans, fratello del re) e trasformò l’ordinamento amministrativo della Francia in un sistema centralizzato, la cui spina dorsale non era più data dai governatori nobili, bensì dagl’intendenti di provenienza borghese, veri funzionari dello stato; all’estero, si propose l’espansione territoriale francese e l’indebolimento degli Asburgo (partecipazione, prima indiretta e dal 1635 diretta, alla guerra dei Trent’anni). Ambedue le direttive politiche del Richelieu furono proseguite dal successore Mazzarino, non appena questi ebbe partita vinta sull’estremo sussulto della classe nobiliare e di tutti coloro che erano stati danneggiati dall’assolutismo monarchico (Fronda parlamentare del 1648-49 e principesca del 1650-52). Grazie alla minorità di Luigi XIV (1643-1715) e ai vincoli affettivi che lo univano alla reggente Anna d’Austria, grazie anche al fatto che Luigi XIV, una volta proclamato maggiorenne, gli mantenne integralmente il precedente potere, il Mazzarino fu fino alla morte (1661) l’assoluto arbitro della Francia; con le paci di Vestfalia (1648) e dei Pirenei (1659) egli ottenne l’allontanamento definitivo del pericolo asburgico; con il matrimonio tra Luigi XIV e l’infanta Maria Teresa pose le premesse per le future rivendicazioni francesi sulla Spagna; all’interno, la politica antinobiliare e assolutistica del Richelieu fu proseguita sistematicamente, sebbene con minore duttilità. È opportuno ricordare, infine, che alla politica assolutistica svolta dal Richelieu e dal Mazzarino fecero da contrappunto, all’interno, numerose rivolte, sopprattutto nel mondo contadino (con la partecipazione, altresì, di elementi della nobiltà e di alcune città di provincia). Il fenomeno fu piuttosto generalizzato, oltre che di lunga durata (1624-45), e fu provocato, in particolare, dal diffuso malcontento causato dalla pressione fiscale cui lo stato, impegnato nelle guerre, ricorse per soddisfare i propri fabbisogni finanziari. Tra le più gravi rivolte furono quella dei croquants (che colpì la zona compresa tra la Garonna e la Loira nel 1636-37) e quella normanna dei va-nu-pieds (1639-40). [31251] Preso in mano il potere effettivo nel 1661, Luigi XIV portò alla sua massima espressione la politica dei grandi ministri (riduzione dell’aristocrazia a nobiltà di corte, attirata nella nuova, fastosa residenza di Versailles) e pose il proprio assolutismo anche a base della politica religiosa: combatté i protestanti (revoca dell’editto di Nantes, nel 1685) e i giansenisti, entrò in aspri contrasti col papato per alcuni privilegi dell’ambasciatore francese a Roma e per i quattro articoli della dichiarazione gallicana del 1682. Sebbene il re, in teoria, governasse da solo, Luigi XIV, almeno nella prima parte del suo regno, ascoltò e attuò i consigli di ministri assai esperti: si deve al Vauban il pregevole sistema difensivo delle grandi fortezze, a M. Le Tellier e a suo figlio François-Michel marchese di Louvois la riorganizzazione dell’esercito francese. Ma nulla eguaglia per importanza la politica economica e finanziaria di J.-B. Colbert, il quale, dopo aver risanato le finanze compromesse dal disordine precedente, iniziò una nuova politica economica di tipo mercantilista, che, se a lungo andare si rivelò dannosa per aver reso più aspri e meno sanabili i contrasti internazionali, fu tuttavia uno strumento mirabile per realizzare il programma di Luigi XIV, assolutista all’interno e imperialista all’estero. Il regno di Luigi XIV fu, infatti, una serie quasi ininterrotta di campagne militari volte a guadagnare le frontiere naturali e a piegare ancora una volta gli Asburgo. Le guerre furono quanto mai fortunate all’inizio: la guerra di devoluzione, con la pace di Aquisgrana del 1668, diede a Luigi XIV numerose città fiamminghe; la guerra di Olanda, con il successivo trattato di Nimega del 1678, attribuì alla Francia altre città fiamminghe e la Franca Contea; la politica delle “Camere di riunione” portò all’annessione di Strasburgo e Casale. Non diedero invece apprezzabili vantaggi né la guerra della Grande Alleanza del 1688-97, né la guerra di successione spagnola del 1702-14. A parte l’innegabile successo in Spagna (insediamento di Filippo V d’Angiò, su quel trono), la lunga guerra risultò dannosa alla Francia, che ne uscì con le frontiere non compromesse, ma con le finanze esauste e le energie infrante. La reggenza del duca di Orléans, troppo personalisticamente interessata, per il piccolo Luigi XV (1715-74), poi il noncurante sistema di governo dello stesso re aggravarono la situazione lasciata in eredità dal Re Sole. Sul piano internazionale la Francia modificò radicalmente la propria politica e, per dare scacco al dinamico programma dell’Alberoni, non esitò a prender le armi contro Filippo V di Spagna, alleandosi con l’Inghilterra e l’Olanda; all’interno, furono anni di ripresa degli ordini privilegiati (favori alla nobiltà, frequenti contrasti tra il governo e i parlamenti) e di spericolata politica finanziaria (esperimenti di J. Law). Ma non è ancora il caso di parlare di esaurimento dell’assolutismo monarchico: d’accordo con le altre corti borboniche, i gesuiti furono espulsi e se ne provocò la soppressione; nel 1771 il cancelliere Ch.-A. de Maupeou riuscì a sopprimere i parlamenti, roccaforte ormai del privilegio aristocratico, e in politica internazionale la corona, che nella guerra di successione polacca e in quella di successione austriaca non aveva conseguito sensibili vantaggi, ebbe la forza di operare, nell’imminenza della guerra dei Sette anni (1756-1763), quel “rovesciamento delle alleanze” che fu fondamentale nella storia dell’Europa settecentesca. Battuta dall’Inghilterra durante quest’ultima guerra, la Francia riuscì a compensare la perdita di buona parte del proprio impero coloniale (Canada) con un rafforzamento della propria posizione europea e mediterranea (“patto di famiglia” tra le corti borboniche di Francia, Spagna, Parma e Napoli; acquisto della Corsica, venduta dalla repubblica di Genova, nel 1768) e, alla fine, approfittando della rivolta delle tredici colonie inglesi dell’America Settentrionale, col suo intervento, prima di volontari (La Fayette, ecc.) poi di forze regolari, riuscì a prendersi la rivincita sulla nemica Inghilterra (pace di Versailles del 1783). La guerra americana tuttavia aggravò il difficile problema del bilancio dello stato francese, e ciò in un momento assai delicato. L’opinione pubblica, ancora indignata per gli sperperi dell’ultima parte del regno di Luigi XV e tutta imbevuta ormai della polemica “costituzionale”, sostenuta dagli uomini dell’Illuminismo e dell’Enciclopedia, reclamava a gran voce una riforma radicale dell’assetto amministrativo e politico del paese. Il nuovo sovrano Luigi XVI (1774-92) non escludeva la possibilità di alcune riforme; ma col suo carattere debole e indeciso non seppe contrastare la riscossa degli uomini di corte e degli ordini privilegiati, che contraddistinse i suoi primi anni di regno. Egli stesso, d’altra parte, rimaneva legato alla convinzione che l’aristocrazia fosse il vero sostegno del trono. Ristabiliti i parlamenti, prima appoggiata e poi rinnegata la politica di R.-J. Turgot (1774-76), che aveva abolito le corporazioni, Luigi XVI finì con lo scontentare tutte le classi. Il debito pubblico, insostenibile, apriva la porta alla Rivoluzione, che si prospettava, ai suoi primi inizi, come reazione dei privilegiati all’assolutismo monarchico e come rivoluzione nobiliare (1787-89: duplice assemblea dei notabili; richiesta di convocazione degli Stati Generali). [31261] L’apertura degli Stati Generali (5 maggio 1789) segnò l’inizio della fase propriamente borghese della Rivoluzione: convocati entro il vecchio sistema monarchico-feudale allo scopo di fornire al sovrano i mezzi per colmare il deficit di bilancio, per volontà del terzo stato, cioè della borghesia, essi si trasformarono in Assemblea nazionale costituente (9 luglio) e si arrogarono il potere di dotare la Francia di una costituzione e di risanarne le piaghe. Dall’Assemblea la spinta rivoluzionaria passò al paese; si ebbero così, accanto alla rivoluzione borghese, una rivoluzione popolare, il cui momento più saliente fu l’assalto alla Bastiglia e la sua distruzione (14 luglio), e una rivoluzione contadina (assalti ai castelli, fenomeno della “grande paura”, ecc.). La confluenza di queste tre forze provocò i due atti più solenni di questo inizio rivoluzionario: il voto della notte del 4 agosto 1789, col quale l’Assemblea costituente abolì tutti i privilegi di natura feudale, e quello (20-26 agosto) della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, vero atto di morte dell’ancien régime. L’opposizione della corte e l’atteggiamento oscillante del re Luigi XVI da una parte, l’organizzazione dell’opinione pubblica in clubs dall’altra, diedero nuova esca al torrente rivoluzionario: il 5-6 ottobre turbe di popolo parigino, rovesciatesi a Versailles, costrinsero la famiglia reale e l’Assemblea stessa a trasferirsi a Parigi, ove, sotto la diretta e continua pressione della piazza, la situazione precipitò (fuga di parte cospicua della nobiltà all’estero; “complotto con lo straniero” degli emigrati; costituzione civile del clero; tentata fuga da Varennes del re Luigi XVI nel giugno 1791; sorgere delle prime correnti repubblicane). La monarchia, tuttavia, si salvò grazie alla volontà dell’alta borghesia, i cui deputati, timorosi della carica eversiva popolare, nel settembre 1791 fecero giungere in porto una costituzione basata sul sistema censitario e sulla monarchia costituzionale; il 1° ottobre 1791, sciolta l’Assemblea costituente, fu eletta l’Assemblea legislativa, prevista appunto dalla costituzione. La fase successiva, che vide il prevalere deciso delle forze propriamente rivoluzionarie e il tracollo della monarchia, fu strettamente connessa alla minaccia straniera (alleanza austro-prussiana in funzione antifrancese; dichiarazione di guerra del 20 aprile 1792 imposta dal partito girondino a Luigi XVI). Dopo i primi rovesci (penetrando in territorio francese, i Prussiani occupavano Longwy e Verdun, gli Austriaci Thionville), divenuta la monarchia ancora più sospetta, ne derivò, dopo le manifestazioni del 20 giugno 1792, la giornata del 10 agosto, in buona parte opera di Danton, con l’arresto del re e della sua famiglia e la proclamazione fatta dall’Assemblea della decadenza della monarchia. Seguirono, in settembre, le stragi di centinaia di “sospetti” e la proclamazione (21 settembre) della repubblica da parte della nuova assemblea, la Convenzione, eletta a suffragio universale in sostituzione della Legislativa, e riunitasi lo stesso giorno della vittoria di Valmy (20 settembre). Si apriva così un nuovo periodo, caratterizzato dalla definitiva liquidazione del passato (condanna a morte ed esecuzione di Luigi XVI nel gennaio 1793, di Maria Antonietta nell’ottobre) e dall’aggravarsi del pericolo esterno. L’occupazione francese del Belgio seguita alla grande vittoria di Jemappes (6 novembre 1792) e poi l’esecuzione del re avevano indotto l’Inghilterra, la Spagna e alcune minori potenze europee alla guerra; la prima coalizione antifrancese (1° febbraio) otteneva decisivi successi già nel marzo, rioccupando per la vittoria di Neerewinden il Belgio e penetrando in Francia da oriente, mentre truppe spagnole oltrepassavano il confine meridionale. All’incubo dell’occupazione militare straniera si aggiungeva inoltre il precipitare della situazione finanziaria interna per le eccessive emissioni di assegnati, il duello mortale tra i girondini e i giacobini (ricchi borghesi e federalisti i primi, democratici e centralisti i secondi) e la rivolta antirivoluzionaria scoppiata in vari luoghi (Vandea soprattutto, e Bretagna). Sgominato il partito della Gironda nella giornata del 2 giugno 1793, il potere si accentrò nelle mani del vero capo del partito giacobino, M. Robespierre. Fu il periodo del Terrore, dominato dal Comitato di salute pubblica e contraddistinto da uno sforzo continuo e fortunato contro la pressione militare straniera (finché la battaglia di Fleurus, 26 giugno 1794, aprì nuovamente il Belgio agli eserciti repubblicani), da un esperimento di economia regolata (legge del Maximum), dall’ascesa politica delle classi meno abbienti (artigiani soprattutto). Ma la lotta intrapresa da Robespierre con le ali estreme del suo stesso partito (la destra dantonista e la sinistra hebertista), insieme con gli eccessi della sua dittatura, provocarono il crollo della politica giacobina e la giornata del 9 termidoro (27 luglio 1794). Con la caduta di Robespierre e la reazione termidoriana cessò la fase radicale della Rivoluzione; la parte più ricca della borghesia riprese il sopravvento e, varata la costituzione dell’ottobre 1795, ebbe inizio il periodo del Direttorio, oscillante senza posa tra una possibile restaurazione monarchica (colpo di stato del 22 fiorile VI, cioè 11 maggio 1798) e una ripresa neogiacobina (cospirazione di Babeuf; colpo di stato del 18 fruttidoro). Si giunse allora, grazie anche alle incessanti guerre che provocarono la trasformazione del soldato-cittadino del 1793 in soldato professionale, all’instaurazione della dittatura militare di Napoleone. [31271] Napoleone Bonaparte, dopo lo scoppio della Rivoluzione tentò la fortuna politica e militare in Corsica (1791-93), prima di lanciarsi in una folgorante carriera militare e politica. Comandante subalterno nel blocco di Tolone (ottobre 1793), si acquistò il grado di generale e quindi il comando dell’artiglieria dell’esercito d’Italia. Fu proprio dal successo delle imprese militari dell’esercito francese (conquiste del Belgio e dell’Olanda, seguite dallo sfaldamento della coalizione: la Prussia il 6 aprile 1795, la Spagna il 22 luglio firmavano a Basilea la pace, cui anche l’Olanda accedeva per il trattato dell’Aia, il 22 maggio; quindi campagna del 1796-97 del Bonaparte in Italia e conseguente trasformazione dell’assetto italiano) che emerse il tentativo del potere militare di sostituirsi al potere civile. Ciò avvenne soprattutto allorché le sorti della guerra ritornarono ad essere rovinose per la Francia (mentre il Bonaparte si era impegnato nell’ardua impresa egiziana, la II coalizione aveva riconquistato quasi tutta l’Italia e distrutto le repubbliche vassalle che tra il 1798 e il 1799 vi erano sorte), e le incertezze politiche del Direttorio, corroso all’interno da contrasti e ondeggiante fra una politica filomonarchica e una ripresa di azione montagnarda, ebbero scontentato un po’ tutti. Abbandonando l’impresa di Egitto, sbarcato a Fréjus il 9 ottobre 1799, il Bonaparte attuò il colpo di stato del 18-19 brumaio (9-10 novembre 1799) che pose fine al Direttorio e iniziò quel governo personale che solo lentamente si andò precisando sotto il profilo costituzionale (1799: primo console; 1801: primo console a vita; 1804: imperatore dei Francesi). Per prima cosa Napoleone riorganizzò il paese attraverso le varie costituzioni a carattere sempre più autoritario, il Concordato del 1801 che poneva fine alla crisi religiosa, controbilanciato però dagli articoli organici dell’anno successivo, nonché con l’intensa opera legislativa e l’emanazione di Codici, che resero per sempre impossibile il ritorno all’ancien régime; lo sviluppo dell’economia francese e, con la creazione della Banca di Francia, il 18 gennaio 1800, la regolamentazione del credito nazionale. Infine, dopo una nuova fortunata campagna in Italia (vittoria di Marengo), Napoleone realizzò la pace (ritiro della Russia dalla coalizione; pace di Lunéville del 1801 con l’Austria; pace di Amiens del 1802 con l’Inghilterra), conservando le conquiste rivoluzionarie del Belgio e dell’Italia (Repubblica Cisalpina, dal 1805 Regno d’Italia). L’avvento dell’Impero coincise, però, col ritorno alla politica militare. Fino al 1814 la storia di Francia sarà un susseguirsi ininterrotto di guerre, che di vittoria in vittoria portarono le truppe napoleoniche da un estremo all’altro dell’Europa. L’acme della potenza napoleonica si ebbe nel 1809, allorché l’Austria, battuta a Wagram, firmò la pace di Vienna e concesse la mano dell’arciduchessa Maria Luisa a Napoleone che per le nuove nozze aveva ripudiato l’imperatrice Giuseppina. Ma la reazione nazionale della Spagna, il sostanziale fallimento del grande blocco marittimo, decretato il 21 novembre da Berlino per isolare l’Inghilterra, le scissioni nella stessa famiglia Bonaparte (reazione di Gerolamo, re di Vestfalia, all’eccessiva invadenza del fratello, ambigua politica del Murat, dal 1808 re di Napoli), e, soprattutto, il continuo tributo di sangue e di ricchezza, cominciarono a minare la potenza napoleonica; la disastrosa campagna di Russia (1812) e le reazioni nazionali dei popoli oppressi fecero il resto: persa la partita militare nella grande battaglia di Lipsia (16-18 ottobre 1813), dopo un’estenuante campagna di Francia, mirabile per perizia strategica ma impotente a capovolgere il rapporto delle forze in campo, Napoleone il 6 aprile 1814 fu costretto a sottoscrivere a Fontainebleau la propria abdicazione, per ritirarsi all’isola d’Elba. [31281] Per volontà soprattutto dello zar Alessandro e per l’attività del partito realista, che negli ultimi mesi aveva operato intensamente, anche se nella clandestinità, furono restaurati i Borboni nella persona di Luigi XVIII (1814-24). Il periodo della Restaurazione, interrotto all’inizio dalla breve parentesi del ritorno di Napoleone dall’Elba e dei Cento giorni, ebbe due momenti ben diversi: nel primo, durato fino al 1824, l’avveduto senso politico di Luigi XVIII impedì che la restaurazione monarchica e il ritorno dei nobili emigrati assumessero un carattere di totale e assoluta negazione dei frutti del periodo rivoluzionario e napoleonico (concessione della Carta; scioglimento della “Camera introvabile” nel 1816). Il secondo invece s’identificò nella volontà reazionaria di Carlo X (1824-30), che fece suo il programma degli ultras, suscitando notevoli opposizioni nel paese. Ciò ebbe l’effetto di provocare la rivoluzione del popolo di Parigi (24-28 luglio 1830) e l’avvento di una nuova monarchia, anch’essa censitaria ma più rispettosa della legalità costituzionale, quella di Luigi Filippo d’Orléans (1830-48). La monarchia orleanista fu il trionfo della borghesia finanziaria e commerciale, che la Restaurazione aveva sacrificato per favorire soprattutto i grandi proprietari terrieri. Pur consolidando la conquista dell’Algeria, che Carlo X aveva iniziato poco prima di cadere, e pur intervenendo ad Ancona nel 1832 per motivi di equilibrio internazionale, la monarchia di luglio fu essenzialmente pacifica (fino al 1839 legata alla politica inglese; rottasi l’Intesa cordiale per la questione d’Oriente e per i matrimoni spagnoli, condivise con l’Austria del Metternich la preoccupazione del mantenimento dello statu quo). Senonché la ristretta base censitaria del suo regime politico creò una pericolosa scissione tra paese legale e paese reale, mentre lo sviluppo industriale della Francia favoriva il sorgere di un forte proletariato e il diffondersi di dottrine democratiche e socialiste. Il divieto del governo di tenere, il 21 febbraio 1848, il grande banchetto che l’opposizione costituzionale aveva progettato per premere in favore di una riforma elettorale, fu la scintilla per lo scoppio rivoluzionario: il 24 febbraio era proclamata la repubblica e costituito un governo provvisorio. La Seconda Repubblica, opera del partito repubblicano e degli operai di Parigi, nacque con un volto decisamente democratico-socialista (“diritto al lavoro” di L. Blanc, Commissione del lavoro del Lussemburgo, suffragio universale maschile); ma il popolo delle campagne rimase estraneo alla Repubblica e l’Assemblea costituente risultò composta in prevalenza da moderati e democratici: l’insurrezione operaia del giugno 1848 fu repressa nel sangue dal generale L.-E. Cavaignac e la Seconda Repubblica iniziò rapidamente quel processo di distacco dalla democrazia che l’avrebbe portata dalla presidenza del principe Luigi Napoleone (10 dicembre 1848), allo stretto connubio di questo coi cattolici a spese della Repubblica Romana del 1849, al colpo di stato del 2 dicembre 1851, e infine alla proclamazione del Secondo Impero (1852). Fino al 1859 il Secondo Impero fu rigorosamente autoritario (spezzato il nerbo dell’incipiente organizzazione operaia, cercò di risolvere i problemi sociali con un atteggiamento paternalistico), e in politica estera si unì all’Inghilterra contro la Russia nella guerra d’Oriente; ma, rotto o quanto meno indebolito l’accordo coi cattolici, restii ad accettare la politica che l’imperatore andava svolgendo in Italia con Cavour (accordo di Plombières; seconda guerra d’indipendenza), l’Impero acquistò, non senza momentanei sussulti autoritari, una fisionomia liberale e parlamentare. Ma in questo secondo periodo la politica estera di Napoleone III andò incontro a netti insuccessi: l’impresa del Messico si chiuse con un disastro e con la fucilazione di Massimiliano d’Asburgo (1867); l’impossibilità di permettere al Regno d’Italia la distruzione del potere temporale dei papi legò Napoleone III alla funzione di tutore dello stato romano; l’abile gioco diplomatico di Bismarck impedì alla Francia di arrestare in tempo utile l’ascesa della Prussia, come in occasione della guerra austro-prussiana per i Ducati danesi. Nel 1870 Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia; ma a Sedan (2 settembre 1870) l’esercito francese fu pesantemente sconfitto e lo stesso Napoleone III catturato. Due giorni dopo, a Parigi, erano proclamate la Terza Repubblica e la costituzione di un governo provvisorio di difesa nazionale. [31291] La guerra con la Prussia ebbe fine con gli accordi del 26 febbraio - 1° marzo 1871 (tramutati poi nella pace definitiva di Francoforte del 10 maggio 1871): essi giunsero dopo mesi di resistenza dell’assediata Parigi e di guerra popolare contro l’invasione, guidata da L. Gambetta, ma non prima che il Bismarck avesse realizzato il suo intento d’indurre i principi tedeschi a costituire sotto Guglielmo di Hohenzollern l’Impero germanico (la cui proclamazione avvenne a Versailles il 18 gennaio 1871). Le gravi condizioni di pace (cessione dell’Alsazia e della Lorena, indennità di 5 miliardi) spinsero Parigi contro il governo, uscito dalle elezioni dell’8 febbraio 1871, e contro il capo provvisorio dello stato A. Thiers che aveva sottoscritto quei patti: ma la reazione nazionale si accompagnava alla rivoluzione sociale, e un moto operaio e piccolo-borghese il 18 marzo 1871 s’impadronì di Parigi e tenne, con il nome di Comune, il potere fino al 28 maggio 1871, allorché la rivoluzione fu repressa in maniera sanguinosa e spietata dal governo del Thiers che risiedeva a Versailles. La sconfitta della Comune dava alla Terza Repubblica un carattere inequivocabilmente conservatore; lo stato trovava una definizione costituzionale solo nel 1875 con appena un voto di maggioranza e si sarebbe dovuto attendere il 1879 per vederlo consolidato, dopo il fallito colpo di stato legale di M.-E.-P. MacMahon. Pur tenendo sempre presenti l’Alsazia e la Lorena perdute, la politica francese di questo periodo seppe rinunciare al miraggio di una “rivincita” immediata; consolidò invece la posizione internazionale del paese con un’abile e fortunata politica coloniale (protettorato sulla Tunisia nel 1881, occupazione dell’Indocina e di Gibuti nel 1881-1885) e di questa riaffermata posizione raccolse presto i frutti in sede europea, spezzando l’isolamento nel quale Bismarck l’aveva posta, e annodando la Duplice Alleanza con la Russia (intesa generica nel 1891, alleanza formale nel 1893). La politica coloniale francese, sempre più intensa in Africa (Madagascar, ecc.), costituiva un’incognita pericolosa per l’ostilità inglese che suscitava, e l’incidente di Fàshüda del 1898 fu sul punto di far scoppiare una guerra tra la Francia e la Gran Bretagna; tuttavia fin dal 1899 si assisté a una distensione nei rapporti franco-britannici e nel 1904 si giunse all’Intesa cordiale, mentre il trattato commerciale del 1898 e gli accordi mediterranei del 1900 e 1902 sancirono un miglioramento dei rapporti italo-francesi. Più stentata fu invece la ripresa della vita politica interna francese. Legittimisti, monarchici costituzionali e bonapartisti minarono la Terza Repubblica nei suoi primi anni di vita; fu necessario superare le gravi crisi del boulangismo (1887-89), dello scandalo della Compagnia per il taglio dell’istmo di Panama (1892) e, soprattutto, la crisi provocata dall’ingiusta condanna del capitano Dreyfus, prima che la Terza Repubblica potesse superare il pericolo di un’involuzione clericale e dittatoriale, e porre le premesse di uno sviluppo democratico borghese. Solo attraverso una lunga campagna in favore di Dreyfus, che per l’ostinazione dei circoli clericali provocò di rimbalzo un periodo di acceso anticlericalismo, la politica francese incominciò a svolgersi entro il normale binario parlamentare. Le stesse forze operaie, riemerse dal lungo esilio cui le aveva condannate il fallimento della Comune, preferirono alla tradizione montagnarda-blanquista dell’insurrezione armata quella marxista di un partito socialista legale (scisso però tra il richiamo operaistico di J. Guesde e quello democratico-socialista di J. Jaurès; più tardi si aggiungerà il sindacalismo di G. Sorel). Intanto, i ripetuti tentativi tedeschi di paralizzare l’azione francese in Marocco (sbarco di Gugliemo II a Tangeri, 1905; colpo di Agadir, 1911) aggravarono i rapporti franco-tedeschi, nonostante le apparenti provvisorie sistemazioni (conferenza di Algeciras del 1906; accordo franco-tedesco dell’autunno 1911, che lasciava alla Francia il Marocco, in cambio della cessione d’una parte del Congo francese alla Germania). Il dissidio creato dalla questione dell’Alsazia-Lorena era incolmabile, e ciò spiega come, nel 1914, una volta sopravvenuta la guerra, la Francia nulla abbia fatto per diminuirne la portata. Dalla prima guerra mondiale (1914-18), che vide l’invasione tedesca di una parte del territorio nazionale, la Francia uscì con la sua salda struttura economica indenne, e in condizioni di poter esercitare un’effettiva egemonia sul continente europeo. Ma il trionfo dell’isolazionismo negli Stati Uniti e il rifiuto inglese di garantire le frontiere per impedire qualsiasi ritorno offensivo della Germania, spinsero la Francia a realizzare tutto un sistema di alleanze e di amicizie coi giovani stati (Polonia, Romania, Cecoslovacchia, Iugoslavia) e a calcare la mano sulle riparazioni da far pagare alla Germania. Un atteggiamento diverso e più conciliante fu assunto da A. Briand, che insieme a G. Stresemann (1925-1929) si fece interprete dei principi animatori della Società delle Nazioni. Il primo dopoguerra vide modificarsi profondamente la situazione interna della Francia: la reazione di un partito comunista francese acuì la lotta delle classi, il trionfo del cartello delle sinistre nel 1924 suscitò paure e, per converso, rafforzò in alcuni settori la posizione dell’estrema destra e dei nazionalisti; a partire dal 1930 si assisté anche a qualche infiltrazione fascista, divenuta ancora più forte dopo la vittoria nel maggio 1936 del Fronte popolare, che ebbe come effetto la radicalizzazione dello scontro politico interno (il gabinetto L. Blum si dimise nel giugno 1937), rendendo incerta e debole la politica estera della Francia alla vigilia del conflitto. [312101] L’inizio del conflitto colse la Francia in un momento di difficile tensione interna per la politica deflazionista del nuovo governo Daladier e per il contrasto tra quanti sostenevano la maniera forte contro l’espansione hitleriana e quanti non intendevano “morire per Danzica”. Dichiarata la guerra dal gabinetto Daladier alla Germania il 3 settembre 1939, le operazioni militari si trascinarono senza sviluppo fino al maggio 1940 (periodo della cosiddetta “drôle de guerre”). Caduto il governo Daladier, il 20 marzo 1940 si costituiva un gabinetto P. Reynaud con un solo voto di maggioranza. Iniziatasi la grande offensiva tedesca, perduta la battaglia per il Belgio e profilandosi già quella per la Francia (rottura del fronte tra Namur e Sedan il 15 maggio 1940), Reynaud, che il 28 marzo aveva concluso un accordo con la Gran Bretagna che vietava la conclusione di un armistizio o di una pace separata, corse ai ripari, rafforzando la propria compagine governativa con l’inclusione di uomini di grande prestigio come Ph. Pétain. Il 5 giugno ebbe inizio la battaglia vera e propria, che in maniera drammatica sgretolò ogni possibile resistenza dell’esercito francese: la volontà di resa di Weygand e di Pétain in seno al governo e, fuori di esso, le mene di P. Laval ebbero ben presto ragione della resistenza di Reynaud e di alcuni altri ministri (14-16 luglio 1940): costretto Reynaud alle dimissioni, sostituito subito da Pétain, sotto la mediazione dell’ambasciatore spagnolo furono intavolate le trattative di armistizio con la Germania (dal 22 anche con l’Italia) e già il 17 un radiomessaggio di Pétain al paese (“occorre cessare la lotta”) scoraggiò gli ultimi resti dell’esercito. La Francia fu così divisa in una zona amministrata e governata direttamente dagli occupanti (l’Alsazia e la Lorena unilateralmente inglobate nel Reich, i dipartimenti del Nord e del Nord Est riattaccati amministrativamente alla Kommandantur di Bruxelles) e una zona cosiddetta libera sotto Pétain, che aveva posto a Vichy la sede del governo collaborazionista. Nella Francia “libera” non vigeva più un regime repubblicano; la somma del potere costituente, legislativo ed esecutivo era stata affidata dall’Assemblea Nazionale del 10 luglio 1940 al maresciallo Pétain, impegnato a dare un nuovo assetto costituzionale allo stato francese (che, nei propositi del maresciallo, avrebbe dovuto realizzare i postulati di una “rivoluzione nazionale” cattolico-corporativa, socialmente conservatrice). La Resistenza francese si manifestò fin dal 18 giugno 1940, all’estero, con il radiomessaggio lanciato da Londra dal generale Ch. de Gaulle, mentre nel territorio metropolitano fu sulle prime solo rifiuto a collaborare con i Tedeschi; con la primavera del 1941 essa assunse consistenza organizzativa e significato politico. Lo sbarco alleato del novembre 1942 nell’Africa settentrionale ebbe come effetto di eliminare la Francia di Vichy: le truppe tedesche passavano l’11 novembre 1942 la linea di demarcazione e occupavano effettivamente tutta la Francia (il governo di Vichy continuò ad esistere solo nominalmente). Di converso, la resistenza esterna e quella interna divennero un unico movimento, con l’attuarsi di uno stretto collegamento tra il Comitato francese di Liberazione Nazionale, creato il 3 giugno 1943 ad Algeri sotto la guida di de Gaulle, e il Consiglio nazionale della Resistenza, sorto nel territorio metropolitano il 27 marzo 1943 e presieduto da J. Moulin e poi da G. Bidault. Il 2 giugno 1944 l’accordo tra questi due organismi della Resistenza creò ad Algeri il governo provvisorio della Repubblica, destinato a governare nel periodo di vacanza costituzionale immediatamente successivo alla liberazione. Iniziatasi questa con lo sbarco alleato in Normandia (6 giugno 1944), coadiuvata fortemente dai maquis della Resistenza e dall’insurrezione di Parigi (19-25 agosto 1944), il ritorno di Parigi alla libertà (25 agosto, arrivo di de Gaulle, che il 5 settembre formava il primo governo provvisorio metropolitano) significò la messa a fuoco dei problemi della ricostruzione, accanto alla prosecuzione della guerra contro la Germania, durata fino al 7 maggio 1945. Ripristinata subito la legalità repubblicana, il problema costituzionale fu affrontato da una prima Assemblea costituente (21 ottobre 1945 - 5 maggio 1946) e, respinta da un referendum popolare la costituzione da questa elaborata, da una seconda Assemblea costituente (2 giugno - 13 ottobre 1946), la quale diede vita alla Quarta Repubblica. Nel frattempo de Gaulle il 20 gennaio 1946 aveva lasciato la presidenza del governo per attriti con altri membri che gli rimproveravano tendenze autoritarie; gli successe il governo Gouin, basato sulla collaborazione dei partiti della Resistenza (socialisti, comunisti e democristiani del Mouvement republicain populaire), mentre durante la seconda costituente il potere era affidato al governo Bidault, composto come il precedente ma più ostile al dirigismo economico e più orientato in senso nazionalista. Il governo Bidault profilò l’inserimento della Francia nel blocco occidentale ma non riuscì a realizzare un accordo con il Vietnam (conferenza di Fontainebleau, settembre 1946). Approvata la costituzione, con il governo di transizione di L. Blum, venne eletto alla presidenza V. Auriol. Durante il governo Ramadier (gennaio-novembre 1947) venne firmata la pace con l’Italia e si favorì una soluzione federalista per la Germania; all’interno, si promosse il contenimento dell’inflazione. Nel maggio 1947 con la dichiarazione di decadenza dei ministri comunisti entrò in crisi l’alleanza governativa antifascista, mentre de Gaulle dava vita al partito di destra Rassemblement du peuple français. I governi successivi (in particolare Schumann, novembre 1947 - luglio 1948; Queille, settembre 1948 - ottobre 1949) si orientarono verso un liberalismo conservatore, ma i problemi maggiori sembravano profilarsi dall’esterno: se l’adesione alla NATO costituì l’approdo di un lungo dibattito interno, a tormentare la politica francese vennero i problemi dell’Indocina, sui quali si infransero i brevi governi del 1949-54, mentre il disimpegno socialista caratterizzava la politica governativa in senso sempre più conservatore. Dopo l’elezione di R. Coty alla presidenza della repubblica (dicembre 1954), a dirimere la questione dell’Indocina intervenne il governo Mendès-France (giugno 1954-gennaio 1955) che, preso atto della sconfitta, ritirò le truppe francesi. I problemi si spostavano ora nell’Africa settentrionale francese, dove alle richieste di autonomia e alla lotta dell’Esercito di liberazione del Maghreb, sostenuta dal Cairo, il governo Faure (gennaio 1955-gennaio 1956) oppose una resistenza a forti tinte coloniali. Né lo spostamento a sinistra determinato dalle elezioni del gennaio 1956 mutò radicalmente gli indirizzi del governo; se nel marzo 1956 il governo Mollet (gennaio 1956-maggio 1957) riconobbe l’indipendenza di Marocco e Tunisia, l’intervento armato franco-britannico in Egitto per rappresaglia a seguito della nazionalizzazione del canale di Suez, si rivelò un fallimento militare e politico. Avvenimento di rilievo durante il governo di Mollet fu l’adesione della Francia alla Comunità Europea (25 marzo 1957). Gli effimeri governi che seguirono non stabilirono una politica chiara, finché, nel 1958, in Algeri un Comitato di salute pubblica guidato dal gen. dei paracadutisti J. Massu si mise alla testa della popolazione francese reclamando un più incisivo intervento. In una situazione interna di gravissima tensione, il presidente Coty (1° giugno 1958) affidò il potere a de Gaulle; la camera votò pieni poteri per sei mesi con un mandato per la revisione della costituzione e per la soluzione del problema algerino. Il 28 settembre 1958 un referendum diede vita a una libera comunità della Francia con i territori d’Oltremare. [312111] Approvata il 28 settembre 1958 dall’80% degli elettori, la nuova costituzione diede alla nazione un presidente eletto da rappresentanti locali, il quale nominava il suo primo ministro (sarebbero stati: M. Debré 1958-62, G.-J.-R. Pompidou 1962-68, M. Couve de Murville 1968-69) e, di fatto, i ministri, e poteva disporre del referendum, di fronte a un parlamento pur indebolito e facile da sciogliere ma che conservava la facoltà di rovesciare il governo. All’Algeria, dopo esitazioni e violenze (uso della tortura, fallito colpo di stato militare a Algeri nel 1961, terrorismo indipendentista e anti-indipendentista), venne accordata l’indipendenza, ciò che determinò l’esodo nella madrepatria di un milione di “rimpatriati” (1962). De Gaulle, contestato ormai da una parte della sua stessa maggioranza (destra tradizionale e MRP), propose con un referendum l’elezione del presidente a suffragio universale e sciolse l’assemblea che aveva rovesciato il governo Pompidou. Ottenne il 62% di sì e, grazie alla legge elettorale maggioritaria, una maggioranza parlamentare di gollisti fedeli e di moderati raccolti intorno a V. Giscard d’Estaing: gli altri moderati non avevano più peso, e l’opposizione era divisa in MRP, radicali, SFIO e PCF. Con una politica di rigore di bilancio, il governo beneficiò dello slancio del periodo precedente, e si ebbe un netto miglioramento del tenore di vita. Fu una lunga fase di sviluppo iniziata nel dopoguerra che fece passare la Francia nella civiltà del benessere e del consumo: si costruiva “una scuola al giorno” per i numerosi bambini del boom demografico del dopoguerra e si avviò una riorganizzazione della mappa economica nazionale col decentramento industriale, anche se l’alleanza capitale-lavoro, grande idea gollista, rimase una velleità. La diplomazia fu segnata dalla grandeur, mentre la bomba atomica nazionale (1960) compensava la perdita delle colonie; l’ancoraggio alla politica atlantica fu temperato dal riconoscimento della Repubblica Popolare di Cina (1964), dalla condanna della guerra americana in Vietnam (1966) e dal distacco francese dal comando integrato della NATO (1967). Nell’opposizione, il PCF uscì lentamente dal suo isolamento, mentre diversi gruppi tentarono di rigenerare la SFIO, compromessa nella guerra d’Algeria. Nel 1965, de Gaulle venne rieletto, ma soltanto dopo un ballottaggio con F.-M. Mitterrand, candidato delle sinistre. Nel maggio 1968 si intrecciarono la crisi giovanile, difficoltà economiche ed esitazioni politiche. Dieci milioni di scioperanti, che peraltro ottennero importanti vantaggi, seguirono la rivolta studentesca: il governo ne fu travolto fin quando de Gaulle offrì al paese, ora stanco del disordine, le elezioni anticipate, in cui i gollisti, aiutati dal clima di tensione, ebbero il 38% dei voti e, per effetto del sistema elettorale, la maggioranza dei seggi. Nonostante ciò, de Gaulle puntò alle riforme; tentò di fare approvare, tramite referendum (aprile 1969), una modifica costituzionale che prevedeva fra l’altro un decentramento dell’amministrazione a livello regionale e una riduzione dei poteri del Senato, ma, sconfitto anche in seguito alla defezione dei suoi alleati moderati, diede le dimissioni. La reazione al maggio 1968 aveva così soffocato dapprima il radicalismo della contestazione poi il riformismo gollista, anche se, a più lungo termine, il movimento doveva penetrare in profondità nella società (rifiuto dell’autoritarismo, femminismo, ambientalismo). Pompidou, capo naturale della maggioranza parlamentare, vinse le presidenziali (1969), in cui la SFIO fu ridotta ai minimi termini (5% dei voti). Conservatore, ma convinto della necessità di modernizzare e industrializzare la Francia (attraverso un impegnativo programma elettronucleare), Pompidou nominò primo ministro J. Chaban-Delmas (1969-72), gollista storico, che aprì il suo governo a degli ex dirigenti del MRP, e abbozzò una “nuova società”, fondata sul negoziato sociale. In urto con i conservatori senza essere riuscito a convincere la sinistra, Chaban-Delmas fu sostituito da P. Messmer (1972-74), più conservatore. La morte di Pompidou (1974) diede il via a un duello elettorale a destra tra Chaban-Delmas e Giscard d’Estaing, rappresentante del liberalismo modernizzatore. L’appoggio dei gollisti pompidoliens (J. Chirac) favorì Giscard, che raggiunse il 51% al secondo turno delle presidenziali, contro il 49% per Mitterrand, leader del Partito socialista (che nel 1970 aveva sostituito la SFIO e che, con la strategia di unità della sinistra, dal 1972 aveva impegnato il PCF in un “programma comune”). La presidenza giscardiana (1974-81) cominciò con l’ingresso nel governo Chirac (1974-76) dei centristi e dei radicali non collegati alla sinistra, determinando una polarizzazione destra-sinistra senza un terzo partito. In un anno vi furono importanti riforme (maggiore età a 18 anni, legalizzazione dell’aborto, generalizzazione della previdenza sociale, ecc.), ma la crisi economica mondiale favorì un ripiegamento conservatore. Aumentarono le tensioni tra i giscardiani (europeisti e liberisti) e i neogollisti (nazionalisti e più favorevoli all’intervento statale in campo economico), che, pur costituendo la maggiore forza parlamentare, erano privi della presidenza e di due terzi dei ministeri. Rivalità e divergenze riguardo ai rimedi alla crisi portarono alla sostituzione di Chirac con R. Barre (1976-81): i gollisti perdevano così il posto di primo ministro. Dato che il recente sorpasso del PS sul PCF aveva condotto alla rottura a sinistra, la Francia appariva ora divisa in quattro gruppi, pressappoco uguali, dei quali due governavano senza riuscire ad accordarsi. Il governo Barre difese la moneta e l’apparato produttivo, ma a prezzo di un’inflazione di oltre il 10% e di un milione e mezzo di disoccupati all’inizio del 1981. Questi motivi di tensione sociale, aggiunti alle rivalità a destra e al crollo del PCF al 15%, che rassicurò alcuni settori elettorali, facilitarono l’elezione di Mitterrand alla presidenza, con il 51% dei voti (1981). Lo scioglimento dell’assemblea diede il 37,7% dei voti e la maggioranza dei seggi al PS, cosa che era riuscita soltanto ai gollisti nel 1968. Il governo P. Mauroy (1981-84), al quale partecipò il PCF, realizzò numerose riforme: abolizione della pena di morte, nazionalizzazioni, imposta sul capitale, decentramento in favore degli eletti dipartimentali e regionali, settimana di 39 ore, pensionamento a 60 anni, abbozzi di cogestione nelle imprese, ecc.; in politica estera la diplomazia rimase europea e filo-occidentale, con una certa attenzione terzomondista. Ma crisi, inflazione, disoccupazione obbligarono a scegliere il rigore, il blocco dei salari, la conversione all’economia di mercato (1983). L’opinione pubblica più incerta aveva oscillato, la destra – unificata intorno a Chirac, su una base più liberale che gollista – ebbe il 43% dei voti alle europee (1984) e l’estrema destra (J.-M. Le Pen) passò dall’1% degli anni Settanta a più del 10%; il PS era al 20%, il PCF al 10. A ciò si aggiunsero imponenti manifestazioni di piazza in difesa delle scuole private cattoliche e contro un progetto di legge laicista. Mauroy dovette dare le dimissioni, il governo di L. Fabius (1984-86), senza i comunisti, ormai ostili, fu incaricato di ripianare la situazione. L’inflazione cadde al 5%, diminuì il carico fiscale, ma non la disoccupazione, e parve essere abbandonata ogni idea di riforma. Alle legislative del 1986 il PS era al 31%, il PCF al suo minimo storico, l’estrema destra in crescita, la destra maggioritaria. Questa situazione produsse così una “coabitazione” tra presidente e primo ministro provenienti da campi opposti, con il ministero Chirac (1986-88). Il presidente non poté frenare l’applicazione del programma della destra con le sue frettolose snazionalizzazioni, presto bloccate da difficoltà sociali e manifestazioni studentesche. Nel 1988, rieletto Mitterrand (54%) contro Chirac, lo scioglimento dell’assemblea non dette che una maggioranza relativa al PS. Il governo di M. Rocard (1988-91) si appoggiò talvolta al PCF, talvolta ai centristi. Aperto al centro, riformista e pragmatico, facilitato da dissidi nella destra, dovette affrontare la disoccupazione persistente (due milioni e mezzo), scioperi legati tra l’altro al basso livello dei salari pubblici, e una crisi dove confluivano insufficienza del sistema scolastico, problemi di integrazione degli immigrati e violenze nelle periferie. Nel maggio 1991, per preparare l’ingresso nel mercato unico europeo e le elezioni del 1993, Rocard fu sostituito da Edith Cresson, ma dopo l’arretramento socialista alle elezioni cantonali (marzo 1992) veniva investito come capo dell’esecutivo P. Bérégovoy. Le elezioni politiche del marzo 1993 vedevano la forte affermazione dell’alleanza di centrodestra (giscardiani e gollisti) e il tracollo socialista; Mitterand nominava primo ministro E. Balladur. Il nuovo governo, pose tra i suoi primi propositi la riduzione del deficit e della disoccupazione: le misure adottate tra il 1993 e il 1994 però non si dimostrarono efficaci, mentre una più severa legislazione sull’immigrazione e sul conferimento della cittadinanza francese e alcuni tentativi di ridurre gli ambiti di intervento dell’assistenza pubblica incontrarono una forte opposizione sociale. Anche per quanto riguarda le relazioni internazionali, il governo Balladur fu da più parti attaccato per l’intervento militare in Ruanda (giugno-settembre 1994): nonostante l’intervento fosse stato ufficialmente motivato dalla necessità di creare una zona di sicurezza umanitaria per i profughi della guerra civile in corso, esso sembrava servire da copertura al tradizionale appoggio che la Francia aveva da sempre offerto alle forze governative. Sempre nell’ambito della politica internazionale, in quello stesso periodo furono ufficialmente riaperti i rapporti tra Francia e Repubblica popolare cinese, interrotti più di un anno prima a causa della decisione francese di vendere armi a T’aiwan. Fra l’autunno 1994 e la fine del 1996, infine, il terrorismo islamico, ad opera soprattutto degli estremisti del Gruppo islamico armato (GIA), tornò alla ribalta, colpendo con drammatica regolarità: ne fu esempio l’attentato esplosivo, avvenuto in pieno centro, a un treno della linea metropolitana che collega Parigi alle zone limitrofe (dicembre 1996), mai rivendicato, ma attribuito comunque al GIA. Le elezioni presidenziali dell’aprile-maggio 1995 furono caratterizzate dalla competizione interna tra i due principali esponenti del RPR, Chirac e Balladur, a tutto vantaggio del candidato socialista L. Jospin che, a dispetto della crisi di consenso del PS, uscì vittorioso dal primo turno con il 23,3% dei voti; Chirac, anche se di poco, riuscì ad avere la meglio su Balladur (20,8% contro 18,6%), mentre da rilevare resta il successo ottenuto da J.-M. Le Pen (15%). Nel ballottaggio fu ad ogni modo Chirac ad avere il sopravvento (52,6% contro 47,4%), divenendo così il nuovo presidente della Repubblica. In seguito al risultato elettorale, Balladur abbandonò l’incarico di presidente del Consiglio, sostituito dall’esponente del RPR, A. Juppé; il nuovo governo, improntato a una linea sostanzialmente neoliberista, per di più sollecitata dall’esigenza di accordarsi ai dettami del Trattato di Maastricht, adottò una politica di tagli alle spese per i servizi sociali, alle pensioni e ai salari del settore pubblico, politica che scontentò fortemente una consistente parte dell’elettorato e provocò, nella seconda metà del 1995, una serie di manifestazioni e scioperi nel pubblico impiego. In dicembre Juppé revocò la riforma del sistema pensionistico: gli scioperi cessarono, anche se la politica di tagli alla spesa pubblica continuò a suscitare critiche fino a tutto il 1996. Al di là della politica interna, altre questioni impegnarono la Francia di Chirac e Juppé tra il 1995 e il 1997. Anzitutto, appena un mese dopo la sua elezione, Chirac annunciò la ripresa degli esperimenti nucleari (sospesi da Mitterrand nel 1992) negli atolli di Mururoa e Fangataufa: la decisione fu duramente attaccata dall’opinione pubblica in Francia e soprattutto all’estero, ma fu solo al sesto test (ne erano previsti otto), nel gennaio 1996, che Chirac ne decretò l’interruzione definitiva. Sul piano interno, tornarono alla ribalta nuovi scandali politico-finanziari che coinvolsero tra gli altri tre ex ministri del governo Balladur.La crisi della politica di governo si venne a sommare a un clima di incertezza e di generale insoddisfazione, che si traduceva fra l’altro in un aumento del consenso nei confronti delle ali estreme dello schieramento politico. Al fine di rafforzare con il consenso elettorale la traballante coalizione di governo prima che il malcontento portasse ad una rimonta delle sinistre, Chirac decise allora di sciogliere l’Assemblea nazionale e indire elezioni politiche anticipate per il maggio-giugno 1997. Dal primo turno elettorale uscì tuttavia in vantaggio proprio l’unione delle sinistre guidata da L. Jospin (un leader che si presentava, innanzitutto, come garante di un ritorno all’integrità morale del partito socialista dopo gli scandali che lo avevano coinvolto nei due decenni precedenti), rispetto all’aggregazione RPR-UDF, costretta ad affidarsi al poco popolare capo di governo Juppé (ma pronta ad accettare le sue dimissioni dopo la sconfitta al primo turno), e penalizzata oltretutto dal rifiuto di Le Pen (in prevedibile ascesa) di appoggiare il centro-destra al ballottaggio. I risultati del secondo turno confermarono la vittoria socialista: il raggruppamento di PS e alleati, che aveva ottenuto solo 70 seggi nel 1993, riconquistò la maggioranza con 274 seggi (che, uniti ai 38 del PCF e ai 7 degli ecologisti garantivano alla sinistra la maggioranza parlamentare), mentre il centro-destra dovette accontentarsi di 256 seggi (rispetto ai 484 conquistati con la vittoria schiacciante del 1993); un deputato del FN e un indipendente completavano la formazione. Con Jospin alla guida del governo si inaugurò un nuovo periodo di coabitazione per la prima volta tra un presidente di centro-destra e un primo ministro di sinistra il quale aveva tra l’altro, fin dalla campagna elettorale, sostenuto una linea statalista e particolarmente attenta ai problemi sociali. A livello internazionale il successo di Jospin si inquadrava comunque in quel processo generale che aveva portato all’affermazione della sinistra in 13 su 15 dei paesi dell’Unione Europea (del maggio 1997 era stata l’elezione del laburista Blair in Gran Bretagna); una sinistra caratterizzata (anche se con accenti diversi fra le sue componenti) dall’intenzione di coniugare un’apertura all’economia di mercato con la coscienza della necessità di una riaffermazione del ruolo dello stato: una coscienza particolarmente forte in Jospin, appunto, che più degli altri sentiva l’esigenza di una politica sociale da non sacrificare sull’altare del rinnovamento economico e dell’integrazione europea. [31311] Nel corso del 7° e dell’8° secolo si ebbe la penetrazione del cristianesimo nell’area germanica, ad opera di missionari celti ed anglosassoni. Il più famoso di essi fu il monaco anglosassone Winfrith (Bonifacio), che – in accordo con il papato – creò la prima rete di diocesi germaniche, sottoponendole al controllo della chiesa franca. Bonifacio morì nel 754 per mano dei Frisoni pagani. Tramite la cristianizzazione si riaprì la strada alla penetrazione dei Franchi, nel frattempo saldamente riorganizzatisi sotto la dinastia dei Pipinidi, poi detti Carolingi. Carlomagno, grazie ad una lunghissima serie di guerre (772-99), sottomise la Sassonia convertendola con la forza al cristianesimo; pure il resto della Germania cadde sotto il dominio franco. Ciò significò, oltre che un’ulteriore spinta alla cristianizzazione, l’introduzione in Germania delle istituzioni vassallatico-beneficiarie, dalle quali, nei secoli centrali del Medioevo, si svilupperà la futura struttura feudale del regno germanico. La Germania entrò dunque a far parte dell’Impero carolingio (800), seguendone le sorti politiche finché i primi segni di disgregazione di questo non le permisero di assumere una configurazione autonoma. A Verdun (843) i figli dell’imperatore Ludovico il Pio si divisero l’impero, e il regno dei Franchi orientali (la ermania) spettò a Ludovico il Germanico. Pochi anni dopo, a Meersen (870), l’individualità politica della Germania veniva confermata, pure se nominalmente essa faceva ancora parte dell’impero, la cui corona spettò nell’881 proprio al re dei Franchi orientali, Carlo III il Grosso. Incapace di far fronte alle incursioni vichinghe, Carlo fu ben presto deposto (887); come re di Germania gli successe Arnolfo di Carinzia, imparentato con i Carolingi. Di fatto l’impero carolingio era finito, anche se lo stesso Arnolfo prese per breve tempo la corona imperiale. [31321] Base dell’organizzazione territoriale della Germania erano i cinque grandi ducati a base etnica, Sassonia, Baviera, Turingia, Svevia e Franconia, governati da stirpi ducali ereditarie. La monarchia invece, estintosi ormai il ramo orientale dei Carolingi, era tornata elettiva ed era nelle mani dei duchi: così alla morte di Arnolfo furono eletti re prima Corrado di Franconia (911), poi Enrico di Sassonia (919). Enrico I ottenne grandi successi esterni, a ovest inglobando al regno l’antica striscia centrale delle terre carolinge, la Lotaringia, strappata alla Francia, e vincendo a oriente gli slavi Vendi. I confini del regno giunsero così a comprendere il Brandeburgo. La necessità di difendersi dagli attacchi degli Slavi e degli Ungari spinse Enrico a promuovere la costruzione di una linea difensiva di castelli. All’interno, egli riuscì a sottomettere i duchi al potere regio, costringendoli ad accettare la successione al trono del figlio Ottone I (936-73). La politica di quest’ultimo fu diretta a contenere la minaccia degli Ungari, definitivamente allontanata con la grande vittoria sulla Lech (955), e a dare incremento alla colonizzazione delle terre slave nell’attuale Germania orientale. La sua politica espansionistica portò poi Ottone ad impadronirsi del regno italico, la cui corona egli assunse nel 951. Il re mise grande cura nel consolidare il suo potere nei confronti dei ducati etnici, stroncando numerose rivolte ed assegnando i ducati stessi a membri della famiglia. Ottone si appoggiò in modo consistente alla struttura vescovile per creare un contrappeso alla potenza dell’aristocrazia, conferendo ai vescovi poteri secolari. Nelle terre slave la fondazione dell’arcivescovado di Magdeburgo (968) rappresentò il fulcro attorno al quale ruotava una politica che univa conquista politico-militare e conversione al cristianesimo. Nel 962, infine, Ottone fu incoronato imperatore; il suo impero si fondava su un asse italo-tedesco, che rappresenterà il nucleo del potere imperiale per tutto il Medioevo. I suoi successori ereditarono dunque una nuova politica di potenza. Ottone II (973-83) dovette peraltro subire numerosi rovesci, sia nell’Italia meridionale, sia da parte degli Slavi, la cui ribellione fece perdere ai Tedeschi il controllo del territorio tra l’Elba e l’Oder (983). Suo figlio Ottone III (983-1002), salito al trono giovanissimo, interpretò in maniera molto elevata la carica imperiale, concependo il progetto di una renovatio imperi Romanorum, costruita su una stretta collaborazione con il papato. Nell’ambito della sua idea imperiale si iscrivono anche i suoi rapporti con gli Slavi, segnati dalla fondazione di altre sedi vescovili – in particolare l’arcivescovato di Gniezno in Polonia – e dal conferimento del titolo di patrizio imperiale a Boleslao l’Intrepido, duca di Polonia. Gli ambiziosi progetti di Ottone naufragarono per l’opposizione interna tedesca – che vedeva gli interessi più strettamente germanici trascurati dalla politica ad ampio raggio del giovane sovrano – e per quella stessa dei Romani, che cacciarono Ottone dalla città. L’imperatore morì poco dopo, e l’elezione di suo cugino Enrico II (1002-24) rappresentò un momento di ripiegamento sui problemi tedeschi, anche se il sovrano non rinunciò a battersi per la corona imperiale e per il possesso del regno italico, sconfiggendo il pretendente indigeno Arduino d’Ivrea. Alla morte di Enrico, con il passaggio del trono a Corrado II di Franconia (1024-39) ci fu uno spostamento dell’asse politico tedesco verso le regioni renane, dove era la base della nuova dinastia salica. A rafforzare questo fenomeno ci fu l’annessione – per via ereditaria – del regno di Borgogna (1033). Nei confronti del regno d’Italia, invece, Corrado si segnalò per i suoi tentativi di intervento nella pianura padana, dove la crescita del fenomeno cittadino cominciava a spiazzare il potere regio e imperiale. La promulgazione dell’Edictum de beneficiis (1037), l’atto più famoso di Corrado, riguardò infatti l’Italia. L’editto, che sanzionava formalmente l’ereditarietà dei feudi minori, rappresentava al tempo stesso una risposta ai problemi della minore feudalità e un tentativo di mettere pace nel tumultuoso processo di formazione degli autonomi poteri delle collettività di cives in area padana. Maggiore respiro ebbe l’azione politica di Enrico III (1039-56), un sovrano conquistato ai nuovi ideali riformatori ecclesiastici, che con il sinodo di Sutri (1046) depose i tre papi espressione della nobiltà romana imponendo il suo candidato, Clemente II, che lo incoronò imperatore nel 1047. L’idea della suprema potestà imperiale trovò applicazione anche nei rapporti con gli stati a oriente dell’impero: Polonia, Boemia e Ungheria furono in vario modo sottomesse all’autorità imperiale tedesca. Ma nonostante il suo prestigio, Enrico si trovò di fronte ad una vasta rivolta guidata dalla nobiltà feudale tedesca nei territori occidentali dell’impero negli anni 1047-49. Alla morte dell’imperatore, la minorità di Enrico IV (1056-1106) intervenne in un momento delicato per l’autorità centrale tedesca. Allorché il sovrano assunse personalmente il potere (1066), infatti, la forza della grande feudalità era ulteriormente aumentata. Ad essa si affiancava la realtà nuova rappresentata dalle forze cittadine, che, in primo luogo nella regione renana, si andavano organizzando a comune, contestando l’autorità dei vescovi e dei feudatari laici. Vittoriosa, tra 11° e 12° secolo, in ambito strettamente urbano, la forza dei comuni – che erano in mano ai ceti mercantili – non riuscì tuttavia ad imporsi sul territorio circostante alle città, che rimase controllato dalla grande feudalità. L’azione di Enrico, che si appoggiò proprio alle città e alla piccola feudalità, trovò un’opposizione aperta in Sassonia, dove l’aristocrazia si opponeva in particolare all’ampliamento dei beni di proprietà diretta della corona. La vittoria militare contro i ribelli sassoni, a Homburg sull’Unstrut, giunse nello stesso anno in cui scoppiò il conflitto con il papa Gregorio VII sul problema delle investiture ecclesiastiche (1075). L’anno successivo, a Worms, Enrico e i vescovi tedeschi deposero Gregorio, ma il papa a sua volta depose e scomunicò il re. La precaria riconciliazione di Canossa (1077) fu subito incrinata dai principi tedeschi, che non accettarono la reintegrazione del sovrano nella sua carica e gli opposero un anti-re, il duca Rodolfo di Svevia. Questi fu sconfitto e ucciso da Enrico a Hohenmölsen (1080), ma la crisi con la Chiesa continuò, ed Enrico fu di nuovo scomunicato. Se dal punto di vista politico l’opposizione del papato significava un indebolimento dell’autorità imperiale tedesca sull’Italia, la natura ideologico-religiosa del conflitto era ben più grave, perché indeboliva sia le basi concrete del potere centrale nelle terre tedesche, che si reggeva sul controllo assoluto della gerarchia ecclesiastica (quel controllo che i riformatori rivendicavano invece all’autorità pontificia), sia le sue basi ideologiche, affievolendo la natura sacrale del potere imperiale. Nei suoi ultimi anni, Enrico dovette fare fronte alle ribellioni dei figli, Corrado ed Enrico; nel 1106 fu costretto ad abdicare e morì a Liegi. Gli successe Enrico V (1106-25), che, eletto imperatore con l’appoggio di papa Pasquale II, riprese ben presto la politica del padre in materia di investiture ecclesiastiche. Per due volte Enrico scese in Italia per piegare Pasquale II alla sua volontà (nel 1111 lo costrinse anche a incoronarlo imperatore), finché nel 1122 si giunse alla soluzione di compromesso rappresentata dal concordato di Worms, che pose fine al conflitto tra regnum e sacerdotium distinguendo, nelle elezioni dei vescovi, l’investitura temporale (che rimase prerogativa dell’imperatore) da quella spirituale (che spettava invece al papa). [31331] In Germania l’investitura temporale precedeva quella spirituale, al contrario che in Italia: quindi il controllo del sovrano sulla Chiesa tedesca rimaneva, anche dopo il concordato di Worms (1122), abbastanza saldo. Era invece ancora del tutto in piedi il problema di sottomettere all’autorità centrale l’aristocrazia. La partita tra l’aristocrazia e il re di Germania – che in quanto tale, inoltre, era l’imperatore designato – fu giocata soprattutto intorno alla questione della natura elettiva della funzione sovrana. A Enrico V infatti non fu chiamato a succedere sul trono dai principi tedeschi il duca di Svevia Federico, nipote del sovrano defunto e suo successore naturale, bensì Lotario di Supplimburgo, con il risultato che durante tutto o quasi il suo regno (1125-37) questi dovette fare i conti con la ribellione degli Svevi. Alla morte di Lotario, l’identica volontà di sventare la trasformazione in senso ereditario della corona regia portò l’aristocrazia a non rispettare la volontà del defunto, che aveva designato suo genero Enrico il Superbo, duca di Sassonia, e ad eleggere invece Corrado III di Hohenstaufen, capo del partito svevo. Erano così gettate le basi per la dura lotta per il controllo della corona tra la casa di Svevia – i cui sostenitori, dal nome del castello di Waibling, furono detti Ghibellini – e quella di Baviera e Sassonia, ovvero il partito dei Guelfi, i discendenti di Guelfo duca di Baviera; una lotta che durò per tutto il regno di Corrado (1138-52), prima di essere solo temporaneamente bloccata sotto Federico I Barbarossa (1152-90). Lo sforzo degli Hohenstaufen fu quello di costruire un forte potere centrale, utilizzando per l’amministrazione elementi ad essi legati – prendendoli in modo particolare dal gruppo dei ministeriales (che formalmente erano dei non liberi, ma che in quest’epoca si elevarono fino al livello di piccola nobiltà cavalleresca) –, e inserendo l’aristocrazia tedesca in una ferrea piramide feudale che aveva al suo vertice il sovrano. Fu appoggiata anche la costruzione di vaste signorie territoriali affidate a vassalli fedeli, come i Babenberg, che in un primo tempo ottennero la Baviera e poi – quando questa fu restituita alla casa di Sassonia – videro la loro contea d’Austria trasformata in ducato ereditario. Se sul versante meridionale gli Hohenstaufen rafforzarono la loro posizione, lo stesso non può dirsi per il nord-est, la vitale frontiera tedesca in espansione verso le terre slave, dove in quello stesso periodo erano altri i poteri che contavano: quello del margravio Alberto l’Orso, che nel 1142 ottenne in feudo la marca del Brandeburgo, e quello del duca di Sassonia, il guelfo Enrico il Leone. Tornato dalla sfortunata seconda crociata (1147-49), Corrado si riconciliò con Enrico, che da parte sua aveva lanciato una vera crociata contro gli Slavi pagani, Vendi e Abodriti (1147). Cominciava ad assumere così una propria fisionomia un vero stato territoriale guelfo, che dalla Sassonia giungeva alle terre al di là dell’Elba, strappate agli Slavi non solo con le armi, ma anche con una massiccia penetrazione contadina proveniente dalla Renania, dalla Franconia, dalla Turingia, dalla Sassonia e dai Paesi Bassi: i contadini (detti ospiti) erano insediati al centro delle terre da dissodare, in nuovi villaggi – riconoscibili ancora oggi dai suffissi -feld, -dorf, -reuth, -rath, -rode, -berg, -kirche (-kerk) – dotati di statuti privilegiati. Accanto ai villaggi, nacquero anche vere e proprie città nuove, nei casi in cui all’insediamento contadino si unì quello dei mercanti tedeschi. È l’inizio del Drang nach Osten, che porterà contadini, cavalieri e mercanti tedeschi a rigermanizzare la parte orientale della Germania, slavizzatasi nei primi secoli del Medioevo, insediandosi profondamente nel cuore dell’Europa orientale e cambiandone profondamente la fisionomia, rurale ed urbana. Nell’ambito di questa poderosa crescita della Germania settentrionale va inquadrata la fondazione di Lubecca (1143) voluta da Enrico il Leone. La città diventò il principale porto di smistamento delle merci del Baltico quando a Visby, nel 1161, venne fondata l’Hansa, la lega mercantile delle città tedesche del nord. Impegnato, invece, duramente in Italia, contro i nuovi e ormai consolidati poteri comunali e contro l’opposizione papale ad un’accresciuta presenza germanica nella penisola, Federico Barbarossa dal canto suo fallì nel suo tentativo di creare, tra Italia settentrionale e Germania, un blocco capace di fare da efficace contrappeso all’evoluzione del settentrione tedesco. La sconfitta di Legnano contro la Lega Lombarda (1176) ridimensionò le ambizioni di Federico sul versante italiano, e quasi automaticamente riaccese il conflitto con Enrico il Leone. Questi tra l’altro si era rifiutato di fornire all’imperatore – Federico era stato elevato all’impero da Adriano IV nel 1154 –, in occasione della sua quinta discesa in Italia (1174-78), i contingenti previsti dal diritto feudale: Federico in veste di suo superiore feudale processò Enrico, lo depose privandolo della Baviera e della Sassonia e lo costrinse all’esilio (1181). Le conseguenze della deposizione di Enrico il Leone furono gravi. Lo stato guelfo fu smembrato tra numerosi feudatari: la Baviera andò ad Ottone di Wittelsbach, la Sassonia fu divisa tra l’arcivescovo di Sassonia e Bernardo d’Anhalt. Scompariva così un possibile punto di aggregazione per un futuro potere monarchico forte, che si sarebbe potuto costituire su una estesa base territoriale di dominio diretto, che andava dalle Alpi al Baltico alle terre oltre l’Elba. In sostanza, la vittoria del Barbarossa sul suo rivale guelfo aumentò la frantumazione dell’autorità pubblica. Per tutta la sua carriera politica in effetti Federico, nonostante la sua alta concezione della maestà imperiale, si comportò in Germania come un autentico capo fazione, teso soprattutto a concedere privilegi e favori al fine di costruirsi una clientela che fosse in grado di fornire truppe per le sue spedizioni italiane e di controllare il regno durante la sua assenza. E gli atti conclusivi della sua vita dimostrarono che nonostante tutto, anche al di là della pace di compromesso di Costanza (1183) con i comuni italiani, Federico continuava a pensare ad un destino per la sua casa orientato verso il sud ed il Mediterraneo. La sua sesta discesa in Italia ebbe infatti come scopo quello di fare incoronare re d’Italia suo figlio Enrico e di fargli sposare Costanza d’Altavilla, ereditiera del regno normanno (1186). Due anni dopo, Federico prendeva la croce a Worms e partiva per la crociata, la terza, dove trovò la morte annegando nel fiume Salef (1190). Suo figlio Enrico VI, trascurando l’autentica frontiera germanica (quella del nord-est), si impegnò in una dura guerra per far riconoscere i suoi diritti sul regno di Sicilia; incoronato imperatore nel 1191, dovette poi correre in Germania per fronteggiare una rivolta della grande aristocrazia. Sovrano dai progetti non meno ambiziosi di quelli del padre, Enrico aveva ereditato da questo il sogno mediterraneo, e accarezzava progetti di impero universale che includevano anche mire su Bisanzio. Ma la sua morte precoce nel 1197 pose fine ai suoi piani e precipitò di nuovo la Germania nel turbine della guerra civile tra Guelfi e Ghibellini. La corona fu disputata da Ottone di Brunswick, figlio di Enrico il Leone, che fu eletto con l’appoggio dell’arcivescovo di Colonia, e Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI e zio del piccolo Federico Ruggero, allora bimbo di soli tre anni, figlio dell’imperatore defunto. L’appoggio che papa Innocenzo III dette ad Ottone non significava ostilità aprioristica verso la casa di Svevia, se è vero che Costanza, morendo, aveva lasciato il figlio alla tutela del pontefice: il regno di Sicilia infatti era vassallo della Santa Sede ed Innocenzo, pur rispettando i diritti di Federico su di esso, voleva impedire l’unione della Sicilia con la Germania. Ma, incrinatasi ben presto l’alleanza tra Innocenzo ed Ottone – giacché questi cercava di impadronirsi del regno normanno –, il papa scomunicò il guelfo e sostenne la candidatura di Federico, che nel 1212, dopo una rocambolesca spedizione, giunse in Germania e riuscì a farsi eleggere re da una parte dei principi tedeschi; ma solo la battaglia di Bouvines (1214) – il grande scontro che decise della sorte dell’impero, della Francia e dell’Inghilterra –, vinta dalle armi di Filippo Augusto di Francia, segnò la sconfitta definitiva di Ottone, alleato di Giovanni Senzaterra re d’Inghilterra, a favore di Federico, alleato del re di Francia. Nel 1220 Federico fu eletto anche imperatore a Roma da papa Onorio III. Prima di lasciare la Germania, Federico aveva emanato la Confederatio cum principibus ecclesiasticis, con la quale concedeva ai vescovi autentici poteri di governo territoriale: Federico rinunciava a imporre nuove tasse sulle terre della Chiesa, a intervenire nella successione dei feudi, a edificare città o fortezze nei domini vescovili. Contemporaneamente a questi avvenimenti che avevano deciso le sorti del trono, in area baltica iniziava a farsi sentire la presenza degli ordini religiosi militari: è del 1201 la creazione dell’Ordine dei Cavalieri Portaspada ad opera di Alberto vescovo di Livonia. Nel 1226 l’Ordine Teutonico riceveva, tramite il gran maestro Hermann von Salza, una bolla nella quale la Prussia era attribuita all’Ordine come suo territorio; si trattava in realtà di una zona largamente pagana e ancora da conquistare. La conquista si tramutò in una guerra di sterminio contro i Baltici pagani, e, sebbene già nel 1234 Gregorio IX concedesse in feudo la Prussia all’Ordine Teutonico (che due anni dopo si fuse con i Portaspada, espandendosi così in Livonia), solo nel 1283 la conquista del paese poté dirsi assicurata. Da quel momento si sviluppò la colonizzazione del paese ad opera di contadini tedeschi e polacchi. I villaggi di diritto tedesco erano privilegiati rispetto agli insediamenti polacchi e a quelli dei primitivi abitanti del paese. Lo sviluppo delle città prussiane – città tedesche, e per di più collegate all’Hansa – con il passare del tempo finì tuttavia per costituire un contrappeso all’autorità dell’ordine. Nel frattempo l’espansione dei Teutonici verso oriente era stata fermata nel 1242 dai Russi di Novgorod nella battaglia del Lago Peipus: in Prussia, invece, si dovette attendere la catastrofica sconfitta di Tannenberg davanti ai Polacchi e ai Lituani (1410) perché il dominio dei cavalieri teutonici fosse messo in pericolo. La nascita della Prussia germanica segnò un momento decisivo anche per la crescita economica dell’Hansa, che in quegli stessi anni aveva dovuto fare i conti con l’intraprendenza dei re di Danimarca, in particolare di Valdemaro II (1202-41): Pomerania, Meklemburgo, Norvegia, le città di Amburgo e Lubecca erano state sottoposte a tributi e obbligate a giuramenti di sottomissione. Valdemaro si spinse in Estonia, dove fondò Reval, e in Lituania, dove minacciò Riga; la reazione tedesca al tentativo di egemonia danese si concretizzò nella battaglia di Bornhöved (1227), dove Valdemaro fu duramente sconfitto e lasciò così per molto tempo campo libero ai Tedeschi sul Baltico. Federico per parte sua, impelagato nel problema della crociata, veniva scomunicato e doveva fare fronte anche alla politica troppo autonoma del figlio Enrico VII, appena eletto re di Germania (1228), che si faceva interprete di interessi più strettamente tedeschi, appoggiandosi – contro la grande aristocrazia feudale laica ed ecclesiastica – alla piccola aristocrazia di servizio dei ministeriales ed alle ricche ed evolute città renane, le quali ricevettero importanti privilegi. L’opposizione dei principi costrinse Enrico a concedere, nella dieta di Worms, la Constitutio in favorem principum (1231), che lo stesso Federico ratificò l’anno successivo, dopo il suo ritorno dalla Terrasanta. Con essa non solo venivano ripristinati gli antichi diritti dei signori feudali sulle città, ma il potere principesco faceva anche grandi passi avanti: i feudatari si riservavano il diritto esclusivo di battere moneta; l’imperatore si impegnava a non costruire città e castelli nei loro territori senza il loro assenso. Era una grave limitazione dell’autorità imperiale, pure se in cambio Federico vide riconosciuta di nuovo la sua autorità. Recatosi in Germania per porre termine alla fronda del figlio – che aveva stretto un patto con le città dell’Italia del nord collegate nella seconda Lega Lombarda –, Federico a Worms lo depose e lo imprigionò: Enrico morì nel 1242 in un tentativo di fuga; erede al trono diventò allora il secondogenito Corrado. Federico promulgò infine una grande pace imperiale nella dieta di Magonza del 1235 (nella quale si riconciliò con i Guelfi), che avrebbe dovuto costituire la base per un nuovo assetto legislativo del regno. Ma, di nuovo impegnato nell’Italia del nord, Federico non poté dare corpo organico alla sua azione. Il potere regio in Germania rimaneva in balìa dei principi, secondo le linee fissate dalle due costituzioni del 1220 e 1231-32 e riconfermate a Magonza. Preso dai problemi italiani, Federico nei suoi ultimi anni dovette quindi disinteressarsi della Germania: alla sua morte (1250) gli subentrarono i figli Corrado in Germania e Manfredi in Sicilia. Morto Corrado dopo soli quattro anni, la Germania sprofondò nel cosiddetto Grande Interregno (1254-73). [31341] Un periodo caotico per il potere imperiale ebbe inizio dal 1246, quando, deposto Federico da papa Innocenzo IV a Lione, la corona fu data dai principi – manovrati dall’arcivescovo di Colonia – prima al langravio di Turingia, Enrico Raspe, poi al conte Guglielmo d’Olanda. Successivamente, altri candidati ancora più estranei alla Germania ottennero dagli elettori il titolo di re dei Romani, cioè re di Germania e imperatore designato: Alfonso di Castiglia e il conte Riccardo di Cornovaglia, eletti entrambi contemporaneamente. Di fatto, il potere regio rimase vacante finché, di fronte al pericolo posto dalla candidatura di un sovrano forte, Filippo l’Ardito re di Francia, gli elettori (in questo periodo si era istituzionalizzato il collegio elettorale formato da sette membri) nel 1273 dettero la corona a Rodolfo d’Asburgo. Il principale interesse delle grandi casate tedesche ad occupare il trono risiedeva nella norma che consentiva alla corona di riassegnare i feudi vacanti, un mezzo con il quale si poteva sperare di aumentare la potenza della propria famiglia; ma per il resto, c’erano poche speranze di riuscire ad esercitare un potere effettivo. La Germania di questo periodo è stata definita un’anarchia a forma monarchica: priva di una legislazione unitaria, di finanze e di una struttura burocratica comuni a tutto il regno, essa era un’accozzaglia di stati territoriali, laici o ecclesiastici, nei quali i principi esercitavano tutti gli attributi della sovranità (domini terrae). A questi principati andavano aggiunte le città libere o imperiali, cioè sottomesse direttamente all’autorità del sovrano, le quali però, lungi dal costituire per questo una base di potere alternativa o almeno integrativa rispetto a quella rappresentata dai principati feudali, utilizzavano la protezione imperiale esclusivamente per sfuggire al potere dei signori locali. Stroncata dalle sue ambizioni imperiali, la monarchia tedesca, dopo la fine negativa della lotta delle investiture contro il papato, non aveva avuto più la forza di porre mano alla costruzione di uno stato unitario nelle terre tedesche. La figura del re e la dieta (l’assemblea dei principi, dei nobili e delle città) erano gli unici elementi unitari. Ma, al di sotto del caos politico, era notevole il dinamismo economico delle città del nord e di quelle del sud-ovest (queste ultime a suo tempo favorite dagli Hohenstaufen), lungo le vie d’acqua del Baltico e del Reno, e così pure la forza in ascesa del nuovo stato monastico-crociato del nord-est, la Prussia, e, al sud, di stati territoriali retti da solide dinastie, quali la Baviera sotto i Wittelsbach e l’Austria sotto gli Asburgo. Più ad ovest, nella progredita regione renana, si affacciava in questo periodo alla ribalta politica la casata di Lussemburgo. Saranno queste le principali famiglie che si contenderanno il trono nel basso Medioevo. Rodolfo d’Asburgo (1273-91) si dedicò soprattutto a rafforzare la sua famiglia, combattendo Ottocaro re di Boemia e ottenendo l’Austria e la Stiria, in aggiunta al Tirolo e ai possedimenti svizzeri che già controllava; si formava così il nucleo essenziale del patrimonio territoriale degli Asburgo. Né Rodolfo, né i suoi successori, Adolfo di Nassau (1291-98) e Alberto d’Asburgo (1298-1308), pensarono mai di cingere la corona imperiale, rivelando così un chiaro restringimento di orizzonti: il re tedesco era ormai un semplice capo casata che svolgeva una sua politica dinastica. Seguace della politica paterna, Alberto cercò di incamerare la Boemia nei possessi familiari, ma fu assassinato; gli Asburgo non dovevano però dimenticare questo progetto. Con l’apparizione sul trono nel 1308 di un altro principe minore, Enrico di Lussemburgo, la politica regia riprese un respiro più ampio. Enrico infatti, di civiltà e costumi francesi e poco interessato quindi alla Germania, tentò di rinnovare la tradizione imperiale della corona tedesca. La sua discesa in Italia, dove fu incoronato imperatore nel 1312, non ebbe però seguito, anche perché la morte colse l’imperatore nella penisola (1313). L’unico risultato da lui conseguito riguardò, ancora una volta, il piano dinastico: la Boemia, tramite matrimonio, andò a suo figlio Giovanni. Si era comunque riaperta la via alle avventure imperiali in terra italiana, via che fu percorsa da Ludovico il Bavaro (1314-47). Questi, di fronte all’ostilità del papato, strettamente legato in questo periodo alla politica francese, si fece incoronare dal popolo romano, contro la volontà di papa Giovanni XXII. Ciò segnò la sua rovina: nonostante che gli elettori, con la dichiarazione di Rense (1338), protestassero contro le ingerenze papali nella designazione del re di Germania, essi di fatto abbandonarono il Bavaro, eleggendo al suo posto Carlo IV di Boemia (1346-78), nipote di Enrico VII. Carlo – che prese, ma in accordo con il papa, la corona imperiale – proseguì nella politica dinastica impadronendosi di Slesia, Moravia e Brandeburgo. Si creava così un nucleo territoriale importante, il cui centro però non era la Germania, ma la Boemia. Nel 1356, la Bolla d’Oro di Carlo IV confermò numero e poteri del collegio elettorale, che doveva rimanere immutato sino al XVIII secolo. Esso era composto da tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza) e quattro laici (il re di Boemia, il conte del Palatinato, il duca di Sassonia e il marchese del Brandeburgo). Il figlio di Carlo, Venceslao, fu nominato re dei Romani mentre il padre era ancora vivo (1376), e così, per la prima volta dopo Federico II, un figlio succedeva al padre sul trono tedesco. Ma ormai la casa di Lussemburgo era troppo poco tedesca: nel 1400 i quattro elettori renani deposero Venceslao e dettero la corona a Roberto di Wittelsbach, che però non fu riconosciuto quasi da nessun altro principe. Alla sua morte (1410), gli elettori si rivolsero alla potente casata di Lussemburgo, eleggendo i due fratelli di Venceslao, che era ancora vivo: ci furono dunque insieme tre re della stessa famiglia, finché la scomparsa dei fratelli lasciò Sigismondo da solo sul trono. Accanto a quelle di Germania e Boemia egli aveva, per via ereditaria, una terza corona, quella d’Ungheria: i suoi problemi erano quindi a oriente, dove si affacciavano sempre più minacciosi i Turchi. Anche per questo motivo egli si adoperò per sanare lo scisma nella Chiesa (premessa questa indispensabile per una crociata) e soffocare l’eresia hussita. Sigismondo cercò di realizzare entrambi gli obbiettivi con il Concilio di Costanza (1414-18), dove Giovanni Hus fu bruciato. Alla morte di Sigismondo (1437), i regni di Boemia e di Ungheria passarono a suo genero, Alberto d’Austria (1437-39), e poi a Federico III (1437-93). Forti dei loro possedimenti austriaci, del Tirolo e della Stiria, gli Asburgo avevano posto le basi per un nuovo blocco territoriale egemone in area tedesca. La dimensione sovranazionale del dominio asburgico venne però in piena luce quando, per via matrimoniale, gli Asburgo con Massimiliano I (1493-1519) entrarono in possesso dell’eredità dei duchi di Borgogna, creando così un ulteriore punto di forza familiare, questa volta in occidente. Erano così poste le premesse per il tentativo di egemonia “universale” messo in atto dagli Asburgo nel corso del secolo successivo. Il blocco territoriale degli Asburgo, che da questo momento in avanti monopolizzeranno la corona nonostante la permanenza del sistema elettivo, era dunque solo parzialmente tedesco. Ciò era stato reso inevitabile dallo sminuzzamento dei principati occidentali, a fronte della presenza di regni e principati piuttosto vasti sulla frontiera orientale. È a oriente, quindi, che si erano volte le casate che si volevano assicurare una base territoriale per dominare la Germania, con la conseguenza di risultare però sempre meno tedesche. La potenza imperiale per gli Asburgo fu un fatto familiare, dinastico, non nazionale tedesco: impero e regno germanico cominciavano ad assumere due fisionomie distinte. La dieta tedesca, dove principi laici ed ecclesiastici, nobili e città si trovavano insieme, non riusciva d’altra parte a rappresentare in alcun modo un’unità: agli esordi dell’età moderna la Germania era ormai un semplice agglomerato di piccoli stati territoriali e di città, uniti da vincoli molto poco saldi. [31351] Massimiliano I compì il tentativo di ridare autorità e potere al Reich insidiato dai signori territoriali, dal particolarismo delle città e dei principi elettori. Ma la Dieta di Worms del 1495 negò all’imperatore i poteri per assicurare la supremazia del Reich sulle tendenze centrifughe; nel 1500 la Dieta di Augusta ribadì il rifiuto a rafforzare un potere centrale di tipo monarchico, ponendo vincoli anche all’iniziativa dell’imperatore nei confronti degli altri stati europei. Alla morte di Massimiliano (1519) la crisi dell’impero rendeva evidente la debolezza del potere centrale e nello stesso tempo l’impossibilità, senza un processo di unificazione, di assecondare l’affermazione delle grandi energie intellettuali che avevano espresso la grande fioritura dell’umanesimo tedesco (scaturito dal centro creatore di una civiltà essenzialmente urbana) e favorire la trasformazione in atto nella vita economico-sociale verso il superamento degli ordinamenti feudali. La stessa tendenza presente nei signori territoriali a porre a freno l’egemonia della Chiesa cattolica in Germania, come Chiesa di Roma, li rendeva disponibili ad attribuirsi la responsabilità non solo di principi territoriali ma anche di guida spirituale e religiosa dei rispettivi sudditi, anticipando una delle conseguenze della Riforma. La spinta che investì il terreno della religione e della Chiesa come istituzione a seguito dell’iniziativa di Lutero (dalla affissione a Wittenberg delle 95 tesi nel 1517) non si manifestò meno forte nella struttura dell’impero e nell’equilibrio tra gli stati tedeschi. Potenza tipicamente continentale, troppo assorbita dai problemi dell’assestamento interno per potere partecipare, come Francia, Spagna e Paesi Bassi, all’espansione coloniale e alle scoperte oltre Oceano, la Germania visse il conflitto che attraversò la religione e la Chiesa anche come scontro tra principi schierati pro o contro Lutero, pro o contro l’imperatore Carlo V impegnato nell’avversare la Riforma (Dieta di Worms del 1521). La guerra dei Contadini, che nel 1525 attraversò larghe regioni della Germania e che si concluse con l’esecuzione di Th. Müntzer e con una feroce repressione, appoggiata da Lutero, segnò la confluenza di fattori religiosi e di fattori sociali in uno scontro che sconvolgeva le fondamenta della società esistente. Deciso a schiacciare l’eresia della Riforma, Carlo V non riuscì a dare espansione universale all’impero né a ricondurre all’obbedienza i principi ribelli. La pace di Augusta del 1555 sanzionò la separazione ormai irrevocabile delle confessioni ma anche la frantumazione territoriale, che fu esasperata dalla fusione di signoria territoriale e opzione religiosa (cuius regio eius religio). La guerra dei Trent’anni, che devastò l’Europa nella prima metà del secolo 17° (1618-48), pose fine alle guerre di religione, sancendo l’impossibilità di liquidare il protestantesimo, ma non alla frantumazione degli stati tedeschi. [31361] Dalla guerra dei Trent’anni la Germania uscì frantumata in 340 stati che non potevano competere né con le grandi potenze europee né, all’interno dell’impero, con l’Austria, sempre più allineata col cattolicesimo della Controriforma e sul versante orientale. Pochi grandi stati emergevano nello spazio germanico: la Baviera, la Sassonia, il Brandeburgo; sopravvivevano le città che erano cresciute con la forza economica e culturale degli Stände (Amburgo, Francoforte, Lipsia), mentre subivano un processo di decadenza, di fronte alla crescente secolarizzazione, le sedi urbane caratterizzate dalla presenza di un forte connotato religioso. Il particolarismo dei piccoli stati ostacolava ogni principio di unità politica: l’unico elemento comune rimaneva l’assolutismo del reggimento principesco. La seconda metà del secolo 17° vide nondimeno l’ascesa del principato del Brandeburgo; il “Grande elettore” Federico Guglielmo (1640-88) sviluppò un duplice dinamismo: allargò la sua area verso altri territori germanici (Magdeburgo, la Prussia Orientale) e interloquì con le potenze europee, sfruttando lo sbocco sul Mar Baltico per inserirsi nel gioco del commercio internazionale e degli equilibri navali. Riorganizzando l’esercito e centralizzando l’amministrazione e la gestione finanziaria, Federico Guglielmo anticipò le linee della modernizzazione che sarebbe stata realizzata mezzo secolo più tardi dai re di Prussia. Con l’editto di Potsdam del 1685 accolse nel Brandeburgo gli ugonotti cacciati dalla Francia, dando un contributo decisivo alla diffusione dello spirito di tolleranza e all’utilizzazione per lo sviluppo economico e culturale di professionalità e imprenditorialità di grande qualità. Allorché nel gennaio 1701 Federico III di Hohenzollern si vide riconosciuto dall’imperatore come re di Prussia, con il nome di Federico I, l’ascesa della Prussia ebbe la prima consacrazione formale. Federico Guglielmo I (1713-40) si diede al consolidamento del regno, secondo le linee tradizionali con il potenziamento dell’esercito e dell’amministrazione, curando lo sviluppo dell’economia nello spirito del mercantilismo dominante all’epoca, che con il suo forte protezionismo rappresentava un complemento della costruzione di una attiva politica statale e di una forte burocrazia. Fu soprattutto per impulso di Federico II il Grande (1740-86) che la Prussia si affermò come grande potenza europea, in competizione con l’Austria per l’egemonia sulla Germania. Federico II non fu solo il campione dell’assolutismo illuminato, il re colto che guardava al rigoglio culturale e alle influenze dell’Illuminismo francese, colui che, senza intaccare la divisione della società in “ceti”, con particolare rispetto per il ruolo dell’aristocrazia terriera, fornì la Prussia degli strumenti propri dello stato moderno, dotandola di un’amministrazione per l’epoca esemplare, di una solida organizzazione militare e di una codificazione destinata a gettare le basi dello stato di diritto, separando i beni della corona da quelli dello stato. Fu anche l’artefice dell’incessante scontro con l’Austria di Maria Teresa, in un susseguirsi di campagne militari a fianco di alterne coalizioni con Francia e Russia. Riconobbe nel 1744 l’autorità imperiale di Francesco I d’Austria, ma in cambio conquistò la Slesia, partecipando alla spartizione della Polonia. L’ascesa della Prussia non rispondeva a un ideale di unificazione nazionale ma solo al desiderio di egemonia sullo spazio germanico, in antagonismo all’Austria. L’eco della Rivoluzione francese in Germania incoraggiò moti giacobini e separatismi locali filofrancesi, non favorì le correnti liberali escluse da un circuito di grande respiro dalla frammentazione degli stati tedeschi. Paradossalmente una spinta all’unificazione, nelle strutture più che negli animi, provenne dalla risposta con la quale le armate napoleoniche ricacciarono attraverso il suolo tedesco le spedizioni controrivoluzionarie di Prussia e Austria. Provocando lo scioglimento del Sacro Romano Impero e dando vita alla Confederazione renana, con l’acquisizione di modelli culturali e amministrativi d’impronta francese, la Francia espelleva l’Austria dalla Germania e promuoveva di fatto un embrione di unificazione. Invasa dalla Francia (1806), costretta all’alleanza contro la Russia, dopo il rovesciamento delle alleanze (1813), la Prussia affrontò il duplice processo di rinnovamento interno e di ripristino della sua egemonia sugli altri territori tedeschi. Per opera di due riformatori, il barone H. F. K. von Stein e il cancelliere K. A. von Hardenberg, avviò una moderata ma decisa modernizzazione destinata a rafforzare l’amministrazione dello stato e a consentire la formazione di una struttura sociale definitivamente affrancata dai residui feudali. L’abolizione dell’ordinamento corporativo e della servitù della gleba e una limitata autonomia comunale, con suffragio censitario, aprirono la strada a una maggiore mobilità sociale e ruppero il monopolio dell’aristocrazia sulla proprietà della terra. Parallelamente la riforma militare promossa da G. J. D. Scharnhorst e A. W. N. Gneisenau allargò parzialmente la base sociale dell’esercito restringendo il monopolio aristocratico. Il consolidamento dello stato costituì la premessa della guerra antinapoleonica che culminò (ottobre 1813) nella disfatta di Napoleone a Lipsia. Dissolta la Confederazione renana patrocinata dalla Francia, a conclusione del congresso di Vienna, il 10 giugno 1815, fu creata la Confederazione germanica, con l’adesione di 41 stati, Prussia e Austria comprese. Rimaneva la frantumazione territoriale della Germania che favoriva la persistenza di un potere statale feudale. Né si placò il dualismo austro-prussiano, nonostante la spinta all’unità di forze economiche e culturali. Lo Zollverein del 1834 fu il primo cospicuo frutto di queste aspirazioni, che confluirono nei moti costituzionali e liberali del 1848. Federico Guglielmo IV fu costretto a concedere la Costituzione in Prussia, ma allorché l’Assemblea nazionale di Francoforte con una opzione kleindeutsch (l’alternativa grossdeutsch avrebbe significato l’egemonia dell’Austria) il 27 marzo 1849 gli offrì la corona imperiale, fece il gran rifiuto, in odio ad ogni forma di legittimazione democratica e per timore di scontrarsi con l’Austria. L’aspirazione della Prussia a porsi come artefice dell’unità tedesca subì una battuta d’arresto nel compromesso di Olmütz con l’Austria (novembre 1850). [31371] Il conflitto con l’Austria per la supremazia sulla Germania entrò in una fase nuova dal momento in cui la gestione degli affari interni ed esteri della Prussia fu affidata, il 24 settembre 1862, a O. von Bismarck. Persuaso che l’unità della Germania fosse affidata non alla forza del liberalismo ma a quella della Prussia, Bismarck operò con abilità, nel quadro delle forze in campo internazionale, per arginare e poi ridurre la presenza dell’Austria. La questione dello Schleswig-Holstein, che portò alla sconfitta della Danimarca ad opera di Prussia e Austria, offrì la prima occasione di scontro diretto con l’Austria, insieme a un progetto di riforma della Confederazione germanica che fu respinto da Vienna. Alla fine di giugno del 1866 la Prussia attaccò l’Austria, che fu rapidamente sconfitta; la vittoria consentì alla Prussia di estendere i suoi territori, di sciogliere la Confederazione germanica e di porsi alla testa di una Confederazione della Germania del Nord, con esclusione degli stati meridionali e dell’Austria. Fu questa la prima tappa dell’unificazione dall’alto realizzata da Bismarck. La seconda fu raggiunta a seguito della guerra franco-prussiana del 1870-71 scoppiata per la successione al trono di Spagna. Il 18 gennaio 1871, forte del consenso anche degli stati meridionali alla Prussia, re Guglielmo I di Prussia fu proclamato imperatore di Germania. Di lì a poco la Costituzione della Confederazione della Germania del Nord diventava Costituzione dell’Impero germanico. Era nato così il Secondo Reich, per iniziativa tutta dall’alto della Prussia con la definitiva soluzione a suo favore del dualismo con l’Austria. L’impero che usciva dall’unificazione era improntato al modello prussiano. Non solo la Prussia acquistava un’egemonia territoriale e demografica assoluta rispetto agli altri stati tedeschi, il maggiore dei quali era il regno di Baviera: formalmente costruito come stato federale, composto di 25 stati e l’Alsazia-Lorena come territorio del Reich, l’impero assicurava alla Prussia un incontrastato primato. Nel Bundesrat (la rappresentanza degli stati) la Prussia disponeva di 17 seggi su 58. Il comando delle forze armate spettava al Kaiser che era al tempo stesso re di Prussia; il cancelliere del Reich si identificava, per unione personale, con il cancelliere prussiano. La supremazia della Prussia era confermata dal sistema politico dell’impero, che prevedeva l’esistenza di un parlamento (Reichstag) eletto a suffragio universale (ma con esclusione delle donne), avente poteri limitati. L’impero era una monarchia costituzionale: il governo non rispondeva al Reichstag ma al Kaiser, l’unico a potere nominare e revocare il cancelliere. Il fatto inoltre che in Prussia vigesse il suffragio censitario influiva negativamente su ogni possibile processo di democratizzazione. Il potere legislativo e quello esecutivo erano saldamente in mano alla Prussia; l’uso che prima Bismarck e più tardi Guglielmo II fecero di questi poteri e gli equilibri che di fatto si stabilirono fecero sì che sino al 1918 il predominio della Prussia non fosse mai messo in discussione né in pericolo. La gestione della cancelleria da parte di Bismarck (1871-90) si fondò essenzialmente sul sostegno della casta militare; la sua tendenza a rendersi autonomo nei confronti dello stesso Kaiser ha indotto a caratterizzarla come dittatura bonapartista. La gestione bismarckiana mirò a consolidare il predominio di Junker e casta militare, con attenzione agli interessi della grande borghesia in ascesa, e a garantire al Reich una politica di sicurezza con l’appoggio della Russia e dell’Austria-Ungheria parallelamente all’isolamento della Francia. Bismarck ingaggiò una dura lotta contro le forze interne che si opponevano al centralismo prussiano (il Zentrumpartei cattolico) o che, come la socialdemocrazia in pieno sviluppo, si ponevano in antagonismo all’ordine politico e sociale esistente. Sul primo versante il Kulturkampf (1871-76) lo mise in urto non soltanto con il clero cattolico ma direttamente con Pio IX e la Chiesa di Roma; Bismarck pose termine ai suoi attacchi solo quando realizzò di potere ottenere l’appoggio dei cattolici in chiave conservatrice per fare fronte alla minaccia della socialdemocrazia. Le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio furono messe al bando con la legge antisocialista del 1878. Ma come nel caso dei cattolici, che dalla persecuzione trassero motivo di maggiore coesione, così nel caso del movimento operaio la legislazione repressiva non valse a frenare una crescita che era legata allo sviluppo industriale del Reich. Maggiore successo ebbe, nel frenare l’ascesa socialdemocratica, lo sviluppo precoce di una legislazione sociale (a cominciare nel 1881 dall’assicurazione sugli infortuni) precorritrice del moderno stato sociale. L’unità del blocco di potere di Junker e casta militare fu assicurata dalla forte politica protezionista e dalla decisione con cui Bismarck sostenne, anche di fronte al Reichstag, le leggi sull’ordinamento militare e gli stanziamenti militari. Inizialmente contrario ad avventure coloniali, Bismarck fu anche protagonista del tardivo ingresso dell’Impero germanico nella gara coloniale, sotto la pressione dei circoli più imperialistici. Uscì di scena il 20 marzo 1890, di fronte all’incipiente crisi del blocco di potere e all’ambizione del nuovo Kaiser Guglielmo II (che era successo al breve regno di Federico III nel 1888), disturbato dalla presenza di una personalità ingombrante come il Bismarck, inviso ormai anche agli oltranzisti dello schieramento conservatore. Il nuovo cancelliere G.L. Caprivi sembrò inaugurare un “nuovo corso”, più attento in particolare agli interessi della borghesia, rivolti all’alleggerimento della protezione doganale, che ostacolava fra l’altro lo sviluppo di buoni rapporti con la Russia. Avversato dagli ultraconservatori, nel 1892 Caprivi si dimise, ma le sue dimissioni aprirono una breve parentesi di dualismo alla testa dell’esecutivo, poiché il Kaiser lo confermò alla guida del Reich affiancandogli nel gabinetto prussiano il cancelliere B. Eulenburg, esponente delle forze più conservatrici. Ne derivò un conflitto di indirizzi, cui pose fine nel 1894 soltanto il definitivo licenziamento di Caprivi. A partire da quest’epoca la politica del Reich fu fortemente determinata dal blocco conservatore e militarista, ma soprattutto dal regime personale di Guglielmo II, protagonista di iniziative spettacolari soprattutto sul terreno della politica estera. Ciò rafforzò l’immagine di una Germania tutta protesa verso la Weltpolitik, cui davano sostanza l’intensificazione degli sforzi coloniali e soprattutto la gara agli armamenti navali aperta con la prima legge sulla flotta del 1898 (ispirata dall’ammiraglio A. von Tirpitz); tale politica, allontanandosi dalla linea bismarckiana, era destinata a portare la Germania in rotta di collisione con la Gran Bretagna. Lo stesso Kaiser guidò la Germania nella prima guerra mondiale, alimentando mire annessioniste e volontà di dominazione e assoggettando la società tedesca a un processo di militarizzazione senza precedenti. Le difficoltà del fronte interno, nella Germania stretta dal blocco dei rifornimenti e dalla coalizione degli avversari, sarebbero sfociate sul finire del 1918 in una crescente volontà di pace e nella aspirazione ad un sistema parlamentare che sottraesse al Kaiser e ad una ristretta équipe dirigente, succube del potere militare, le scelte decisive del paese. [31381] L’abdicazione del Kaiser, piegato dalla sconfitta militare, il 9 novembre 1918 diede via libera alla proclamazione della repubblica. Essa sorse più dal venir meno dell’impero che da un moto popolare. La rivoluzione di novembre, di cui furono protagoniste le minoranze della sinistra socialista e comunista, non fu in grado di conferire alla repubblica il volto di una radicale trasformazione. Nel gennaio 1919 le elezioni per l’Assemblea nazionale costituente, che si riunì a Weimar, lontano dagli scontri politici e sociali della capitale, offrirono la prima risposta alle rivendicazioni di alternative radicali di tipo socialista o sovietico. Il rinnovamento della società tedesca avvenne a metà: alle trasformazioni istituzionali, simbolo delle quali era la stessa proclamazione della repubblica, non si accompagnarono trasformazioni strutturali – né una riforma agraria che spezzasse il potere del latifondismo prussiano, né una riforma industriale che colpisse i gruppi monopolistici – capaci di modificare il rapporto tra le classi e di operare una redistribuzione del potere sottraendone il monopolio ad agrari e grandi gruppi capitalistici. La stessa trasformazione istituzionale incontrò limiti severi, che dovevano ritorcersi contro la democratizzazione dello stato e della società: la continuità della burocrazia, dell’amministrazione della giustizia, in qualche misura dello stesso potere militare, cui i socialdemocratici moderati avevano affidato il mantenimento dell’ordine nel momento dello scontro con la sinistra radicale, furono tutti fattori che minarono sin dall’inizio la repubblica e che avrebbero sabotato l’attuazione della Costituzione democratica. Ridimensionata territorialmente, economicamente e militarmente dal trattato di Versailles, la Germania riceveva con la Costituzione dell’agosto 1919 un ordinamento politico sulla carta tra i più avanzati dell’epoca. Per la prima volta nella storia della Germania unita erano affermati il principio della sovranità popolare e il primato del sistema parlamentare, temperato dai poteri conferiti al presidente della Repubblica; questi, che doveva risultare da una elezione popolare diretta, poteva in situazione di emergenza sostituirsi agli organi parlamentari e al potere legislativo. Nella prassi, ad opera del presidente P. L. Hindenburg, i poteri presidenziali non funsero da correttivo delle disfunzioni del sistema parlamentare ma concorsero alla distruzione del sistema stesso. Un altro aspetto fondamentale del processo di democratizzazione introdotto dalla Costituzione era il riconoscimento della funzione insostituibile dei partiti politici, che il Reich fondato da Bismarck aveva tollerato ma mai pienamente legittimato. L’introduzione del suffragio universale senza più riserve (compreso cioè il voto alle donne) era il complemento naturale del sistema rappresentativo e del ruolo attribuito alla libera espressione della volontà popolare. L’ordinamento dello stato era in armonia con la conquista dei diritti civili e politici e dell’eguaglianza tra i cittadini. Il Reich acquistava la struttura di uno stato federale, con la presenza di poteri legislativi e di competenze parallele, tra la federazione e i Länder. Come risultato di una drastica semplificazione della struttura federale e della detronizzazione delle dinastie locali, il Reich risultò dall’aggregazione di 17 Länder, dotati tutti di eguali poteri e autonomia. La Prussia rimase il Land di gran lunga più consistente, ma il meccanismo federale impediva che essa potesse trarre privilegio dalla sua dimensione. Questo non significa che non sorgessero problemi nel rapporto centro-periferia e che tutti i particolarismi fossero di colpo scomparsi. La stessa Prussia, che pure, paradossalmente, negli anni della repubblica fu un bastione della democrazia, la Renania, soprattutto la Baviera, con le sue tendenze reazionarie, antiprussiane e antiprotestanti, furono al centro di conflitti con il Reich che denotavano la necessità di un ulteriore perfezionamento della soluzione adottata dalla Costituzione. Quest’ultima, infine, tra le sue novità, apriva la strada a soluzioni di compromesso nel campo della politica economico-sociale, venendo incontro alle aspettative di larghe masse emerse al momento del crollo dell’impero. In un certo senso ispirava un modello di collaborazione tra capitale e lavoro, legittimava ad ogni effetto l’esistenza e la funzione delle organizzazioni sindacali (dei lavoratori come del padronato), quasi a risarcirle della precaria situazione di incertezza anche giuridica che aveva presieduto alla loro esistenza nell’impero. Ma il progetto di una “democrazia economica” sviluppato dal movimento sindacale si scontrò con la situazione oggettiva della repubblica e con le resistenze di un padronato non disposto a perdere il suo potere. La base politica della repubblica fu costituita dal consenso espresso dai partiti democratici della cosiddetta coalizione di Weimar, la socialdemocrazia, il centro cattolico, il partito democratico (espressione dei liberali di sinistra). In realtà, questa piattaforma fu più una eccezione che la regola, rappresentata dall’incessante sforzo di allargare il consenso sul versante della destra, verso l’ala conservatrice del liberalismo tedesco, che fornì con G. Stresemann l’uomo di stato e il ministro degli Esteri di maggiore statura della repubblica. La stabilizzazione della repubblica incontrò due ordini di ostacoli, sul piano internazionale e sul piano interno. Sotto il profilo internazionale la repubblica fu sfibrata dalla lotta per la revisione del trattato di Versailles, dall’imposizione delle riparazioni ai vincitori, dal superamento dei controlli militari imposti con il trattato di pace. La politica di adempimento di Stresemann indicò la via per un onorevole reinserimento della Germania tra le potenze. Ma anch’essa fu violentemente osteggiata dalla destra nazionalista e dall’agitazione nazionalsocialista, che alimentò fra l’altro la leggenda della “pugnalata alla schiena” per identificare nella democrazia la protagonista della sconfitta del 1918. Sin dalle sue origini pertanto la repubblica fu messa in stato d’accusa da uno schieramento di nemici, nel quale si erano aggregati, con i residui del vecchio militarismo e i sostenitori della monarchia, forti tendenze nazionaliste, antidemocratiche per tradizione e per lo spirito bellicista ereditato dalla guerra, e un antisemitismo inasprito dalla sconfitta e dai fermenti rivoluzionari del dopoguerra. Le aspettative riposte nella repubblica come protagonista di una grande trasformazione politica e sociale furono deluse: nel 1925 l’elezione alla presidenza del maresciallo P. L. von Hindenburg, alla morte del presidente socialdemocratico F. Ebert, segnò l’inversione di tendenza. La democrazia fu sconfitta dalle sue debolezze interne e dall’attacco, senza risparmio di colpi, portatole dalla destra antidemocratica, che ebbe la sua punta di diamante nello spregiudicato partito nazionalsocialista di A. Hitler. A partire dalla fine degli anni Venti la crisi mondiale ebbe in Germania uno dei suoi epicentri, data la dipendenza dall’economia statunitense che gli aiuti concordati per il pagamento delle riparazioni avevano generato. Colpito dalla depressione e dalla inadeguatezza dei mezzi per fare fronte alla disoccupazione dilagante, il sistema politico fu messo in crisi dalla gestione extraparlamentare avviata dal cancelliere H. Brüning, con il sostegno del presidente Hindenburg, e soprattutto dalla determinazione e dalla demagogia nazionale e sociale del Partito nazionalsocialista (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, NSDAP); dal 1930 al 1932 questo lavorò sistematicamente per la distruzione della repubblica democratica, operando attraverso l’ascesa elettorale e parlamentare e attraverso la lotta di piazza soprattutto contro le organizzazioni e i militanti socialdemocratici e comunisti. Screditando lo stato democratico e il sistema dei partiti, la NSDAP prometteva l’uscita dalla crisi attraverso la restaurazione di uno stato forte, nel nome di una unità nazionale fondata sul razzismo e sull’antisemitismo, formule di facile presa in un momento di collasso e di lacerazione del tessuto politico e sociale. [31391] Il 30 gennaio 1933 Hitler ricevette dal presidente Hindenburg il mandato di cancelliere del Reich. Il Partito nazionalsocialista, che nelle elezioni del novembre 1932 aveva ottenuto un terzo dei seggi al Reichstag, formò un governo minoritario con i nazionalisti (Deutschnationale Volkspartei) e sfruttò il potere per trasformare il regime politico in senso dittatoriale. Sin dai suoi esordi il nuovo governo si caratterizzò per l’inesorabile scardinamento del sistema democratico e l’implacabile persecuzione degli avversari politici (a cominciare dai marxisti) e di interi gruppi sociali come ebrei e zingari. L’incendio del Reichstag, nella notte del 27 febbraio 1933, offrì il pretesto per una gigantesca caccia all’uomo e la sospensione dei diritti civili. Il 23 marzo 1933 Hitler si fece conferire i pieni poteri da un Reichstag eletto pochi giorni prima in una campagna terroristica e privato di una parte dei suoi membri, dichiarati decaduti o impossibilitati a prendervi parte dalla prepotenza nazista: in questo modo erano poste le premesse materiali per lo smantellamento delle istituzioni weimariane. La fine delle autonomie e dei Länder e la loro sottomissione al Reich fu l’inizio del duplice processo di distruzione di ogni cellula di potere autonomo e di accentramento in un sistema retto dall’alto verso il basso dal principio del capo (Führerprinzip): alla fusione tra lo stato e il partito unico nazionalsocialista si accompagnava l’epurazione dell’apparato statale di ogni elemento non affidabile per ragioni razziali o politiche. La costruzione del vertice del regime fu completata alla morte del presidente Hindenburg, il 2 agosto 1934, allorché Hitler assunse anche, con la più alta carica dello stato, il comando supremo delle forze armate. La struttura del regime si preoccupò inoltre della gestione dall’alto delle grandi masse, dopo lo scioglimento del sindacalismo libero. La legge sull’ordinamento del “lavoro nazionale” (gennaio 1934) stabilì l’ordinamento gerarchico delle imprese e la totale subordinazione dei lavoratori alle autorità aziendali da una parte, alle organizzazioni di massa del regime dall’altra (Fronte tedesco del lavoro), così come le organizzazioni giovanili e femminili del partito nazista avevano già concorso a prefigurare una colossale macchina di organizzazione del consenso, che era anche un poderoso strumento di controllo politico e sociale. L’obiettivo del regime di assoggettare il popolo tedesco a un gigantesco processo di uniformazione e di livellamento collettivo delle coscienze fu conseguito grazie al dispiegamento di due ordini di strumenti: lo sviluppo della propaganda e il controllo centralizzato della stampa e dell’organizzazione della cultura sotto la direzione di J. Goebbels, ideatore di spettacolari campagne di massa (i falò dei libri proibiti nel 1933, la campagna contro l’arte degenerata nel 1937); la creazione di mezzi coercitivi e intimidatori su scala di massa, come i campi di concentramento, attivi sin dal 1933. Apparentemente destinati alla “rieducazione” degli avversari politici, essi divennero subito strumenti terroristici di repressione collettiva, quando non addirittura anticamere della morte, per coloro che ad arbitrio del regime venivano esclusi dalla “comunità popolare” (Volksgemeinschaft). Il concetto della “comunità popolare” non era dissociabile dalla dottrina razzista che doveva essere a fondamento del Terzo Reich. Nella versione nazista l’antisemitismo tradizionale veniva assolutizzato a legge biologica fondamentale della sopravvivenza e dello sviluppo del popolo tedesco e nello stesso tempo usato come strumento di integrazione ideologica; nell’immaginario collettivo l’ebreo diveniva fonte di disgregazione della razza pura e protagonista di tutti i momenti di frattura di una presunta armonia sociale e spirituale e del complotto internazionale contro il Reich. Dopo le prime misure amministrative di penalizzazione degli ebrei, una legislazione apertamente discriminatoria fu imposta con le leggi di Norimberga del 1935, che miravano a costringere gli ebrei, una volta segregati dalla vita civile, ad abbandonare il Reich. Il pogrom del 9 novembre 1938 segnò una accelerazione di questo processo ma anche il preludio di una pressione crescente verso una vera e propria espulsione degli ebrei: il clima di esasperazione collettiva era artificiosamente alimentato nel quadro della preparazione psicologica della guerra, tanto più dopo che la conquista dell’Austria (marzo) aveva accresciuto sensibilmente il numero degli ebrei soggetti alla sovranità tedesca. Il razzismo era una componente organica del progetto di dominazione continentale (destinato in seguito a diventare forse anche mondiale) teorizzato da Hitler sin dal Mein Kampf nella seconda metà degli anni Venti e gradualmente sviluppato dalla politica estera del Terzo Reich. Decisivo in questo versante della politica nazista fu il sostegno delle forze armate, che già avevano appoggiato l’ascesa al potere di Hitler nella speranza di vendicare Versailles. Il riarmo promosso dai nazisti, con lo smantellamento dei residui vincoli di Versailles, consolidò i legami tra il regime e la Wehrmacht e garantì non solo, con l’assorbimento della disoccupazione, la pace sociale necessaria per affrontare la congiuntura bellica, ma anche la strumentazione tecnico-militare indispensabile per perseguire gli obiettivi dell’espansionismo tedesco. Dopo il successo di prestigio conseguito con il plebiscito della Saar, che nel gennaio 1935 votò a grande maggioranza per la riunione con la Germania, il regime nazista passò a realizzare, una dopo l’altra, le sue rivendicazioni territoriali, mascherate nella prima fase dal ricongiungimento al Reich dei gruppi nazionali tedeschi al di fuori dei suoi confini. Così fu giustificato l’Anschluss austriaco nel 1938 e alla fine dello stesso anno l’annessione dei Sudeti, grazie al patto di Monaco con Italia, Francia e Gran Bretagna, che, lungi dal salvare la pace, incoraggiò ulteriormente l’espansionismo tedesco. Seguì la distruzione dei resti della Cecoslovacchia e la marcia di avvicinamento alla Polonia, prima tappa dell’espansione all’est come direttrice per la conquista dello spazio vitale (Lebensraum). Una direttrice mal celata dal patto tedesco-sovietico del 23 agosto 1939, cui seguì l’aggressione alla Polonia e lo scatenamento della seconda guerra mondiale, dopo l’ormai inevitabile intervento di Francia e Regno Unito contro la Germania. La guerra, con le esigenze di mobilitazione e di concentrazione delle forze, esaltò ed esasperò i tratti oppressivi del sistema nazista, mentre le SS diventavano sempre più uno stato nello stato. Nel giugno 1941 con l’aggressione all’Unione Sovietica essa compì un ulteriore salto di qualità proponendosi come pura e semplice guerra di annientamento. La Germania, che già aveva conquistato l’Europa occidentale e settentrionale, senza tuttavia riuscire a infrangere la resistenza britannica, coltivò il sogno di un “nuovo ordine europeo” di marca nazista, fondato su una gerarchia di popoli e di razze gravitanti attorno al Terzo Reich, arrivando a pianificare lo sfruttamento di milioni di lavoratori forzati e lo sterminio di intere comunità, come ebrei e zingari. Isolata dal mondo civile e sconfitta dalla coalizione delle potenze antifasciste, essa subì l’invasione del proprio territorio, senza che il popolo tedesco – ad onta del tentativo di attentato ad Hitler del 20 luglio 1944 – fosse riuscito a liberarsi della dittatura nazista. La capitolazione senza condizioni dell’8 maggio 1945 segnò l’epilogo inglorioso del Terzo Reich. [313101] La Germania sconfitta fu sottoposta all’occupazione congiunta di Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Francia. Divisa in quattro zone d’occupazione, secondo gli accordi di Potsdam (luglio-agosto 1945) avrebbe dovuto essere trattata come un’unica entità economica. Privata di un governo centrale, fu soggetta a misure di denazificazione, smilitarizzazione e controllo sulla produzione industriale; inoltre le fu imposto l’obbligo di fornire riparazione soprattutto ai paesi più duramente colpiti dalle invasioni naziste (Francia e Unione Sovietica). Sul piano territoriale, furono posti sotto amministrazione sovietica la Prussia Orientale, sotto amministrazione polacca i territori a oriente dei fiumi Oder e Neisse: di fatto furono così precostituite le nuove frontiere della Germania, quali sarebbero state definitivamente fissate nel 1990, ed essa dovette ricevere la massa delle popolazioni tedesche cacciate dall’Europa orientale, come ritorsione per gli spostamenti etnici e demografici che erano stati imposti in quell’area dai nazisti. Le potenze occupanti non furono in grado di mantenere una politica unitaria: l’unico segno di un accordo tra loro fu la celebrazione del processo di Norimberga contro i principali esponenti nazisti responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità. Le quattro zone d’occupazione divennero ben presto altrettante aree di sperimentazione di modelli politici diversi: l’incipiente conflitto tra Est e Ovest e l’imperversare della guerra fredda posero così una pesante ipoteca sulla ricostruzione unitaria della Germania. Mentre nelle zone occidentali prevalse presto il criterio di passare da una politica meramente punitiva a una politica di rapida ricostruzione e restituzione ai Tedeschi dell’amministrazione, nella parte orientale della Germania l’Unione Sovietica si preoccupava essenzialmente di garantirsi le riparazioni per i danni di guerra subiti e di intervenire sul piano strutturale con la riforma agraria, destinata a spezzare il latifondo (e con esso la casta dei Junker), come permanente garanzia di sicurezza contro la rinascita del militarismo prussiano. I segni della divisione parvero irreversibili nel settembre 1946, quando, dopo l’annuncio a Stoccarda, da parte del segretario di Stato J. F. Byrnes, di una profonda revisione della politica statunitense, ebbero inizio i preparativi per l’aggregazione delle zone occidentali in un’unica amministrazione, con l’obiettivo ormai dichiarato di procedere a una ricostruzione della Germania svincolata da ogni pregiudiziale punitiva. Nel dicembre 1947 la conferenza dei ministri degli Esteri delle quattro potenze (che a seguito degli accordi di Potsdam avrebbe dovuto sovraintendere alla gestione del problema tedesco e registrare i progressi di una iniziativa comune) nella sua sessione londinese doveva prendere atto che su nessuno dei problemi all’ordine del giorno esistevano punti di vista comuni. Il disaccordo sugli aspetti specifici della questione tedesca risultava esasperato dalla più generale divergenza di interessi tra le potenze in una contrapposizione di schieramenti sempre più globale. Allorché nel giugno 1948 le potenze occidentali attuarono nella parte ovest della Germania la riforma monetaria, che si rivelò decisiva per rilanciare la ricostruzione economica e politica secondo le linee della cosiddetta economia sociale di mercato, il blocco di Berlino decretato a fine mese dall’Unione Sovietica innescò una delle fasi di più acuta tensione della guerra fredda; al blocco, proseguito per circa un anno, rispose da parte statunitense la creazione di un gigantesco ponte aereo per rifornire l’ex capitale del Reich stretta come enclave nell’area controllata dai sovietici. Fu in questo contesto che le potenze occidentali promossero la creazione di un Consiglio parlamentare destinato a elaborare il disegno di un ordinamento costituzionale per l’area unificata dell’occidente, a condizione che non fosse ristabilito un sistema centralista ma fosse rispettato il principio di un largo decentramento su base federale. A conclusione della sconfitta provocata dal nazismo si profilava quindi la rottura dell’unità statale e nazionale della Germania. Tale processo sarebbe stato aggravato dalla congiuntura della guerra di Corea, quando l’interesse delle potenze, per la parte di Germania sotto il loro controllo, avrebbe posto sul tappeto non solo l’utilizzazione del suo potenziale economico ma anche l’urgenza del riarmo tedesco. Lo sviluppo di un ordinamento statuale autonomo nella zona di occupazione occidentale sfociò nel maggio 1949 nella proclamazione della Repubblica Federale di Germania, con Bonn come capitale provvisoria; pochi giorni prima il Consiglio parlamentare aveva approvato la Legge fondamentale (Grundgesetz o Basic Law), come fu denominata la nuova carta costituzionale per accentuare il carattere provvisorio della nuova struttura statale in attesa del ristabilimento dell’unità della Germania. In effetti la rivendicazione della riunificazione avrebbe costituito, insieme alla pretesa di essere l’unica parte della Germania legittimata a parlare a nome dell’intero popolo tedesco, uno dei motivi costanti dell’identità politica dello stato tedesco-occidentale. Seguirono il 14 agosto 1949 l’elezione del primo Bundestag previsto dalla Legge fondamentale, il 12 settembre l’elezione del primo presidente della Repubblica Federale nella figura dell’esponente liberaldemocratico Th. Heuss e il 15 settembre quella di K. Adenauer, leader dell’Unione democratico-cristiana (Christlich-Demokratische Union, CDU), alla carica di cancelliere, atti tutti con i quali era formalmente concluso l’iter costitutivo della Repubblica Federale di Germania (RFG). Parallelamente, il 21 settembre dello stesso anno, entrava in vigore anche lo Statuto d’occupazione con il quale le potenze occidentali fissavano le competenze residue e la misura dei controlli che avrebbero continuato ad esercitare sulla Germania. Una prima fondamentale revisione dello statuto si ebbe il 6 marzo 1951, quando furono aboliti i limiti posti alla legislazione autonoma della RFG e soprattutto le fu riconosciuta la facoltà di gestire una propria politica estera, fino allora riservata alle autorità alleate. A questo processo di creazione della RFG e di suo inserimento nell’orbita occidentale l’Unione Sovietica aveva reagito favorendo la costituzione anche all’Est di uno stato separato che si poneva in antagonismo politico e ideologico, in una prospettiva socialista, nei confronti della Repubblica Federale. Sotto la guida del partito egemone nel settore orientale, il Partito di unità socialista (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, SED), sorto nel 1946 dalla fusione tra comunisti e socialdemocratici, con la presenza non solo nominale di partiti (democratico-cristiano, liberaldemocratico, nazionaldemocratico, contadino) destinati ad assicurare il consenso presso altri strati della popolazione, fu convocato un Congresso del popolo che elaborò una Costituzione: con la proclamazione di quest’ultima, il 7 ottobre 1949, si dava vita alla Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Aveva così inizio la vicenda dei due diversi stati tedeschi, avamposti di due contrapposti schieramenti politici e ideologici. [313111] Sotto la guida del cancelliere Adenauer la RFG ebbe come obiettivi prioritari il consolidamento della sua collocazione nello schieramento occidentale e la politica di isolamento della RDT, senza mai rinunciare formalmente all’istanza della riunificazione della Germania alle condizioni dettate dall’Occidente. La congiuntura della guerra fredda assecondò il disegno di Adenauer: occidentalista convinto, egli perseguì la più stretta associazione della RFG con il campo occidentale e in particolare con gli Stati Uniti, anche come garanti militari della sicurezza nei confronti del blocco sovietico. Con il trattato generale del 26 maggio 1952 le potenze alleate accordarono alla Repubblica Federale il massimo di sovranità compatibile con i loro residui impegni a salvaguardia soprattutto della sicurezza; l’ulteriore barriera frapposta tra le due parti della Germania divisa, il 13 agosto 1961, con l’erezione del muro di Berlino da parte della RDT, avrebbe confermato il ruolo della presenza alleata nella conservazione dello status quo, senza che lo scontro diretto tra le due Germanie andasse oltre l’esasperato livello della propaganda della guerra fredda. Inserita ormai saldamente nella ricostruzione economica dell’Occidente, la RFG si avviava anche a partecipare agli oneri militari, fra contrastanti reazioni a livello internazionale e nella stessa opinione pubblica tedesca, cospicui settori della quale erano fortemente contrari a un nuovo coinvolgimento militare dopo la sconfitta del 1945 e i misfatti del regime nazista. Dopo il fallimento, per l’opposizione della Francia, del progetto di Comunità europea di difesa, come espediente di integrazione di unità tedesche in una forza sovranazionale, l’adesione diretta della RFG all’Unione europea occidentale e alla NATO segnò, nel maggio 1955, la cessazione dello Statuto d’occupazione e l’acquisto di fatto della piena sovranità da parte di Bonn. Nel maggio 1957 la firma del trattato di Roma, istitutivo della CEE, sancì la piena partecipazione della RFG, su piede di parità con gli altri stati, al processo d’integrazione, nel cui ambito essa assunse un ruolo di protagonista (talvolta di “locomotiva”, come fu detto) grazie al peso della sua base economica. Al tempo stesso la RFG si servì delle istituzioni europee per ottenere consensi e copertura al proprio punto di vista sulla questione tedesca e dei rapporti tra le due Germanie. Caratteristica della gestione di Adenauer, coincidente anche con gli anni più acuti della guerra fredda, fu l’intransigente rifiuto di qualsiasi riconoscimento della RDT: esso fu sviluppato soprattutto con la “dottrina di Hallstein”, una strategia di isolamento diplomatico e politico della RDT, e la rivendicazione per la Repubblica Federale della rappresentanza unica di tutti i Tedeschi. Tale posizione, unitamente all’acceso antisovietismo ad onta della visita di Adenauer a Mosca del 1955, finì per rappresentare un limite alla libertà di iniziativa della stessa RFG e non risultò più adeguata alla flessibilità richiesta nel momento in cui, con la distensione internazionale, i rapporti tra le due superpotenze imboccavano prospettive nuove. Adenauer lasciò il cancellierato, che aveva tenuto ininterrottamente dal 1949, nell’ottobre 1963; la fine della sua gestione del potere segnò una svolta nella politica interna, in coincidenza con il nuovo clima internazionale di superamento della guerra fredda. Sotto Adenauer la RFG consolidò le istituzioni democratiche stabilite dal Grundgesetz del 1949, non senza accentuazioni autoritarie tipiche della personalità del cancelliere. Dal punto di vista degli schieramenti politici Adenauer, convinto conservatore e politico di vecchia tradizione cattolica, fece della CDU e della sua alleata bavarese, l’Unione cristiano-sociale (Christlich-Soziale Union, CSU) di F. J. Strauss, il perno della coalizione di governo, con l’appoggio di partiti minori e in particolare dei liberaldemocratici e attraverso difficili mediazioni anche nei rapporti confessionali, che la divisione della Germania tendeva a spostare nella RFG a favore della componente cattolica. L’isolamento del Partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) perseguito da Adenauer per ragioni ideologiche, ad onta di ogni pur dichiarata revisione – il programma di Bad Godesberg del 1959 – rafforzò il monopolio del potere da parte della CDU, accesamente anticomunista (il Partito comunista tedesco, già di scarso rilievo, fu l’unico in Europa occidentale ad essere messo fuori legge) e ispirata in campo economico-sociale da una visione solidaristico-organicistica. Non a caso l’eredità di Adenauer fu raccolta, per breve tempo, nel triennio 1963-66, da L. Erhard, che era stato l’artefice e l’ideologo del boom degli anni Cinquanta; il suo cancellierato e quello del successore K. G. Kiesinger (1966-69) segnarono il passaggio a una fase più dinamica, sia nella politica interna, sia nella politica estera. Già Kiesinger, alla guida di una “grande coalizione” che segnò l’ingresso nel governo della socialdemocrazia, aveva dato un segnale delle istanze nuove che premevano sulla RFG. La contestazione studentesca degli anni 1967-69 finì per rappresentare un vero e proprio spartiacque, poiché non fu solo espressione di uno scontro generazionale, ma incarnò una richiesta di democratizzazione della società e di autonomia internazionale, che sarebbe stata raccolta dall’elettorato nelle elezioni federali del 1969. Queste consentirono per la prima volta la formazione di un governo con esclusione della CDU: nacque così la coalizione social-liberale (1969-82), che ebbe come primo cancelliere W. Brandt, presidente della SPD e prestigioso uomo politico, già dimostratosi, come borgomastro di Berlino Ovest, uomo del dialogo con l’Est europeo e con la RDT, accompagnato dalle aspettative di larghi strati della popolazione e dal consenso di masse giovanili che si affacciavano per la prima volta alla vita politica. Tra le istanze fondamentali della coalizione social-liberale fu soprattutto lo sviluppo della Ostpolitik, nel suo duplice significato di superamento dei guasti del passato nazista e di prospettiva duratura di riconciliazione e promozione dei rapporti con l’Europa orientale, che caratterizzò la gestione Brandt. In particolare, la reimpostazione delle relazioni con l’URSS rese possibile anche l’avvicinamento tra i due stati tedeschi, con l’abbandono della vecchia pretesa di rappresentanza unica senza per questo pervenire a un pieno riconoscimento della RDT; ciò consentì una crescita dei rapporti tra i Tedeschi delle due Germanie, una più facile circolazione tra di esse e soprattutto un miglioramento della situazione di Berlino, con la riapertura della comunicazione tra le due parti della città divisa. Il trattato fondamentale tra RFG e RDT del 2 dicembre 1972, che pose fine alla guerra fredda tra le due Germanie, pur non chiudendo il problema tedesco, ne spostò i termini, in un contesto internazionale in fase di profondo mutamento, e ne svelenì gli aspetti più accesamente conflittuali. Costretto a lasciare il governo nel 1974, Brandt ebbe come successore H. Schmidt, che promosse una politica di contenimento del deficit di bilancio e consolidò il prestigio internazionale della RFG. Ciononostante, gli incipienti limiti imposti allo “stato sociale” furono alla base del venir meno di molti consensi alla SPD, mentre il peggioramento della situazione politica trovava riscontro in una recrudescenza del fenomeno terroristico, manifestatosi fin dai primi anni Settanta. La svolta conservatrice auspicata dalla CDU fu infine resa possibile nel 1982 dal rovesciamento di fronte dei liberali (Freie Demokratische Partei, FDP): negli anni successivi la nuova coalizione tra CDU e FDP, guidata da H. Kohl, perseguì una linea di netto ridimensionamento dello stato sociale. [313121] Nel quarantennio della sua esistenza, dal 1949 al 1990, la RDT seguì un percorso politico completamente diverso dalla RFG sia per impulso del contesto internazionale dal quale era scaturita la sua fondazione, sia per iniziativa del nucleo dirigente del Partito di unità socialista (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, SED) che mantenne il monopolio del potere. Nata con l’ambizione di fornire un’alternativa socialista alla rinascita del capitalismo nella parte occidentale della Germania, la RDT si trovò immediatamente ad affrontare le difficoltà di un’area geografica fornita essenzialmente di risorse agricole. La costruzione forzata di una industria di base, a partire dal polo industriale della Sassonia e dall’uso di una riserva di energia tipicamente “sporca” come la lignite, fu all’origine del relativo successo economico che, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, portò la RDT ai massimi livelli produttivi nell’ambito del blocco sovietico. Questo tipo di sviluppo, con il passare degli anni, si rivelò insostenibile per gli oneri che imponeva ai lavoratori: la rigidità delle norme di lavoro fu all’origine della rivolta operaia del 17 giugno 1953, che da Berlino Est dilagò in altre località della RDT e fu repressa sanguinosamente dall’intervento delle forze sovietiche. Essa fu forse l’esempio più vistoso del costo che comportava, per il mantenimento di un consenso intorno alla SED, uno sviluppo forzato modellato sull’esempio dell’URSS e ulteriormente squilibrato dall’esigenza di fornire a quest’ultima le riparazioni imposte dalla conferenza di Potsdam. Già durante la gestione di W. Ulbricht, segretario generale della SED dal 1950 al 1971 e capo dello Stato dal 1960 al 1973, si manifestarono alcuni tratti tipici che avrebbero caratterizzato l’intera storia della RDT: l’affermazione di un sistema politico di fatto a partito unico, un radicale processo di trasformazione dell’economia e un forte protezionismo sociale. La trasformazione dell’economia si basò da un lato sulla crescita dell’industria siderurgica, meccanica e chimica, dall’altro sulla statizzazione più estesa possibile in tutti i settori produttivi (dal passaggio in proprietà collettiva delle terre espropriate nella prima fase della riforma agraria all’industria di nuova fondazione, alle attività artigiane). La scarsità di materie prime accentuò rapidamente la dipendenza dalle forniture dell’URSS. L’integrazione nel COMECON con gli altri paesi del blocco socialista, a partire dal 1955, assicurò l’inserimento in un mercato internazionale retto dai principi dell’economia collettivista e l’uso della tecnologia più avanzata dell’URSS. Soltanto dall’inizio degli anni Settanta, con l’avvio della gestione di E. Honecker, segretario generale della SED dal 1971 e capo dello Stato dal 1976, si perseguì uno sviluppo più orientato verso la produzione di beni di consumo e il soddisfacimento di bisogni primari della popolazione; il sistema, fondato su una scarsa possibilità di accumulazione e su un esteso investimento di forza-lavoro, mantenne una sua misura di efficienza fin quando fu sostenuto dai rifornimenti e dagli scambi con gli altri paesi del COMECON. Fu soprattutto l’erogazione di servizi sociali che procurò un certo consenso da parte della popolazione, malgrado la crescente burocratizzazione del sistema politico, che non consentì mai una reale partecipazione popolare né libertà di espressione culturale. Il permanente conflitto con gli intellettuali e il regime di controllo poliziesco non consentirono di porre salde radici politiche al regime, che fu fortemente screditato dalle ripetute fughe verso l’Ovest. Tuttavia, fin quando non fu travolta dalla resistenza dei capi della SED a prendere coscienza della grande trasformazione avviata in tutti i paesi dell’Est dalle riforme di M. S. Gorbaãëv in URSS, la RDT era riuscita a conservare un suo pur precario equilibrio. Il trattato del dicembre 1972 con la RFG ne aveva riconosciuto il diritto ad autonoma esistenza e gli accordi per Berlino avevano contribuito in qualche misura a mitigare le ripercussioni negative, anche dal punto di vista psicologico, del famigerato muro. Dopo il trattato con la RFG, nel quadro della distensione internazionale, la RDT ottenne il massimo consolidamento della sua situazione internazionale: la visita nella RFG di E. Honecker, ricevuto a Bonn nel settembre 1987 con gli onori dovuti a un capo di Stato straniero, sembrava quasi convalidare, a onta di ogni riserva, la tesi della RDT dell’esistenza di due stati tedeschi. [313131] Alla vigilia delle celebrazioni per il 40° anniversario della fondazione della RDT, si manifestò la crisi che doveva portare al suo dissolvimento: la crescita inarrestabile delle fughe verso l’Ovest, acuitasi nell’estate 1989, mise in evidenza le gravi difficoltà del paese, privo ormai di sostegni dall’Est, così dal punto di vista economico come dal punto di vista politico. È impossibile dire se un tempestivo mutamento di rotta dei dirigenti della SED e una rapida realizzazione di riforme avrebbero assicurato la sopravvivenza della RDT; certo è che il ritardo con il quale avvenne il tentativo di revisione non giocò a suo favore. Quando nel novembre 1989 la pressione popolare costrinse all’estromissione di Honecker ebbe inizio una rapida quanto pacifica dissoluzione del vecchio sistema “stalinista” (per impropria che sia questa definizione). Contrariamente alle aspettative del nuovo presidente del Consiglio H. Modrow, che sperava di negoziare una unificazione concordata con la Repubblica Federale per salvaguardare la specificità della RDT, Bonn, per bocca del cancelliere H. Kohl, non lasciò sussistere alcun dubbio che qualsiasi aiuto alla Germania orientale era subordinato alla prospettiva di un suo rapido assorbimento nelle strutture statali della RFG: non della unificazione tra due stati si sarebbe trattato, ma del dissolvimento della RDT all’interno della Repubblica Federale. L’apertura del “muro” e l’avvio della libera circolazione tra le due Germanie il 9 novembre 1989 aveva rapidamente trasformato la pacifica rivoluzione del novembre nella richiesta pura e semplice di adozione del modello occidentale. Le elezioni del 18 marzo 1990 per la nuova Volkskammer (il parlamento della RDT) videro la vittoria dei partiti conservatori, in particolare la CDU, che più decisamente puntavano alla rapida annessione (sulla base del Grundgesetz) della Germania orientale da parte della RFG. La RDT, con l’intesa per l’unificazione monetaria ed economica, entrata in vigore il 1° luglio 1990, sacrificò di fatto la sua sovranità a quella della Repubblica Federale, che, con intransigenza ideologica, impose il passaggio immediato dall’economia statalizzata all’economia di mercato, aprendo una crisi senza precedenti nel tessuto sociale delle regioni orientali. Il 1° luglio 1990 fu la tappa decisiva nel processo di assorbimento della RDT, formalizzato con l’unione politica del 3 ottobre successivo. Presupposto fondamentale di quest’ultima era stata la definizione con le potenze, e in particolare con l’Unione Sovietica, del nuovo statuto internazionale della Germania, in sostituzione di fatto di un trattato di pace che dopo la seconda guerra mondiale non fu mai concluso. In questo contesto, veniva anche definitivamente confermata la linea Oder-Neisse come confine orientale della Germania unificata: dopo una risoluzione in tal senso approvata in giugno sia dal Bundestag che dalla Volkskammer, essa era formalmente riconosciuta come frontiera tra Germania e Polonia nel trattato firmato dai due stati nel novembre 1990. Gli accordi dell’autunno 1990, pertanto, oltre a ripristinare l’unità della Germania, chiusero veramente le pendenze della seconda guerra mondiale. [313141] L’atto politico più rilevante che accompagnò il compimento formale dell’unificazione fu costituito dalle elezioni pantedesche del 2 dicembre 1990: per la prima volta dal 1932 la popolazione di tutta la Germania tornava a votare per il parlamento di un unico stato tedesco. E contemporaneamente tornava a votare unitariamente la popolazione di Berlino, ora Land della Germania unificata. La consultazione fu caratterizzata da un calo (6% circa rispetto al 1987) della partecipazione elettorale che indicava l’esistenza di riserve nella popolazione di entrambe le parti del paese nei confronti delle modalità con le quali era stata realizzata l’unificazione: all’Ovest il timore di compromettere con i costi dell’unificazione il benessere raggiunto, all’Est la sfiducia in una rapida ripresa dell’economia e la paura di rimanere a lungo cittadini di seconda classe. Dal punto di vista della composizione del nuovo Bundestag (pur nella difficoltà di fare raffronti con le situazioni ben diverse del passato) la CDU-CSU conservava la sua posizione di partito di maggioranza relativa (perdendo tuttavia un punto in percentuale) grazie alla ripartizione equilibrata dei suoi voti nelle due aree ora unificate della Repubblica Federale. Avanzavano i liberali della FDP, grazie ai voti delle circoscrizioni orientali. Subiva viceversa una nuova sconfitta la SPD, che confermava in particolare lo scarso consenso di cui godeva nella parte orientale. Venivano penalizzati (anche dal meccanismo elettorale) i Verdi della parte occidentale, che uscivano dal Bundestag dopo due legislature di feconda presenza parlamentare, mentre il meccanismo elettorale favoriva l’ingresso in parlamento di modeste rappresentanze dell’elettorato delle circoscrizioni orientali. Nel gennaio 1991 Kohl fu dunque ufficialmente riconfermato alla guida di un gabinetto di venti membri (CDU-CSU e FDP), solo tre dei quali provenivano dall’ex DDR: il moltiplicarsi di indagini sugli abusi di potere della Germania Orientale spinse infatti molti ex elementi della SED-PDS a rinunciare a un ruolo all’interno del governo.Al centro delle accuse era anche l’ex leader della DDR Honecker: le indagini a suo carico furono però più volte sospese a causa delle sue condizioni di salute, fino a consentirgli l’espatrio in Cile (gennaio 1993), dove morì nel luglio 1994. Proseguiva, nel contempo, il tentativo di integrazione economica fra le due Germanie: l’assassinio del presidente della THA D.Rohwedder (aprile 1991), attribuito alla Rote Armee Fraktion (RAF, organizzazione terroristica attiva soprattutto negli anni Settanta) non arrestò l’opera di privatizzazione delle imprese di Stato, che fu proseguita dal suo successore B.Breuel. Le autorità tedesche compivano intanto gli ultimi passi istituzionali verso la definizione del nuovo stato: il 20 giugno 1991, dopo accesa controversia, Berlino fu scelta come sede del governo e del parlamento della Germania unita (il trasferimento completo degli organi istituzionali era previsto per il 2000). Si trattava ora di venire a confronto con le conseguenze economiche e sociali della riunificazione.Sul piano economico, a fronte di una ex BRD fortemente stabile, con punte record di occupazione, si incontrava una ex DDR con una produzione industriale arretrata dal punto di vista tecnologico, tassi altissimi di disoccupazione, e impegnata in un difficile passaggio a un’economia di mercato. Nel 1992, la ricostruzione economica in Germania Orientale richiedeva sempre il trasferimento di risorse dall’Ovest con spese di volta in volta maggiori; un quarto del bilancio federale era destinato ai nuovi Länder dell’Est, con conseguente crescita del debito pubblico e inflazione: nell’aprile-maggio 1992, un’imponente serie di scioperi nel settore pubblico scosse il paese. Più pesanti ancora dovevano rivelarsi i costi sul piano sociale. Il tentativo di risanamento delle istituzioni dell’ex DDR, che portò all’arresto di molti ex leader orientali; la difficile convivenza di due popolazioni ancora troppo diverse per storia e mentalità; il sempre crescente numero di immigrati di varia provenienza, con la conseguente esplosione di violenza xenofoba da parte di rinati gruppi neonazisti: tutte queste circostanze venivano a delineare un quadro sociale di difficile gestione. L’incertezza della situazione si evidenziò nei risultati delle elezioni nello Schleswig-Holstein e nel Baden-Württenberg (5 aprile 1992), dove emerse la sconfitta di SPD e CDU e la spettacolare affermazione dei partiti dell’estrema destra. Frattanto, fin dal 1991, i conflitti nel Golfo, nell’ex Iugoslavia e più tardi in Somalia posero bruscamente il nuovo stato tedesco di fronte alle sue responsabilità internazionali. Inizialmente, assorbita dai problemi interni, la Germania non poteva offrire che un impegno limitato (come nel caso della guerra del Golfo); il problema era inoltre complicato da una disposizione costituzionale che sembrava impedire l’intervento della Bundeswehr (le forze armate federali) in paesi non appartenenti alla NATO. Il precipitare degli eventi in Africa e nei Balcani rese urgente una revisione della questione, fortemente controversa: il Bundestag autorizzò la partecipazione al blocco navale contro Serbia e Montenegro (luglio 1992), l’invio di aerei in Bosnia (marzo 1993) e l’adesione alla missione dell’ONU in Somalia (aprile 1993); nel luglio 1994, la Corte costituzionale dichiarò compatibile con il Grundgesetz l’impegno militare al di fuori della NATO, purché di volta in volta sottoposto all’approvazione del Bundestag. Il ruolo della Germania unita nella politica di difesa europea si definì inoltre quando, nel maggio 1992, l’intesa franco-tedesca del 1988 culminò nella creazione di un contingente difensivo comune, gli Eurocorps (operativo dal 1995).La NATO sentì minacciato il proprio ruolo in Europa, fino a che non fu stipulato un accordo (gennaio 1993) che stabiliva stretti legami tra gli Eurocorps e le forze del Patto atlantico. Il ruolo internazionale tedesco si evidenziava anche nel mantenimento dei rapporti con i paesi dell’Europa orientale e dell’area sovietica: già nel settembre 1990 BDR e URSS avevano stipulato un trattato per la reciproca cooperazione; nel 1992 Germania e Russia si accordarono per la cancellazione dei rispettivi debiti e la tutela dell’autonomia dei Tedeschi residenti nella regione del Volga. Sul piano europeo, l’impegno all’interno della Comunità culminò con l’adesione al Trattato di Maastricht (1992) e dunque al progetto per l’unione economica e monetaria europea; il programma suscitava tuttavia reazioni discordi fra i Tedeschi, alcuni dei quali temevano per il mantenimento della sovranità nazionale o della stabilità monetaria, destinata a piegarsi al sacrificio del forte marco in favore della moneta unica (che prenderà il nome di euro). Nel corso del 1993 i problemi sociali ed economici si fecero sempre più pressanti. La drammatica esplosione, fra 1992 e 1994, del terrorismo neonazista (con gravi atti di brutalità xenofoba e antisemita) portò a drastiche contromisure: molte organizzazioni di estrema destra furono messe fuori legge (novembre-dicembre 1992), vennero posti dei limiti alla concessione del diritto d’asilo (maggio 1993) e, un anno dopo, furono inasprite le pene contro gli atti di violenza razzista. Non più confortante era la situazione economica: durante il 1993, la disoccupazione e il debito pubblico raggiunsero livelli che la BRD non vedeva da decenni. Per fronteggiare la crisi economica mantenendosi competitive, tra il 1993 e 1994 le principali imprese, appoggiate anche dai sindacati, adottarono una politica di tagli alle spese, comprese quelle sul personale. Si giunse così nel 1994 ad una generale ripresa economica; al termine dell’anno la THA si scioglieva, dopo aver portato a termine il programma di privatizzazioni. La Germania era allora nelle condizioni di assolvere alle condizioni richieste per aderire all’unione monetaria europea, ma a prezzo di gravi conseguenze sulla spesa pubblica e di un aumento delle imposte. Sul terreno politico, il 1994 fu segnato da ben diciannove appuntamenti elettorali. Ne emersero la sostanziale tenuta della CDU (pur parzialmente indebolita), il rafforzamento dei Verdi, la grave crisi della FDP, il recupero della PDS e il successo della SPD a livello di Land. Un’ulteriore, importante indicazione politica venne dall’avvicendamento alla presidenza della Repubblica: nel luglio, a R. von Weizsäcker (CDU), presidente federale dal 1984, successe l’ex presidente della Corte costituzionale R.Herzog, anch’egli della CDU; si venne in tal modo rafforzando l’incerta posizione di Kohl, relativamente ripresosi dalla crisi del 1993 (dovuta in primo luogo alla dura recessione), ma ancora di fronte a gravi problemi economici e sociali. Ancora una conferma per Kohl giunse dalle europee del 12 giugno 1994, quando la coalizione CDU-CSU si affermò come prima forza del paese (38,8%); oltre a essa, solo SPD (32,2%) e Verdi (10,1%) riuscirono a varcare la soglia del 5% ed entrare nel Parlamento europeo. Il 16 ottobre fu infine la volta delle elezioni legislative, che riaffermarono il primato della coalizione formata da CDU-CSU (41,4%) e FDP (6,9%) nei confronti dell’alleanza di SPD (36,4%) e Verdi-Bündnis 90 (7,3%), evidenziando tuttavia un calo dei partiti di governo (soprattutto dei liberali) a fronte di una sostanziale ripresa del blocco avverso: cancelliere federale fu rieletto Kohl, ma con un margine di soli dieci voti. La PDS rafforzò la sua posizione all’Est (dove ottenne un complessivo 17,7%), riuscendo a entrare nel Bundestag. L’ex partito leader della DDR si avvantaggiava del generale malcontento dei Tedeschi orientali, che iniziavano ad avvertire il disagio di un modello politico, economico e sociale rigidamente imposto da Ovest: privata di qualunque legame con la sua storia passata e penalizzata da un sistema economico che discriminava le regioni e i cittadini dell’Est, la Germania Orientale subiva con intensità doppia gli effetti della crisi. Già nel 1995, infatti, i problemi economici apparentemente risolti dal risanamento finanziario del 1994 iniziarono a riproporsi, con un forte calo dell’occupazione e della produzione industriale. Nel febbraio, dopo aver accettato le restrizioni del 1994, i sindacati dei lavoratori metallurgici proclamarono il primo sciopero dopo undici anni, ottenendo un aumento dei salari e una diminuzione dell’orario di lavoro (7 marzo 1995).Se, inoltre, nel settembre 1995 il ministro delle Finanze Th. Waigel (CDU) dichiarava che l’Italia non avrebbe mai soddisfatto i parametri di Maastricht, fin dall’inizio del 1996 fu chiaro che neanche la Germania era in condizione di rispettarli. Incoraggiato dai positivi risultati delle elezioni regionali in Baden-Württenberg, Renania-Palatinato e Schleswig-Holstein (marzo 1996) e vedendo ancora lontane le elezioni politiche del 1998, Kohl annunciò dunque, nell’aprile 1996, un programma di austerità per il 1997, mirato a limitare il deficit allo scopo di adeguarsi nuovamente ai canoni d’ingresso nell’unione monetaria: il piano, basato essenzialmente su forti tagli alla spesa pubblica, fu aspramente osteggiato, con scioperi e manifestazioni antigovernative. L’unione economica era sempre meno popolare: la SPD seguitava a mostrare un atteggiamento cauto nei confronti di una trasformazione che rischiava di avere come prezzo lo smantellamento dello stato sociale, e la stessa Bundesbank si trovò a manifestare le sue perplessità. I detrattori dell’unione (anche all’interno della maggioranza) erano consapevoli delle difficoltà del paese a fronteggiare la situazione, ma temevano anche l’unione con nazioni, come l’Italia, economicamente più instabili. Più di una volta, pertanto, si accennò a una possibile dilazione di due anni del progetto; qualunque ipotesi di rinvio era tuttavia tenacemente respinta da Kohl, che riteneva imprescindibile un varo puntuale dell’euro. I contrasti emersi nell’ambito del governo sulla moneta unica (estate-autunno 1997) mettevano Kohl in una posizione di debolezza e di stallo, rafforzando al contempo l’opposizione. [314111] Nel 774 Carlo, re dei Franchi, vinse ripetutamente i Longobardi conquistandone il regno. Il nome di Regnum Langobardorum individuò nella penisola un territorio che comprendeva la parte centro-settentrionale della stessa, cui si aggiunse successivamente il ducato spoletino: ma non si ebbe immediatamente una automatica sostituzione dei Franchi ai Longobardi nelle strutture politico-amministrative del regno. Ciò avvenne solo in seguito alle resistenze di una parte dell’aristocrazia longobarda, specie quella delle regioni nord-orientali. Nel 776 una rivolta tentata da Rotgaudo e da Stabilino di Treviso fu stroncata; nel 787 fu definitivamente sconfitto Tassilone di Baviera, che era divenuto un po’ il simbolo della resistenza antifranca; nello stesso anno Arechi, duca di Benevento, era costretto a riconoscere la sovranità del re franco negli stessi termini in cui i predecessori beneventani avevano riconosciuto quella dei sovrani longobardi di Pavia, anche se il figlio di Arechi, Grimoaldo, non si mantenne sempre fedele ai patti e tentò vanamente di contrastare la supremazia franca nella penisola: l’Italia meridionale, dopo questi estremi fenomeni di ritorni “nazionalistici” longobardi, si avviò a un destino storico di grande frammentazione politico-territoriale, di intreccio di componenti etniche, di autonomismi e di lento esaurimento della dominazione e dell’influenza bizantina, che fu risolto solo alla fine del secolo 11° con l’avvento dei Normanni e il successivo costituirsi di una monarchia unitaria dalla Campania alla Puglia, alla Sicilia. Solo dopo questi eventi, e dopo che si rivelò illusoria la costituzione di un regno italico dotato di larga autonomia, anche legislativa (capitolari italici), l’amministrazione del territorio italiano sottoposto alla dominazione franca fu organizzata in contee (al posto dei ducati), progressivamente concesse a personalità franche legate al sovrano da un vincolo di vassallaggio, che rendeva fideles del re uomini formalmente inseriti in un reticolo clientelare costituito da liberi: un reticolo che, a sua volta, si riproduceva all’interno delle singole strutture e distrettuazioni della dominazione franca, contee o marche che esse fossero. La situazione non mutò quando Carlomagno assunse il titolo imperiale. Il prestigio che gli veniva dalle vittorie riportate sui popoli ancora pagani dei Sassoni, Avari e Slavi, alle quali era seguita la penetrazione del cattolicesimo, l’ordine e la tranquillità assicurati in tanta parte dell’antico impero romano, favorirono la ripresa dell’antica mistica regia merovingia, rafforzata dalla suggestione biblica del regno davidico e dall’aspirazione a realizzare in terra l’agostiniana città di Dio. La fisionomia di difensore di Roma e del papato che derivava a Carlo dal titolo di patricius Romanorum, inseriva suggestioni romane nell’ideologia della corte franca e interessava ad essa anche i papi. Sicché si può dire che prima di affermarsi come effettivo istituto storico, l’impero era nell’aria e cointeressava il regno dei Franchi e la Chiesa. Ma quando, il 25 dicembre 800, esso fu realizzato con l’incoronazione di Carlo in S. Pietro, si vide che le due prospettive divergevano. Carlo considerava la corona imperiale quale incremento della propria dignità regia estendentesi su più regni, e come il simbolo di un potere del quale la religione costituiva un particolare settore, secondo il modello già formulato per lui del rex et sacerdos. Per il papato, invece, l’impero era una diretta filiazione della Chiesa, a essa subordinato con compiti politici e militari. Tuttavia per un certo periodo i papi non esercitarono grande influenza nelle vicende franche. Nell’Italia settentrionale il regno, ora frequentemente designato “italico” piuttosto che “longobardo”, fu dopo la morte di Pipino affidato al figlio Bernardo, che pochi anni dopo si ribellò a Ludovico il Pio, probabilmente perché avvertì una minaccia all’autonomia del regno; successivamente il regno fu retto da Lotario, figlio di Ludovico il Pio. Per questa reggenza, durata dall’823 all’844, il regno patì le conseguenze di non avere un proprio re che ne curasse la prosperità, giacché Lotario, impegnato nelle lotte contro i fratelli per la divisione dell’impero, lo considerò semplicemente un rifugio nei periodi di disgrazia. Le strutture carolingie innestatevi da Pipino corsero così il rischio di andare travolte e l’amministrazione pubblica divenne inefficiente. In questa epoca si assiste a un processo di formazione di vasti domini da parte di famiglie aristocratiche, soprattutto di quelle che esercitavano funzioni pubbliche nelle marche confinarie, del Friuli, di Tuscia, di Ivrea e di Spoleto. La mancanza di un forte re italico e le crisi della politica carolingia permisero anche tentativi di sganciamento dall’autorità franca a Roma, dove sembra che si costituisse addirittura un partito favorevole al ritorno sotto l’autorità bizantina; facilitarono inoltre l’affermarsi nell’Italia meridionale di una situazione assai grave. Al momento della conquista del regno da parte di Carlomagno, il duca longobardo di Benevento Arechi II, genero di re Desiderio, aveva preso titolo di principe e atteggiamenti di erede e difensore della tradizione longobarda. Favorito da un’economia prospera, arricchito da influenze bizantine e addestrato per il continuo stato di guerra con le città italico-bizantine della costa (Napoli, Amalfi, Sorrento), il principato di Benevento oppose fiera resistenza alle campagne che Carlo e Pipino condussero contro di esso, riuscendo a conservare una sostanziale indipendenza. Anche nella cultura il meridione longobardo fu, nel 9° secolo, assai vivace. Ma la divisione dell’aristocrazia in fazioni e le velleità anarchiche dei singoli signori causarono presto la rottura del principato in due aree politiche, entrambe col titolo di principato, quella di Benevento e quella di Salerno, cui si aggiunse presto la contea di Capua. Così diviso, e in continuo stato di lotta, il meridione longobardo divenne facile preda per le scorrerie dei Saraceni che, dalle coste della Tunisia, tenevano sotto una minaccia costante le popolazioni costiere. Nell’827 essi avevano intrapreso la conquista della Sicilia, cacciandone progressivamente i Bizantini che ancora la tenevano. Chiamati spesso come mercenari dai potentati meridionali in lotta fra loro, i Saraceni giunsero a insediarsi stabilmente a Bari, Taranto, Reggio. Le loro imprese s’imposero all’attenzione di tutto l’impero quando, nell’846, una banda saracena giunse fino a Roma mettendo a sacco le basiliche degli Apostoli. Il figlio di Lotario, Ludovico II, coronato nell’844 re dei Longobardi e promosso nell’850 alla dignità imperiale, associato dapprima al padre, e, dopo la morte di questo, unico imperatore, proprio per le divisioni ereditarie dell’impero fu limitato ad esercitare la sua autorità sul regno italico. Ma proprio per questo il suo periodo ebbe grandi conseguenze nella storia d’Italia e dell’impero. La sua attività volta a ricostruire le strutture del regno italico ridandogli efficienza e ad affermare la sua autorità in Roma e nel meridione, ove s’impegnò a cacciare i Saraceni e a stabilire un’egemonia sui potentati locali, ridiede unione e prestigio al regno. A partire da lui la dignità imperiale si legò indissolubilmente con la corona italica; d’altra parte, privo d’autorità oltralpe, egli cercò nel papato la sanzione delle sue prerogative, finendo con l’accettare la teoria imperiale romana. Così, dopo la sua morte senza successori diretti, sia il papato, ormai fortemente interessato nelle questioni del regno, sia l’aristocrazia comitale che l’episcopato italico, che durante il suo regno si erano rafforzati, poggiandosi l’una sui possessi fondiari organizzati mediante la fusione tra le strutture agrarie italiche e le consuetudini feudo-vassallatiche importate d’oltralpe, l’altro sulle già vivaci forze cittadine della regione padana, cercarono di assicurare al regno un sovrano, scelto tra i principi, carolingi e non carolingi, che lasciasse sperare una prosecuzione delle direttive di Ludovico II. Fu fatale al regno che nessuno dei sovrani prescelti vivesse più di qualche anno, eccezion fatta per Berengario I, marchese del Friuli, divenuto re alla deposizione dell’ultimo carolingio, Carlo il Grosso. Da parte sua, il papato prese talvolta atteggiamenti contrastanti con quelli dell’aristocrazia; ma anche gli orientamenti dei conti si allontanarono da quelli dei vescovi, e mentre questi consolidavano il loro potere nelle città, finendo per diventarvi gli unici rappresentanti dell’autorità pubblica, gli altri furono coinvolti nella crisi che in tutta Europa travolse, alla fine del 9° secolo, l’aristocrazia di origine carolingia, che fu spazzata via dalla scena politica. Si assisté così, tra la fine del secolo 9° e la metà circa, del secolo 10°, alla crisi degli ordinamenti pubblici che la dominazione franca non era riuscita, per quanto si è detto poc’anzi, a radicarsi efficacemente nella parte centro-settentrionale della penisola. Questa crisi si manifestò ampiamente nel periodo che, con molta approssimazione e imprecisione, una certa storiografia ha chiamato dei re nazionali, in quanto subentrarono l’uno all’altro esponenti della residua grande feudalità laica italica: Berengario I, Guido e Lamberto di Spoleto, poi ancora Berengario I, che si succedettero e si combatterono, arrivando anche al titolo imperiale, senza peraltro mai riuscire a costituire un organismo politicamente e territorialmente compatto, senza mai garantire l’autorità del potere pubblico, coinvolti nelle vicende papali che, parallelamente alla crisi del potere pubblico, videro progressivamente contraddistinta la storia della Chiesa di Roma da contrasti tra fazioni di famiglie di potenti locali, che miravano al controllo del trono pontificio come elemento aggiuntivo di prestigio per una dominazione particolare, su Roma e sulle terre immediatamente circonvicine. La crisi di autorità diventò pertanto generalizzata in tutte le strutture della società italica e poté offrire un quadro di disfacimento completo a quella storiografia che ha considerato questi eventi da un punto di vista per così dire etico-politico. In effetti, questa crisi di autorità consentì, a livelli meno verticistici del processo storico, il costituirsi di condizioni favorevoli al riaggregarsi del potere su di una base diversa, molto più efficace di quella lasciata in eredità dall’ordinamento pubblico carolingio. Fu notevole, nel periodo, il ricambio sociale dei potenti, sempre più annoverabili fra i vassi di antichi ed esautorati signori dell’antica feudalità: caso esemplare quello della famiglia che doveva tra il secolo 10° e il secolo 11° dare vita a una dinastia tra le più importanti e influenti della storia medioevale d’Italia, quella dei Canossa. Proprio la crisi d’autorità del secolo 10°, almeno sino all’avvento della dominazione di Ottone I e dei suoi successori, favorì una diversa organizzazione del territorio in relazione all’esercizio di varie giurisdizioni. Per la storia della Chiesa, la crisi comportò oggettivamente, in ambienti monastici, un recupero dei valori spirituali che la perdita di identità del papato aveva obliterato nella sede apostolica. Un’identità rivendicata anche da grandi figure di vescovi, quali Attone di Vercelli e Raterio di Verona. Impossibile perciò aderire acriticamente al generico giudizio storiografico che vuole il periodo compreso tra la fine del secolo 9° e la seconda metà del secolo 10° come un’età ferrea. Al collasso del mondo carolingio fa contrasto l’accresciuto vigore dell’impero bizantino che, sotto la dinastia macedone, tentò la riconquista dell’Italia meridionale, riuscendo a riorganizzare le vecchie province e a trarre sotto la sua influenza il principato di Benevento, senza poter però eliminare il rinnovato pericolo saraceno. In tutta Italia mancavano perciò forze capaci di ricostituire sistemi politici meno elementari e di rinnovare l’ideale carolingio della pax et iustitia. Un tentativo di restaurazione dell’autorità regia si ebbe con Ugo di Provenza, che cercò di attirare nel suo potere anche Roma ed ebbe rapporti cordiali con Bisanzio. Il carattere troppo personale del suo potere e l’inadeguatezza dei mezzi con cui cercò di dominare un mondo politico frazionato e tumultuoso suscitarono la ribellione della nuova aristocrazia affermatasi in Italia nel 10° secolo, capeggiata dal marchese Berengario d’Ivrea che, con l’appoggio del re di Germania Ottone, si assicurò nel regno un’altissima posizione come controllore di Ugo. Ma quando, alla morte di questo, Berengario tentò di farsi a sua volta re, Ottone intervenne; fattosi proclamare re d’Italia a Pavia nel 951, ne diede l’investitura a Berengario. Ma poi, per invito di papa Giovanni XII, minacciato da Berengario, scese in Italia. Nel 962, riceveva dal papa la corona imperiale. [314121] Ricevuta dal papa la corona imperiale nel 962, Ottone re di Germania univa al suo regno le sorti dell’Italia. Di qui una certa germanizzazione del Trentino, del Friuli e dell’Istria, organizzati in feudi tedeschi per meglio assicurare la comunicazione fra i due regni. Ma Ottone sentiva profondamente la sua funzione imperiale come una missione, non soltanto politica, ma anche religiosa. Basterebbe già questa particolare concezione a spiegare il suo sistematico intervento nell’organizzazione ecclesiastica e la sua intransigenza nel voler piegare la Chiesa, incominciando dal papa, alle sue direttive. Ma c’è di più: Ottone si era proposto di affidarsi alla feudalità ecclesiastica, non ereditaria. Consolidata la sua autorità in Germania e nell’Italia regia, Ottone si volse anche verso l’Italia meridionale. Ma dopo alcuni iniziali successi, tutto ciò che egli poté realizzare fu la conclusione di un matrimonio tra la principessa bizantina Teofano e il suo figlio ed erede Ottone II. Da tale matrimonio Ottone II era quasi fatalmente portato a concretare la sua azione e le sue energie nella politica meridionale. Ma una tremenda sconfitta, subita nel 982 a Stilo di Calabria a opera dei Saraceni, poneva termine ai suoi sforzi, e, un anno dopo, egli moriva. Gli succedeva, ancora fanciullo, il figlio Ottone III, che l’educazione classica ricevuta dalla madre Teofano e dal precettore Gerberto di Aurillac e, ancor più, un’immaginazione vivida e affascinata dall’idea di Roma, spinsero a quella renovatio Imperii, che, nell’intento di restaurare gli antichi leggendari fasti della Roma cristiana e imperiale, lo indusse a trasferire direttamente a Roma la capitale del suo impero sostanzialmente germanico. L’unico risultato pratico, scaturito da questo sogno, fu un più sistematico assoggettamento dell’organismo ecclesiastico alla volontà imperiale, e un più scoperto favoreggiamento dei vescovi a danno della feudalità laica. Il risentimento provocato in questa dalla politica sassone esplose violentemente. Morto Ottone III (1002), mentre in Germania si svolgeva una breve contesa per la successione, in Italia si accendeva ed estendeva la lotta fra feudatari ecclesiastici e feudatari laici, i quali, in odio alla dinastia di Sassonia, designavano al regno italico Arduino, marchese d’Ivrea. Ben presto, però, l’imperatore Enrico II aveva ragione della sua resistenza, e falliva così l’ultimo tentativo di ricostituire un regno indipendente. Se di un programma politico si vuole parlare a proposito degli Ottoni (ma più opportuno sarebbe limitare alla sola personalità di Ottone I quel supposto programma) si deve precisare che esso si esplicò come tentativo di “definizione” del potere effettivo esercitato da signori e, specialmente, da enti ecclesiastici profondamente inseriti nel tessuto sociale e politico della realtà italiana alla fine del secolo 10°. Ma anche così ridefinito quel programma avrebbe richiesto una diversa qualità e una diversa durata della presenza e del controllo imperiale, da esercitarsi anche, e forse soprattutto, nei riguardi della Chiesa di Roma. Ma questa presenza non si realizzò durevolmente né con l’ultimo dei Sassoni, Enrico II, né con il primo imperatore della casa di Franconia, Corrado II il Salico, nonostante sporadici interventi, operati più che altro a beneficio dei propri interessi imperiali (il caso ricordato della guerra di Enrico II contro Arduino d’Ivrea e quello di Corrado II nella spedizione in Borgogna e nella contesa tra vassalli minori del potente arcivescovo di Milano, Ariberto). Nel Mezzogiorno invece, dopo il fallimento degli Ottoni, rimaneva saldo il predominio bizantino sull’antica Longobardia minore. Inoltre i Saraceni, pur sempre saldamente radicati in Sicilia, erano in declino e le loro incursioni contro le città costiere andavano rallentando per la più energica ed efficiente difesa opposta dalle città marinare, passate anzi all’offensiva. [314131] Con un aspetto politico, frastagliato e incoerente, si presenta l’Italia subito dopo il Mille. Nessuna salda costruzione statale erano riusciti a stabilirvi i vari conquistatori. Questi avevano costituito, accanto o al posto dei grandi proprietari fondiari della decadenza romana, i quadri dirigenti. Ma il loro distacco e la netta separazione dagli strati sociali inferiori condizionava la loro azione politica di classe dirigente. Nessuna salda e duratura costruzione politica era possibile in queste condizioni, ma soltanto organismi instabili come i loro protagonisti. Eppure quelle forze sociali, per quanto ricacciate indietro e compresse, non erano state distrutte; anzi, in un lavoro lento di secoli, si erano venute organizzando e facevano sentire, talvolta indirettamente, ma sempre più, la loro presenza, proprio in Italia prima e più intensamente che altrove. Il mondo signorile e “feudale”, costretto ad allargare di continuo le sue basi nel tentativo di domare le energie ribelli, e sottoposto a questo assalto, finiva col dare via libera a quelle forze che poi sarebbero riuscite a distruggerlo. Una qualche sopravvivenza di ordinamenti civili romani, una più intensa attività economica, i molti allodi, e, soprattutto, il gran numero di città avevano mantenuto in vita un artigianato libero e più qualificato, una certa economia di scambio, in una parola una più ricca e civile vita cittadina. Già a partire dal secolo 9° molte città italiane possedevano una certa personalità giuridica con proprie libertà civili, articolatesi nell’ambito del potere del vescovo, che quelle libertà promuoveva e rafforzava. Apparivano i primi organi, rudimentali, di amministrazione autonoma, con funzioni limitate agli usi civici, alla vita religiosa, alla giurisdizione. Era un’organizzazione che, naturalmente, si muoveva entro i limiti segnati dal potere pubblico, ma che si rilevava sempre più netta. La potente ripresa economica portava in alto nuovi ceti sociali e dal secolo 10° in poi tutta l’antica struttura sociale fu in movimento. Non ci fu, si può dire, avvenimento che, in un modo o nell’altro, non favorisse questa dinamica, che aveva il suo centro propulsore nella città, con l’attrazione che esercitava sugli abitanti circostanti e con gli impulsi verso una più intensa e più differenziata attività economica. A partire dal Mille, dunque, la storia italiana si fa complessa e più mossa, con la partecipazione di nuovi e più numerosi attori: le città e tutte quelle forze sociali che nella città si incontrano e si scontrano. Significativo è il ripiegare dei Saraceni dal Mediterraneo sotto l’energica offensiva delle città marinare, Amalfi, Napoli, Gaeta, Pisa, Genova, Venezia. Ma fu soprattutto nel Settentrione che questo impetuoso movimento cittadino s’impose; col decadere di Pavia, la capitale del Regno Italico, Milano acquistò sempre maggiore autonomia all’interno e prestigio all’esterno, sotto il potentissimo arcivescovo Ariberto, il quale osò sfidare lo stesso imperatore Corrado II e resistere con successo al suo assedio, assistito dal popolo. Dappertutto la piccola feudalità, che aveva sentito viva la spinta a inurbarsi, aspirava a un più sicuro e stabile possesso dei suoi uffici e benefici e riuscì, con il concorso della cittadinanza, a piegare lo stesso potentissimo Ariberto. Siamo già, praticamente, al comune. La Constitutio de feudis, emanata nel 1037 da Corrado II, assicurava ai piccoli feudatari l’ereditarietà dei loro benefici e la protezione imperiale. Fu un colpo inferto alla grande gerarchia ecclesiastica, da cui l’imperatore andava distaccandosi; e ne approfittarono le popolazioni cittadine per allargare e consolidare le loro autonomie. Tutto era allo stato fluido in questo periodo di così intensi rivolgimenti sociali, politici, religiosi. Il grande movimento riformatore della Chiesa e la lotta delle investiture che ne seguì costituiscono l’unico sfondo su cui si andarono compiendo due processi che, per quanto opposti nella direzione, a quel grandioso movimento si collegano: l’unificazione politica del Mezzogiorno ad opera dei Normanni e la disgregazione della vecchia struttura politica dell’Italia centro-settentrionale sotto l’erompere delle energie comunali. [314141] Condizionata dal suo inserimento nelle strutture politiche, economiche e sociali della società, ma anche condizionante a sua volta quelle strutture, la Chiesa (o meglio i vari enti ecclesiastici come chiese episcopali, monasteri) si presentava nei primi decenni del secolo 11° come una forza non diversa da quelle che agitavano il complesso mondo della realtà italiana. Per dire che essa non era sostanzialmente né peggiore né migliore di queste: solo che essa doveva ancora presentarsi con uno “statuto” di legittimità che aveva identità diversa da quella dei vari potentes laici, imperatori, re, signori che nella coscienza collettiva avrebbero dovuto trovare nel clero un correttivo per la propria condotta, non un’immagine speculare della stessa. Così quelle che le tendenze riformatrici avrebbero bollato come le più gravi piaghe della Chiesa del secolo 11°, la compravendita di cariche ecclesiastiche (simonia) e la prassi del concubinato (in cui, peraltro, venivano assimilati concubinaggio e matrimonio del clero, la cui proibizione non era così assoluta nemmeno nella tradizione canonistica) erano le manifestazioni più vistose non di una manomissione o di una ingerenza dei vari potentati laici nelle cose interne della Chiesa, bensì dell’integrazione della stessa nella realtà del tempo. D’altra parte, i danni erano tanto più evidenti per una Chiesa che si fosse voluta riconoscere in una entità unitaria, organica, compatta: il che non era certamente ancora per l’istituzione che doveva rappresentare complessivamente quell’entità, e cioè la Sede apostolica, pur sempre appannaggio di famiglie romane, di quella dei Tuscolani in particolare, che vide ben tre suoi membri salire al soglio pontificio entro la prima metà del secolo 11°: Benedetto VIII, Giovanni XIX, Benedetto IX. Quei danni erano vistosamente di natura economica, in quanto agendo i singoli enti (vescovati, abbazie) “in proprio” nella gestione dei beni che s’erano accumulati nel corso dei secoli a vantaggio degli stessi, il patrimonio che doveva teoricamente servire alle necessità dei poveri finiva col venire coinvolto in contrattazioni di natura squisitamente politica e clientelare. La clericalizzazione della ricchezza, paradossalmente, finiva col coincidere con l’impoverimento della Chiesa. Il fenomeno non era esclusivo dell’Italia: ma qui aveva assunto, nella generalizzata crisi di poteri politici e amministrativi efficienti, aspetti macroscopici. E tutto ciò spiega perché voci sempre meno solitarie, provenienti da ambienti soprattutto monastici riformati ed eremitici (s. Romualdo, s. Pier Damiani, per ricordare due personalità di spicco altissimo) finissero coll’identificare la necessaria riforma dei costumi del clero con l’esigenza di una riforma del papato. Il movimento riformatore, irradiatosi da Cluny per tutta la Lorena, e appoggiato dallo stesso Enrico III, nella sua concezione unitaria e religiosa di Impero e di Chiesa, si era poi esteso in tutte le direzioni, aveva impregnato tutta la società, incontrandosi con quelle aspirazioni di rinnovamento sociale che da tempo fermentavano un po’ dappertutto, ma specialmente nelle città. In Italia, dove più profonda e operante era l’influenza dell’ordinamento ecclesiastico, dove più vivi e dinamici erano gli ideali della riforma e più vigorosi i fermenti e gli impulsi per un rinnovamento sociale, l’ondata riformatrice raggiunse una particolare intensità. Nella lotta delle investiture, col motivo religioso (la ribellione dei fedeli contro i vescovi indegni e simoniaci) si confuse la ribellione politico-sociale dei ceti inferiori contro il proprio signore. Incoraggiata dai consensi che le giungevano da ogni parte, rafforzata dall’imponente afflusso di nuove e impetuose energie religiose, la Chiesa, da Leone IX a Stefano IX, a Niccolò II, sempre sotto la spinta dell’instancabile azione del monaco Ildebrando, consacrato egli stesso poi pontefice col nome di Gregorio VII, con un continuo crescendo di disposizioni disciplinari, di decreti, di formulazioni teoriche, si liberò dapprima dalla corruzione interna e dalla pesante tutela dell’Impero, per passare poi risolutamente all’offensiva con l’esplicita proclamazione dell’assoluta separazione dello spirituale dal temporale, della Chiesa dall’Impero. Nello stesso tempo, lo scontro con Enrico IV costringeva il papato ad appoggiarsi alla forza militare dei Normanni, che con abilità ed energia andavano raccogliendo sotto il loro potere tutto il Mezzogiorno d’Italia. Da piccoli nuclei di guerrieri e avventurieri, quali erano inizialmente nei primi anni dopo il Mille, i Normanni, sotto la guida spregiudicata e fortunata dei Drengot e, ancor più, degli Altavilla, inserendosi nelle infinite lotte locali, al servizio mercenario di Bizantini, principi longobardi e imperatori, combattendo in ultimo per conto proprio, con Roberto il Guiscardo e Ruggero d’Altavilla, avevano raggiunto una tale potenza da preoccupare perfino la curia romana. Ma Leone IX, che nel 1053 era intervenuto contro i Normanni ed era stato fatto prigioniero ma trattato con ogni riguardo dal vincitore, trovò più conveniente venire a un accordo con essi. Si giunse, così, al concordato di Melfi del 1059, con cui il papa, in nome proprio, concedeva tutta l’Italia meridionale in vassallaggio ai Normanni, avendone in cambio l’assistenza militare nella lotta contro l’imperatore. Con il riconoscimento e l’investitura papale, che costituivano la legittimazione delle usurpazioni e conquiste precedenti, i Normanni ripresero con rinnovato vigore la loro opera di unificazione politica di tutto il Mezzogiorno, dando a questa anche un colorito religioso, specialmente nella conquista della Sicilia musulmana e nell’eliminazione degli ultimi baluardi bizantini. La curia romana dovette accettare la rapida, travolgente avanzata di questi suoi alleati-nemici, che portarono così a termine la conquista del Mezzogiorno. Le maggiori preoccupazioni della Chiesa, del resto, erano rivolte verso l’Italia settentrionale, dove era in pieno svolgimento la lotta delle investiture. Qui lo scontro tra Gregorio VII ed Enrico IV coinvolgeva non solo la feudalità laica ed ecclesiastica, ma anche il popolo delle città e delle campagne, che nelle alterne vicende di vittorie e sconfitte dei protagonisti si faceva sempre più sentire. Papa e imperatore facevano a gara nella concessione di privilegi e di diplomi alle città per averle solidali al proprio fianco nella lotta. L’autorità dell’impero e il potere politico dei vescovi, nell’imperversare delle scomuniche, si erano però allentati. Aumentavano invece le autonomie locali, si rafforzavano e si consolidavano le organizzazioni e le amministrazioni indipendenti, s’intensificava lo spirito associativo, prendeva forma il comune. Questo era il risultato di un lungo e lento processo politico, economico e sociale: la ripresa della vita cittadina con funzioni amministrative e direttive; il formarsi di nuovi ceti accanto ai vassalli del vescovo e alla curia vescovile; l’aumento della popolazione urbana nel rigoglio economico; il formarsi di organi autonomi e circoscritti a determinate funzioni della vita cittadina; la solidarietà e la comunanza d’interessi degli individui nell’ambito di un singolo ceto e professione e il differenziarsi di queste professioni nell’ambito della città e della sua più articolata economia, tutto ciò confluiva, e si consolidava, nell’organizzazione comunale. Occorre, d’altra parte, aver ben presente che l’impulso di accelerazione al processo costitutivo dei comuni fu piuttosto una risultanza oggettiva che non il felice esito di un programma del movimento riformatore della Chiesa. Non si deve infatti dimenticare che la posizione eminente che in città sede di diocesi avevano i vescovi, specie nell’Italia settentrionale, coincideva, molto spesso, con la gestione di un potere che non solo poteva trovarsi in antitesi con i presupposti morali del papato riformatore (nella fattispecie le occasioni di simonia), ma si scontrava con quella sempre più crescente rivendicazione della assoluta e indiscussa supremazia di autorità e di potestà che veniva attribuita alla Sede apostolica e alla persona del papa, epitome della Chiesa universale, da un movimento di idee e da un’elaborazione dottrinale che si determinò intorno alla fine del secolo 11°, anche per effetto della spaccatura verificatasi in seno all’episcopato italiano (e anche tedesco, s’intende) per lo scisma tra Gregorio VII ed Urbano II da un lato e Clemente III (Guiberto di Ravenna, eletto pontefice romano da Enrico IV), dall’altro. Già di per sé questa circostanza contribuiva a indebolire comunque i poteri acquisiti nell’Alto Medioevo dall’episcopato nell’ambito delle funzioni pubbliche della città e del districtus, non potendosi, da parte di quell’episcopato che non riusciva e non voleva prendere posizione a favore di questo o quel contendente pontificio, prevedere quale sarebbe stato l’esito di una lotta durata più di un quarantennio. Non fu infrequente il caso di diocesi che ebbero contestualmente un vescovo “gregoriano” e uno “enriciano”. Nella teorizzazione di un diritto imprescrittibile del pontefice romano a intervenire in ogni contenzioso locale, e non solo come ultima istanza, ma anche in via diretta, l’immagine del vescovo, come sostanzialmente unico referente per la rivendicazione di diritti in ambito cittadino ed extra-cittadino di gruppi sociali emergenti, era indiscutibilmente indebolita e indotta a trovare una collocazione accanto alla nuova realtà politica dei comuni. Ma va ribadito che non era questa la volontà politica dei papi che, pur in una situazione compromissoria, dopo il concordato di Worms e in modo particolare in Italia, si preoccuparono sempre di più dell’affermazione di un organismo politico-ecclesiastico compatto a beneficio della Chiesa di Roma. Senza tener presente questa circostanza, non si troverebbe spiegazione della politica intraprendente fin quasi alla spregiudicatezza di Alessandro III al tempo della lotta dei comuni contro il Barbarossa. E analoga intenzione, su di un fronte anche più largo, muoveva le preoccupazioni papali verso la nuova realtà politica che si andava costituendo nel Mezzogiorno d’Italia con i Normanni: al conte Ruggero, Urbano II concedeva diritti che ne facevano una sorta di legato apostolico nei riguardi della chiesa siciliana (1098); questi diritti sarebbero stati anche ampliati da Pasquale II e da Eugenio III, senza tacere il fatto che, proprio nel momento in cui Ruggero II assumeva la corona regale di Sicilia uno dei papi che si contendevano il soglio pontificio, Anacleto II, riconosceva il nuovo regno, che non avrebbe sostanzialmente subito gravi danni dalla circostanza che, a vincere la contesa dello scisma del 1130, sarebbe stato l’antagonista di Anacleto II, Innocenzo II. Il movimento riformatore aveva favorito, indirettamente, l’unificazione dell’Italia meridionale sotto la dominazione dei Normanni e aveva favorito anche, direttamente, e rafforzato nel Settentrione il movimento delle autonomie locali, dissolvendo il Regno Italico. E con il dileguarsi dell’autorità regia, si sfaldavano anche le grandi circoscrizioni feudali, prima di tutto in Toscana, dove l’estinzione della dinastia dei marchesi di Toscana provocò un lungo strascico di controversie giuridiche e di contese politiche tra l’impero e il papato, che ne rivendicavano l’eredità. L’Italia centro-settentrionale si era perciò frantumata in un’infinita molteplicità di piccoli stati cittadini ricchi di energie economiche, sociali, artigiane e culturali. Eppure, al di sotto del frazionamento politico, anche nel tumultuoso susseguirsi di contese e di lotte, persisteva, e anzi si veniva rafforzando, una qualche coscienza nazionale, alimentata, nell’unità religiosa, dal comune linguaggio, e da una comune cultura che, in un modo o nell’altro, si richiamava al ricordo di Roma, alla sua gloria, al suo diritto. Ma certo prevalevano gli interessi concreti, particolari. Genova e Pisa erano in gara per una penetrazione nel Mediterraneo, accanto alle città già bizantine, quasi ad aprire le strade che furono poco dopo battute dalle crociate. E dalla crociata trassero vantaggi economici le città marinare, come vantaggi e pegni politici e territoriali ottennero i Normanni che vi parteciparono. I comuni italiani, lasciati a sé stessi dall’assenza degli imperatori tedeschi troppo impegnati nelle faccende interne della Germania e nelle relative contese dinastiche, tra 11° e 12° secolo estesero e consolidarono la propria autonomia, avviandosi a diventare dei veri e propri stati cittadini. La città si allargava nel contado, attirandolo e assorbendolo nella sua economia, nella rete dei suoi interessi mercantili e artigiani. Le città più grandi, d’intenso dinamismo, incorporavano economicamente e politicamente i comuni più piccoli, mentre dall’affrancamento dei servi, nelle campagne sorgevano i comuni rurali. Contro la resistenza ecclesiastica, la passione politica si colorava di motivi religiosi, che la grande ondata riformatrice degli anni precedenti aveva messo in circolazione. I discendenti della pataria milanese e lombarda, i fautori della chiesa evangelica, della povertà apostolica, davano man forte e si confondevano con quanti lottavano contro il potere patrimoniale e feudale del vescovo. L’evoluzione del comune verso una più consapevole e organica struttura di stato cittadino; il processo di laicizzazione della società sotto la spinta di una più rigogliosa economia; l’influenza crescente del ceto mercantile, della “borghesia” con i suoi metodi spregiudicati e realistici; la riavviata conoscenza dell’antico diritto romano, tutto questo concorse a creare una spiccata coscienza dell’autorità dello stato, della sua autonomia e della sua specifica funzione. Nella maggior parte delle città italiane, perciò, una lotta aspra e serrata andava svolgendosi tra il loro diritto e i privilegi, le prerogative, le “libertà” della gerarchia ecclesiastica. In questa lotta assumevano talora atteggiamenti di radicale pauperismo evangelico movimenti religiosi, sette, sempre più decisamente sconfinanti nell’eresia. Soprattutto nei centri economicamente e politicamente più impegnati, in Italia e all’estero, si andarono costituendo vere e proprie Chiese catare, organizzate in “credenti” e “perfetti”, in cui era presente un contenuto anche dottrinale, nella dualistica contrapposizione di un dio buono e di un dio cattivo, assumendosi insieme miti presenti anche in sette balcanico-orientali. Contro questo pericoloso attacco, che in Italia a volte si valeva di collusioni filoimperiali, la Chiesa contrappose la sua organizzazione e la sua dottrina; dal secolo 13° l’ordine francescano, con la sua testimonianza capillare di vita evangelica, l’ordine domenicano, con la sua predicazione apologetica, costituiranno, oltre alle repressioni inquisitoriali, gli strumenti più validi per la sua vittoria. Per il momento, sintomo di questo composito fenomeno sociale-religioso fu la figura di riformatore di Arnaldo da Brescia, il quale apparve a fianco di quella insurrezione autonomistica che a Roma nel 1144 si impadroniva della città e tentava d’instaurare un comune. A reprimere questo episodio clamoroso, l’accordo era facilmente raggiunto tra i due sommi poteri. Il nuovo re di Germania, Federico I di Svevia, per la coscienza che aveva della dignità imperiale, era sceso in Italia (1154) allo scopo di riaffermare la sua piena e diretta autorità sul regno, piegando, prima di tutto, le città che, con l’usurpazione delle regalie, tendevano a sfuggire al potere imperiale. [314151] Per quanto il Barbarossa disponesse dell’appoggio, almeno per un certo tempo, della grande feudalità tedesca; per quanto fosse sostenuto dai responsi dei giuristi bolognesi, che, in nome dell’antico diritto imperiale di Roma, vedevano nell’imperatore la suprema e assoluta autorità, tuttavia il suo tentativo doveva fallire contro le forze che si esprimevano attraverso i comuni. L’imperatore poté soltanto riportare successi contro alcuni comuni italiani, agevolato, oltre tutto, da alcuni di questi stessi che, nel timore di essere assorbiti dalle città più potenti, si erano schierati al suo fianco. Contro di lui si levò la coalizione di tutte le città minacciate nella loro autonomia, raccoltesi nella Lega veronese e nella Lega lombarda; e nel blocco intervennero il papa e i Normanni del regno di Sicilia, l’uno e gli altri ugualmente minacciati nella loro indipendenza. Il Barbarossa, sconfitto a Legnano (1176), era costretto a rinunciare alle sue pretese di assoluta supremazia (aveva imposto anche un antipapa, Vittore IV) sulla Chiesa e nella pace di Costanza (1183) doveva riconoscere, sostanzialmente, le autonomie cittadine: va comunque notato che l’esito, e non solo “formale”, della pace di Costanza, in cui non di “comuni” si parlava, ma di “civitates”, poiché con questo termine meglio si individuava una realtà politico-sociale che non un tipo di governo, poté prestarsi, e si prestò, all’equivoco. In linea di diritto, a considerare le clausole di quella pace, l’Impero, in quanto espressione massima di statualità, ne usciva rafforzato, poiché vedeva reintegrarsi nella sua unità di referente della gestione del “publicum” le città che a un certo momento avevano operato in proprio senza una definizione di questa “presunzione” di governo. Ma d’altra parte, e anche in linea di diritto, le consuetudines che si erano praticate da parte delle città e che erano nella dimensione degli interessi di gruppi associati, pur essendo da sempre di rilevanza pubblica, non solo ricevono un riconoscimento, ma ricevono quella precisa definizione anche politica che ad esse era mancata. E così l’autonomia dell’associazione, fondamento principale del fenomeno comunale, vede nel proprio riconoscimento anche quello dello ius proprium, che, senza opporsi in linea di principio alla lex imperiale, è all’origine, anche dottrinale e giuridica, di quella proposta politica polinucleata che alla lunga esautorerà l’Impero. Il quale valeva ancora come suprema sanzione e massima integrazione di condizioni politico-giuridiche fondate sulle pattuizioni e sulle consuetudini, unica forma ipotizzabile di intervento del sovrano in via pacifica. Ma si vide anche dopo il Barbarossa che ogni inserimento in schemi “feudali” della realtà politica comunale finì, per gli imperatori, con il configurarsi come occasione per interventi militari di elementare controllo. L’Impero, perciò, non scomparve dall’Italia. Funzionari imperiali erano presenti in molti comuni, specialmente dell’Italia centrale; molti vincoli sussistevano e si andarono anzi rafforzando tra l’imperatore, alcune città e alcuni grandi signori del contado minacciati dall’espansione comunale. La penetrazione nel Mezzogiorno che il Barbarossa non era riuscito a ottenere con la forza delle armi, si realizzava con il matrimonio con Costanza d’Altavilla di suo figlio Enrico VI: questi, incoronato re d’Italia, assumeva, alla morte del re normanno Guglielmo II, anche la corona del regno normanno. Si creava con questa unione, sia pure personale, delle due corone, una situazione estremamente pericolosa per le città italiane e specialmente per la Chiesa e il suo stato patrimoniale, praticamente accerchiato dalla potenza sveva. Enrico VI aveva saputo spezzare con risolutezza l’opposizione scoppiata in Sicilia tra la nobiltà normanna, che contro di lui aveva posto sul trono Tancredi, discendente di un figlio naturale di Ruggero II. I re normanni avevano portato a un notevole grado di efficienza amministrativa, economica e militare il loro stato, con l’accentramento del potere e un valido corpo di funzionari. Secondo gli stessi criteri, Enrico VI cercò di governare anche il resto dell’Italia da lui dipendente, con una più sistematica risolutezza, rispetto a quanto era già stato effettuato, in questa direzione, dal padre. La morte improvvisa del giovane imperatore svevo (1197) fece fallire, per il momento, la minaccia contro le autonomie locali e contro la stessa indipendenza del papato, che, d’ora innanzi, vorrà opporsi con ogni mezzo all’unione delle due corone. Mentre la lotta dinastica in Germania offriva il pretesto al pontefice, Innocenzo III, di sostituirsi all’Impero, dietro sua ispirazione in Italia si stringevano leghe contro eventuali ritorni offensivi dell’impero stesso. Il pontefice disponeva di una gerarchia sottoposta al suo potere esclusivo e assoluto. Il regno di Sicilia, durante la minore età di Federico di Svevia, figlio di Enrico VI, passava sotto il dominio della Chiesa. E però gli sviluppi imprevisti della IV crociata, organizzata con tanto fervido slancio dal papa, ma guidata, con obiettivi di potenza economica, da Venezia, mostravano il vero volto della situazione. Federico II, pupillo di Innocenzo III, riguardato come lo strumento docile e malleabile da impiegare ai fini della Chiesa, sarà proprio il più energico e spregiudicato avversario; facendo del regno di Sicilia la solida base da cui muovere, egli concentrò le sue energie e i suoi sforzi in Italia, contro i comuni e contro la Chiesa alleatasi ai comuni. [314161] Nelle città italiane si era compiuta, dalla pace di Costanza in poi, una profonda trasformazione. Il comune, retto da un’amministrazione sempre più articolata, tendeva a espandersi non più soltanto nel contado, ma anche nella più vasta regione circostante. Gli ultimi residui sociali, patrimoniali e giurisdizionali del regime feudale erano stati spazzati via; tutti i cittadini dipendevano ormai esclusivamente dall’autorità affermatasi nella città. L’evoluzione sociale ed economica aveva prodotto una più netta contrapposizione di ceti e promosso un attivo e differenziato processo associativo. Alle associazioni degli aristocratici, le “consorterie”, si contrapponevano quelle dei mercanti, con propri magistrati e consoli che si affiancavano, quando addirittura non si contrapponevano, ai consoli del comune. Sulla base di queste associazioni contrapposte, più aspra e accesa si svolgeva la lotta politica per il potere. I contrasti interni si rispecchiavano negli opposti aggruppamenti in cui le città, nonostante il loro individualismo, si raccoglievano, per meglio difendersi dai nemici interni ed esterni; le loro denominazioni di “guelfi” e “ghibellini”, pur derivando dalle lotte dinastiche combattute di recente in Germania, assumevano, trasferite in Italia, un significato diverso: esse trasfiguravano contese strettamente locali, esprimevano rivalità economiche e politiche tra città confinanti, pur contrassegnando spesso la prima le forze popolari e più favorevoli al papa, la seconda le forze aristocratiche e più vicine all’imperatore. Proprio per effetto della maggiore asprezza della lotta politica, la stessa costituzione dei comuni si era evoluta. Al posto dei consoli e dei podestà indigeni era subentrato il podestà di origine forestiera, che dava una maggiore garanzia di amministrazione equa e imparziale, al di sopra delle violente fazioni. Nel podestà, le cui attribuzioni variano da luogo a luogo e per durata e per ampiezza, s’intravede già la volontà di creare una forma di governo sottratta agli urti e alle ripercussioni della lotta fra gli opposti partiti politici. Nelle sue funzioni, sempre più incisive, si può scorgere talvolta l’anticipazione del signore che ben presto trasformerà in signoria il comune. È su questa fluida situazione che cadono l’azione di Federico II e il suo proposito di ricondurre le città autonome del Settentrione sotto l’autorità regia e imperiale. Le sue esitazioni nel dar seguito ai numerosi impegni contratti con il papa per essere riconosciuto nei suoi diritti ereditari a Palermo e in Germania, fra cui la crociata, inasprirono la Santa Sede. Mentre egli era in Terrasanta a trattare un accordo con il sultano, il regno di Sicilia fu invaso. Ma Federico fu pronto a respingere l’attacco e riuscì con tutti i mezzi ad assicurarsi il pieno, esclusivo controllo del regno meridionale. Le costituzioni di Melfi (1231) furono il suggello di una lunga e minuziosa riorganizzazione che assicurava il più efficiente accentramento del potere regio. Quindi la lotta, che si era trascinata subdola e incerta sia contro i comuni, sia contro la Chiesa, esplose in tutta la sua violenza. I comuni avevano, bensì, ricostituito la Lega lombarda, ma questa non era più compatta come una volta. Ci furono molte defezioni di città, che per ragioni particolari, o per rivalità contro città vicine, o per essere governate da consorterie aristocratiche filoimperiali, parteggiavano per l’imperatore, proclamandosi ghibelline. Federico II, inoltre, poteva contare sull’appoggio di potenti signori della Valle Padana, come Oberto Pelavicino ed Ezzelino da Romano, i quali erano a capo, sotto titoli diversi, di un buon numero di città. Ma i comuni, non piegati da una sconfitta, avevano risorse quasi inesauribili da gettare nella battaglia, mentre le forze di Federico II si assottigliavano e si logoravano. Sorsero altresì complicazioni in Germania, dove proprio un suo figlio, Enrico, si ribellò. Il papato, irriducibile, gettò nella difesa della sua indipendenza politica e religiosa ogni sua arma, temporale e spirituale. Alla pubblicistica curialista Federico contrappose quella regalista. Chiesa e Impero davano così una più precisa formulazione dottrinaria alle rispettive tesi: il primato dell’imperatore si richiamava ai principi del diritto romano, mentre la supremazia del papa era proclamata non più su titoli storici, ma risolutamente sull’origine divina della Chiesa, che, perciò, considerava ogni altra autorità terrena come necessaria conseguenza del suo potere spirituale. Il processo dottrinale attraverso il quale il papato, specie dopo Innocenzo III, formulò la teoria ierocratica prima e teocratica poi non deve essere inteso come perseguimento coerente di un programma o come necessaria conseguenza dell’elaborazione sempre più serrata della canonistica da parte dei commentatori del Decretum di Graziano (metà circa del secolo 12°), i decretisti, appunto, ma come dilatarsi e articolarsi della semantica delle formule ecclesiologiche tradizionali. Così al consueto titolo papale di “successor Petri”, “vicarius Petri” subentrò quello molto più pregnante di possibili coinvolgimenti potestativi e giurisdizionali di “vicarius Christi”. Il primato del “vicario di Cristo”, d’altra parte, era il primato della “regalità di Cristo”, nettamente superiore a ogni regalità terrena. L’origine autonoma del potere secolare non era, perciò, messa in causa: ma a cagione del diritto-dovere del papa di intervenire ratione peccati, certis inspectis causis (peccati e casi da valutarsi peraltro dallo stesso pontefice romano) la giurisdizione papale anche sul temporale era giudicata del tutto legittima. L’auctoritas del papa, così, finì coll’interporsi tra Dio e imperatore dando luogo a tutta una simbologia potestativa tratta dalla Scrittura (duo luminaria, duo gladii, Levi e Giuda, ecc.) che fu proprio quella che nella Monarchia Dante avrebbe, con originalità assoluta di approccio, contestato agli inizi del secolo 14°, allorché i presupposti teorici della monarchia papale avrebbero trovato la più assoluta formulazione durante il pontificato di Bonifacio VIII. Sconfitte militari, defezioni di amici e di alleati, sciagure familiari finirono col piegare Federico II, che, morendo, lasciava logorata ed esausta l’economia del regno di Sicilia, prostrata l’autorità imperiale. Con la scomparsa di Federico II, le due parti dell’Italia si andarono differenziando sempre più profondamente. Il Settentrione procedette nella sua evoluzione, mentre il Mezzogiorno si piegò sotto l’amministrazione regia che, se rappacificò politicamente il paese, mantenne però in piedi la vecchia struttura sociale ed economica. Di qui la decadenza di queste province, non alimentate da una borghesia attiva e intraprendente, ma compresse dall’inerzia della grande proprietà fondiaria della seconda metà del Duecento. [314171] Nell’Italia centro-settentrionale era gran rigoglio di vita economica, sviluppo demografico, sorgere di villaggi e di nuovi centri urbani. La borghesia si affermava, vigorosa e tumultuosa, nel commercio, nell’industria, nella politica, sostituendosi, quasi ovunque, nella direzione della città, all’aristocrazia di origine feudale. È la fase detta del “comune di popolo”. Si andava verso forme di economia mercantile. Accanto ai grandi mercanti, sciamanti in ogni direzione, avidi di guadagno e di potenza, facevano il loro ingresso nella storia i banchieri, con le loro filiali sparse in tutta l’Europa. Le piccole imprese artigiane erano controllate dagli esponenti della grande finanza; ma la loro durezza causava talora ribellioni da parte dei ceti umili, invocanti una più diretta partecipazione al governo dello stato cittadino. Intanto la nuova classe dirigente, sotto la spinta degli interessi economici, dava maggiore impulso all’espansione territoriale della città che, anche con la guerra, si avviava a unificare l’intera regione. Di qui l’uso sempre più largo di mercenari. Gli ordinamenti comunali si rivelavano ormai insufficienti e inadeguati a regolare i contrasti sempre più violenti all’interno, e lo stesso espansionismo richiedeva energica continuità di direzione e talora organi capaci di governare situazioni pluricittadine, sorte nelle conquiste-alleanze che raggruppavano ormai e contrapponevano le città a seconda della “parte” che le reggeva. Ormai dal comune si passava alla signoria. La crisi istituzionale e funzionale dell’ordinamento comunale aveva una motivazione antica, che era quella derivata dal principio stesso dell’associazionismo che comportava la partecipazione di tutti i gruppi che costituivano il comune. Divenuto forza di governo il comune, il principio di un potere partecipato si estese a gruppi sempre più numerosi, anche per il prevalere di una concezione “familiare” intercetuale all’interno dei gruppi originari: con le conseguenze di una proliferazione degli elementi di pressione politica, di fazioni, di partiti, di intrinseci (i gruppi momentaneamente vittoriosi nella lotta delle fazioni, rimasti all’interno del comune) e di estrinseci (i gruppi momentaneamente banditi). In alcuni casi, come in quello di Venezia (“serrata del Maggior Consiglio”, 1297), il principio del potere partecipato subì un drastico ridimensionamento, limitando a una ristretta cerchia di gruppi familiari di più antica tradizione di potere il diritto di partecipazione al governo; in altri, e si potrebbero citare le varie normative “antimagnatizie” di Bologna, Firenze, ecc., quel ridimensionamento fallì a livello di normativa, ma si operò di fatto con il prevalere di una parte o di un protagonista che “riassumeva”, in maniera indipendente dagli equilibri istituzionali o dalle supposte funzionalità delle singole magistrature comunali, il carattere totalizzante dell’antico comune parcellizzato. È stato detto molto efficacemente che “lo sbocco della lotta non poteva essere che un governo di parte e di un capo-parte” (Sestan). Esponenti spesso dell’aristocrazia feudale, forti del loro prestigio, delle loro capacità militari e dell’abitudine al comando, scaltriti nei problemi cittadini grazie alla loro attività podestarile, questi signori s’inserivano tempestivamente nelle furibonde lotte cittadine e con metodi molto sbrigativi, alternando astuzia e violenza, riuscivano a impadronirsi del governo. Con i titoli più vari, agivano e governavano in nome del popolo, presentandosi come capi delle forze popolari contro la potenza e la prepotenza dei “grandi”, le cui torri venivano abbattute. Per quanto complicate e multiformi potessero essere le vicende particolari che portavano all’instaurazione della signoria, il signore, qualunque fosse il suo punto di partenza, guelfo o ghibellino, riusciva ad affermarsi sempre facendo leva sulle forze popolari. È segno questo dell’aumentata importanza che i ceti minori e medi avevano acquistato: a lungo premuti e sacrificati agli interessi dei “grandi”, avevano trovato finalmente il loro capo nella persona del signore che ne interpretava e ne soddisfaceva i bisogni, e a lui affidavano la direzione dello stato, pur di essere lasciati liberi di attendere alle loro attività pratiche. Il signore, infatti, assicurava protezione e giustizia, una più efficiente e razionale esplicazione dei servizi amministrativi; garantiva ordine e tranquillità all’interno, successi e prestigio all’esterno, favorendo così gli interessi espansionistici dei ceti mercantili e artigiani. Ché la signoria, oltre tutto, accelerava e consolidava quel processo di unificazione regionale verso cui erano attratte le città più importanti. [314181] La morte di Federico II aveva disgregato in Italia il partito ghibellino. Soltanto Ezzelino da Romano e Oberto Pelavicino, agendo però ciascuno secondo una propria direttiva, resistevano ancora al partito guelfo, il quale trionfava nell’Italia centrale e specialmente a Firenze, divenuta, da questo momento, la roccaforte del guelfismo. Il papato si affrettava a raccogliere i frutti della vittoria nell’Italia meridionale, tentando di assumere la piena e diretta sovranità sul regno svevo. Ben presto, però, i suoi piani venivano intralciati da Manfredi, il quale riprendeva saldamente nelle sue mani il governo della Sicilia, col titolo di re, e tornava a quel programma di intervento politico in tutta l’Italia che era già stato perseguito dal padre Federico II. Il partito ghibellino si risollevava così in tutto il paese, rapidamente, e riconquistava la città di Firenze (battaglia di Montaperti, 1260). Gli appelli ripetutamente lanciati dal pontefice, minacciato da quell’accerchiamento territoriale, a principi stranieri perché intervenissero in Italia furono accolti da Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX. Egli, che già controllava nel Piemonte vasti territori e aveva partigiani in Lombardia, fornito ora di cospicui mezzi finanziari e militari dalle forze guelfe, poté spingersi, senza incontrare resistenza, fin nella Campania e, sul campo di Benevento (1266), metter fine alla potenza sveva in Italia. Ma Carlo d’Angiò, oltre al regno di Sicilia, di cui assumeva la corona, prendeva sotto la sua protezione, alla testa del partito guelfo, tutta l’Italia con il titolo di vicario. Si rinnovava in tal modo il pericolo di accerchiamento per il pontefice, che allora, contro Carlo d’Angiò, favorì l’insediamento di Rodolfo d’Asburgo sul trono imperiale. Tuttavia la potenza di Carlo d’Angiò si faceva valere in tutta la penisola: pretendeva la carica di senatore di Roma e, per le esigenze della sua politica italiana, trasferiva la capitale del regno di Sicilia da Palermo a Napoli. La sua ambizione andava anche verso Costantinopoli, dove, d’accordo con i Veneziani, intendeva ricostruire l’Impero latino d’Oriente che i Genovesi, nel 1261, avevano concorso ad abbattere. Ma le forze di cui disponeva non erano pari alle ambizioni. Già nel Piemonte egli aveva dovuto cedere terreno di fronte a una coalizione promossa da Asti. Nel Mezzogiorno, poi, la sua autorità si andava indebolendo per l’incapacità da lui dimostrata di contenere entro i quadri dello stato le forze feudali che rialzavano la testa. La popolazione soffriva della prepotenza e avidità dei nuovi signori importati dalla Francia, dell’oppressivo sistema fiscale imposto per alimentare l’esecuzione dei vasti piani regali. Il malcontento in Sicilia si era acuito per il trasferimento della capitale, che, oltre a rappresentare una diminuzione di prestigio per la nobiltà isolana, significava anche un sicuro danno economico per tutta la popolazione. D’altra parte Pietro III d’Aragona, avendo sposato una figlia di Manfredi, rivendicava a sé il regno di Sicilia (ma l’espansione nel Mediterraneo era politica aragonese, già iniziata nel 1228 con la conquista delle Baleari) e molti erano gli esuli della nobiltà svevo-normanna che si rifugiavano alla corte aragonese. Nel 1282 questo diffuso e generale malcontento esplose improvvisamente nella rivoluzione dei Vespri, che ben presto si complicò con l’intervento degli Aragonesi, sollecitati dal popolo e dalla nobiltà siciliana. La lunga e rovinosa guerra che ne seguì spezzò in due tronconi l’antico regno di Sicilia. La pace di Caltabellotta (1302) sanzionava questa divisione: la Sicilia restava agli Aragonesi e il Napoletano agli Angioini. La frattura tra la parte continentale e quella isolana del regno di Sicilia è stata considerata per molto tempo come un evento gravido di funeste conseguenze per la storia del Mezzogiorno, poiché avrebbe interrotto un processo di integrazione e di sviluppo unitario nell’Italia meridionale, soprattutto dal punto di vista politico. Tesi sulla quale oggi si discute per più di un motivo. Intanto è difficile ammettere che, con la sperimentazione monarchica normanno-sveva, si fosse raggiunta una unità etico-politica, al di là delle intenzioni e dei disegni che potrebbero essere anche visti tesi a quello scopo; in secondo luogo la stessa “modernità” della costruzione politico-amministrativa dello stato normanno e anche di quello federiciano si è rivelata largamente tributaria di sistemi già presenti nel Mezzogiorno nelle istituzioni bizantine e arabe, che avrebbero comunque operato; inoltre il mito di Federico II ha subito ridimensionamenti o addirittura negazioni in fatto di aperture verso l’attuazione di nuove forme di convivenza tra diverse etnie che popolavano, a metà del secolo 13°, il regno di Sicilia. Anziché rappresentare un momento di innovazione nei rapporti tra Ebrei, Cristiani e Musulmani, Federico II avrebbe segnato l’inizio di un progressivo sganciamento della Sicilia dal mondo islamico. Una valutazione più equilibrata non può non riconoscere, al di fuori di mitizzazioni, che lo Svevo ebbe il merito di avviare, da un lato, lo sviluppo agricolo del Mezzogiorno, con la concentrazione in masserie di stato della frammentazione poderale di curtes preesistenti e, dall’altro, il commercio con una politica di disponibilità verso l’intraprendenza dei mercanti genovesi, toscani e veneziani. Semmai non la rottura della guerra del Vespro, ma l’ingresso angioino nell’Italia meridionale provocò l’interruzione di un processo avviato prima di quell’evento. La crisi di quel processo, d’altro canto, fu crisi di equilibri che si erano andati profilando nel Mediterraneo, per disegni di egemonia angioina e di espansione aragonese, in un quadro ben più largo di quello dell’Italia meridionale. Intanto, col tramonto degli Svevi, si era risolto a favore di Genova il lungo duello di questa repubblica marinara con la repubblica rivale di Pisa. Questa, una delle ultime roccaforti del ghibellinismo, non si risollevò più dalla sconfitta della Meloria (1294), che ebbe per conseguenza la perdita anche dei possessi in Sardegna; ma l’isola doveva ben presto passare agli Aragonesi, per investitura di Bonifacio VIII e poi di Clemente V. Pisa si trovò invece sotto la minaccia della guelfa Firenze, che con successo si andava espandendo lungo la vallata dell’Arno, verso il mare. All’ombra della bandiera guelfa vittoriosa si ponevano sempre particolari interessi, prevalentemente economici, come quelli che conducevano i mercanti genovesi e fiorentini nelle province del regno di Napoli. Una fitta rete di relazioni commerciali collegava ormai tutte le province italiane, ma erano appunto le cause economiche, rivalità commerciali e concorrenza su determinati mercati, che determinavano contrasti e guerre tra le maggiori città. Genova e Venezia si combattevano implacabilmente su tutti i mari, perché l’una voleva escludere l’altra dai porti orientali; la guerra di Chioggia (1378-81) non è che l’episodio più famoso di una secolare contesa. Per analoghe ragioni, Firenze, che si avviava all’unificazione e al dominio di tutta la Toscana, combatté fieramente Pisa e Siena, finché le piegò al suo dominio e alla sua influenza, come già aveva fatto con Arezzo e Pistoia. Lo slancio della nuova economia spinse ben presto oltre i confini italiani mercanti e banchieri lucchesi, genovesi, veneziani, senesi, in una parola “lombardi”, come venivano designati dagli stranieri: essi erano presenti in ogni terra dell’Europa, favoriti, anche, in questa espansione, dagli interessi finanziari della curia di Roma in tutta la cristianità. E tra queste esperienze e contatti con paesi e genti diverse, si viene formando una nuova cultura, mondana e raffinata, tutta rivolta alla ricchezza e alla potenza. Cultura fatta, soprattutto, di diritto e di commercio, di esperienza degli uomini e di pratica utilità. L’Italia andava svolgendo fino in fondo le sue esperienze politiche, nel disinteresse dell’imperatore tutto impegnato nell’espansione dei domini ereditari d’Austria, nella decadenza politica della Chiesa, che non solo in Italia, ma anche in Europa, non riusciva più a far sentire la sua influenza. Non più l’imperatore, ma i nuovi sovrani delle monarchie occidentali, soprattutto il re di Francia, avevano infatti contrastato con successo le ultime velleità teocratiche del papa. La crisi della teocrazia papale era, d’altra parte, determinata anche dall’oggettiva contestazione che si manifestava all’interno della Chiesa per effetto delle tensioni sorte in seno all’Ordine francescano, circa l’interpretazione della Regola. Le dialettiche interpretative del significato e dell’estensione della povertà francescana erano state vivaci sin quasi dai primi tempi francescani, venendo a coinvolgere la posizione stessa dei pontefici romani che, nella quasi totalità dei casi, avevano fatto della capacità di penetrazione nel tessuto sociale del tempo da parte dei Mendicanti e dei Francescani in particolare uno strumento molto efficace di controllo delle tensioni ereticali. Papi come Gregorio IX e come Niccolò III erano riusciti a contemperare esigenze di natura istituzionale dell’Ordine con richieste di rigorosa coerenza dell’identità pauperistica degli esponenti “spirituali”, tra i quali spiccò per dottrina e prestigio Pietro di Giovanni Olivi (m. 1298), la cui Lectura super Apocalipsim, sulla scia dell’esegesi apocalittica di Gioacchino da Fiore, rileggeva la storia dell’umanità disposta in sette età successive e prevedeva, per una sesta età già iniziatasi nei tempi dell’Olivi, la persecuzione della Ecclesia spiritualis da parte della Ecclesia carnalis, nella quale i seguaci dello stesso Olivi e in genere i cosiddetti “spirituali” vedevano raffigurata la Chiesa di Roma, corrotta e mondanizzata. Le vicende del pontificato di Bonifacio VIII, del trasferimento della sede papale ad Avignone, la lotta tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, resero sempre più esasperate le posizioni di riaffermazione radicale della teocrazia papale e della denuncia pauperistica, nel senso di denuncia politico-sociale, che era stata estranea ai primitivi atteggiamenti del movimento degli “spirituali”: l’irrigidirsi della Chiesa era un segnale della consapevolezza della vastità dei coinvolgimenti nei quali era tratta la struttura di potere, per altro assurta a forme organizzative e amministrative estremamente articolate e “statuali”, della monarchia papale. Riapparve in Italia, ma fu breve apparizione, l’impero con Enrico VII. La resistenza di Firenze e l’opposizione di tutte le residue forze guelfe in difesa della propria autonomia resero sterile questo tentativo imperiale. Gli organismi politici, che si erano già affermati in Italia, poterono consolidarsi e procedere liberamente nella loro evoluzione. Nell’Italia meridionale, il regno di Napoli, pur privato della Sicilia, con Roberto d’Angiò (1309-43) aveva prestigio, alla testa com’era del partito guelfo. Ma presto le insufficienze interne di quel regno, la sua economia immiserita, la prepotenza e l’anarchia dei baroni, posero fine alle sue velleità egemoniche, accelerando, anzi, la sua decadenza. Ben più vivaci e vitali erano, invece, le signorie; le quali si erano ormai decisamente affermate nell’Italia centro-settentrionale. L’assenza del papato, trasferitosi con Clemente V oltralpe, aveva favorito il sorgere nello stato della Chiesa, nelle Marche e nelle Romagne di signorie, come i Malatesta, i Da Polenta, gli Ordelaffi, i Manfredi. Ma soprattutto nella Valle Padana si erano via via costituite le più potenti signorie, dopo le prime apparizioni al tempo di Federico II. Dominavano a Milano i Visconti, che erano riusciti ad avere la meglio sui Torriani. A Verona troviamo gli Scaligeri, protesi verso l’unificazione di un vasto territorio che comprendeva e andava oltre il Veneto. A Mantova, dopo i Bonacolsi, si affermavano i Gonzaga e a Ferrara erano da tempo ben radicati gli Estensi. Non è tanto la maggiore o minore estensione territoriale raggiunta dalle singole signorie, quanto l’organicità con cui si presentano, ciò che le differenzia profondamente dai vecchi agglomerati di comuni dell’età precedente. Un processo di livellamento veniva avviato fra le città e i relativi territori che il signore riusciva a incorporare nei propri domini. Si trattava di stati veri e propri, efficienti nei loro servizi amministrativi, con un più moderno sistema fiscale, con una numerosa burocrazia efficacemente controllata e disciplinata dal potere centrale. Con la potenza raggiunta, i signori si erano resi del tutto indipendenti dal popolo che li aveva portati al governo; e avevano infranto gli ultimi vincoli formali facendosi rilasciare dagli imperatori e dai papi i più diversi titoli che consacrassero e legittimassero il loro pieno potere, ormai ereditario. Le loro signorie si andavano in tal modo trasformando in principati. Gli imperatori, nell’impossibilità di esercitare, in Italia, una qualsiasi autorità, non potevano fare di meglio che rilasciare questi titoli, che per lo meno davano, con qualche vantaggio finanziario all’atto dell’investitura, la sanatoria giuridica a una realtà di fatto che essi non erano in grado di modificare. Emersero fra le altre, per posizione geografica, potenza militare, ricchezze economiche, le signorie degli Scaligeri a Verona e dei Visconti a Milano. Da Avignone, dove i papi avevano fissato la loro sede, il papa Giovanni XXII, valendosi della vacanza imperiale, aveva cercato di assumere il controllo di questa parte dell’Italia con l’invio di un suo legato, il cardinale Bertrando del Poggetto. Ma le armi anche spirituali adoperate dalla Chiesa si spuntavano contro le argomentazioni dei giuristi e provocavano, ancora una volta, una più accesa propaganda anticurialista cui si accostavano, ma senza vera incidenza, gli ultimi movimenti ereticali, per lo più nati dall’inquieto mondo francescano (fraticelli). La consapevolezza dell’inadeguatezza degli schemi interpretativi del potere monarchico del papato si manifestò a livello dottrinario soprattutto nell’opera teorica di Marsilio da Padova, medico e politologo, con il quale, attraverso le opere più significative in questo ambito, il Defensor pacis e il Defensor minor (scritte rispettivamente nel 1320-24 e nel 1341-42), il processo di totale depoliticizzazione del papato, a livello teorico e sulla scorta di una rigorosa applicazione di principi aristotelici, si compie nell’analisi del significato della legge. Essa è una regola coattiva che impone ai giudici di punire il trasgressore, ha un carattere tecnico e positivo e fonda la sua validità sul fatto che il legislatore è il popolo o la sua parte prevalente. La legge divina – se ancora si debba parlare di legge in senso proprio – ha carattere di coazione non in questo mondo, ma in quello futuro e l’obbligo di osservarla vale per i fedeli in quanto tali, non in quanto cittadini o sudditi: nel Defensor minor si ha una netta scissione tra “obbedienza” alla legge divina e “obbligo” della legge umana. Intanto, sul piano propriamente politico, la lotta tra il papato e le signorie settentrionali si complicava con l’intervento di Ludovico il Bavaro. Non essendo stato riconosciuto imperatore dal papa, egli faceva proprie le tesi anticurialistiche di Marsilio da Padova e si faceva proclamare imperatore in Campidoglio dal popolo romano (1328). Ma, nonostante tale incoronazione, Ludovico il Bavaro dovette tornare in Germania senza nulla aver concluso, inviso e disprezzato dagli Italiani per la sua avidità di denaro e per la sua impotenza militare. Altrettanto effimera e priva di effetti duraturi fu la venuta in Italia, dopo la partenza del Bavaro, di Giovanni di Boemia, figlio di Enrico VII, sollecitato dal papa contro i Visconti. Egli poté, nel giro di pochi mesi, costituire una vasta signoria che andava dall’Adriatico al Tirreno; ma con la stessa rapidità scomparve dalla scena sotto i colpi di una coalizione, la lega di Castelbaldo, comprendente quasi tutte le forze italiane. Anche il cardinale Bertrando del Poggetto, che con tutte le sue manovre aveva determinato questo sconquasso in Italia, doveva rassegnarsi al fallimento della sua impresa, mentre dopo questo attacco papale, vittoriosamente respinto, le signorie settentrionali proseguivano nella loro ascesa, nel loro consolidamento interno e nei tentativi di espansione a danno delle formazioni politiche vicine. [314191] Il Mezzogiorno, dove Roberto d’Angiò aveva significato il centro del guelfismo italiano e gli aveva dato prestigio, rivelava le sue intime debolezze. Dissanguato dalla lunga guerra contro gli Aragonesi per la riconquista della Sicilia, il regno di Napoli, nonostante lo splendore della sua corte, era economicamente inaridito. L’autorità regia era stata corrosa e sempre più svuotata dalle grandi concessioni fatte al clero, ai baroni, alle autonomie locali. Si attuava così un vero e proprio feudalesimo baronale che eliminava le ultime città demaniali, infeudate per necessità finanziarie. Il fiscalismo era oppressivo e distruttore delle stesse fonti della ricchezza, mentre le immunità, numerosissime, riducevano le entrate. I baroni erano sempre più infidi e riottosi e le popolazioni, senza difesa e protezione, cadevano sotto il giogo dei grandi signori. La situazione si fece peggiore, alla morte di Roberto (1343), con la giovane, volubile e dissoluta nipote, Giovanna I. Intrighi e lotte dinastiche provocarono anche l’intervento degli Angioini di Francia e Ungheria. Qualcosa di simile si verificò nel regno di Sicilia, dove l’autorità centrale cadde in balia dell’aristocrazia, che, vera arbitra del governo, s’impadronì progressivamente di tutte le prerogative della corona. I maggiori e più dinamici centri della vita e della politica italiana erano dunque nel Nord, nella Valle Padana e in Toscana: qui si affermarono le ideologie politiche, il nuovo guelfismo capeggiato dai Fiorentini e il ghibellinismo visconteo. Nel corso del secolo 14° andarono progressivamente scomparendo, assorbite nei più solidi ed estesi stati regionali, numerose piccole signorie locali, che prima tenevano particolarmente agitato il paesaggio politico. Erano giunti ormai a buon punto gli stati territoriali accentrati intorno alle più importanti città, come Milano, Venezia, Verona e Firenze. Le vicende di ciascuno di questi organismi erano legate alle vicende di tutti gli altri, tanto stretta era la loro interdipendenza, messa in luce, oltre tutto, dalla continua stipulazione di leghe e trattati. Alla ricchezza, operosità e vitalità economica delle popolazioni settentrionali e toscane corrispondeva il dinamismo dei rispettivi governi, tutti tendenti verso una maggiore espansione territoriale, che talvolta, dilagando al di là della regione, mirava addirittura a unificazioni politiche di più ampia portata. Ma questi più ambiziosi disegni fallirono per la tenace resistenza opposta da tutti gli altri stati, che, minacciati di assorbimento, si coalizzarono. Primi furono gli Scaligeri, che sembrarono riuscire nel tentativo di costruire un organismo statale comprendente tutto il Settentrione. Mastino della Scala, proseguendo l’opera dei suoi predecessori, fra cui Cangrande, aveva riunito sotto il suo potere un gran numero di città, dal Cadore al Tirreno. Ma la sua fu una aggregazione troppo improvvisata ed eterogenea per resistere a lungo. Gli Scaligeri dovettero così rientrare nei limiti originari della loro signoria, Verona e Vicenza. Approfittarono allora del crollo scaligero i Veneziani per iniziare la loro penetrazione in terraferma, con l’acquisto di Conegliano e di Treviso. D’allora in avanti i Veneziani, pur impegnati contro i Genovesi per il dominio dei mercati orientali, furono sempre presenti in queste lotte, da tutte traendo vantaggi territoriali. Con maggiori possibilità di successo, data la potenza economico-finanziaria e la compattezza dello stato milanese, il programma egemonico fu ripreso dai Visconti, che con Matteo, con Galeazzo, con l’arcivescovo Giovanni riuscirono a mettere insieme un complesso di città e relativi territori in Lombardia, Piemonte ed Emilia. Quindi, incorporate Genova e Bologna, si protesero verso le Romagne e minacciarono da vicino Firenze. La città toscana era una delle poche che ancora si reggeva con una struttura repubblicana nonostante che i suoi interessi commerciali e finanziari, sparsi in tutto il mondo, la spingessero a un’attiva politica di espansione territoriale. Ma in realtà, sotto le apparenze del vecchio comune, governava una ristretta oligarchia di ricchi mercanti, sulla base organizzativa delle arti maggiori e di parte guelfa. La particolare struttura oligarchica e di classe della repubblica fiorentina spiega le varie fortunose vicende succedutesi in Firenze lungo il secolo 14° e ne determina anche lo sviluppo futuro. Tuttavia, la penetrazione in Toscana, che era la conseguenza più naturale di questa politica guelfa e mercantile, non avvenne senza difficoltà e insuccessi anche gravi. C’è da osservare anzitutto che, nonostante l’alleanza formale con Roberto d’Angiò, Firenze non si trovò sempre in sintonia con la politica del re di Napoli, premendo a quest’ultimo più una pacificazione nella regione toscana, che non l’espansionismo fiorentino; d’altro canto, Uguccione della Faggiola, già vicario di Enrico VII per Genova, diveniva capitano di guerra e capitano del popolo, nonché podestà di Pisa e preparava un ritorno offensivo ghibellino contro Lucca e contro Firenze. In guerra aperta e nonostante l’aiuto ancora una volta richiesto e ottenuto dell’appoggio militare di Roberto d’Angiò, il 29 agosto 1315 i Fiorentini furono battuti a Montecatini da Uguccione. In tal modo, oltre l’eterna rivale Pisa, Firenze si trovò a dover fronteggiare un’altra minaccia rappresentata da Lucca, dove la parte guelfa era stata cacciata ed era subentrata quella ghibellina, ben presto postasi sotto la signoria di Castruccio Castracani. Questi si rivelò ancor più pericoloso per i disegni egemonici fiorentini, anche se le sorti di Uguccione e la possibilità di un’alleanza tra Pisa e Lucca si fecero deboli. Divenuto vicario imperiale e raggiunto il controllo su buona parte della Toscana occidentale, in un momento in cui pareva che tutte le forze ghibelline si riprendessero in Italia, Castruccio si impadronì di Pistoia, minacciando direttamente Firenze. Ne scaturì uno scontro armato, che si concluse, a dieci anni dalla sconfitta di Montecatini, in un’altra rotta per i Fiorentini, battuti ad Altopascio (23 settembre 1325). Militarmente debole, per la base non popolare del suo governo, Firenze aveva dovuto affidarsi ancora alla protezione di Roberto d’Angiò e, nel 1343, alla tutela di Gualtieri di Brienne, duca di Atene, che aveva tentato d’insignorirsi della città. La crisi economico-finanziaria, che da tempo, per effetto del fallimento di grandi istituti bancari, travagliava la città, rese alla fine più debole e precaria la potenza dei gruppi che costituivano il governo oligarchico, che, per di più, si era ingolfato nella difficile guerra degli Otto Santi, contro lo stato pontificio. La guerra fu conclusa alla meno peggio, per evitare i gravi danni che la scomunica papale procurava agli interessi finanziari, ma provocò, con i suoi strascichi economici, il tumulto dei Ciompi (1378), la rivolta degli operai non organizzati nelle arti, dei ceti più miseri, che, spinti dalle speranze di un rinnovamento sociale, costituirono, per breve tempo, un governo popolare. Dopo pochi anni, però, questo esperimento cessava, e lo stato ritornava nelle mani dell’antica classe dirigente. Un altro episodio di ribellione alla classe dominante si era avuto alcuni decenni prima a Roma. Qui l’assenza prolungata del papa, sempre residente ad Avignone, aveva determinato una situazione di anarchia e di prepotenza da parte dell’aristocrazia romana, tanto più violenta, quanto più, in realtà, indebolita dal non disporre più dei suoi rappresentanti, cardinali, nella curia ormai lontana. La città, priva di risorse proprie e vivente all’ombra della curia e sui proventi dei pellegrini, era economicamente prostrata. In questa situazione, ebbe fortuna il “buono stato” imposto, anche con il consenso in un primo tempo della curia avignonese, contro i baroni, dal notaio Cola di Rienzo, tribuno del popolo, che però, dopo il successo della sua concreta riforma, si esaltò in sogni di restaurazione di un impero nazionale, nonché di una rigenerazione della Chiesa, e fu perciò abbandonato da quelle uniche e reali forze locali, il ceto medio, “caballerotti”, mercanti e funzionari capitolini, che avevano reso possibile la sua fascinosa avventura. Più duratura nei suoi effetti si rivelava, invece, l’opera di riordinamento amministrativo e di ricostruzione giuridico-politica che negli anni immediatamente successivi veniva portando a termine il cardinale Egidio di Albornoz, le cui costituzioni, emanate nell’anno 1357, rimasero a base, per secoli, dello Stato pontificio e preparavano, intanto, il ritorno del papa a Roma. Ritorno che, a lungo atteso e invocato, attuatosi finalmente con Gregorio XI nel 1377, non risolveva, anzi aggravava le difficili condizioni della Chiesa. L’anno dopo, infatti, con la doppia elezione di Urbano VI e di Clemente VII, s’iniziava il famoso scisma d’Occidente, che per decenni e decenni, fino ai concili di Basilea e di Costanza, con le sue complicazioni politiche e religiose travagliò la Chiesa romana e tagliò fuori, nello stesso tempo, lo Stato pontificio da una più attiva partecipazione alla vita politica italiana. [314211] Nell’Italia centro-settentrionale i grandi organismi statali, che avevano inghiottito e più o meno assimilato le città e le piccole signorie vicine, erano i più vivi protagonisti della storia italiana. Ancora un po’ rigido e impacciato nei suoi movimenti, data la sua origine feudale, si presentava lo stato sabaudo, ormai decisamente gravitante verso l’Italia. Lottando, volta a volta, contro i comuni, contro gli Angioini, contro i marchesi del Monferrato, ora appoggiandosi, ora contrastando agli imperatori e ai Visconti, i Savoia erano venuti acquistando sempre maggiore influenza e potenza nel Piemonte. Le tappe di questa progressiva ascesa sono segnate dai nomi di Amedeo VII (il Conte Rosso) e di Amedeo VIII, che, quasi a suggello dell’aumentato prestigio, a partire dal 1416 acquistò il titolo di duca. L’iniziativa, però, nella Pianura Padana, era sempre dei Visconti, che erano riusciti a saldare a Milano un vasto territorio; questo, oltre alla Lombardia, si estendeva al Piemonte e all’Emilia, e comprese, in qualche momento, anche Genova. Le attività industriali e mercantili, il controllo delle principali vie di comunicazione, avevano fatto di Milano uno dei nodi della politica italiana ed europea. Gian Galeazzo, con i metodi più energici e sottili, con geniale abilità, nel giro di pochi anni s’impadronì di Verona e di Vicenza, tolte agli Scaligeri con l’aiuto dei da Carrara, di Padova, tolta ai da Carrara con l’aiuto dei Veneziani e, nonostante una potente lega costituita ai suoi danni da Firenze e a cui parteciparono molti altri stati italiani direttamente o indirettamente minacciati, riuscì ad affermare il suo dominio in tutta l’Italia centro-settentrionale. Pagando in moneta sonante, ottenne dall’imperatore Venceslao il titolo, ereditario, di duca di Milano. Fu la legittimazione della sua signoria, che, come altre, si era mutata così in principato assoluto, libero da ogni legame e limitazione d’investitura popolare. Mirava forse a più prestigioso titolo, quando la morte interruppe la sua azione, e l’edificio da lui costruito si sfasciò. Le parti di più recente acquisto cadevano sotto il dominio degli stati rivali, mentre il nucleo più antico e più compatto del ducato era diviso tra i suoi eredi, e insidiato da condottieri che avevano operato ai suoi ordini. Troppo fortunose erano queste costruzioni, per sopravvivere alla scomparsa del signore: troppo esclusivamente fondate sull’energia e l’abilità di un singolo individuo e senza effettiva forza coesiva delle loro parti. Nel vuoto creatosi subito dopo il fallimento dell’egemonia milanese, si ebbe una breve ripresa del regno di Napoli e con Ladislao di Durazzo un suo rinvigorimento all’interno, dove i baroni furono piegati, e una sua attiva presenza a Roma, in Toscana e perfino in Dalmazia. Con la morte di Ladislao, nel 1414, il regno di Napoli riprecipitava però nella sua antica e ormai cronica dissoluzione. Se l’opera di Ladislao fu effimera, ben altri frutti raccoglievano Venezia e Firenze dal crollo dei Visconti. Firenze ottenne, finalmente, Pisa: tutta la vallata dell’Arno era così sotto il suo dominio. Fu costretta tuttavia poco dopo ad acquistare dal governatore francese di Genova il porto di Livorno, in quanto destinato a sostituire il porto di Pisa ormai interrato e inagibile. Conquistò Volterra. Con la stessa metodica gradualità, ma con risultati anche più imponenti, procedettero i Veneziani, che dell’eredità di Gian Galeazzo raccolsero le spoglie più ricche. Treviso, Verona, Vicenza, Padova furono le tappe più significative della loro marcia tenace nella conquista della terraferma. La guerra di Chioggia, con le esperienze derivatene, aveva dato a questa espansione una giustificazione di necessità vitale e maggiore slancio. Lungo tutto il secolo 14° l’intera Istria, ad eccezione di Trieste, passata agli Asburgo, fu progressivamente assorbita. Una guerra sostenuta contro Sigismondo, re di Ungheria e successivamente imperatore, scoppiata per contestazioni su Zara, sull’Istria e sulle stesse città venete, si concluse con la vittoria dei Veneziani, che ne approfittarono per estendere il loro dominio nel Friuli, nella Carnia, nel Cadore e nella Dalmazia, e insieme la loro cultura contro Tedeschi e Slavi. Né il ritorno in primo piano del ducato di Milano, con Filippo Maria Visconti, arrestò questo processo espansionistico della repubblica veneta. Alleatasi con Firenze, con il papa Martino V, con Amedeo VIII, con tutti quelli, insomma, che in un modo o nell’altro avevano da temere dai Visconti, Venezia ottenne altri successi e l’acquisto di Brescia e di Bergamo, portando i suoi confini stabilmente sull’Adda. Le vittorie esterne consolidavano all’interno il governo nelle mani di quell’omogenea aristocrazia di uomini d’affari che da tempo dirigeva la politica veneziana. Il doge, infatti, vi era strettamente controllato e limitato nei suoi poteri dagli organi aristocratici, e il popolo, pur essendo escluso dal governo, era nei suoi bisogni e nelle sue necessità soddisfatto dalla sua classe dirigente. In senso opposto procedettero le cose a Firenze. La guerra combattuta contro i Visconti a fianco di Venezia dal 1423 al 1433 si era conclusa sfavorevolmente per i Fiorentini. Gravi furono le conseguenze economiche, sociali e politiche della sconfitta, che portò alla luce i contrasti già latenti nella compagine statale. L’oligarchia al potere era insidiata dalle rivalità tra le famiglie maggiori, odiata dal popolo medio e minuto. Nel 1433, per far fronte alle difficoltà del momento, Rinaldo degli Albizzi assunse poteri quasi dittatoriali. L’anno dopo, in seguito a un brusco rovesciamento, fu la volta di Cosimo de’ Medici, che assunse ampi poteri con l’appoggio popolare. Per quanto in ritardo, anche in Firenze era giunta a maturazione la signoria, l’unico sbocco possibile, ormai, per ovviare agli insanabili contrasti interni. La tendenza generale della politica italiana verso la formazione di stati regionali spingeva anche lo Stato pontificio, ormai placandosi lo scisma, a consolidarsi su questa base. Come l’Impero, che, rinunciando alle pretese universalistiche, si era ancorato a un preciso territorio, così anche la Chiesa abbandonava le sue pretese teocratiche: il papato si restringeva al suo particolare stato romano, ricucito pezzo per pezzo e ora difeso con gli stessi accorgimenti, con gli stessi strumenti militari e diplomatici di cui si valevano gli altri stati contemporanei. Soltanto occasionalmente, e sempre in concomitanza con i più concreti mezzi terreni, si potrà ricorrere ancora alle armi spirituali. Il papato era, perciò, sempre più portato a inserirsi in Italia come forza politica fra le altre forze politiche, proprio mentre la situazione, appena conclusasi con la pace di Ferrara la prima fase della guerra contro Filippo Maria Visconti, si faceva sempre più complessa e ingarbugliata. La morte della regina Giovanna II aveva dato nuova esca alla lotta per la successione al trono di Napoli, tra Alfonso d’Aragona e gli Angioini di Francia. Contro Alfonso, troppo potente e pericoloso, si erano collegati tutti gli stati italiani; anche Filippo Maria Visconti, soprattutto in difesa degli interessi genovesi. L’Aragonese, sconfitto nella battaglia di Ponza proprio per merito della flotta genovese, persuase il Visconti a schierarsi al suo fianco. La guerra riprese con gravi perdite per il duca di Milano, ma con la vittoria di Alfonso d’Aragona, il quale poté insediarsi sul trono napoletano nel 1442. In queste guerre, dai rapidi mutamenti di fronte, si andavano rivelando l’abilità militare e l’ingegno politico del condottiero Francesco Sforza, il quale poteva contare sull’appoggio dei Fiorentini, timorosi non più di Milano ma della ben più potente repubblica veneta. Era un rovesciamento diplomatico, questo operato dai Fiorentini, che metteva in chiara luce il criterio direttivo di tutta la più recente politica italiana: il mantenimento dell’equilibrio fra i maggiori organismi statali. A questo equilibrio si giunse effettivamente con la pace di Lodi (1454), che segnò una certa stabilizzazione della situazione italiana. Alla pace seguì, alcuni mesi dopo, la costituzione di una lega, la Santissima lega, come fu chiamata la Lega italica, comprendente tutti gli stati italiani. Dopo due secoli di tumultuose vicende, gli stati regionali, in pace, dovevano finire di trasformare quel coacervo di città e distretti diversi in veri e propri stati unitari, uniformati amministrativamente, più livellati socialmente, ed economicamente potenziati. Naturalmente molti interessi costituiti erano colpiti, molte “libertà” e privilegi soppressi; molte famiglie che fino a ieri avevano gareggiato in potenza e prestigio col principe si videro ridimensionate. Perciò, anche se c’era l’ossequio creato dal timore, mancava il consenso prodotto da una lunga tradizione. La storia italiana, in quest’ultimo periodo, aveva avuto a protagonisti, più che collettività ed enti associati, individui di eccezionale vigore e capacità. Questo individualismo talvolta sfrenato, come promuoveva e alimentava un’intensa attività di prestigio, nel campo delle arti e delle lettere, creando centri splendidi di vita culturale e sontuose corti principesche, così spiega quel tanto d’improvvisato e di convulso che è dato constatare nella condotta politica e morale dei maggiori protagonisti, i rapidi mutamenti nella diplomazia e negli schieramenti militari. Su questa base d’impetuoso individualismo, si colloca il gran ruolo che assume, nel determinare il corso delle vicende, il caso o la “fortuna”. La storia italiana, nella seconda metà del secolo 15°, porta alla luce in maniera evidente questo elemento di precarietà. È tutto un seguito di congiure e tentativi di sollevazione contro il principe, qualche volta in nome della libertà classicamente vagheggiata. Spesso, d’altra parte, queste congiure, quando non erano addirittura fomentate dagli stati rivali, venivano subito sfruttate da questi per aprire le ostilità. Nella guerra di Ferrara, nella congiura dei Pazzi, nella congiura dei Baroni, la storia si ripete. Se pure, infatti, la Lega italica, la Santissima lega, garantiva la sicurezza e l’integrità dei singoli associati, in realtà tutta una rete di rivalità e di sospetti finiva con l’aggravare anche la politica interna, rendeva più difficile lo sforzo di riorganizzazione economica e amministrativa, e imponeva un peso fiscale insopportabile per sopperire alle necessità militari e a una diplomazia dispendiosa e sempre vigile. La pace e l’equilibrio politico, insomma, si mantenevano più per necessità di cose che per concorde e sincera volontà dei vari interessati, anche se l’equilibrio era celebrato come ideale di ordinata convivenza di una pluralità di liberi stati. Lo stesso Lorenzo il Magnifico, “l’ago della bilancia dell’Italia”, come fu chiamato, ebbe successo nella sua opera soltanto in virtù di una personale abilità – come quando (1479-80) riuscì a staccare Ferdinando di Napoli dalla lega antifiorentina, promossa da Sisto IV, dopo la congiura dei Pazzi – che rimandava ma non risolveva i problemi. Dopo la sua morte l’equilibrio si spezzò, non appena si affacciò Carlo VIII. [314221] Gli ultimi anni della signoria di Lorenzo il Magnifico coincisero con l’aggravarsi della crisi interna nei vari stati della penisola e con l’affermazione di un controllo politico da parte delle nascenti monarchie europee, che ineluttabilmente dovevano sentirsi attratte da quella che esse consideravano una vasta zona di vuoto. Fu il giovane re di Francia Carlo VIII, erede dei diritti che la casa d’Angiò aveva continuato a vantare su Napoli anche dopo l’insediamento degli Aragonesi, a dare inizio a tale espansione nella penisola italiana, ove i suoi parenti, gli Orléans, già possedevano la contea di Asti. A invocare Carlo VIII erano Ludovico il Moro, reggente dello stato di Milano per il nipote Gian Galeazzo ma desideroso di cingere la corona ducale in proprio; una frazione di cardinali, con a capo Giuliano Della Rovere, i quali volevano sbarazzarsi del dispotico e simoniaco Alessandro VI; molti dei potenti baroni napoletani, che, come il principe di Salerno, erano stati costretti a prendere la via dell’esilio per la spietata repressione della fallita congiura dei Baroni da parte di Ferdinando I. Se non proprio favorevole, certo non era ostile a una spedizione francese anche il più forte stato italiano del tempo, la Repubblica di Venezia, la quale temeva la concorrenza commerciale dei porti della Puglia aragonese. Grazie a tale felice congiuntura, Carlo VIII, sotto lo stimolo anche di motivi in parte ideali (servirsi dell’Italia come di un trampolino di lancio per una crociata contro i Turchi), in parte di natura più realistica (la spinta della piccola nobiltà francese, i cosiddetti cavalieri, a una spedizione in un paese che si presentava tanto dovizioso di bottino quanto militarmente debole), modificò radicalmente la politica della Francia, da decenni ormai impegnata verso le terre borgognone e asburgiche della frontiera orientale: con i trattati di Barcellona e di Senlis, rispettivamente del gennaio e del maggio 1493, in cambio di concessioni territoriali al confine catalano, in Artois e in Franca Contea, ottenne il favore del re d’Aragona Ferdinando il Cattolico e dell’imperatore Massimiliano I alla progettata impresa in Italia. Avviatosi nel settembre 1494 per il Monginevro, Carlo VIII non incontrò alcuna seria resistenza nella sua marcia attraverso la penisola italiana: era alleato dei Savoia, custodi delle Alpi, e lo aiutava la flotta genovese, mentre quella veneziana, a causa della neutralità di quella repubblica, era tenuta in un’inerte passività. Dopo una fastosa accoglienza a Pavia riservatagli da Ludovico il Moro, che appena pochi giorni dopo fu liberato dall’incomoda presenza del duca Gian Galeazzo morto di tisi, il re di Francia prese la strada della Toscana, saccheggiando il territorio e facendo strage tra la popolazione. Spaventato, il signore di Firenze Piero de’ Medici si affrettò ad abbandonare l’alleanza napoletana e capitolò (31 ottobre), concedendo a Carlo VIII, con successivi patti, la rilevante somma di duecentomila fiorini d’oro e, sino alla fine della guerra, le fortezze di Sarzana, Pietrasanta, Pisa e Livorno. Fu questo un duro colpo per i Fiorentini, nel cui animo il regime mediceo era da tempo sotto le critiche dell’infiammata eloquenza di Girolamo Savonarola: il 9 novembre essi cacciarono Piero, costringendolo a riparare a Venezia; il giorno prima Pisa aveva proclamato la propria indipendenza da Firenze e dato così il via a molteplici rivolte di città toscane contro la città dominante. Firenze, alla fuga di Piero, si era costituita in una repubblica tendenzialmente oligarchica, anche se il consiglio maggiore era aperto a tutti i cittadini; gli organi effettivi di governo, infatti, erano costituiti dalla balìa e dal consiglio degli Ottanta, di estrazione sociale più ristretta, e fu con questi organi che, al suo ingresso in Firenze (17 novembre), dovette trattare Carlo VIII. Soddisfatto della fedeltà di Pisa che gli assicurava il controllo su una parte della Toscana, non volendo impegnarsi a fondo nel vespaio toscano, egli preferì mitigare le sue pretese finanziarie e proseguire la marcia verso il sud, mentre Alessandro VI si rifugiava in Castel S. Angelo. Ma a Roma una pacifica intesa fu rapidamente realizzata tra il pontefice e Carlo VIII: Alessandro VI fu largo di concessioni politico-ecclesiastiche e il re poté, senza colpo ferire, proseguire la sua avanzata alla volta di Napoli (28 gennaio 1495). Qui, prima ancora che Carlo VIII si muovesse dalla Francia, era morto il re Ferdinando I, cui era successo il figlio Alfonso II, ancora più del padre inviso ai baroni; pertanto, comprendendo che la partita era troppo impari, Alfonso aveva abdicato il 23 gennaio 1495 in favore del figlio Ferdinando II, detto Ferrandino, che godeva di una certa popolarità. Ma il nuovo sovrano ben poco poteva fare: i baroni lo abbandonavano, nulla aveva egli da opporre alla formidabile artiglieria francese e ben presto si aggiunse la capitolazione, a Capua, delle forze comandate da Gian Giacomo Trivulzio, generale milanese al servizio del re di Napoli. Il 22 febbraio 1495, mentre Ferrandino riparava con la famiglia nell’isola d’Ischia, Carlo VIII entrava trionfalmente a Napoli e subito, senza necessità d’imporla con le armi, estese la propria autorità su tutto il regno. Nella fin troppo facile vittoria del re di Francia si era rivelata in piena luce la debolezza militare degli stati italiani: alcuni dei principi di questi stati ebbero però consapevolezza di questo limite e avvertirono i pericoli insiti nel dominio francese. Ludovico il Moro, divenuto duca di Milano, temeva, per es., che alla rivendicazione dell’eredità angioina si aggiungesse quella viscontea per conto degli Orléans, e Venezia ben comprendeva come nessun vantaggio le fosse venuto alla sostituzione nei porti pugliesi del dominio francese a quello della dinastia cadetta aragonese; l’uno e l’altra si fecero così promotori di una lega antifrancese alla quale si associò anche il papa Alessandro VI e che fu stipulata formalmente il 31 marzo 1495. Sfruttando l’argomento del pericolo insito nell’eccessivo estendersi della potenza francese, la lega riuscì a ottenere l’appoggio del re d’Aragona Ferdinando il Cattolico, dell’imperatore Massimiliano e più tardi anche del re d’Inghilterra Enrico VII. Colto di sorpresa dal capovolgimento della situazione diplomatica, Carlo VIII ritenne prudente lasciare a Napoli un piccolo contingente delle sue truppe e ritirarsi con il grosso dell’esercito (20 maggio 1495) per dar battaglia alle truppe della lega, poste sotto il comando del duca di Mantova Francesco II Gonzaga. Lo scontro avvenne a Fornovo (6 luglio) e, pur non potendosi considerare una vera e propria sconfitta per Carlo VIII, tuttavia convinse il re di Francia, apertosi un varco tra le file nemiche e giunto a Piacenza, ad abbandonare l’impresa e a riprendere la strada d’oltralpe; il giorno dopo le truppe di Ferdinando il Cattolico, al comando del gran capitano Gonzalo Fernández de Córdoba, riportarono a Napoli il re Ferdinando II. L’avventura di Carlo VIII era finita, anche se la guarnigione francese lasciata a Napoli agli ordini del conte Gilberto de Montpensier continuò a guerreggiare nelle provincie (vittoria di Seminara nel giugno 1495) e depose completamente le armi solo nel febbraio 1497. Di questa prosecuzione della guerra nel Meridione i veri beneficiari furono soltanto il re d’Aragona, che occupò stabilmente alcune piazzeforti, e Venezia, che s’impadronì dei porti pugliesi di Monopoli, Otranto, Brindisi, Gallipoli e Trani. Solo in Toscana non si ritornò allo status quo. Genova e Lucca avevano comprato da Carlo VIII, che le aveva ricevute da Piero de’ Medici a titolo però soltanto temporaneo, rispettivamente Sarzana e Pietrasanta e ora si guardavano bene dal restituirle a Firenze; Pisa, aiutata da Venezia e da Lucca, persisteva nella ribellione alla città dominante e la guerra che questa sarà costretta a intraprendere per ridurla a obbedienza durerà sino al 1509; nella stessa Firenze, infine, non si ebbe la restaurazione dei Medici bensì il proseguimento dell’esperienza repubblicana. Dal 1494 al 1498 la storia fiorentina s’identificò nell’esperienza savonaroliana: avverso alla signoria medicea, il frate finì col governare la repubblica su basi teocratiche, in un clima di austerità e severità morale, in opposizione alla concezione mondana del potere che, ai suoi occhi, era stata avallata dal governo di Lorenzo il Magnifico. Ma difficilmente una politica che finiva con l’allontanare Firenze dai suoi tradizionali alleati avrebbe potuto ottenere il consenso della popolazione. Le critiche del frate alla corruzione e al nepotismo della corte romana furono il momento finale di una lunga polemica col pontefice Alessandro VI che portò alla scomunica del 12 maggio 1497. Contro i seguaci di Savonarola, detti Piagnoni, si schierò un fronte composito: i “Palleschi”, favorevoli a un ritiro dei Medici, gli “Arrabbiati”, sostenitori di un governo oligarchico, i “Compagnacci”, avversi al clima di moralizzazione della vita civile, i mercanti fiorentini, timorosi di trascinare la città in una lunga serie di conflitti contrari ai loro interessi. In una situazione così frantumata e poco favorevole la condanna al rogo di Savonarola, avvenuta il 23 maggio 1498, fu accolta come una scelta liberatrice. La repubblica fiorentina, priva ormai del suo capo prestigioso, si avviò a essere una pura e semplice oligarchia, che nel 1502 creerà il gonfalonierato a vita per un suo esponente, Pier Soderini, e sarà di fatto vassalla della Francia a motivo delle ingenti somme investite nelle banche che gli stessi Fiorentini avevano aperto a Lione. [314231] La morte di Carlo VIII e l’avvento al trono di Francia di un Orléans, Luigi XII, riaprì nel 1498 il problema italiano, ben mostrando che esso non si era chiuso a Fornovo. La situazione precedente al 1494 era definitivamente tramontata: la “libertà d’Italia” era divenuta semplice argomento di esercitazione retorica di politici-letterati; la realtà effettiva stava invece nel fatto che alla lega antifrancese del 1495 avevano partecipato potenti sovrani stranieri. Il “problema italiano” era dunque divenuto un aspetto, un caso particolare della politica delle grandi monarchie nazionali dell’Europa. Luigi XII non limitò più le proprie rivendicazioni all’eredità angioina di Napoli, ma, quale discendente di Valentina Visconti, ambì anche al ducato di Milano. Questa volta la duplice impresa fu preparata diplomaticamente con cura maggiore che in precedenza: tutta una serie di trattati furono stipulati con il re d’Inghilterra, con i sovrani d’Aragona e di Castiglia, con l’imperatore e anche con i cantoni svizzeri, la cui autorizzazione ad arruolare fanti tra la popolazione di quelle montagne importava non poco al re di Francia (trattato di Lucerna del marzo 1499). Gli accordi furono estesi pure ad alcuni stati italiani: il trattato di Blois del 15 aprile 1499, sottoscritto con la mediazione del cardinale Giuliano Della Rovere, assicurò alla Francia l’alleanza militare di Venezia, alla quale fu promessa la cessione di Cremona e della Ghiara d’Adda; gli interessi nepotistici di Alessandro VI, che ottenne per il figlio Cesare Borgia il ducato di Valentinois e la mano della sorella del re di Navarra, Carlotta d’Albret, posero le forze dello stato della Chiesa e soprattutto l’autorità spirituale del pontefice entro l’orbita francese. Il primo a essere attaccato fu il ducato di Milano: Ludovico il Moro, preso tra il duplice fuoco di un potente esercito francese comandato da Gian Giacomo Trivulzio, ormai passato al servizio di Luigi XII, e delle truppe veneziane, abbandonò subito la partita e si rifugiò nel Tirolo, presso l’imperatore Massimiliano, suo genero. Luigi XII entrò da trionfatore in Milano il 6 ottobre 1499; un estremo tentativo di riscossa da parte di Ludovico il Moro, ricomparso nel suo antico stato nel gennaio 1500 con un buon nerbo di mercenari svizzeri, s’infranse nella battaglia di Novara (10 aprile): l’ex duca fu catturato e andò a finire i suoi giorni in Francia, ove morì, sempre prigioniero nel castello di Loches, il 27 maggio 1508. I Francesi s’insediarono stabilmente a Milano e cedettero, secondo gli accordi, Cremona e la Ghiara d’Adda a Venezia e successivamente (trattato di Arona dell’11 aprile 1503) riconobbero il fatto compiuto dell’annessione della contea di Bellinzona operata dagli Svizzeri. Per l’impresa contro il regno di Napoli Luigi XII stipulò con Ferdinando il Cattolico il trattato segreto di Granada (2 novembre 1500), che in cambio dell’alleanza militare della Spagna stabiliva la spartizione del regno una volta conquistato: Ferdinando il Cattolico avrebbe ottenuto le Puglie e la Calabria; Luigi XII, con il titolo di re di Napoli, avrebbe avuto la Campania e gli Abruzzi. La campagna militare fu fulminea: all’arrivo delle truppe francesi il nuovo re di Napoli, Federico III, ignaro dell’accordo di Granada, invocò l’aiuto del parente re d’Aragona e aprì fiducioso le fortezze della Calabria alle truppe di Gonzalo Fernández de Córdoba; poi, appena il tradimento dell’aragonese si manifestò in piena luce, preferì non impegnarsi in una lotta diventata ormai troppo impari. Il 6 settembre 1501, a Ischia, Federico III si costituì prigioniero dei Francesi e, in cambio del ducato d’Angiò e di una pensione vitalizia, trasferì tutti i suoi diritti non a Ferdinando il Cattolico, che lo aveva ingannato, ma a Luigi XII. Fu, questa, una capitolazione carica di conseguenze impreviste e imprevedibili; le clausole del trattato di Granada avevano stabilito il frazionamento del regno di Federico III, non il suo totale passaggio sotto lo scettro di uno solo dei due alleati. L’alleanza pertanto si tramutò ben presto in conflitto aperto e la guerra tra la Francia e la Spagna desolò l’Italia meridionale dal giugno 1502 al marzo 1504: le truppe francesi furono sconfitte a Seminara (21 aprile 1503), a Cerignola (28 aprile 1503), al Garigliano (28 dicembre 1503). L’armistizio di Lione del marzo 1504, solo dopo molti anni tramutato in pace definitiva, riconobbe l’esclusiva appartenenza del regno di Napoli alla Spagna, che in Italia già possedeva la Sicilia e la Sardegna. Con i Francesi saldamente stabilitisi nel Milanese e gli Spagnoli nel Napoletano (oltre che nelle isole), la “libertà d’Italia” era veramente finita e la penisola diveniva semplicemente la mira principale delle più forti monarchie del momento e il campo di battaglia sul quale i loro eserciti si sarebbero scontrati. Fu quanto apparve chiaro con l’arrivo di Francesco I al trono di Francia (1514) e di Carlo d’Asburgo a quello di Spagna (1516) e all’Impero (1519) e con l’insorgere del conflitto franco-asburgico; ma nel breve periodo fra il 1499 e il 1515 gli stati italiani, pur essendo fortemente condizionati dalla presenza o della Francia o della Spagna e potendo svolgere una loro politica solo grazie al favore di una o dell’altra potenza, riuscirono ancora ad essere fattori non del tutto passivi della vita politica che si svolgeva nella penisola e delle alleanze che vi si annodavano. Venezia era ancora una potenza internazionale di prima grandezza: le conquiste dell’entroterra, anche se non avevano avuto la capacità di allargare la classe politica dirigente e d’ispirare una politica meno egoista nei confronti delle città sottoposte, si erano rivelate con il tempo sempre più proficue per la sua economia e la sua potenza, e se l’armata del mare era costantemente impegnata nel compito di sbarrare, o almeno di rallentare, l’avanzata dei Turchi del sultano Bàyazêd II (1481-1512) nel vasto impero coloniale della repubblica, tuttavia Venezia non era ancora sotto il grave peso di quella recessione economica che da lì a qualche decennio darà un colpo decisivo a tutta l’economia mediterranea. Nessuno storico ormai, diversamente da un tempo, parlerebbe di un nesso di immediata contemporaneità tra la scoperta delle nuove rotte atlantiche e la decadenza di Venezia; la guerra con i Turchi era ancora una guerra dalla tipica frontiera aperta per i commercianti e, comunque, Venezia aveva ammassato nei propri depositi e fondachi tanta mercanzia e tanta ricchezza d’Oriente da poter vivere splendidamente di rendita per quasi tutto il secolo 16°. Il declino di Venezia ebbe inizio solo per un fatto politico, la volontà del papa Giulio II di stringere contro di essa la lega di Cambrai (10 dicembre 1508), la “santa lega” che univa il pontefice all’imperatore, al re di Francia, al re di Spagna. In seguito all’accordo, il papa avrebbe ottenuto Faenza, Rimini, Ravenna e Cervia; l’imperatore Padova, Vicenza, Verona, il Friuli, la Marca Trevigiana e il recupero delle città perdute nel tentativo di discesa in Italia del 1508; il re di Francia, in quanto duca di Milano, pretendeva Cremona, Crema, Brescia e Bergamo; il re di Spagna, i luoghi occupati dai Normanni nel regno di Napoli. Meno ricca e potente era la Repubblica di Genova, dagli Sforza passata direttamente sotto il dominio francese (1499-1512, con una breve interruzione nel 1507), ma la sua flotta era sempre ricercata come alleata dalle potenze straniere. Firenze, anche dopo la scomparsa di Savonarola, continuava nel suo esperimento repubblicano e non apriva le porte ai Medici, rivelando così di essere ancora un organismo politico robusto; doveva sostenere, sì, la guerra con Pisa, la città ribelle che riceveva rinforzi e denari dai Veneziani, ma nel 1509 anche essa ebbe fine con la definitiva vittoria di Firenze. Inaspettatamente, uno degli stati più deboli in Italia, quello pontificio, corroso dalla simonia e dal nepotismo più sfacciati, diventò centro di un insolito dinamismo prima con l’opera cinica ed egoistica della famiglia Borgia, poi con la politica irruenta e ostinata di papa Giulio II. L’alleanza tra il pontefice Alessandro VI e il re Luigi XII fu la solida piattaforma sulla quale poggiò il tentativo di creazione di un forte stato personale da parte di Cesare Borgia, al quale non mancarono mai né l’oro della Chiesa, copiosamente fornitogli dal padre, né il favore del monarca straniero: già nell’intervallo tra la conquista francese di Milano e la spedizione contro Napoli, Cesare si era impadronito di Imola e di Forlì, travolgendo l’accanita resistenza di Caterina Sforza Riario, e tra l’ottobre 1500 e l’aprile del 1501 di Pesaro, di Rimini e, dopo la lunga quanto coraggiosa resistenza di Astorre Manfredi, di Faenza. Per denaro acquistò pure Piombino e, regolarizzata nel 1501 la propria posizione con il titolo di duca di Romagna, concessogli dal padre, si fece – per dirla con Guicciardini – “formidabile a una gran parte d’Italia, conoscendosi che le sue cupidità non avevano termine e freno alcuno”. Il duca di Ferrara, legato dal matrimonio con Lucrezia Borgia, non poteva sbarrargli il passo; Firenze, pressata dalla ribellione di Arezzo e dei paesi della Valdichiana a opera di luogotenenti del Borgia (Vitellozzo Vitelli, Giampaolo Baglioni), ricevette un ultimatum per una modifica del suo regime interno e fu costretta, per stornare il pericolo, prima ad assoldare lo stesso duca con una “condotta” di tre anni e poi a fare eseguire due ambascerie a Niccolò Machiavelli (giugno 1502, alle dipendenze di Francesco Soderini, e ottobre 1502). Firenze sapeva pur sempre di poter contare sul favore della Francia; non era lo stesso per molte città dell’Italia centrale e per i ducati di Urbino e di Camerino, che a uno a uno caddero sotto il dominio dello spregiudicato avventuriero, capace anche di superare con perfida astuzia la grave crisi apertasi nell’autunno 1502 per la rivolta della maggior parte dei suoi luogotenenti (congiura della Magione). Né Alessandro VI fu da meno: anch’egli seppe approfittare della guerra di Napoli e nel suo dominio diretto del Lazio s’impadronì di tutte le terre dei Colonna e dei Savelli. Lo Stato pontificio cominciava a uscire da quella situazione per la quale (come scriverà Machiavelli) “non solamente quelli che si chiamano potentati, ma ogni barone e signore benché minimo quanto al temporale lo stimava poco”. Tutto crollò d’un tratto nell’estate 1503, alla morte di Alessandro VI; tuttavia Giuliano Della Rovere, divenuto papa Giulio II, da un lato proseguì la politica dei Borgia di ricostituzione dello stato della Chiesa, alla scomparsa di Cesare Borgia di nuovo preda di nobili e signori locali, dall’altro divenne il fulcro di una grande politica, internazionale più che nazionale, che voleva dettare legge a Venezia e allo stesso re di Francia. Riconquistò Perugia, facendo prigioniero Giampaolo Baglioni che la deteneva (1506), ottenne la dedizione di Bologna, ponendo fine alla signoria di Giovanni Bentivoglio (11 novembre 1506); infine, il 10 dicembre 1508, strinse con la Spagna, la Francia, l’Impero e non pochi principi italiani, come il marchese di Mantova, il duca di Savoia e quello di Ferrara, la lega di Cambrai contro Venezia, le cui forze subirono il 14 maggio 1509 la durissima sconfitta di Agnadello. La grande occasione che Venezia aveva pazientemente ricercata, quella di dare allo stato una dimensione territoriale nuova, organicamente più compatta e dinamica, legando e integrando nelle sue strutture politiche e sociali le città di terraferma, sembrava perduta irrimediabilmente. Anche se negli anni successivi alla battaglia di Agnadello, in seguito ad alcuni mutamenti nel gioco delle alleanze internazionali, la repubblica finiva con il rientrare in possesso di alcuni dei domini perduti, il sogno di un modello di governo veneziano esteso ad altre realtà urbane nella volontà di dar vita ad un grande stato non avrà più forza di esistere. Eppure, la capacità degli stati italiani di prendere ancora delle iniziative non deve essere sopravvalutata: essa poté continuare a sussistere sino alla battaglia di Pavia (1525) a patto che si mantenesse nei limiti che le grandi potenze avevano posto e si manifestasse entro l’ambito dell’egemonia francese o del successivo contrasto franco-spagnolo. Essa non creava delle alternative, effettuava solo degli spostamenti entro il “sistema”; in un certo senso possiamo dire che, tra Agnadello e Pavia, rinacque il sistema della pace di Lodi, ma con un’importantissima variante: l’ago della bilancia non era più a Firenze, o in altro stato italiano, ma oltralpe, a Parigi, a Valladolid, a Vienna. La guerra franco-spagnola del 1500-1504, permettendo alla Spagna d’insediarsi nel meridione della penisola, aveva come sancito la dipendenza degli stati italiani dalle scelte politiche delle due principali monarchie europee; la travolgente vittoria francese ad Agnadello, indebolendo irrimediabilmente la potenza veneziana, modificò la situazione solo nel senso che rese a tutti evidente la potenza di Luigi XII e creò quindi le premesse per una politica di continue alleanze e di forti attriti all’interno del sistema dualistico di controllo straniero. In esso possiamo distinguere due fasi successive, il cui elemento catalizzatore fu prima la Francia e poi la Spagna. Cesare Borgia nel 1502 dovette frenare i propri appetiti in direzione di Firenze per la ben precisa volontà di Luigi XII; nell’aprile 1507 Genova aspirò invano all’indipendenza e creò, attraverso una rivolta popolare contro i Francesi e la fazione aristocratica, l’effimero dogato di Paolo da Novi: essa conobbe soltanto la dura repressione da parte del re di Francia che intendeva utilizzare in piena tranquillità il potenziale strategico ed economico della repubblica vassalla; nella stessa lega di Cambrai, la partecipazione del duca di Ferrara o del duca di Savoia fu dovuta solo alla volontà di Luigi XII. Nella seconda fase, successiva alla vittoria francese di Agnadello, incominciò (per un paradosso solo apparente) a declinare il peso egemonico della Francia, e al suo posto subentrò una molteplicità di centri di attrazione esteri, che ora determinavano le iniziative e gli spostamenti degli stati italiani. Si giunse così alla lega antifrancese, o santa, del 1511-1513. Il grido di “fuori i barbari” rimase solo nelle intenzioni di Giulio II: Firenze non poteva staccarsi dall’alleanza francese, il duca di Ferrara Alfonso d’Este poco si curò dell’interdetto pontificio e resistette alle truppe di Giulio II, e la lotta infine fu talmente poco italiana che, dall’una parte e dall’altra, furono risfoderate vecchie armi di sapore medievale: Luigi XII preparò il Concilio scismatico-gallicano di Pisa e Giulio II progettò di contrapporre ad esso il Concilio del Laterano. A Ravenna l’azione militare di Gastone di Foix diede alla Francia la vittoria militare (11 aprile 1512), ma non quella politica: alle truppe ispano-pontificie si unirono allora quelle di Massimiliano d’Asburgo e dei cantoni svizzeri. Luigi XII, innanzi all’allargamento dello schieramento nemico, preferì ritirarsi e abbandonare il ducato di Milano, ove fu insediato il figlio di Ludovico il Moro, Massimiliano Sforza. Non era questa una vittoria di Giulio II né degli stati italiani: dietro lo Sforza vi erano le più celebri fanterie del tempo, quelle dei cantoni svizzeri, questa volta non soltanto nella tradizionale veste di truppe mercenarie, ma in quella di esigenti alleati che avevano un programma ben preciso di acquisti territoriali e la volontà deliberata di tenere il ducato di Milano sotto il proprio vassallaggio. Poco dopo, mentre Giulio II imponeva il dominio papale su Parma e Piacenza, le armi del viceré di Napoli Raimondo di Cardona abbattevano in Firenze la repubblica oligarchica del gonfaloniere Pier Soderini e restauravano i Medici. Lo spostamento d’influenza entro il “sistema” è evidente: Venezia passava dalla lega antifrancese all’alleanza con la Francia, Firenze, la fedelissima di Luigi XII, entrava per la prima volta nell’orbita spagnola, dando inizio a quel periodo di oscillazioni che sarà chiuso solo nel 1537 da Cosimo I de’ Medici, e Milano attendeva la propria autonomia dal mondo elvetico-germanico. Il sistema però non era stato infranto: scomparso Giulio II, fu elevato al pontificato un Medici con il nome di Leone X (1513-21) e questi sapeva che le sorti della propria famiglia sarebbero state più floride se legate alla generosità del nuovo signore di Francia, Francesco I (1515-47), anziché a quelle del parsimonioso e ormai sull’orlo della tomba Ferdinando il Cattolico; anche Venezia, contro gli Asburgo e i cantoni svizzeri, puntava sulla Francia. Queste speranze degli stati italiani costituirono il sottofondo della ripresa francese in Italia: nel 1515 Francesco I, dopo aver isolato diplomaticamente i cantoni svizzeri staccando da essi la Spagna, scendeva di sorpresa nella penisola attraverso il passo dell’Argentera e nella battaglia di Marignano (13-14 settembre 1515) travolgeva la potenza svizzera; una zona del Milanese restava in definitivo possesso degli Svizzeri, il Canton Ticino, ma il resto del ducato ritornava ad essere sotto la Francia e risorgeva la situazione di una Francia al nord e di una Spagna al sud della penisola che l’armistizio di Lione del 1504 aveva creato. Con la pace di Bologna del 1515 fu siglato il restaurato accordo tra Firenze e la Francia: Leone X restituì al ducato di Milano, e cioè alla Francia, Parma e Piacenza che Giulio II aveva posto sotto il dominio pontificio, e in cambio Francesco I non solo riconobbe il dominio dei Medici su Firenze, ma investì del ducato di Urbino Lorenzo de’ Medici, nipote di Leone X, a danno di Francesco Maria Della Rovere. Il trattato di Noyon dell’anno successivo sanzionò la presenza francese in Italia: il successore di Ferdinando il Cattolico, il futuro imperatore Carlo V, riconobbe esplicitamente il dominio della Francia sul ducato di Milano. Il conflitto risorgerà per le ben note eredità dinastiche di Carlo V, nel 1519 erede anche dell’avo paterno Massimiliano d’Asburgo ed eletto dai principi elettori imperatore del Sacro Romano Impero. Innanzi al soffocante accerchiamento asburgico, Francesco I nel 1521 prese l’offensiva. In Italia egli disponeva dell’alleanza di Venezia: l’altro suo alleato, invece, il pontefice Leone X, deluso per non essere riuscito a convincere il re di Francia a una comune impresa nel regno di Napoli ai fini di una spartizione di questo tra la Francia e lo Stato pontificio, aveva abbandonato il campo ed era passato dalla parte di Carlo V: sperava così di poter riprendere Parma e Piacenza e di mettere le mani su Ferrara. Nell’estate del 1521 un esercito ispano-pontificio cacciava i Francesi da Milano e vi operava una nuova restaurazione degli Sforza nella persona di Francesco II (ma sotto il governo effettivo del governatore Girolamo Morone); il 24 febbraio 1525 a Pavia lo stesso Francesco I cadde prigioniero di Carlo V. Tramontò così definitivamente il dominio della Francia sul Milanese. La battaglia di Pavia fu però ben altro che non la semplice scomparsa di uno dei protagonisti della storia della penisola: segnò infatti la fine del “sistema” che abbiamo esposto, anche se per qualche anno esso sembrò continuare a sussistere. Alla lega di Cognac, promossa nel 1526 da Francesco I che aveva recuperato la propria libertà personale, parteciparono infatti, contro Carlo V, Venezia, Firenze, il nuovo pontefice Clemente VII (1523-34), anch’egli un Medici, e finanche il duca di Milano Francesco II Sforza, che doveva la propria restaurazione alle truppe spagnole. Ma erano semplici illusioni, che non tenevano conto della dura realtà di Pavia: il sacco di Roma del 1527 lo dimostrerà con palmare evidenza, mentre ad una ad una cadevano tutte le posizioni di coloro che avevano creduto nella potenza francese. Clemente VII dovette rinunciare a Parma, Piacenza e Ferrara, che nel frattempo aveva occupato, e si vide sottratti pure dall’alleata Venezia i porti di Cervia e di Ravenna; i Medici furono nuovamente espulsi da Firenze che si ricostituì in repubblica oligarchica (16 maggio 1527); infine la stessa Genova per volontà di Andrea Doria defezionò dal campo francese e passò in quello imperiale. Pavia aveva modificato la realtà internazionale, eliminando ogni possibile oscillazione nell’ambito del “sistema”; essa aveva preparato l’assoluto predominio della Spagna sull’Italia, che è quanto esplicitamente riconobbero, nel 1529, il pontefice Clemente VII con il trattato di Barcellona e il re Francesco I con quello di Cambrai. Ancora una volta, mentre gli Estensi e Venezia dovevano restituire al pontefice le terre usurpate e Carlo III di Savoia poteva annettersi la contea di Asti già francese, saranno le truppe imperiali e spagnole a riportare i Medici al dominio di Firenze. La coraggiosa e ostinata difesa che della città faranno i suoi figli migliori sarà un fulgido attestato di virtù morale e di fedeltà agli ideali dell’antica florentina libertas, ma non potrà cambiare il corso della storia: il 3 agosto 1530 morì nello scontro di Gavinana l’eroico mercante Francesco Ferrucci, che aveva impersonato tale volontà di resistenza, e qualche giorno dopo l’ex signore di Perugia, Malatesta Baglioni, al quale la repubblica incautamente aveva affidato il comando supremo del proprio esercito, puntò le artiglierie contro la stessa città che doveva difendere e aprì le porte agli assedianti. [314241] Nella sua accezione storica l’umanesimo rimanda a quel processo di trasformazione della cultura e dei metodi di formazione intellettuale che, sia pure iniziato alla fine del Trecento, ebbe nel Quattrocento il momento di maggiore espressione. I termini cronologici entro cui si suole descrivere questo processo sono stati a lungo discussi in campo storiografico: nonostante la diversità di opinioni, è ormai tesi prevalente quella che individua nell’elaborazione di un nuovo modo di essere dell’individuo nel cosmo i temi peculiari di un itinerario culturale, ma anche politico, che si estende dalle corti italiane a quelle di molti paesi europei tra la fine del 14° secolo e gli inizi del 17°. L’umanesimo affondava le sue radici nell’humus dell’Italia delle signorie e del mondo delle corti, ma esso presentava ora, in pieno Cinquecento, un allargamento di orizzonti e al tempo stesso aspetti diversi dal punto di vista qualitativo. Il centro geografico era mutato, e all’età di Lorenzo il Magnifico si era sostituita quella di Leone X. Poco conta che ambedue i principi fossero della famiglia Medici, quel che conta è che l’umanesimo, nella sua sede ormai principale di Roma, andava sempre più perdendo quel legame con una singola città che prima era stato dominante. Questo legame era stato la sua forza, dandogli un grande impegno civile e creando quei suoi tipici esponenti che erano stati i cancellieri umanisti della repubblica fiorentina, da Coluccio Salutati a Leonardo Bruni; ma, a lungo andare, poteva divenire anche il suo limite intrinseco. Roma, città che nelle piccole dimensioni urbane dell’Italia del tempo già si distingueva con i suoi quasi centomila abitanti, rivelò una capacità non indifferente di aggregazione, che finì con l’eliminare quanto di limite regionalistico poteva esservi, a seconda della loro provenienza, nei letterati, negli artisti, negli scrittori del Rinascimento, favorendo, al contrario, l’affermazione di una vita di corte. Tutti, o quasi tutti, passarono attraverso Roma: da Ludovico Ariosto, in cerca di pensioni dall’appena eletto Leone X, a Baldassarre Castiglione, che risiedeva presso la Santa Sede in qualità di ambasciatore del duca d’Urbino; da Pietro Bembo, segretario di Leone X dal 1512 al 1520, a quel grande gruppo di architetti, scultori e pittori che rinnovarono il volto della città. Nello scenario politico che si era venuto creando con l’arrivo dei Francesi in Italia non c’era città-stato, corte principesca, per quanto piccola, che non risentisse della politica e delle conflittualità delle due grandi monarchie europee: era una necessità vitale scrutare cosa si preparava nei consigli d’oltralpe, accaparrarsi il favore del re di Francia o di quello di Spagna o dell’imperatore; ma anche sotto questo aspetto (con la sola eccezione, forse, di Venezia) nessuna di queste città poteva competere con Roma sia come osservatorio aperto sull’Europa, sia come uno dei centri nei quali si annodavano le fila della grande politica internazionale. Bisogna non dimenticare questa realtà europea posta all’esame degli Italiani per poter intendere come la storiografia, chiusa entro l’orizzonte comunale-signorile, potesse in sì breve volgere di tempo passare da Flavio Biondo, da Leonardo Bruni o da Poggio Bracciolini alla posizione nuova di Niccolò Machiavelli e di Francesco Guicciardini; due storici che, pur facendo storia di Firenze o d’Italia, si spingevano ora a indagare l’origine degli imperi ora a legare avvenimenti con virtù e fortuna, giungendo tuttavia a identificare con la fortuna i condizionamenti posti dal gioco delle grandi monarchie europee alla situazione italiana. Altra caratteristica del Rinascimento cinquecentesco è la tendenza sempre più forte verso quell’atteggiamento, disposizione d’animo prima ancora che scelta ideologica, che sarà poi indicato con il termine di “cosmopolitismo”. Due osservazioni si impongono al riguardo: la prima, riscontrabile negli scritti di Machiavelli, delinea una funzione tutta cittadina dell’intellettuale; se di cosmopolitismo può parlarsi, si tratterà (almeno sino alla battaglia di Pavia e al congresso di Bologna) di un cosmopolitismo del quale la “patria” fiorentina o veneziana o romana è parte integrante e attiva. È questa stessa tendenza ideale a dare un significato profondo agli sterili sforzi e popolari e oligarchici della Firenze savonaroliana e soderiniana contro le restaurazioni medicee. Solo quando il “sistema” sarà crollato e sull’Italia si sarà esteso il predominio di Carlo V e di Filippo II, questo cosmopolitismo si identificherà con l’evasione di letterati dalla realtà del tempo; nei primi decenni del secolo 16°, seppure già con la sensazione di una incipiente decadenza, gli umanisti risentono ancora dell’influsso di Coluccio Salutati e di Leonardo Bruni. La seconda osservazione da fare è che quel cosmopolitismo indica la grande mobilità degli uomini di lettere in molte realtà europee: in Inghilterra, in Francia, in Spagna essi divengono interlocutori assai ascoltati, intellettuali capaci di incidere profondamente nella cultura e nei dibattiti politici dei luoghi che li ospitano. Nascono da questi presupposti l’Anglica Historia di Polidoro Virgilio, l’opera di Paolo Emilio da Verona per la storia di Francia, quella di Pietro Martire d’Anghiera sulla scoperta del nuovo mondo. A questo flusso che parte dall’Italia bisogna aggiungere la corrente inversa, il grande numero di viaggiatori che giungono in Italia e ritornano poi in patria con un bagaglio culturale che darà i suoi frutti. Ha inizio così quella storia degli Italiani fuori dal proprio paese, che è radicalmente diversa dall’espansione genovese o veneziana dei secoli medievali o dai viaggi della famiglia Polo, e che mantiene un carattere omogeneo sino alla profonda cesura in essa operata dalla Rivoluzione francese e dall’esperienza risorgimentale. All’affermazione di un umanesimo italiano non corrispose però una reale trasformazione delle differenti realtà economiche della penisola: la concorrenza di paesi come la Spagna, l’Inghilterra, le Fiandre andò sempre più intensificandosi, e non passò molto tempo che le prestigiose manifatture dell’Italia medievale subissero una contrazione o per effetto della concorrenza dei prodotti provenienti dall’estero, come la lana, un tempo spina dorsale dell’economia di non pochi nostri comuni e ora vittima di un processo di lenta quanto inarrestabile decadenza, o per i rischi e la passività conseguenti a una loro trasformazione in centri produttivi di manufatti del tutto diversi. La banca era sempre al primo posto nell’economia italiana, anzi il dinamismo che in questi decenni pervase le grandi potenze europee creò sempre maggiori possibilità di sviluppo e d’incremento: se Venezia perse l’Oriente, Genova conquistò l’Occidente, e i suoi banchieri, i suoi manifatturieri, i suoi armatori s’insediarono fin nella lontana Andalusia (notevole fu la penetrazione di Genovesi e anche di Veneziani nel territorio dell’ex regno moro di Granada, unito alla Spagna cattolica nel 1492), e almeno sino ai tempi di Filippo IV e del conte-duca d’Olivares saranno i principali finanzieri del re di Spagna; ma la banca si legava sempre di più alla vita politica, diventando attraverso il debito pubblico padrona e nello stesso tempo succube dei monarchi europei, che non rare volte ne falcidiavano i profitti con svalutazioni monetarie e con bancarotte vere e proprie. [314251] La pace di Cambrai (1529), pur non ponendo fine al conflitto tra la Francia e gli Asburgo, le cui successive fasi però interesseranno in grado assai minore l’Italia, aveva espulso la Francia dalla penisola (fatta eccezione per il ducato di Savoia che sarà occupato nel 1536 da Francesco I) e aveva sanzionato il predominio della Spagna. All’incoronazione di Bologna tutti i principi italiani fecero omaggio all’imperatore, compresa la Repubblica di Venezia, che dovette sgombrare, in favore del papa Clemente VII, i porti pugliesi e le città romagnole che deteneva. Ormai Carlo V agiva da padrone nella penisola: nel 1532 concedeva ad Alessandro de’ Medici, che il suo intervento due anni prima aveva restaurato nel governo di Firenze, il titolo di duca; nel 1535, alla morte di Francesco II Sforza, respinse ogni progetto di Francesco I per un ritorno indiretto della Francia in Lombardia annettendo direttamente al proprio dominio il ducato di Milano. Il predominio della Spagna sull’Italia divenne ancora più assoluto per la ripresa delle ostilità con la Francia, giacché l’alleanza stretta da Francesco I con Solimano il Magnifico fece cadere le ultime remore e perplessità dall’animo dei principi italiani nei confronti della Spagna: il nuovo pontefice Paolo III (1534-49) fu costretto a reagire a tale patto con gli infedeli e la stessa Venezia, per il bisogno di porre un argine all’avanzante marea ottomana, non poteva dimenticare che Carlo V nel 1535 aveva portato a buon fine la spedizione dell’isola di Gerba e di Tunisi e comprese che era giunto il momento di abbandonare il proprio tradizionale antagonismo con gli Asburgo. Anche la crisi provocata a Firenze dall’uccisione del duca Alessandro ad opera del cugino e compagno di dissolutezze Lorenzino (gennaio 1537) si risolse in un rafforzamento del predominio indiretto di Carlo V su Firenze: il favore imperiale chiuse immediatamente la crisi imponendo al governo del ducato il figlio di Giovanni dalle Bande Nere, Cosimo I, ma fu pagato con la cessione della fortezza che dominava la città alle truppe spagnole, che vi si manterranno per alcuni anni, e con un’alleanza che meglio sarebbe chiamare duro vassallaggio. I fuoriusciti fiorentini che, come Filippo Strozzi, si erano illusi di poter rientrare nella città con le armi in pugno e con il favore francese furono battuti e in buona parte catturati a Montemurlo, non lontano da Prato. Non che mancasse, soprattutto negli ultimi anni del regno di Carlo V, qualche incrinatura nel predominio spagnolo: lasciando da parte la congiura che nel 1547 provocò l’uccisione del duca di Parma e Piacenza Pier Luigi Farnese, poiché fu congiura non antispagnola e in massima parte effetto della politica e delle ambizioni personali del governatore di Milano Ferrante Gonzaga, qui basterà ricordare la troppo visionaria congiura del senese, ma gonfaloniere lucchese, Francesco Burlamacchi nel 1546, quella ordita dai Fieschi a Genova contro Andrea e Giannettino Doria (1547), il moto isolato della Lunigiana e l’insurrezione dei napoletani contro il viceré don Pedro de Toledo, che voleva introdurre l’Inquisizione spagnola (1547), infine la rivolta fomentata in Corsica da Sampiero Ornano di Bastelica contro il dominio genovese e, grazie all’appoggio di una flotta franco-turca (1553), la rivolta della Repubblica di Siena contro la guarnigione imperiale; ma si trattò quasi sempre di ribellioni incapaci di mettere in crisi la solidità del dominio spagnolo. Francesco Burlamacchi salì il patibolo a Milano, i Fieschi fallirono nella loro insurrezione e dovettero riparare in Francia, nell’aprile 1555 Siena dovette capitolare alle truppe di Cosimo de’ Medici e sparire per sempre come repubblica indipendente. Solo la Corsica, ottima base di operazioni navali per la flotta franco-turca operante nel Tirreno, restò dal 1553 al 1559 non soggetta a Genova. Nemmeno nel settore religioso, come pur avveniva in altre parti del suo vasto impero, Carlo V trovò in Italia forti legami tra istanze religiose e rivendicazioni politiche. La Riforma luterana e il calvinismo non conobbero nella penisola quel carattere di netta opposizione al potere del principe: i centri maggiori dei nuclei riformatori furono Napoli, con Juan Valdés e il predicatore (senese di nascita) Bernardino Ochino; Ferrara, grazie alla presenza della duchessa Renata di Francia; Lucca, con Pier Martire Vermigli e Celio Secondo Curione. A sé stava, per ovvi motivi di potenza e di geloso giurisdizionalismo, il caso di Venezia e della sua terraferma, che già nel 1525 aveva ospitato non pochi profughi trentino-tirolesi che, fallita l’insurrezione di M. Gaismayr, vi si erano rifugiati diffondendo l’anabattismo. Il terreno era fertile, sia per il fenomeno culturale che s’irradiava dall’università di Padova, sia per la possibilità di continui contatti con le correnti d’oltralpe grazie all’incessante flusso di viaggiatori e mercanti stranieri; comunque nel Veneto si ebbe una diffusione delle nuove idee tanto di tipo aristocratico-colto (Pier Paolo Vergerio), quanto di tipo popolare (gruppi di anabattisti, costituitisi soprattutto nel ceto artigianale). Infine l’antica Chiesa valdese aderì alla Riforma nel 1532. In complesso, dunque, la Riforma in Italia fu un fenomeno di minoranze; la penisola, invece, intorno alla metà del secolo 16°, divenne la roccaforte della reazione a Lutero e a Calvino e della Controriforma cattolica. Non che l’Italia della fine del secolo 15° e degli inizi del 16° non avesse conosciuto grosse spinte riformatrici nel campo religioso: Savonarola non solo aveva retto Firenze in nome di Cristo re e denunciato la simonia della curia e il papa Alessandro VI, ma, dopo la sua tragica scomparsa, aveva lasciato dietro di sé un retaggio di aspirazioni, di idealità e di esigenze, che saranno, per es., ben visibili nella Repubblica di Lucca, e costituiranno come un’aspirazione ideale che unirà insieme tanti fenomeni, dalla rivolta degli straccioni del 1531-32 alla congiura antispagnola e antimedicea di Francesco Burlamacchi; meno legata alla politica, più aderente al mondo della pietà e della preghiera, la Riforma cattolica fece la sua prima comparsa in Italia nel 1464 con la fondazione a Vicenza dell’Oratorio di S. Girolamo a opera di Bernardino da Feltre e nel 1497 a Genova dell’Oratorio del Divino Amore, creato da Ettore Vernazza e influenzato da s. Caterina da Genova. Questo secondo sarà all’origine del più famoso Oratorio del Divino Amore, sorto a Roma nel 1517, congregazione mista di laici e di ecclesiastici allo scopo di rinsaldare la fede e la disciplina ecclesiastica e di praticare la carità verso i sofferenti e i bisognosi; esso sarà allietato dalla personalità di san Filippo Neri, il prototipo di una nuova religiosità, destinato però a scomparire assai presto innanzi al clima controriformistico che Ignazio di Loyola e Giampietro Carafa instaureranno un trentennio dopo in Roma. La contemporaneità del sorgere dell’Oratorio romano con il gesto di Lutero fu occasionale, non sostanziale: la Riforma cattolica non era la Controriforma ed essa muoveva parallela alla riforma luterana, espressioni ambedue di quell’atmosfera di attesa e di speranze riformatrici con le quali si era chiuso il secolo 15°. Da un lato c’era l’azione ufficiale del papato, dal quinto Concilio del Laterano, aperto da Giulio II e proseguito da Leone X, al Consilium de emendanda ecclesia (1537) della commissione istituita da Paolo III; dall’altro l’opera meno risonante, più capillare e più fruttuosa, del pullulare di nuove congregazioni e nuovi ordini religiosi; nel 1525 Gaetano da Thiene e Giampietro Carafa davano vita ai teatini o chierici regolari della Divina Provvidenza allo scopo di migliorare la cura delle anime, nel 1528, in seguito all’opera di Matteo da Bascio, nell’ambito dell’ordine francescano nascevano i cappuccini, nel 1553 era la volta dei barnabiti, seguiti poco dopo dai somaschi e dagli oratoriani. Le sorti della Riforma cattolica non si decisero in Italia bensì alla corte di Carlo V, ed esse s’identificarono con la causa di Erasmo: finché l’imperatore ebbe speranza di ridurre i protestanti all’obbedienza, tutto un partito imperiale, con il cancelliere Mercurino da Gattinara in testa, protesse Erasmo dagli attacchi dei vecchi ordini religiosi e dell’inquisizione; l’aspetto italiano di questa grande alternativa della storia europea fu costituito dall’opera dei cardinali Gaspare Contarini (1483-1542), presidente della commissione che redasse il Consilium de emendanda ecclesia, Iacopo Sadoleto (1477-1547), dell’inglese Reginald Pole (1500-1558), e dall’opera riformatrice del vescovo Matteo Maria Giberti nella sua diocesi di Verona, tra il 1524 e il 1543. Quando Carlo V abbandonò la causa, già era stato convocato il Concilio di Trento (1545-63): non si può qui esaminare tale avvenimento che supera, e di gran lunga, i semplici confini d’Italia; basti dire che il Concilio, aperto sotto il segno di una speranza irenica, diede l’abbrivio invece per una cristallizzazione della scissione religiosa e per un abbandono della Riforma cattolica a tutto vantaggio della Controriforma. A san Filippo Neri subentrava Ignazio di Loyola, fondatore dell’agguerrita milizia della Compagnia di Gesù. Già dal 1542 era operante in Italia il tribunale dell’inquisizione, creato da Paolo III sotto l’ispirazione del Carafa, con la dichiarata funzione di controllo delle nuove confessioni, riuscendo a penetrare in stati che un tempo avevano avuto, come Venezia, geloso sentimento della propria autonomia sovrana. Per coloro che restarono in patria rimaneva la scelta tra la via del nicodemismo o il supplizio del rogo: gli ultimi rappresentanti dell’evangelismo italiano salirono il rogo nella persona di Pietro Carnesecchi nel 1567 e di Aonio Paleario nel 1570. I più cercarono scampo nella fuga, e proprio in questo fatto, che segnava la sconfitta della Riforma in Italia, essa finì con il riportare la sua migliore vittoria: al contatto, durante la diaspora all’estero, con le comunità riformate della Svizzera, della Transilvania, della Polonia, attraverso il confronto dell’intolleranza cattolica e di quella riformata, alcuni di questi “eretici” italiani finirono con l’assolvere una grande funzione storica, quella di accennare il primo passo, al di fuori di ogni ortodossia ecclesiastica, verso un indifferentismo dogmatico e una pratica della tolleranza religiosa. Ne furono antesignani i senesi Lelio e Fausto Sozzini, soprattutto il secondo di essi, che diedero il loro nome a tale corrente antitrinitaria. L’istituzione dell’inquisizione fu solo uno dei primi passi verso la Controriforma: essa divenne completa con l’elevazione al papato del cardinale Carafa, che assunse il nome di Paolo IV (1554-59) e non esitò a imprigionare due cardinali come Pole e Morone (ossia colui che come legato pontificio aveva aperto il Concilio di Trento), perché sospettati di inclinare a progetti di conciliazione con i protestanti. Si era dunque giunti assai lontano da quelli che erano stati i progetti iniziali e le esigenze di Carlo V; ma ciò non toglie che, sul piano dell’egemonia politica e del governo diretto, l’opera di difesa dei pontefici e delle istituzioni cattoliche fosse un motivo di rafforzamento del dominio della Spagna sull’Italia. [314261] Quando Carlo V abdicò (1556) nel dominio della penisola italiana subentrò il figlio Filippo II, re di Spagna. Sebbene l’irruenza e il fanatismo avessero spinto papa Paolo IV sino a muovere una breve quanto sfortunata guerra a Filippo II, questi fu la mano armata della Controriforma e con lui, in Italia, ordine religioso e ordine politico vennero a coincidere. Tale ordine fu consacrato dalla pace di Cateau-Cambrésis, che il 3 aprile 1559 pose fine al lungo conflitto tra gli Asburgo e la Francia. Essa cristallizzò l’ordinamento territoriale italiano in una triplice realtà: possessi diretti di una potenza straniera, stati vassalli di una potenza straniera, stati autonomi e liberi. Nel primo gruppo, la parte del leone spettava alla Spagna, sotto la cui diretta sovranità si trovarono il ducato di Milano, il regno di Napoli, quello di Sicilia, quello di Sardegna e lo Stato dei presidi (Talamone, Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e Monte Argentario), strappato al territorio dell’ex Repubblica di Siena; la Francia aveva solo il marchesato di Saluzzo, che conservò sino al 1588, anno nel quale esso passò sotto i duchi di Savoia. Formalmente autonomi, ma di fatto vassalli della Spagna erano gli stati del secondo gruppo, e precisamente il ducato di Parma e Piacenza, lasciato ai Farnese con l’annesso piccolo ducato di Castro e Ronciglione, il ducato di Mantova in mano ai Gonzaga, che dal 1536 erano anche marchesi del Monferrato, l’oligarchica Repubblica di Lucca, il ducato di Urbino sotto i Della Rovere, quello di Massa e Carrara sotto i Cybo e, in situazione estremamente aleatoria, il minuscolo principato di Piombino in mano agli Appiani, ma che sarà a lungo occupato prima dagli imperiali (1603-11) e poi dagli spagnoli (1628-34), per finire da ultimo sotto i Ludovisi (1634). In posizione non stabile era anche il possesso della casa d’Este: essa dominava su Firenze, feudo pontificio, e su Modena e Reggio, feudi imperiali, ma nel 1598, all’estinzione del ramo principale con il duca Alfonso II, Ferrara fu riunita allo Stato pontificio da Clemente VIII (1592-1605). Sebbene con un margine di autonomia dagli altri mai conosciuto, a motivo soprattutto dei complessi rapporti finanziari che intercorrevano con la Spagna, bisogna considerare tra gli stati vassalli anche la Repubblica di Genova, che dal 1569 deteneva a titolo diretto l’isola di Corsica, già possesso del Banco di San Giorgio, e ora era corrosa dalle lotte intestine tra l’oligarchia della nobiltà vecchia e le pretese della nuova, la cui rivolta del 1575 fu placata solo con la riforma costituzionale dell’anno successivo. Gli stati veramente sovrani erano quattro: il ducato di Savoia, la Repubblica di Venezia, il granducato di Toscana (l’elevazione del ducato di Firenze in granducato di Toscana fu realizzata nel 1569 da Cosimo I grazie al favore del pontefice Pio V), e lo Stato pontificio. Tali stati tuttavia non potevano ignorare la predominante influenza della Spagna sulla penisola e spesso dovevano fare i conti con questa, essendo ciascuno di essi come serrato entro la morsa spagnola: Venezia era attaccabile non solo dagli aviti possessi degli Asburgo, sulla frontiera orientale, ma dal ducato spagnolo di Milano; i Savoia erano minacciati dal Monferrato, vero cuneo nel loro territorio, e dalla Lombardia spagnola; la Toscana era esposta a un attacco da parte dello Stato dei presidi e lo Stato pontificio confinava con il regno spagnolo di Napoli. A eccezione di Venezia, gravitavano tutti sul Tirreno, ma questo mare (tramite Genova, la Corsica e la Sardegna) era un mare facilmente controllabile dalla flotta spagnola. Quali le condizioni dell’Italia sotto la Spagna? Ai possessi diretti di Filippo II mancò non soltanto, com’è evidente, una continuità territoriale ma anche un’omogeneità istituzionale. Sebbene nel 1563 venisse istituito a Madrid un Supremo Consiglio d’Italia, mancò sempre un’efficiente coordinazione nell’azione dei rappresentanti spagnoli in Italia. Già sotto il profilo istituzionale essi erano diversi: a Napoli, a Palermo, a Cagliari governava un viceré, a Milano invece un governatore; il viceré siciliano o il governatore milanese trovavano spesso un freno al loro strapotere nella precedente situazione costituzionale del paese loro affidato, dovendo a Palermo il viceré fare i conti con il parlamento, composto dai tre bracci, feudale, ecclesiastico e demaniale, e a Milano il governatore con il senato, autentico organo di controllo di tutta l’amministrazione della giustizia, con in più una qualche particella di sovranità, potendo esso respingere alcune prammatiche. Tale freno invece non esisteva o era quasi del tutto inoperante nel regno di Napoli e in quello di Sardegna, anche se in ambedue i paesi sussisteva il parlamento. Ma la mancanza di coordinamento e la diversità giuridica non significarono minor peso delle decisioni prese a Madrid sulla vita concreta dei possessi italiani: sia perché nei conflitti tra il proprio rappresentante e gli organi di governo locale solo la volontà del monarca di Spagna poteva decidere, sia perché si ebbe ineluttabilmente, in un breve volgere di tempo, una netta prevalenza dell’elemento spagnolo nel governo e nell’amministrazione dei possessi italiani. Per es., a Milano, nel lungo arco di tempo che va dal 1560, anno nel quale cessò il gran cancellierato dell’italiano Taverna, sino alla metà del Seicento, tutti i gran cancellieri furono spagnoli ad eccezione di uno soltanto nel periodo 1579-92. L’assolutismo accentratore di Madrid diede buona esca, ai contemporanei stessi, per accusare la Spagna come unica responsabile della decadenza non solo politica, ma anche economica e finanziaria della penisola, e questo sarà a lungo un luogo comune della storiografia italiana, sublimato dalla passione indipendentistica e nazionale degli scrittori del nostro Risorgimento. Occorre invece distinguere accuratamente i due diversi problemi che l’affermazione sopra ricordata racchiude. La carta dell’Italia spagnola indica un dominio quasi totale da parte della maggiore monarchia del tempo. I limiti e i pericoli insiti in una dominazione non devono far perdere di vista alcuni tratti fondamentali di quest’esperienza: la penisola conosce, sotto il controllo spagnolo, una certa direzione di unità politica e finisce con l’essere inserita entro un impero che ha ormai caratteristiche sovranazionali. In presenza di un sovrano legittimato a svolgere le sue funzioni, i baroni dovettero accettare di divenire suoi cortigiani; sarebbe stato lo stesso per gli uomini di Chiesa, per i mercanti, per tutti i corpi rappresentativi delle città. Si spiega in una lettura politica l’enorme sviluppo demografico delle città-capitali: Napoli, Milano, Palermo rappresentano nelle loro strutture un potere centralizzato e burocratizzato. Città immagini del potere, nei luoghi come nelle istituzioni, esse attraggono un gran numero di artigiani, di poveri, di religiosi, di mendicanti; realtà in cui ai simboli dello stato moderno si affiancano ciclicamente tutti i segni di gravi crisi economiche e di grande pauperismo. Tuttavia fare di tutto ciò responsabile esclusiva la Spagna è ricalcare la visione parziale e poco serena della storiografia risorgimentale. In seguito l’indagine storiografica ha dimostrato l’unilateralità di tale giudizio: ancor prima dello stabilirsi del dominio spagnolo, la penisola italiana presentava dei fattori endogeni di crisi che la Spagna, anch’essa in regresso, non poteva frenare. Si aggiungono a questi alcuni avvenimenti destinati a segnare profondamente l’equilibrio sociale di una città: valga per tutti la terribile pestilenza del 1656, capace di ridurre la popolazione napoletana di più della metà dei suoi abitanti. B. Croce, che di tale revisione storiografica è stata la voce più autorevole, ha usato un’illuminante immagine, quella di una decadenza abbarbicantesi a un’altra decadenza; forse è necessario aggiungere che non bisogna dimenticare la dimensione di quella decadenza che toccò il bacino mediterraneo e colpì profondamente i paesi dell’Europa orientale. [314271] Tra gli stati italiani il più debole, ma economicamente forse il più prospero, era il granducato di Toscana, il quale aveva trovato il suo abile nocchiero nel figlio di Giovanni dalle Bande Nere, il duca e poi granduca Cosimo I (1537-74). Questi lasciò intatte le antiche magistrature, ma le esautorò completamente, governando attraverso la “pratica segreta”, o consiglio di persone di sua stretta fiducia e autentico organo del suo potere personale; riorganizzò lo stato livellando città e contado e tutto sottoponendo al governo centrale di Firenze, e assecondò quella trasformazione della Toscana da manifatturiera in agricola che già era in atto. Notevole fu in questo periodo l’apporto di capitali nell’agricoltura, e non poca parte di essi provenne dal rientro in patria delle fortune che un tempo banchieri come i Corsini o i Torrigiani avevano investito nei mercati e nelle borse di Londra e di Norimberga, e che ora invece facevano di essi dei grandi latifondisti in Toscana. Proprio sotto Cosimo I la Toscana divenne la terra classica dell’enfiteusi, della manomorta e dei vincoli fedecommissari: essa manterrà queste caratteristiche sino all’affermazione della politica. Si deve anche a Cosimo I l’ingrandimento del porto di Livorno e la successiva possibilità di sviluppo del commercio marittimo. Notevoli cure egli diede infine alla difesa delle coste tirreniche dalle incursioni dei pirati barbareschi, e a tal fine istituì l’ordine militare dei Cavalieri di Santo Stefano, con sede a Pisa. Fedele vassallo di Carlo V e di Filippo II, seppe accrescere costantemente il margine della propria autonomia e il territorio dello stato (annessione della Repubblica di Siena), sino ad ottenere il titolo granducale (1569). Una battuta d’arresto si ebbe con il successore Francesco I (1574-87), che si dimostrò incapace di amministrare l’eredità paterna. Il discredito cui giunse il suo governo favorì la congiura repubblicana di Orazio Pucci che, nonostante il fallimento, segnò la fine di Francesco I. Il processo iniziato da Cosimo I fu invece potentemente ripreso dall’altro suo figlio, Ferdinando I (1587-1609), che alla morte del fratello, per evitare l’estinguersi della dinastia, lasciò la porpora cardinalizia per il trono. Il nuovo granduca completò i lavori di bonifica nella Maremma e di creazione del porto di Livorno, il cui abitato fu elevato a città nel 1577: tipico porto di transito e di deposito, esso più tardi diverrà porto franco. Il periodo di Ferdinando I segnò anche la fine del vassallaggio della Toscana verso la Spagna e l’inizio di un orientamento filofrancese, che ebbe i suoi momenti salienti nella mediazione del granduca presso la Santa Sede per l’assoluzione di Enrico IV e nel matrimonio di questo con Maria de’ Medici, la futura reggente di Francia per Luigi XIII. [314281] Il ducato di Savoia, vero stato cuscinetto tra la Francia e la Lombardia spagnola, sentì in un primo tempo tutti gli svantaggi della propria posizione, sì da trasformarsi nella lunga guerra del 1521-59 in un costante terreno di battaglia, che vide gli Spagnoli e i Francesi insediarsi in esso da padroni, mentre il suo sovrano si vedeva strappare dagli Svizzeri lo Chablais e il Ginevrino. Il debole duca Carlo III (1504-53) non conservò che poche terre, e ben presto l’erede, il figlio Emanuele Filiberto, dovette recarsi al campo spagnolo-imperiale e conquistarsi con la bravura della sua spada e le doti di comandante (battaglia di San Quintino del 1557) le premesse per potere un giorno riottenere lo stato dei suoi avi. Ciò avvenne con la pace di Cateau-Cambrésis: Emanuele Filiberto riebbe il ducato di Savoia, il principato del Piemonte e la contea di Nizza, ma dovette concedere le fortezze di Torino, Chivasso, Pinerolo, Chieri e Villanova d’Asti al re di Francia e quelle di Asti e di Santhià al re di Spagna, nonché impegnarsi ad essere neutrale e amico verso l’uno e verso l’altro. Con un’energia indomabile il nuovo duca si diede a riorganizzare il proprio stato, facendo proprie molte delle modifiche amministrative e giudiziarie introdotte dai Francesi durante la loro occupazione, e avviando, pur nella predominante struttura feudale del suo stato, un accentuato processo di assolutismo monarchico. Smantellò numerosi castelli feudali, abolì la servitù della gleba dietro riscatto, e alla precedente milizia mercenaria sostituì una milizia costituita quasi integralmente da suoi sudditi, ponendola agli ordini di Giovanni Antonio Levo. Con la riforma monetaria del marzo 1562, tesa a impedire la sistematica svalutazione della moneta, diede nuovo impulso alla distrutta economia piemontese. Forte di questa ricostruzione interna, poté svolgere una cauta ma pur decisa politica estera, che gli valse la restituzione di alcune fortezze da parte della Francia, di alcune terre da parte dei cantoni svizzeri e, infine, l’acquisto della contea di Tenda, che gli rendeva libera strada da Cuneo a Nizza, e di quella di Oneglia, che forniva il ducato di un secondo sbocco sul mare. Nel 1563 si ebbe il trasferimento della capitale da Chambéry a Torino, avvenimento destinato ad avere grande importanza nel futuro poiché implicava una scelta tra le due possibili direttive della politica sabauda, quella oltremontana e quella italiana. Un ulteriore ingrandimento del ducato fu realizzato nel 1588 dal nuovo duca Carlo Emanuele I (1580-1630) con l’annessione del marchesato di Saluzzo, resa possibile dall’indebolimento del regno di Francia in quel momento travagliato dalle guerre di religione. [314291] Non una forza politica interna assicurava la libertà dello Stato pontificio, bensì soltanto il suo particolare carattere di patrimonio del papato e la logica interna alla stessa Controriforma, della quale la Spagna era la più fedele interprete. Per questo motivo, anche se a volte i pontefici furono in urto aperto con il re di Spagna, non corse mai serio rischio il loro possesso territoriale, che una bolla di Pio V aveva dichiarato inalienabile (1567). Ben diversa era però la situazione interna, che era sotto il contraccolpo della riluttanza dei nobili a sottoporsi al fiscalismo e all’assolutismo pontificio e della situazione di indigenza di una parte della sua popolazione: durante il pontificato di Gregorio XIII (1572-85) il malcontento esplose nel 1577 in una formidabile ondata di banditismo, che accomunava gente di bassa estrazione, come Marco Sciarra, e nobili imparentati con le più grosse famiglie come il duca di Montemarciano Alfonso Piccolomini, e durerà, taglieggiando e assassinando alle porte della stessa Roma, sino al 1595; contro di esso il pontefice Sisto V (1585-90) usò tutta la sua energia, innalzando a più riprese la forca nella stessa Roma e venendo ad accordi con gli stati confinanti per un’azione comune contro i briganti. Più che dal terrore il banditismo sarà domato dalla bonifica delle paludi pontine iniziata dallo stesso Sisto V, dalle migliorie economiche della parte settentrionale dello Stato pontificio e da un attenuarsi delle carestie. Su queste fragili basi statali (e il regresso economico almeno della parte laziale del territorio pontificio sarà sempre più rapido) si erge il grande sforzo controriformistico del papato di fine Cinquecento e del Seicento: ricordiamo la Roma rinnovata da un’incessante attività edilizia (Sisto V, Paolo V e soprattutto Urbano VIII Barberini, protettore di Bernini e di Borromini) e la costante opera per sottrarre al mosaico feudale del tempo molte terre rivendicandole al dominio diretto della Chiesa: nel 1598, come si è detto, Clemente VIII incamerò la città di Ferrara, nel 1631 Urbano VIII il ducato di Urbino. Ancora Urbano VIII nel 1641 occupò a viva forza il ducato di Castro, che il duca di Parma e Piacenza Odoardo Farnese deteneva; ma dovette restituirlo tre anni dopo avendo con tale occupazione provocato una lega antipontificia di principi italiani; dove non riuscì Urbano VIII, riuscì invece il suo successore Innocenzo X, che nel 1649 occupò definitivamente il conteso ducato. Questa ricostruzione dell’unità dello Stato pontificio non andò però esente dal risorgere di un antico fenomeno, quello del nepotismo: non più il grande nepotismo di Alessandro VI o di Paolo III, capace di dar vita a degli stati per i propri parenti, ma il piccolo nepotismo dei favori, delle pensioni e delle prebende. [3142101] La Repubblica di Venezia era libera dall’ingerenza spagnola e, sebbene ormai bloccata per sempre nella sua espansione verso la terraferma italiana, continuava ad essere temibile sul mare, come aveva dimostrato nel 1571 con il fondamentale apporto dato alla vittoria della lega cattolica sui Turchi a Lepanto. Inoltre la sclerosi iniziale che aveva cominciato a colpire il suo robusto organismo, manifestandosi sia nell’economia attorno al 1570 con i primi segni di stanchezza nell’industria della lana e in quella delle costruzioni navali, sia nel modo sociale di vita con il sempre più numeroso ritiro di nobili dalla vita attiva del negozio e del mare per vivere pigramente della rendita terriera dei grossi possedimenti sulla terraferma (il patrizio Pietro Bodoer stimava nel 1588 che i nobili veneziani possedessero un terzo del Padovano; nel corso del secolo 16° costoro costruirono sulla terraferma ben 257 ville, alcune delle quali autentici capolavori che costituivano un grosso investimento di capitale improduttivo, come la palladiana Malcontenta o la villa Barbaro affrescata dal Veronese), trovò anche, per almeno mezzo secolo, forze giovanili e entusiastiche che riuscirono a contenerla. Fu l’opera questa del cosiddetto partito dei “giovani”, che aveva il suo centro culturale nel celebre ridotto Morosini e i suoi uomini di punta in Leonardo Donà e in Nicolò Contarini, ascesi rispettivamente al dogato nel 1606-12 e nel 1630-31: tale partito, grazie all’appoggio del doge Nicolò da Ponte (1578-95), riportò la vittoria del 1582, che, sopprimendo la zonta, organo di una ristrettissima oligarchia, e ridimensionando i poteri del Consiglio dei Dieci, diede una momentanea battuta di arresto al processo, sempre più forte, d’involuzione oligarchica. Ai sentimenti e ai programmi di questi partiti dei “giovani” bisogna riallacciare la genesi di quello che fu l’ultimo grande atto della repubblica veneziana, ossia l’aspra controversia (1605-07) che mise di fronte Venezia e Paolo V e, tra gli altri, i cardinali Bellarmino e Baronio e il teologo ufficiale della repubblica Paolo Sarpi. Il conflitto era nato per le leggi della repubblica tese ad evitare le dannose conseguenze della manomorta e per l’arresto di due preti rei di delitti comuni; al rifiuto di Venezia di consegnare gli arrestati al tribunale ecclesiastico, Paolo V lanciò l’interdetto su tutto il territorio veneziano. Gli stati europei si divisero: se la Spagna di Filippo III si armò a favore dei diritti della Chiesa, Inghilterra e Olanda non furono meno decise nella difesa della libertà della repubblica che lottava per il proprio diritto. Non si giunse al conflitto armato solo per l’intervento mediatore del re di Francia Enrico IV: il pontefice revocò l’interdetto e la repubblica gli presentò le sue scuse; essa però non mutò la propria legislazione e solo nel 1657 riammise sul proprio territorio la Compagnia di Gesù che nel corso del conflitto aveva espulso. Così, nell’Italia controriformista e spagnola, Venezia riconfermava il carattere non conformista e vivace dell’attività culturale cha da tempo la contraddistingueva: veneziano era il cardinale G. Contarini, assai attive le sue tipografie ove nel 1532 era stata pubblicata la prima traduzione italiana della Bibbia dai testi originali (di A. Brucioli), né si era ancora spenta la grande funzione dell’università di Padova. La mediazione di Enrico IV tra Venezia e Paolo V era un fatto di per sé significativo. Con il secolo 17° infatti si ebbe il ritorno della Francia sulla scena della politica attiva europea, e ciò provocò un certo indebolimento dell’egemonia della Spagna sull’Italia. Incominciava a maturare tutto un fermento letterario in senso antispagnolo (Traiano Boccalini, Alessandro Tassoni, ecc.): non si trattava certo, come gli studiosi del 19° secolo hanno creduto, del sorgere di sentimenti prerisorgimentali, dal momento che l’idea di uno stato nazionale trovava più conferme su un piano letterario che politico; erano comunque sintomi non trascurabili di un lento modificarsi della situazione politica italiana e delle forze di fondo della politica europea. Proprio in quegli anni, infatti, si ebbero i primi patti (trattato di Bruzolo nel 1610 tra Carlo Emanuele I e il re di Francia Enrico IV) e si combatterono le prime guerre tra stati italiani al di fuori dell’orbita spagnola (prima guerra per la successione del Monferrato nel 1612-17, che pose Carlo Emanuele I di Savoia contro le truppe di Filippo III ma si concluse con la vittoria dei Gonzaga e di Filippo III; guerra di Venezia contro gli Asburgo d’Austria e gli Uscocchi nel 1615-17; energica reazione di Venezia nel 1618 alla cosiddetta congiura dell’ambasciatore spagnolo Bedmar). Erano le prime crepe che si producevano nell’ordinamento dato all’Italia dalla pace di Cateau-Cambrésis; esse si allargheranno e diverranno sempre più profonde appena l’attività dei principi italiani potrà riallacciarsi all’opposizione antiasburgica dei più forti paesi d’Europa. [3142111] La guerra dei Trent’anni (1618-48) rivelò l’esistenza di punti nevralgici per il dominio spagnolo in Italia nel ducato di Savoia e negli stessi diretti possessi spagnoli dell’Italia meridionale. Nel 1621 un audace colpo di mano aveva dato la Valtellina agli Spagnoli, mettendoli così in grado di unire le proprie forze direttamente con quelle degli Asburgo d’Austria; ma fu per breve tempo, poiché la Francia di Richelieu con un’energica reazione fece ripristinare lo status quo e trasse motivo dall’incidente per motivare la necessità di una propria presenza nella penisola, resa possibile dalla progressiva attrazione del Piemonte nell’orbita francese. Il trattato di Cherasco (1613) costrinse il duca Vittorio Amedeo I (1630-37) a cedere alla Francia Pinerolo, quello successivo di Rivoli (1635) a schierarsi contro la Spagna dietro promessa di una parte della Lombardia e del titolo regio, infine la morte del duca e la reggenza della vedova Maria Cristina di Borbone (1637) segnarono l’assoluta infeudazione del ducato alla Francia, che fu dal paese pagata a troppo caro prezzo per lo scoppio di una vera e propria guerra civile ad opera del principe Tommaso di Carignano e del cardinale Maurizio, con il conseguente intervento armato della Spagna: all’una e all’altro pose fine il trattato di pace del 1642, che confermò l’ingerenza francese nel ducato. La Francia intervenne anche nella contesa scatenata dal pontefice Urbano VIII con la guerra per il ducato di Castro, la quale fu un episodio che, se pur privo di agganci con la guerra dei Trent’anni, ebbe non poche ripercussioni sui successivi avvenimenti, e fu sotto la mediazione francese che Castro fu restituita a Odoardo Farnese. Più pesante e grave fu il suo intervento nell’Italia meridionale, dove il contrasto internazionale trovava un’occasione favorevole nel nodo dei problemi interni costituito dal processo di rifeudalizzazione in atto nel regno di Napoli. Sotto il sempre più forte premere dei bisogni finanziari la corona, per la durata della guerra dei Trent’anni, non solo sottopose a un pesante aumento il carico fiscale nel Napoletano ma si vide costretta ad autorizzare, nell’esazione delle imposte, la più sfacciata speculazione da parte di banchieri privati. I frutti di queste speculazioni presero spesso la strada dell’acquisto di feudi e di diritti di giurisdizione signorile, contribuendo a una massiccia messa all’incanto dei poteri sovrani. Tale situazione finì col determinare la reazione dei differenti “partiti” presenti in città: la protesta interessò i gruppi aristocratici, i ceti mercantili, gli artigiani, i “togati”, i giuristi impegnati nelle magistrature del regno, il mondo rurale esposto come non mai alle angherie di esosi percettori di rendita feudale, i cittadini delle “università” demaniali spesso vendute ai baroni vecchi e nuovi. Su questa situazione interna, contraddistinta da rancore delle province verso Napoli e la Spagna, da caos amministrativo e da un’ondata di fallimenti di compagnie commerciali particolarmente intensa nel decennio 1636-46, s’inserirono i richiami della propaganda della Francia, ben lieta di incoraggiare le rivolte interne al territorio della Spagna nemica: dopo la congiura baronale di vecchio tipo ad opera di Tommaso Pignatelli nel 1634, la situazione tornò ad essere incandescente con il 1646 (arresto dello speculatore Bartolomeo d’Aquino) e precipitò il 7 luglio 1647 in una rivolta che da Napoli si diffuse all’intero regno. Di questa rivolta l’episodio di Tommaso Aniello (Masaniello) fu il più clamoroso e certo il più pittoresco, ma non il più importante. La rivolta, scoppiata come tumulto spontaneo contro l’ennesima tassa imposta dagli Spagnoli, finì con l’avere, con il passare dei mesi, molte valenze politiche: nelle strade della città si confrontarono gli interessi di differenti strati sociali; tentativi più o meno coerenti di riforma politica si alternarono a forme di protesta spontanea e ritualizzata. Nei mesi precedenti si era mossa anche la Sicilia con la rivolta palermitana del battiloro Giuseppe Alessi (luglio-agosto 1647): la Spagna fu così costretta a impegnarsi a fondo nella repressione, onde impedire proprio su un territorio ad essa direttamente sottoposto l’apertura di un secondo fronte da parte della Francia. La diplomazia francese, infatti, in quegli anni era stata particolarmente attenta alla situazione napoletana e non aveva mancato di ordire progetti e trame in occasione delle varie congiure. Nei primi mesi del 1646, mentre si organizzava una spedizione contro lo Stato dei presidi, fu sottoscritto un regolare patto tra Mazzarino e il principe Tommaso di Savoia per provocare una rivolta a Napoli: al principe Tommaso sarebbe spettata la corona di Napoli, alla Francia Gaeta e un porto sull’Adriatico. La spedizione però non ebbe seguito per il cambiamento intervenuto nella situazione con la rivolta di Masaniello del 7 luglio; nell’assenza di un ben definito progetto politico, Mazzarino preferì adottare una strategia di attesa: diverso fu l’atteggiamento di Enrico di Guisa, duca di Lorena. Questi, sollecitato da alcuni fuoriusciti napoletani, decise di appoggiare la rivolta antispagnola. Una volta giunto a Napoli egli riuscì a farsi riconoscere capo della città, ma proprio la diversità di obiettivi interni al partito dei rivoltosi finì col fare fallire il suo tentativo. Il processo di normalizzazione, cominciato nell’aprile 1648, e portato avanti dal nuovo viceré spagnolo, il conte di Oñate, pose così fine alla rivolta. Questo maggiore dinamismo della scena politica italiana attorno alla metà del secolo 17° coincise con quella che la storiografia definisce la crisi del Seicento, caratterizzata da una generale tendenza alla depressione e da un faticoso processo di passaggio dall’economia feudale a quella mercantile: crisi, in ultima analisi, di decollo economico per buona parte dell’Europa, ma non per l’Italia e le regioni mediterranee. Per il nostro paese, oltre ai motivi che abbiamo già sottolineato in precedenza, si aggiungevano ora altri fattori: le guerre di religione e, soprattutto, la guerra dei Trent’anni, avevano impoverito la Germania, il cui mercato non assorbiva più i prodotti del commercio dell’Italia settentrionale; in condizioni di netto impoverimento era anche il mercato ottomano, e ciò rendeva ancora più stentato il commercio mediterraneo; la grave crisi finanziaria che gravava sulla Spagna provocava frequenti necessità di denaro da parte di quel monarca e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni a lui soggette. Una quantità di aspetti diversi, a volte contraddittori, tutti ugualmente importanti, affiorano nella storia d’Italia dal Seicento. Accanto ad un clima torbido e a volte inquietante, che accompagna l’età della Controriforma, si affermano momenti di grande creatività e di sperimentazione. Ai luoghi comuni di un Seicento oscuro, astratto e infecondo, si sono sostituite lentamente le certezze di un’età piena di travagli, ma anche di grandi conoscenze. Non si dovranno necessariamente ripercorrere le pagine più note della ricerca scientifica per ricordare il nome di Galilei accanto a quello di Federico Cesi, di Francesco Redi, di Evangelista Torricelli; o quelle della filosofia per avvicinare Campanella a Cremonini, Bruno a Cardano. Basterà pensare all’importanza dell’attività di Italiani anche all’estero, considerando ad esempio quale parte l’elemento tecnico-militare italiano abbia avuto nelle guerre della monarchia spagnola fin dal secolo 16°, dal duca di Parma Alessandro Farnese al genovese Ambrogio Spinola, per poi giungere, nel campo imperiale, ai grandi nomi di Raimondo Montecuccoli e del principe Eugenio di Savoia; nel campo dell’architettura, dai paesi germanici alla Polonia e alla Russia notevole fu l’opera degli ingegneri e degli architetti italiani, che diedero il meglio di sé soprattutto nelle costruzioni di Cracovia (i toscani Francesco della Lora, Bartolomeo Berecci, Giovanni Cini, il padovano Gian Maria Mosca, ecc.); nel campo della letteratura lo scambio, che nel secolo 16° fu assai frequente in direzione della Francia (Luigi Alamanni, Bernardo Tasso, Matteo Maria Bandello, ecc.), della Spagna (Andrea Navagero, Lucio Marineo, Giovanni Antonio Viperano, ecc.) e dell’Inghilterra (Giovanni Florio, ecc.), continuò anche nel secolo 17°, annoverando i nomi di Arrigo Caterino Davila, Giambattista Marino, Galeazzo Gualdo Priorato, Vittorio Siri, Giovanni Paolo Marana, Gian Francesco Biondi; infine è questo il periodo in cui grandi monarchie europee trovarono in Italia gli artefici della loro stessa politica (Mazzarino in Francia, il principe Eugenio in Austria, Alberoni in Spagna). Lo scenario politico degli stati italiani a metà del Seicento presenta alcune novità: i disordini scoppiati in alcune realtà hanno permesso alla Francia di Mazzarino di avere un ruolo più diretto nelle vicende della penisola, che hanno finito con il divenire un nuovo fronte di guerra contro la Spagna. L’indebolimento, infatti, della potenza del duplice ramo degli Asburgo rappresentato dalle paci di Vestfalia (1648) e dei Pirenei (1659), pur non costringendo per il momento la Spagna a fare alcuna rinuncia territoriale nella penisola, mutò rapidamente i dati del problema territoriale-diplomatico dell’Italia e aprì alcuni gangli vitali di essa all’influenza della Francia, ben attenta a cogliere tutte le occasioni per indebolire la rivale. La presenza della flotta francese nel Mediterraneo, durante la guerra d’Olanda, non solo permise a Luigi XIV le vittorie navali di Lipari e di Augusta sulle congiunte flotte dell’Olanda e della Spagna, ma rese a quest’ultima particolarmente temibile la ribellione di Messina, ben presto appoggiata dai Francesi, e avvenuta per il contrasto interno delle fazioni cittadine dei Malvizzi, nobili antispagnoli, e dei Merli, popolani e filospagnoli; la pace di Nimega (1678) segnò però la restaurazione del dominio spagnolo. Genova, fino allora quasi feudo della Spagna, fu costretta con la forza a spostarsi di campo: nel 1684 Luigi XIV ne fece per dieci giorni bombardare i forti e il doge Francesco Imperiali-Lercari dovette, in atteggiamento di supplice, fare un umiliante viaggio a Versailles. Per il matrimonio di Maria Gonzaga con il giovane figlio di Carlo di Nevers, origine della seconda guerra per la successione del Monferrato (1627-31), il re di Francia dispose di una fedele dinastia alleata nei Gonzaga Nevers. Inoltre nel 1681 Luigi XIV si fece concedere dal duca di Mantova Ferdinando Carlo la città di Casale, vera porta di accesso alla Lombardia spagnola (caso italiano della politica delle “riunioni” svolta da Luigi XIV). La preponderanza francese in Italia giunse a tal punto che Luigi XIV, pur svolgendo in Francia una politica di assoluta ortodossia cattolica (revoca dell’editto di Nantes, persecuzioni dei giansenisti), non esitò a entrare per ben due volte in acuto conflitto con il papato: nel 1664 per le speciali prerogative dell’ambasciatore francese a Roma e nel 1682-91 per la dichiarazione dei quattro articoli della Chiesa gallicana. [3142121] Una funzione di primo piano nel contrasto delle influenze spagnola e francese in Italia assolse il ducato di Savoia con Vittorio Amedeo II (1675-1730), ora alleato ora nemico della Francia. Alleato di Luigi XIV, nel gennaio 1687 si recò segretamente a Venezia ed entrò in trattative con i rappresentanti della Lega d’Augusta, dalla cui parte si schierò apertamente nel 1690, costringendo così il re di Francia a restituirgli Pinerolo e a smantellare la fortezza di Casale (1696). Scatenatasi la guerra per la successione di Spagna (1701-04), Vittorio Amedeo II credette giunto il momento per poter realizzare la sua grande aspirazione di annettere l’intera Lombardia e di cingere la corona regia. Mentre la maggior parte degli stati italiani restava neutrale senza peraltro salvare il territorio della penisola dall’esser campo di battaglia tra i contendenti (offensiva degli imperiali sul Mincio nel giugno 1701), il duca di Savoia si alleò con la Francia (altro alleato di questa fu il duca di Mantova), ma nel 1703, proseguendo nella sua astuta e a volte cinica politica, passò dalla parte degli imperiali. Gli avvenimenti bellici non gli furono favorevoli (invasione francese del 1704, sconfitta di Susa, assedio della cittadella di Torino salvata nel 1706 dall’atto eroico del minatore Pietro Micca); solo la congiunzione delle truppe sabaude con quelle imperiali al comando del principe Eugenio permise una vittoria decisiva sulle truppe francesi (7 settembre 1706). Le paci di Utrecht e di Rastadt, se soddisfecero le ambizioni del duca Vittorio Amedeo II, segnarono tuttavia anche per altri aspetti una svolta nella storia del problema italiano, ribadendo da un lato la presenza delle monarchie straniere sul suolo italiano (ora era la volta dell’Austria) e dall’altro creando le premesse di quel fenomeno di dinastie di origine estera, ma ben presto più o meno amalgamatesi con lo stato da esse governato, che durerà fino al 1860. Tali paci, infatti, sottrassero al nuovo re di Spagna Filippo V tutti i possessi italici, assegnando il Milanese, la Sardegna, il Napoletano e lo Stato dei presidi all’Austria, che già dal 1708 aveva occupato Mantova; la Sicilia con il titolo regio a Vittorio Amedeo II, che ottenne pure i distretti dell’ex Lombardia spagnola, della Lomellina e della Valsesia e mantenne il Monferrato, che aveva occupato nel 1708. Questo quadro territoriale fu sul punto di essere modificato, poco dopo, dall’intraprendente politica del primo ministro spagnolo, il cardinale Giulio Alberoni, operante per conto della regina Elisabetta Farnese: questa intendeva trovare dei regni per i propri figli, che, essendo di secondo letto, erano esclusi dall’eredità spagnola del marito Filippo V, e il suo desiderio coincise con la volontà di una più dinamica politica estera da parte della Spagna, propria del suo ministro. Così Alberoni fece occupare la Sardegna (1717) e poi la Sicilia (1718), ma la Quadruplice Alleanza (Francia, Inghilterra, Olanda e Austria) non tollerò simile occupazione: la flotta inglese batté nelle acque siciliane quella spagnola e Filippo V, licenziato Alberoni (1719), dovette sottoscrivere il trattato dell’Aia, definitivo riconoscimento dell’assetto territoriale fissato a Utrecht. Dalla grave crisi fu l’Austria a trarre giovamento: all’Aia fu fissato anche lo scambio tra la Sicilia e la Sardegna rispettivamente da parte del re Vittorio Amedeo II e dell’imperatore; la Sardegna fu ufficialmente consegnata al primo l’8 agosto 1720. Lo scambio fu dovuto essenzialmente a ragioni di politica di equilibrio, la quale ormai sarà il cardine della politica europea, e quindi anche italiana, del Settecento. Né a scardinarlo varrà la presenza anche di un secondo motivo, quello di una politica dinastica, per essere alcuni stati italiani sul punto di perdere la loro dinastia originaria. Tale era il caso di Parma e della Toscana. A Parma il duca Francesco Maria Farnese (1694-1727) non aveva figli, né li aveva il fratello ed erede Antonio (1727-31); era ben naturale quindi che Elisabetta Farnese, da Madrid, pensasse all’avito ducato come a un possesso disponibile per uno dei suoi figli. Anche la Toscana, ormai in fase di decadenza sotto i granduchi Ferdinando II (1626-70), che pose fine ad ogni attività della marina toscana, e Cosimo III (1670-1723), vedeva nella mancanza di prole del granduca Gian Gastone (1723-37) un motivo di grande incertezza per il proprio avvenire. Il trattato dell’Aia (1720), pur costringendo la Spagna a rinunciare ai frutti della politica di Alberoni, si preoccupò di dare soddisfazione alla regina Elisabetta e promise al figlio don Carlos le successioni di Parma e della Toscana al momento dell’estinzione delle dinastie Medici e Farnese. Con qualche modifica le promesse furono mantenute, ma come singoli momenti della lotta per l’equilibrio, condotta dalle varie potenze per le guerre di successione polacca (1733-38) e austriaca (1740-48). La prima si svolse quasi essenzialmente in Italia, non volendo il re di Francia Luigi XV, forte dell’alleanza con tutti i Borboni (patto di famiglia del 1733) e con il re di Sardegna Carlo Emanuele III (1730-73), allarmare l’Inghilterra con un attacco diretto ai Paesi Bassi austriaci (occupazione della Lombardia, di Parma e di Guastalla da parte delle truppe franco-sarde, della Sicilia e del Napoletano da parte di quelle spagnole). La pace di Vienna (18 novembre 1738) modificò l’assetto territoriale italiano nel seguente modo: Carlo Emanuele III di Savoia ottenne i distretti di Novara e Tortona e il territorio delle Langhe; i regni di Napoli e di Sicilia furono sottratti all’Austria e assegnati al figlio di Filippo V e di Elisabetta, don Carlos; il granducato di Toscana, ove si era estinta la dinastia dei Medici, passò a Francesco Stefano di Lorena, marito della futura imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, per indennizzarlo del ducato di Lorena, che la Francia aveva fatto assegnare a Stanislao Leszczyïnski; infine il ducato di Parma e Piacenza, che dal 1731 al 1736 era stato tenuto da don Carlos, passò sotto il dominio dell’Austria. La successiva pace di Aquisgrana (18 ottobre 1748), che pose fine alla guerra di successione austriaca (in Italia si ebbero la defezione di Carlo Emanuele III, che nel 1743 passò nel campo degli Asburgo, la vittoria franco-ispana della Madonna dell’Olmo nel 1744, l’occupazione austriaca di Genova e la conseguente rivolta popolare del 5 dicembre 1746), aumentò il bottino del re Carlo Emanuele III, che portò il confine del proprio stato al Ticino (annessione dei distretti di Voghera, Vigevano e Alto Novarese), e sottrasse all’Austria il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla per farne possesso del secondo figlio di Elisabetta Farnese, don Filippo. Questi mutamenti, realizzati attraverso le guerre dinastiche, erano condizionati dall’esigenza di non turbare l’equilibrio e, infatti, allorché il cosiddetto rovesciamento delle alleanze del 1756 pose fine al secolare dissidio tra gli Asburgo e i Borbone, l’Italia cessò di essere il campo di battaglia delle varie potenze europee ed ebbe assicurato un cinquantennio di pace, che la guerra dei Sette anni non turbò (1756-63). Unico spostamento territoriale degno di nota in questo cinquantennio fu quello operato nel 1768 con la vendita della Corsica alla Francia da parte della Repubblica di Genova: da tempo l’isola era in stato di endemica rivolta contro il dominio genovese (insurrezione del 1729-32, che vide accanto a Genova e in suo favore un intervento dell’imperatore; seconda rivolta del 1733-39, la quale segnò l’ascesa della famiglia Paoli e nel 1736 diede vita per qualche mese all’effimero regno indipendente di Teodoro di Neuhoff; aperto intervento delle potenze straniere con lo sbarco nel 1738 di truppe francesi, che cercavano di esercitare una certa mediazione armata tra i contendenti, e l’occupazione delle isolette della Maddalena e di Caprera da parte di Carlo Emanuele III di Savoia; nuova insurrezione indipendentistica del 1753 e generalato di Pasquale Paoli dal 1755 al 1769 con lotta a un tempo contro Genova e contro la Francia); stanca di ciò, Genova preferì sottoscrivere i trattati di Compiègne dell’agosto 1764 e di Versailles del maggio 1768, con i quali cedette l’isola alla Francia dietro un’indennità e con la clausola, del tutto ipotetica, di una sempre possibile retrocessione di sovranità previo indennizzo delle spese sostenute dalla Francia. L’8 maggio 1769 le truppe francesi riuscirono ad aver ragione a Pontenovo degli ultimi difensori dell’indipendenza corsa e Pasquale Paoli dovette prendere la via dell’esilio, riparando a Londra. Un secondo spostamento territoriale (ma di esecuzione futura) si ebbe in Italia con il matrimonio dell’arciduca asburgico Ferdinando con l’unica figlia ed erede del duca di Modena e Reggio Ercole Rinaldo d’Este (1780-96), per cui nel secolo 19° l’Austria dominerà anche su questo ducato, precedentemente non solo libero, ma tenuto da una dinastia italiana. La pace di Vienna e il successivo trattato di Aquisgrana fissarono per circa un cinquantennio il nuovo assetto della penisola: ad un mutamento politico fece seguito un profondo rinnovamento culturale e civile, un periodo di ripresa economica. Fu effetto di un clima generale di riformismo illuminato; gli eserciti che durante le guerre di successione attraversarono in tutti i sensi la penisola apportavano non solo lutti e distruzioni, ma anche fermenti di vita nuova, esperienze di governo maturatesi in tutt’altro clima. E ogni dinastia straniera che fu impiantata in Italia aveva con sé funzionari, consiglieri, tecnici tratti dalla Francia o dall’Austria. Tra i settori che maggiormente e più rapidamente diedero segni di un rinnovamento, ci fu quello economico. Fu razionalizzato il sistema fiscale, furono elaborati un gran numero di progetti e di idee capaci di dare uno straordinario apporto al commercio e all’agricoltura. Proprio quest’ultimo settore fu caratterizzato da un trend particolarmente favorevole, facendo dell’Italia uno dei principali paesi fornitori dell’Europa per la seta greggia (Piemonte, Lombardia, Calabria), per l’olio (Italia meridionale), per il vino e, in alcune annate, per il grano. Il commercio fu potenziato mercé la nuova pratica dei porti franchi: il primo di essi fu, come si è detto, quello di Livorno, al quale nel secolo 18° si aggiunsero quelli di Trieste (1717), di Ancona (1732), di Civitavecchia (1748) e infine di Messina. Alla ripresa marinara fece d’appoggio anche l’intensificazione del commercio terrestre, favorito dall’apertura di nuove strade, la più importante delle quali fu la carrozzabile alpina e appenninica, terminata nel 1771 dal governo austriaco, che dal passo del Brennero giungeva a Firenze attraverso la Valle Padana, il territorio di Modena e l’Abetone. [314311] Un effetto benefico delle guerre di successione era stato quello di aprire l’Italia alla cultura straniera: dall’estero ritornava il pensiero filosofico, che aveva avuto i suoi primi germi nella filosofia del Rinascimento italiano e ora trovava una voce profonda quanto originale in Vico; la tradizione scientifica galileiana si potenziava attraverso il contatto con il newtonismo, quella erudita culminava nell’opera gigantesca di L. A. Muratori. Se in letteratura il vecchio spirito, che aveva avuto la sua ultima espressione nell’Arcadia, solo lentamente cedette davanti alla reazione anticonvenzionale di nuove forme e di una nuova sensibilità (ma con Goldoni, Parini e Alfieri la vittoria fu netta e definitiva), anche la sensibilità religiosa non sfuggì al nuovo clima e il Settecento italiano può additare casi cospicui, nella prima metà del secolo, di quietismo (presente però anche nel secolo 17°) e, nella seconda metà, di giansenismo e di febronianesimo. La nuova cultura – e questa fu la sua forza – ebbe però soprattutto un carattere pratico, in armonia con il pensiero politico ed economico inglese e francese: nella prima metà del secolo, essa si volse specialmente al problema della scienza economica, e combatté pregiudizi, propugnò la libertà del commercio, la fine del vincolismo corporativo nei primi nuclei industriali e la soppressione della manomorta nella proprietà fondiaria; nella seconda metà del secolo quel movimento di pensiero scalzò le basi dei vecchi sistemi giudiziari, cercando di eliminare i residui di legislazione barbarica nei processi penali. E una parte notevole ebbe anche la cultura italiana nel farsi propagandista e divulgatrice delle nuove ideologie illuministiche: dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert si ebbero ben due edizioni, una a Livorno e una seconda a Lucca. Queste voci, che spingevano alla soppressione della manomorta, alla riforma della procedura giudiziaria, elogiavano la “scienza della legislazione” (titolo di una celebre opera del marchese Filangieri), non furono però voci che precorressero il futuro e iniziassero il Risorgimento: né a Milano i fratelli Verri, Beccaria e altri, né a Napoli Galiani o Genovesi o Filangieri erano disposti a rompere con i propri principi per la visione di un’Italia futura; si trattava pur sempre di sudditi devoti alla propria dinastia, di funzionari leali verso il proprio governo e la loro azione è da vedere entro il quadro dell’attività del dispotismo illuminato, che in Italia non fu piccola, e non come precorrimento delle idealità nazionali di alcuni decenni dopo. Solo le repubbliche oligarchiche rimasero al di fuori del vivo movimento del riformismo settecentesco: è il caso di Genova, di Lucca e di Venezia, che non si era più risollevata dal colpo della pace di Passarowitz (1718), che aveva fatto definitivamente tramontare la sua secolare politica orientale e mediterranea. All’interno Venezia non era riuscita a risolvere il contrasto tra la cinquantina di grandi casate patrie, che detenevano tutto il potere, e la misera quanto famelica nobiltà dei Barnabotti, e l’altro conflitto, non meno grave, tra la città dominante e la terraferma. Brescia e Bergamo incominciavano a rivolgere lo sguardo verso la Lombardia austriaca e il Friuli verso l’Austria, tra i patrizi Angelo Querini annodava nel 1761 una sfortunata congiura con i Barnabotti per rendere meno oligarchico il governo della repubblica e più tardi vi saranno i tentativi, più conservatori però, di Giorgio Pisani e di Carlo Contarini (1780); ma il limite oligarchico, che soffocava la repubblica, non sarà mai superato. [314321] Una situazione interlocutoria nei confronti di una diffusa tendenza al riformismo politico interessava il regno di Sardegna. I due sovrani Vittorio Amedeo II (1685-1730) e Carlo Emanuele III (1730-73), si servirono dell’opera di due abili ministri, il marchese Cesare d’Ormea e Giambattista Bogino, per favorire lo svecchiamento delle strutture dello stato. Sotto il primo fu riformata l’alta amministrazione (1717), con la creazione di un Consiglio di stato e di un Consiglio generale delle finanze e la messa in opera di una vasta rete di intendenti provinciali, fu unificata la legislazione penale e civile (1724), incoraggiata l’istruzione e potenziata l’università di Torino, spogliata la nobiltà di tutti i beni e privilegi per i quali non fosse possibile produrre un titolo legittimo di possesso e promossa la trasformazione della maggior parte dei nobili in funzionari dello stato e della dinastia, lanciata un’energica politica giurisdizionalistica nei confronti della Chiesa cattolica e del clero, contenuto nelle sue immunità e sostituito in molti istituti caritativi dall’assistenza statale. Questo aspetto giurisdizionalistico fu abbandonato negli ultimi anni del regno di Vittorio Amedeo II e sotto il successore Carlo Emanuele III: nel 1727 fu stipulato un concordato con Roma e nel 1736 Carlo Emanuele III non solo licenziò alcuni professori dell’università torinese per le loro affermazioni anticuriali, ma si spinse sino a tradire le norme dell’ospitalità politica, attirando con uno stratagemma nei suoi stati e tenendo in prigione sino alla morte l’esule napoletano Pietro Giannone. Il riformismo sabaudo proseguì solo a favore della Sardegna, terra fino allora negletta; comunque cessò del tutto con Vittorio Amedeo III (1773-96). Una prova indiretta del fatto che il riformismo sabaudo si era svolto sotto la spinta della “ragion di stato” può essere desunta dalla mancanza a Torino di un fenomeno normale a Firenze o a Milano o a Napoli, quello della classe colta, illuminata che collaborava con il principe nelle riforme. Alla presenza di G. R. Carli o di P. Verri a Milano, di P. Neri o di F.M. Gianni a Firenze, di A. Genovesi a Napoli, qui fa da contrappunto l’immagine dell’intellettuale isolato, lontano dalla realtà politica; è il caso di A. Radicati di Passerano che, deluso dal concordato del 1727, abbandonò il servizio di Vittorio Amedeo II per farsi avventuriero e filosofo girovago (morirà in Olanda nel 1737), di V. Alfieri che abbandonò le proprietà per spiemontizzarsi, o di D. F. Vasco. [314331] Cauta e lenta fu l’attività riformatrice che non mancò nello Stato pontificio, anche se il papato fu uno dei bersagli preferiti dei sovrani illuminati, al punto da costringere il pontefice a sopprimere con la bolla Dominus ac Redemptor del 1773 (Clemente XIV) l’invisa Compagnia di Gesù. Pio VI a sua volta (1775-98) attuò una riforma tributaria tesa a semplificare l’esazione dei tributi (fu anima di essa il cardinale Ruffo, tesoriere generale), fece eseguire un catasto nel 1777 (di valore assai vario, perché fatto sulle dichiarazioni dei proprietari ma nella legazione di Bologna su stima peritale), riprese i lavori di bonifica nelle paludi pontine e fu munifico mecenate di artisti e letterati (tra l’altro costruì palazzo Braschi e aprì il museo Clementino). [314341] In Lombardia il conte Beltrame Cristiani prima e il conte Carlo di Firmian poi furono intelligenti esecutori dell’attività riformatrice dell’imperatrice Maria Teresa: punto centrale della loro opera fu la compilazione, tra il 1748 e il 1755, di un catasto generale, che entrò definitivamente in vigore nel 1760 e del quale fu realizzatore soprattutto il toscano Pompeo Neri. L’importanza di questo catasto fu enorme: esso permise di trasferire il carico fiscale dal commercio alla proprietà fondiaria e al tempo stesso di porre le premesse per uno sviluppo razionale dell’agricoltura lombarda. Risale a tale periodo l’esplosione economica della Bassa lombarda, ossia della zona irrigua con le sue coltivazioni di riso, con i suoi prati artificiali e con il suo grosso patrimonio zootecnico; nella zona collinare fu allargata e generalizzata la coltivazione del gelso e con essa l’industria domestica della seta grezza. Il catasto fu all’origine del nuovo sistema teresiano di far poggiare la vita amministrativa sulla grande proprietà (sebbene in teoria si proclamasse l’eguaglianza contributiva di tutte le classi sociali, numerose furono le esenzioni a favore dei grossi proprietari) e al tempo stesso di favorire la penetrazione del capitalismo nelle campagne lombarde mediante la figura sempre più largamente usata del fittavolo. L’altra grande riforma del tempo teresiano fu quella amministrativa, che divise il territorio in province e comuni, inglobando nella stessa unità città e campagna e voltando decisamente le spalle alla lunghissima tradizione italiana di una frattura tra città e contado. Non poche furono poi le riforme di politica economica miranti a realizzare da una parte una centralizzazione del potere, dall’altra una razionalizzazione delle strutture amministrative. È in quest’ottica che va letta la scelta di istituire, nel 1765, un Consiglio superiore dell’economia, la cui presidenza fu affidata all’istriano Gian Rinaldo Carli. Sostituito, nel 1771, da un magistrato camerale e dalla Camera dei conti, decise, con una serie di provvedimenti attuati tra il 1773 e il 1787, la soppressione delle corporazioni e l’eliminazione di numerosi dazi interni. Né mancò sotto Maria Teresa una politica giurisdizionalista nei confronti della Chiesa, la quale divenne addirittura travolgente sotto il figlio e successore Giuseppe II (1780-90), già dal 1765 associato dalla madre al governo dello stato: tale politica fu strenuamente appoggiata da un gruppo di professori dell’università di Pavia, come Pietro Tamburini e Giuseppe Zola fautori del giansenismo, e produsse la soppressione del tribunale dell’Inquisizione e della censura ecclesiastica sui libri, l’allontanamento – prima ancora della soppressione della Compagnia – dei gesuiti dall’insegnamento, l’abolizione del diritto d’asilo. [314351] Decisione e ostinazione non mancarono al fratello di Giuseppe II, il granduca di Toscana Pietro Leopoldo; ma in questo fu maggiore l’ampiezza di orizzonte, più liberale la programmazione, più mediata la realizzazione. La Toscana era passata a Francesco Stefano di Lorena nel 1737, e l’attività riformatrice aveva avuto subito inizio per opera del Consiglio di reggenza, successivamente presieduto dai lorenesi Craon e Richecourt e dall’italiano Botta Adorno. Anche se odiata ben presto dai sudditi e pur non potendo infrangere i limiti invalicabili che l’interesse personale di Francesco Stefano, impegnato nella guerra di successione austriaca e in quella dei Sette anni e quindi bisognoso di ricavare dal proprio dominio la maggior quantità possibile di denaro, poneva ad ogni politica riformatrice, la reggenza non solo seppe riorganizzare lo stato, risolvendo la spinosa questione dei beni allodiali medicei, riordinando il debito pubblico, stipulando trattati con l’impero ottomano, ma avviò delle riforme (trasferimento di intere famiglie di contadini lorenesi nella Maremma; favore dato all’industria della seta; limitazione della giurisdizione feudale), preoccupandosi di favorire una parziale decentralizzazione del potere, favorendo una maggiore collaborazione tra governo e classe dirigente locale. Al momento del trapasso dagli ultimi Medici ai Lorena la Toscana aveva acquisito sempre più i caratteri di un laboratorio politico dove, sia pur con alterne fortune, si sperimentava la validità del riformismo settecentesco. Molti degli uomini impegnati in questa svolta culturale prestarono la loro opera anche altrove: toscano era il ministro riformatore di Napoli Bernardo Tanucci, toscano Bartolomeo Intieri che fondò a Napoli la prima cattedra di economia politica, e toscano, infine, era quel Pompeo Neri che abbiamo visto realizzare a Milano il catasto di Maria Teresa. Nel 1753 l’abate Ubaldo Montelatici fondò a Firenze l’Accademia dei georgofili, un sodalizio che darà un proprio volto a tutta la classe politica toscana per almeno un secolo. Al riformismo spicciolo e frammentario della reggenza si sostituì un vero e proprio programma sintetico di riforme con l’arrivo del giovane Pietro Leopoldo nel 1765: un programma che non andò esente da qualche conflitto con quello dell’imperiale fratello Giuseppe II, sia per il diverso atteggiamento nei confronti della Toscana, considerata a Vienna soltanto come una “secondogenitura” per gli Asburgo, sia per un diverso modo d’intendere le riforme. Secondo Pietro Leopoldo era necessario che allo sviluppo della società civile corrispondesse un mutamento sul piano politico. Circondato dai migliori elementi della cultura e dell’amministrazione toscana, come gli economisti Pompeo Neri e Francesco Maria Gianni, i giuristi Giulio Rucellai e Angelo Tavanti, il vescovo Scipione de’ Ricci, il granduca Pietro Leopoldo incarnò veramente il tipo ideale del principe riformatore italiano e sotto di lui la Toscana fu all’avanguardia del progresso nella penisola: le principali riforme furono la pubblicazione del bilancio, la perequazione e l’eguaglianza fiscale, il riordinamento e l’uniformità delle amministrazioni provinciali e comunali, l’uniformità di legislazione (codice leopoldino), l’abolizione della tortura e della pena di morte, la soppressione dei maggiorascati e dei fedecommessi, l’abolizione del vincolismo economico-corporativo, vaste opere di bonifica nella Valdichiana e nella Maremma (grazie all’opera di Vittorio Fossombroni). Portando a maturità i germi di sostanziale dissenso dal riformismo del fratello, il quale altro non voleva essere che abolizione degli antichi ordini costituzionali degli stati che formavano la monarchia asburgica, Pietro Leopoldo, che invece, pur mantenendo integra la prassi del “despota illuminato”, voleva costruire il nuovo tenendo conto di questi antichi ordini costituzionali, intendeva porre come punto di arrivo delle riforme una costituzione o, per dirla con le parole di F. M. Gianni che di quel progetto fu il collaboratore più assiduo, “una legge fondamentale di convenzione, che fosse la perpetua costituzione di un governo monarchico temperato dall’intervento del voto nazionale”. Gli avvenimenti fecero sì che tale progetto costituzionale non fosse attuato, anzi rimanesse segreto (la prima notizia di esso si ebbe nel 1825). Più clamorose, ma meno solide, furono le riforme operate dal granduca nel campo ecclesiastico, anche perché compromesse dall’intemperante attività quasi scismatica del vescovo de’ Ricci (sinodo diocesano del 1786 a Pistoia, e nazionale a Firenze l’anno dopo). [314361] Anche i possessi borbonici avvertirono gli effetti del moto riformatore settecentesco: a Parma, divenuta un centro di cultura francese, anima delle riforme fu il ministro Guglielmo du Tillot, soprattutto allorché egli tenne le redini dello stato per il duca minore Ferdinando (1756-1802); a Napoli Carlo di Borbone seppe approfittare, come abbiamo detto, della preziosa collaborazione di Bernardo Tanucci e dell’opera di Antonio Genovesi, una delle figure più rappresentative del movimento riformatore politico-economico del regno. Grazie anche all’appoggio di una secolare tradizione anticuriale, che ebbe la sua voce più profonda e autorevole in Pietro Giannone, costretto però a lasciare il regno sin dal 1724, le riforme si risolsero soprattutto in una dura lotta anticlericale e antifeudale per il sussistere ancora di una enorme potenza politica nella classe baronale e per il cumulo di privilegi e di esenzioni delle quali godeva il clero; con la Santa Sede fu concluso un concordato (1741), che limitò l’immunità fiscale dei beni ecclesiastici e la giurisdizione del foro ecclesiastico. Partito per la Spagna nel 1759 Carlo di Borbone, Tanucci continuò la sua azione riformatrice per il minore Ferdinando IV ed essa, anche quando il ministro fu licenziato (1777), non si arrestò, anzi fu estesa alla Sicilia, ove nel 1781 fu inviato quale viceré il marchese Caracciolo, un autentico “illuminista”. Nel 1788 la lotta tra il giurisdizionalismo borbonico e il curialismo di Roma toccò il culmine con il rifiuto d’inviare a Roma la bianca chinea, simbolo del vassallaggio feudale del re di Sicilia verso il pontefice. [314371] Negli ultimi anni del secolo 18° l’attività riformatrice cessò quasi dappertutto: nel regno di Sardegna l’avvento di Vittorio Amedeo III (1773) significò il licenziamento del Bogino, l’abbandono della precedente opera riformatrice e l’inizio di una politica nettamente conservatrice; il riformismo borbonico regredì rapidamente a Parma e a Napoli e questa involuzione coincise in ambedue gli stati con l’influenza esercitata sui due sovrani dalle rispettive mogli, figlie dell’imperatrice Maria Teresa (a Parma in seguito alla pressione esercitata dalla duchessa Maria Amalia il sovrano licenziò nel 1771 du Tillot e restaurò nel 1786 il tribunale dell’Inquisizione; a Napoli la regina Maria Carolina, non ultima responsabile del licenziamento di Tanucci); una tale involuzione invece mancò nei domini austriaci, ove tutt’al più si ebbe una prassi più cauta dopo la morte di Giuseppe II e l’avvento all’impero dell’ex granduca di Toscana Pietro Leopoldo con il nome di Leopoldo II (1790-92). [314381] La pace d’Italia fu sconvolta, sul finire del periodo riformatore, dallo scoppio di un grande avvenimento europeo, la Rivoluzione francese, iniziata nel 1789. Essa non si limitò a modificare, con il successivo periodo napoleonico, l’assetto territoriale della penisola, ma ebbe anche un effetto catalizzatore per quegli esponenti della classe colta, che, davanti all’abbandono dell’attività riformatrice da parte dei principi, avevano oltrepassato il fossato che separava il semplice riformismo dagli ideali liberal-costituzionali. Mentre i sovrani italiani restavano come paralizzati davanti al susseguirsi degli avvenimenti della grande rivoluzione, non pochi Italiani (è il caso, per es., di Filippo Buonarroti) decidevano di condividere e far proprie le idee e i programmi rivoluzionari. Si trattava tuttavia di un’élite: la maggior parte del paese restava ostile alla Rivoluzione, come sarà chiaramente provato dall’assassinio del segretario della ambasciata francese N.-J. Hugou de Bassville perpetrato a Roma dalla folla inferocita (13 gennaio 1793) e, dopo il 1796, dalle frequenti e ampie “insorgenze” contro il dominio francese. Nonostante ciò, in molte città si costituirono gruppi di intellettuali e di patrioti desiderosi di liberare la penisola con l’aiuto dei Francesi: uno dei centri principali del giacobinismo italiano fu il Piemonte (attività di Giovanni Antonio Ranza nel Vercellese, congiura torinese dei fratelli Junod e di Carlo Botta, scoperta sul nascere e sanguinosamente repressa da Vittorio Amedeo III nel 1794). In Sardegna si ebbero i moti agrari e antifeudali di Gian Maria Angioj, non però strettamente connessi con il giacobinismo. Numericamente più vasto e anche più insigne per la qualità delle persone, ma non intrinsecamente forte per la mancanza di un legame con la campagna, fu il giacobinismo napoletano che, nell’euforia dell’arrivo della squadra francese di Latouche-Tréville, tramò una congiura, che portò al patibolo il giovane Emanuele De Deo (1794). Anche in Sicilia si ebbe una congiura sfortunata, della quale fu protagonista e vittima al tempo stesso Francesco Paolo Di Blasi (1795). Eppure, in questa repressione, il giacobinismo italiano trovava la premessa per passare da semplice, generosa aspirazione a forza politica concreta; attraverso la diaspora all’estero (M. Galdi, F. S. Salfi, V. Russo, ecc.) si realizzava la maturazione politica del giacobinismo italiano che diede i suoi primi frutti, proprio sotto la guida di Buonarroti, nella città di Oneglia, dall’aprile 1794 occupata dai Francesi. Tuttavia, fino al 1796 mancò a questi giacobini un’autentica possibilità d’azione; questa giunse solo allorché la guerra che già nel 1792 la Francia aveva dichiarato a non pochi stati italiani divenne effettiva, e le armate rivoluzionarie, al comando del giovane generale Napoleone Bonaparte, invasero il suolo italiano. Le fulminee vittorie di Bonaparte (Montenotte, Millesimo, Dego, Mondovì) ruppero subito il comune fronte austro-sardo e, mentre l’armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), divenuto poi pace di Parigi (15 maggio), metteva il re di Sardegna in balìa di Bonaparte (i giacobini, che ad Alba avevano proclamato la prima repubblica italiana, furono abbandonati dal vincitore), l’armata rivoluzionaria puntò decisamente in direzione di Milano (vittoria di Bonaparte al ponte dell’Adda presso Lodi), dove entrò il 15 maggio 1796. Dopo uno sconfinamento di ambedue gli eserciti nel territorio della neutrale repubblica veneta, il formidabile quadrilatero delle fortezze austriache oppose una seria resistenza a Bonaparte, che approfittò della momentanea sosta per porre sotto taglia i principi italiani (gravosi trattati imposti al duca di Parma e a quello di Modena; occupazione delle legazioni pontificie di Ferrara, Bologna, Ravenna, Imola e Faenza e imposizione al papa Pio VI dell’armistizio del 23 giugno 1796, che oltre alla rinuncia alle province di Ferrara e di Bologna sancì il pagamento di una gravosa indennità di guerra e la cessione di cinquecento codici e di cento opere d’arte; occupazione del porto di Livorno il 5 luglio 1796; gravoso armistizio imposto al re di Napoli). Riprese le operazioni militari contro gli Austriaci e battuti successivamente i quattro eserciti calati dalle Alpi in soccorso dell’assediata Mantova, Bonaparte con la battaglia di Rivoli (14 gennaio 1797) assicurò in maniera definitiva la vittoria francese e, conquistata Mantova (2 febbraio) e rese più gravose le condizioni imposte ai principi italiani, puntò al cuore dell’impero austriaco, costringendo infine l’imperatore Francesco II all’armistizio e ai preliminari della pace di Leoben (18 aprile 1797). Per essi l’Austria perdette la Lombardia, ma in cambio ottenne la Dalmazia, l’Istria e una parte della terraferma veneta, per poter disporre della quale Bonaparte non esitò a compiere un atto avversato da molti patrioti: attaccò, senza alcun motivo valido, Venezia che sino allora si era mantenuta neutrale (2-16 maggio 1797) e vi favorì l’avvento di un governo democratico, con il quale strinse un trattato di pace e di amicizia; successivamente, nel tramutare i preliminari di Leoben nella pace di Campoformio (17 ottobre 1797), fece pagare le spese del realizzato accordo con l’Austria alla repubblica vassalla: il territorio veneziano infatti fu integralmente diviso tra l’Austria, la Francia, che occupò direttamente le Isole Ionie e gli ex possessi di Venezia in Albania, e la Repubblica cisalpina. Intanto Bonaparte aveva dato un nuovo assetto al resto dell’Italia che era caduto sotto la sua occupazione militare: nel dicembre 1796 aveva dato vita alla Repubblica cispadana (Reggio nell’Emilia, insorta il 25 agosto 1796 contro il duca Ercole Rinaldo III di Modena, Ferrara, Bologna e Modena) e alla Repubblica transpadana (Lombardia); poi, nel maggio 1797, aveva fuso questi due stati in uno solo, la Repubblica cisalpina una e indivisibile, la quale, nonostante alcuni contrasti interni (ostilità di Bologna al predominio di Milano), si rivelò organismo robusto e vitale, ben presto ingrandito con l’annessione della Valtellina sottratta ai Grigioni (ottobre 1797) e delle città venete alla destra dell’Adige. Nel giugno del 1797, poi, la repubblica oligarchica di Genova dovette, su imposizione di Bonaparte, democratizzare radicalmente i propri ordinamenti e alla fine (dicembre 1797) costituirsi in Repubblica ligure. [314391] Nel novembre 1797 Bonaparte lasciò l’Italia, ma la sua partenza non pose fine all’espansione del dominio, diretto o indiretto, della Francia rivoluzionaria. Sino al suo ritorno in Italia, ormai primo console, nel 1800, si possono distinguere due fasi profondamente diverse nella storia della penisola nel biennio 1798-99. La prima vide un susseguirsi di vittorie per la Francia: l’assassinio a Roma del generale L. Duphot provocò l’arrivo delle truppe francesi e la proclamazione della repubblica giacobina a Roma (15 febbraio 1798) ad opera di giacobini locali, ben presto però impotenti innanzi alle malversazioni e ruberie dei militari e dei rappresentanti francesi; l’ingerenza francese nel governo interno del Piemonte si faceva sempre più soffocante al punto che nel dicembre 1798 il nuovo re Carlo Emanuele IV (1796-1802) preferì lasciare il paese e rifugiarsi prima all’estero e poi in Sardegna; scoppiata la guerra della seconda coalizione (1798), l’incauta spedizione di Ferdinando IV di Napoli, che per un istante gli permise di abbattere la repubblica giacobina, fu pagata a caro prezzo, giacché l’immediata controffensiva del generale francese Championnet non solo ristabilì la repubblica a Roma, ma fece sorgere la Repubblica partenopea (23 gennaio 1799) e costrinse il sovrano a cercare scampo in Sicilia; a Lucca fu abbattuta la repubblica oligarchica ed ebbe inizio l’invasione della Toscana. La seconda fase, apertasi con la primavera del 1799, vide invece il rapido crollo di quasi tutte le conquiste francesi in Italia, e ciò mentre Bonaparte era impegnato nella campagna di Egitto. Solo Genova resistette alle forze della seconda coalizione; tutte le repubbliche giacobine caddero ad una ad una e in Lombardia si abbatté, spietata, per tredici mesi la reazione austro-russa. Ancora più spietata fu la reazione di Ferdinando IV e dell’ammiraglio inglese Nelson a Napoli. Proprio questa crisi rivelò come i giacobini rappresentassero una minoranza in seno al paese: in più di un punto gli eserciti della coalizione ebbero le loro attive avanguardie in bande armate di contadini e di proprietari terrieri che mossero contro i Francesi e i giacobini locali in nome delle dinastie legittime e della difesa della religione tradizionale (bande aretine; bande sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo, ecc.); paradossalmente fu l’insipienza politica di alcuni sovrani, primo tra tutti Ferdinando IV di Borbone, a rendere nuovamente popolare la causa francese mettendo in atto repressioni sanguinose. Comunque, proprio in quei tragici mesi, la passione unitaria dei patrioti italiani, che già si era mostrata in piena luce nelle risposte date nel 1796 al quesito bandito dall’Amministrazione generale della Lombardia su “quale dei governi liberi meglio si convenga alla felicità d’Italia” (le tesi federaliste risultarono in minoranza rispetto a quelle unitarie), si rafforzò ponendo le basi di quel vasto moto del Risorgimento, inteso come indipendenza dallo straniero, chiunque esso fosse, e creando, allo scopo di realizzare ciò, uno strumento destinato a sempre maggiore diffusione, le società segrete. [314411] La seconda campagna italiana di Napoleone primo console, con la schiacciante vittoria di Marengo (14 giugno 1800), tornò a legare strettamente la penisola alla Francia (restaurazione della Repubblica cisalpina, riaffermazione del predominio francese sul Piemonte e sulla Repubblica ligure, occupazione del granducato di Toscana, invio di un esercito al comando di Gioacchino Murat contro il regno di Napoli attraverso il territorio pontificio) e il nuovo assetto fu sancito con le paci di Lunéville con l’Austria (9 febbraio 1801) e di Firenze con Ferdinando IV di Napoli (28 marzo 1801). La Repubblica cisalpina fu notevolmente ingrandita con il Veronese e il Polesine, appartenenti un tempo a Venezia, con il Novarese tolto al Piemonte e le ex Legazioni pontificie: inoltre l’annosa rivalità lombardo-piemontese per il controllo dei passi alpini fu risolta a favore della Cisalpina con l’attribuzione ad essa degli sbocchi del Sempione. Il Piemonte e l’ex ducato di Parma rimasero sotto la diretta occupazione della Francia. L’ex granducato di Toscana fu trasformato nel regno di Etruria per venire incontro alla richiesta spagnola di farne un trono per Ludovico I di Borbone, e, alla sua morte (1803), per il figlio Carlo Ludovico sotto la reggenza della madre Maria Luisa. Il re di Napoli non solo fu costretto ad evacuare Roma e a cedere l’isola d’Elba a Piombino, ma dovette autorizzare l’occupazione temporanea dei porti di Otranto e di Brindisi da parte delle truppe francesi e chiudere i propri porti al commercio inglese. Ormai le sorti dell’Italia, erano strettamente legate alle fortune del nuovo padrone della Francia; la consulta di Lione del 1801-02 provocò il crollo di ogni residua illusione democratica e nazionale e il maggiore organismo dell’Italia francese, la Cisalpina, dovette accettare passivamente tutte le varie forme costituzionali che Napoleone volle darle, trasformandola prima in Repubblica italiana (26 gennaio 1802) sotto la presidenza dello stesso Napoleone e la vicepresidenza di Francesco Melzi d’Eril, poi in Regno italico (18 marzo 1805) sotto il governo del viceré Eugenio di Beauharnais. Sebbene strettamente sottoposto alla superiore autorità di Napoleone, Melzi, nel cui intimo era forte l’aspirazione a fare della repubblica un regno equidistante tra Francia e Austria, modellò lo stato a lui affidato in un senso fortemente conservatore, restio ad operare qualunque amalgama con le forze democratiche e giacobine. In più di un’occasione egli entrò anche in contrasto con Napoleone, come quando nel 1802, a proposito del commercio del grano, ricevette da Parigi l’intemerata che, almeno su questo punto, il governo doveva essere dalla parte dei contadini e non da quella dei proprietari. Anche nei confronti della Chiesa Melzi fece opera di resistenza in sede di conclusione del concordato tra la Santa Sede e la Repubblica italiana del 1803 e, oltrepassando la volontà di Napoleone, emanò il 26 gennaio 1804 un decreto organico per l’applicazione del concordato, che di fatto limitava la portata di alcune clausole in esso contenute (esso fu poi abrogato tacitamente da Napoleone, re d’Italia, nel maggio 1805). Infine, in tutta l’Italia napoleonica, giungeva a compimento il processo già iniziatosi nel 1796 di un enorme trasferimento di proprietà dovuto alla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali: se pure vi fu un iniziale momento di frazionamento e polverizzazione di questi beni, non tardò a verificarsi il processo inverso di ricostituzione della grossa proprietà in mano agli acquirenti e agli speculatori, che furono per lo più membri della soppressa nobiltà e della grossa borghesia. Tipica la vicenda patrimoniale di non poche famiglie aristocratiche piemontesi, dai Balbo ai La Marmora (un posto di rilievo ebbero i Benso di Cavour con la Mandria di Chivasso e la tenuta di Leri); ancor più tipica quella del borghese bolognese Antonio Aldini, dal 1805 ministro di stato del regno d’Italia a Parigi, che tra il 1796 e il 1806 costituì la grande tenuta di Galliera, costituita da più di duemila ettari di terra, intraprendendo interessanti speculazioni nel campo delle risaie (avendo operato per lo più con denaro preso a ipoteca dai nobili, nel 1812 dovette vendere a Napoleone la tenuta, che, trasformata in ducato fu assegnata alla primogenita del viceré Eugenio Giuseppina Beauharnais). Con la trasformazione della Francia in impero e della Repubblica italiana in regno il motivo dinastico entrò sempre più nei calcoli di Napoleone: egli annetté integralmente alla Francia il territorio della Repubblica ligure e diede alla sorella Elisa, e al marito Felice Baciocchi, Piombino e Lucca, già feudi imperiali, ai quali aggiunse due anni dopo il territorio dell’ex ducato di Massa e Carrara. Questa politica spinse l’Austria a entrare nella terza coalizione, della quale già per conto suo faceva parte il re di Napoli; la sconfitta dei coalizzati (battaglia di Austerlitz; trattato di pace di Presburgo) strappò all’Austria quelle terre venete che essa aveva ottenuto con il trattato di Campoformio (esse passarono al Regno italico, che portò il proprio confine all’Isonzo, mentre la Dalmazia e l’Istria diedero vita alle cosiddette Province illiriche, annesse all’impero francese ma con amministrazione separata), determinò l’espulsione della dinastia borbonica dalla terraferma costringendola a esiliarsi in Sicilia, mentre il regno di Napoli passava sotto lo scettro prima di Giuseppe Bonaparte (febbraio 1806-luglio 1808), poi di Gioacchino Murat (luglio 1808-maggio 1815). Il Trentino fu annesso alla Baviera, alleata di Napoleone. Se la quarta coalizione non trasformò nuovamente l’Italia in campo di battaglia, essa però, con la decisione di Napoleone d’instaurare un rigoroso blocco antinglese provocò nuovi rimaneggiamenti territoriali, ai quali però non fu estraneo l’urto sempre più forte che, dopo l’iniziale accordo con il concordato del 1801, sorse tra l’imperatore, il papa Pio VII (1800-23) e la curia romana. Tali modifiche furono: la scomparsa del regno d’Etruria (10 dicembre 1807) e l’annessione della Toscana all’Impero francese (1807-09) e infine il suo costituirsi nuovamente in stato vassallo come granducato di Elisa Baciocchi (2 marzo 1809) insieme con i territori di Lucca e Piombino; l’occupazione di Ancona (1805), di Civitavecchia (1806) e delle Marche tolte al papa (novembre 1807) e la successiva annessione di queste ultime al Regno italico (2 aprile 1808); infine, l’occupazione militare di Roma ad opera delle truppe del generale Miollis (2 febbraio 1808), cui seguì nel giugno 1809 la proclamazione della fine del potere temporale dei papi e la deportazione di Pio VII a Savona (e poi in Francia). Di tutti gli stati italiani solo due ormai sfuggivano alla volontà napoleonica: la Sardegna, ove Carlo Emanuele IV aveva abdicato in favore del fratello Vittorio Emanuele I (4 giugno 1802), e la Sicilia, rifugio di Ferdinando IV e della regina Maria Carolina, ma in realtà roccaforte dei baroni siciliani, tendenzialmente ostili alla corte, e quartier generale del proconsole inglese lord William Bentinck, i cui poteri erano garantiti dalla convenzione del 1808 conclusa dal suo governo con il re Ferdinando IV, e che di essi si valse per dar partita vinta ai baroni sostenitori di una costituzione sul modello inglese (1812) e per allontanare, per un certo tempo, lo stesso re dalla sua funzione sovrana (nel giugno 1813 Maria Carolina fu costretta a lasciare l’isola e a trasferirsi a Vienna, ove morì il 7 settembre 1814). Fu questo l’apogeo del dominio napoleonico sull’Italia; ma, anche in questo periodo, non mancavano in esso contraddizioni e continue necessità di patteggiamento politico. Per le esigenze del blocco contro l’Inghilterra l’economia dei singoli stati vassalli fu asservita alla politica di guerra di Napoleone e nello stesso tempo fu considerata quasi come un “mercato coloniale” della Francia: se da una parte questo determinò un incremento e una crescita dell’agricoltura italiana, favorita dalle vicende del blocco e dalla congiuntura di prezzi alti, dall’altra favorì il lento, ma progressivo arretramento delle attività manifatturiere e metallurgiche (i lavoranti nelle tessiture che erano 25.000 nel 1806 si ridussero a 14.274 nel 1811) e determinò una conseguente grave crisi nell’attività portuale. Troppo alto era stato poi il costo in termini di vite umane delle campagne napoleoniche, perché alla fine esso non generasse stanchezza e crisi: se gli effettivi dell’esercito del Regno italico passarono dai 24.000 del 1804 ai 114.000 del 1813, i caduti in guerra per l’intero periodo furono ben 124.729 (cifra documentata dal segretario generale del ministero della Guerra Zanoli). Non devono meravigliare allora le frequenti rivolte, ora di tipo agrario (rivolta nella regione dell’Adige e nella Romagna del luglio 1809), ora di renitenza alla coscrizione e conseguente brigantaggio (soprattutto nel regno di Napoli), scoppiate in questi anni. La reazione antinapoleonica trovò un forte e valido ausilio nel maturare di una sempre più chiara coscienza nazionale e indipendentistica, che a Milano fu abilmente imbrigliata dalla politica liberaleggiante del viceré Eugenio, ma a Napoli trovò invece un valido appoggio nelle ambizioni del re Gioacchino Murat (nascita del cosiddetto Partito italico, decreto di Murat che prescriveva per tutti i funzionari dello stato la naturalizzazione napoletana, cauti contatti del sovrano con la carboneria napoletana, ecc.). Questi motivi di attrito ebbero nella crisi finale dell’Impero napoleonico una parte importante e, se in quei mesi fortunosi il viceré Eugenio rimase fedele al suo protettore (strenua resistenza militare opposta dall’ottobre 1813 prima sull’Adige, poi sul Mincio; convenzione di armistizio firmata a Schiarino-Rizzino il 17 aprile 1814 solo dopo che Napoleone aveva abdicato) e solo troppo tardi accarezzò il progetto di restare sul trono in qualità di re della Lombardia (l’assassinio del ministro delle Finanze G. Prina del 20 aprile 1814 rivelò in maniera indubbia gli umori antifrancesi dei Milanesi, destinati del resto, con una seconda convenzione, quella di Mantova, a passare sotto l’Austria), a Napoli, invece, Murat fu rapido nel distaccarsi da Napoleone. La sua tortuosa politica riscosse l’appoggio di vasti strati della popolazione: già in contatto con l’Austria fin dal marzo 1813, nel gennaio 1814 revocò dai porti napoletani il blocco antinglese e strinse, dietro promessa di compensi territoriali, una formale alleanza con l’Austria, entrando infine apertamente in guerra al fianco di questa e attaccando il 7 marzo 1814 le truppe del viceré Eugenio a Reggio nell’Emilia. Sopportato dall’Austria, ma osteggiato dall’Inghilterra, Murat al congresso di Vienna vide sfumare tutte le proprie possibilità di conservare il trono e cercò di salvarsi puntando ancor di più sul sentimento nazionale; tuttavia, la guerra nazionale, da lui proclamata il 15 marzo 1815, gli valse soltanto la perdita della corona sancita dalla convenzione di Casalanza del 20 maggio 1815 e più tardi, dopo un incauto rientro in Calabria per una spedizione armata a somiglianza di quanto il cognato aveva fatto in Francia, la morte (13 ottobre 1815). Dell’Italia napoleonica ormai non esisteva più traccia, ma il periodo francese-imperiale non era passato invano: esso aveva scatenato forze politiche e sociali prima compresse, accelerato il processo di trasformazione della società, creato le strutture per una nuova politica dirigente e per il futuro stato unitario. [314421] L’assetto politico-territoriale stabilito per l’Italia dalle grandi potenze vincitrici della coalizione antifrancese nel primo trattato di Parigi (30 maggio 1814), poi inserito nell’Atto finale del congresso di Vienna (1° novembre 1814-30 maggio 1815), mentre sanciva il ritorno alla situazione prerivoluzionaria con la restaurazione sul trono dei sovrani legittimi, segnava altresì l’emergere dell’Austria quale potenza egemone e garante dell’ordine nella penisola. Essa acquistava i territori appartenuti alla Repubblica di Venezia che, assieme ai vecchi possedimenti austriaci in Lombardia, vennero a costituire il regno del Lombardo-Veneto, direttamente inglobato nell’impero. Il Trentino, Trieste e parte dell’Istria divennero territori imperiali. L’Austria si assicurava inoltre il controllo sulla maggior parte degli stati italiani grazie all’influenza, diretta o indiretta, che era in grado di esercitare sui loro sovrani, i quali all’intervento austriaco dovevano per lo più il trono. Il ducato di Parma e Piacenza fu dato a Maria Luisa d’Asburgo (1815-47), ex imperatrice dei Francesi, con la clausola che il ducato sarebbe andato ai Borboni dopo la sua morte. Il ducato di Modena e Reggio fu anch’esso assegnato a una creatura dell’Austria, cioè a Francesco IV d’Asburgo-Este (1814-46), cui sarebbe andato inoltre il ducato di Massa e Carrara, dato vita natural durante alla madre, Maria Beatrice d’Este. Il ducato di Lucca fu provvisoriamente attribuito ai Borboni di Parma con l’accordo che alla morte di Maria Luisa, e quindi con il ritorno della dinastia sul trono di Parma, esso sarebbe stato ricongiunto al granducato di Toscana. Il granducato di Toscana a sua volta tornò a Ferdinando III d’Asburgo-Lorena (1814-24), fratello dell’imperatore d’Austria, che ottenne anche Piombino e lo Stato dei Presidi. Lo Stato pontificio, sotto Pio VII, ricostituito nei suoi confini tradizionali salvo la cessione alla Francia di Avignone, venne anch’esso a trovarsi sotto il controllo dell’Austria, la quale ebbe riconosciuto il diritto di mantenere presidi militari a Ferrara e Comacchio. Il regno delle Due Sicilie, in cui la restaurazione fu il risultato della sconfitta militare di Murat a opera degli Austriaci, vide il ritorno di Ferdinando IV di Borbone. Il regno di Sardegna, sotto Vittorio Emanuele I di Savoia (1802-21), cui andò il territorio che era stato della Repubblica di Genova, risultò essere l’unico stato italiano in grado di mantenere una relativa autonomia nei confronti dell’Austria, alla quale tuttavia era unito dal comune orientamento conservatore e dalla ostilità nei confronti di ogni movimento che avesse come obiettivo la modifica dello statu quo. La restaurazione politico-territoriale fu accompagnata in tutti gli stati italiani dal tentativo di neutralizzare quanto di innovativo la Rivoluzione francese e il periodo napoleonico avevano introdotto tanto nella sfera dell’amministrazione statuale quanto in quella della società civile. La volontà di reazione dei sovrani non riuscì comunque, specie negli stati più importanti, a ricreare integralmente la situazione dell’ancien régime. Quasi dappertutto aspetti importanti delle istituzioni civili e amministrative della Francia rivoluzionaria e napoleonica vennero conservati, né poterono essere aboliti gli effetti di quel processo di trasformazione delle strutture economiche e sociali iniziato negli ultimi decenni del Settecento, che aveva creato anche in Italia una realtà nuova, per molti versi immodificabile. Nel regno del Lombardo-Veneto, costituito ufficialmente il 7 aprile 1815, l’azione dell’Austria fu volta al perseguimento di tre obbiettivi principali: privare il paese di ogni autonomia che potesse aprire la strada ad aspirazioni indipendentistiche; sfruttare la progredita economia, specie lombarda, a proprio vantaggio; mantenere nel regno una forte presenza militare in grado di intervenire ovunque in Italia venisse minacciata la propria egemonia. L’Austria cercò nondimeno di guadagnare il consenso degli ambienti intellettuali italiani promuovendo e finanziando a tal fine la pubblicazione della Biblioteca italiana (1816), rivista mensile di cultura alla quale collaborarono, tra gli altri, personalità quali V. Monti e P. Giordani. Ma la parte più viva dell’aristocrazia e della borghesia, specie nella più progredita Lombardia dove maggiormente diffusa era l’insoddisfazione per lo sfruttamento economico e per il pesante controllo politico, trovò la propria espressione culturale e ideologica ne Il Conciliatore (settembre 1818 - ottobre 1819), che si valse della collaborazione di uomini come gli scrittori romantici S. Pellico e G. Berchet, il filosofo G. D. Romagnosi, lo storico ed economista ginevrino J.-Ch.-L. Sismondi; ma anche di aristocratici di orientamento liberale come L. Porro Lambertenghi e F. Confalonieri, i quali promossero una significativa opera modernizzatrice nel campo economico e sociale, riprendendo quella tradizione riformatrice che era stata propria dei Verri, dei Beccaria e dei Melzi. Questo tentativo di manifestare in forma letteraria e culturale propositi di autonomia e di rinnovamento politico non sfuggì alla censura austriaca, che nell’ottobre 1819 soppresse la rivista, spingendo la maggior parte dei collaboratori a entrare nelle file delle società segrete e a impegnarsi in attività cospirative. Nel regno dei Savoia, l’opera di restaurazione intrapresa da Vittorio Emanuele I con l’appoggio degli ambienti di corte, dell’esercito e della Chiesa, fu ispirata al più gretto conservatorismo. La vecchia legislazione venne reintrodotta al posto di quella napoleonica, sotto ogni profilo più efficace e moderna; tornarono le barriere doganali verso l’esterno e verso l’interno, con pesanti conseguenze per lo sviluppo economico; il personale che aveva servito sotto Napoleone nelle alte cariche della burocrazia e dell’esercito venne per lo più sostituito con emigrati che avevano seguito il re in esilio; la Chiesa, infine, riacquistò i vecchi privilegi, tra cui il pieno controllo dell’istruzione, mentre ebrei e valdesi vedevano nuovamente limitati i propri diritti religiosi. Questo stato di cose suscitò un diffuso malcontento innanzitutto in Liguria, che si trovò inserita in un sistema politicamente e socialmente più arretrato rispetto a quello della vecchia repubblica, ma anche in parte delle stesse aristocrazia e borghesia piemontesi, che mal sopportavano il ristabilimento di un regime così oppressivo e tradizionalista. La nomina a segretario di Stato di P. Balbo, già funzionario del regime napoleonico e noto per le sue idee liberali, non valse a frenare il processo di radicalizzazione della gioventù studentesca, che aspirava a un deciso rinnovamento. Nel ducato di Parma, Maria Luisa d’Austria si attenne a principi di moderazione, evitando l’instaurazione di un egime poliziesco e gli eccessi nella repressione. Per contro Francesco IV d’Austria-Este, nel ducato di Modena, favorì sì un certo dinamismo economico, ma governò il paese in modo dispotico e reazionario, cancellando ogni traccia degli ordinamenti napoleonici, epurando drasticamente le sfere della politica e dell’amministrazione e favorendo il rafforzamento delle tendenze cattoliche integraliste. Temperamento ambizioso e non privo di intelligenza, Francesco IV, che aveva sposato nel 1812 la figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia, coltivava la speranza di succedere al trono del regno sardo. Pensando di poter trarre giovamento da una maggiore autonomia dall’Austria, intrattenne per un certo periodo contatti ambigui con cospiratori liberali come E. Misley e C. Menotti. Anche a causa della sua politica oscillante e contraddittoria, il ducato di Modena divenne un terreno fertile per le attività delle società segrete sia reazionarie sia liberali. All’interno del “sistema austriaco” la Toscana, di cui era sovrano il fratello dell’imperatore d’Austria, Ferdinando III, rappresentò il polo della corrente più moderata della restaurazione. Il sovrano, infatti, si richiamava all’ispirazione illuministica e riformistica di Pietro Leopoldo. Alla guida del governo vennero chiamati uomini come V. Fossombroni e N. Corsini, che adottarono una politica moderata e relativamente tollerante, lontana da ogni angusto spirito di reazione e aperta al progresso economico. Questa politica tenne la Toscana al riparo dal proliferare delle società segrete, assicurando al contempo un clima favorevole al dibattito culturale che ebbe una delle sue espressioni più alte nell’attività del gabinetto scientifico e letterario, fondato dall’editore e libraio ginevrino G. P. Vieusseux nel 1812, e nella rivista che ne divenne l’espressione, l’Antologia (1821), alla quale collaborarono intellettuali di grande prestigio e di diversa provenienza, accomunati da un impegno riformatore in campo economico e sociale. Anche nello Stato pontificio il governo fu per qualche tempo nelle mani di un abile e intelligente uomo politico, il cardinale E. Consalvi, segretario di stato, intenzionato a preservare alcuni aspetti dell’eredità napoleonica e ad attuare una relativa modernizzazione dell’apparato statale, aprendo le cariche amministrative ai laici. La sua azione incontrò però la resistenza di un potente gruppo reazionario detto dei cardinali zelanti, fautori di un deciso ritorno al passato prerivoluzionario. Un certo miglioramento rispetto alla legislazione dell’ancien régime indubbiamente vi fu: col motuproprio papale del 16 luglio 1816 vennero aboliti quasi tutti i diritti feudali; si uniformarono le amministrazioni locali; si procedette al riordinamento fiscale e giudiziario. Ma le misure introdotte furono di portata limitata e nell’insieme lo stato mantenne un carattere spiritualmente e politicamente oppressivo. Il governo si trovò ad affrontare difficili problemi di controllo politico, non tanto nel Lazio, che costituiva la parte economicamente meno dinamica, quanto nelle province più progredite quali le Marche, le Romagne e il Bolognese, la cui economia era andata sviluppandosi durante il periodo napoleonico favorendo il consolidamento di una borghesia commerciale e terriera non irrilevante, la quale mostrava una crescente insofferenza nei confronti dell’“iniquo governo dei preti”. Da quelle province nacque una opposizione che andò ad alimentare la rete delle associazioni segrete. Infine, il regno delle Due Sicilie (che era stato formalmente istituito nel dicembre 1816 mediante l’unione dei due regni di Napoli e di Sicilia, per cui Ferdinando IV di Napoli prese il nome di Ferdinando I) fra il 1815 e il 1820 si giovò dell’azione di un ministro quale Luigi de’ Medici, che intraprese l’opera di restaurazione in senso decisamente contrario alle aspettative dei reazionari. Egli, infatti, mirò a fondere nell’amministrazione e nell’esercito quadri provenienti dalla esperienza murattiana con i fuorusciti che avevano seguito il re nell’esilio siciliano. L. de’ Medici venne però con ogni mezzo ostacolato dal principe di Canosa, per i primi sei mesi del 1816 ministro di Polizia e capo dell’ala più oltranzista, che interpretava le intime aspirazioni del sovrano. Quando Canosa fu congedato per le pressioni congiunte dell’Austria e della Russia, il primo ministro poté agire con maggiore libertà e reprimere sia le sette reazionarie, come quella dei Calderari, sia quelle rivoluzionarie, come la Carboneria, che si era notevolmente sviluppata. I risultati più rilevanti dell’azione di L. de’ Medici furono l’unificazione amministrativa e legislativa del regno, che comportò una forte limitazione del potere baronale in Sicilia e un maggiore controllo del governo sull’isola, e il mantenimento di risultati essenziali della legislazione napoleonica. Un passo indietro rappresentò invece la stipulazione di un concordato con la Santa Sede nel febbraio 1818, firmato per assicurare al governo l’appoggio politico del clero, il quale ristabilì per la Chiesa il diritto di possedere beni impegnando il re a non disporre dei beni ecclesiastici senza il benestare della Santa Sede; ricostituì il foro ecclesiastico per la disciplina del clero; sottopose la cultura alla censura ecclesiastica. La politica di L. de’ Medici, malgrado le sue indubbie aperture, non fu tuttavia in grado di rispondere alle aspettative di quella parte cospicua dei ceti colti, dei funzionari e dei militari che guardava con nostalgia al periodo francese, nonché della borghesia di recente formazione: questi auspicavano un regime più liberale e innovatore. [314431] L’impossibilità per le opposizioni di manifestare liberamente il proprio dissenso e di associarsi per promuovere mutamenti nelle politiche dei rispettivi governi durante l’età della Restaurazione ebbe quale effetto la diffusione, non solo in Italia ma in tutta l’Europa continentale, di società segrete le quali da un lato elaboravano programmi ideologici, dall’altro preparavano insurrezioni attraverso un’intensa attività di proselitismo atta a selezionare nuclei di fedelissimi disposti a impegnarsi nel rovesciamento delle vigenti forme di governo. Per far fronte alle difficoltà insite in questa attività cospirativa e salvaguardare le esigenze di sopravvivenza del movimento in caso di infiltrazioni della polizia o di arresto dei membri delle società segrete, queste si diedero una struttura fortemente gerarchizzata, la quale faceva corrispondere a diversi gradi di responsabilità anche diversi gradi di coscienza politica e di conoscenza delle finalità ultime: i capi si riservavano il diritto di dirigere i movimenti rivoluzionari verso obiettivi che ritenevano sia prematuro sia imprudente rivelare all’insieme dei membri. Le società segrete ebbero una base sociale molto ristretta. Alle masse popolari, assenti dalla scena politica, era riservato un ruolo di appoggio esterno ai moti rivoluzionari promossi e diretti dai membri delle società formate da aristocratici che su versanti vuoi di “destra” vuoi di “sinistra” non accettavano l’ordine costituito, da funzionari dell’amministrazione, da intellettuali, studenti e professionisti; ma decisivo fu l’estendersi delle società segrete, nel periodo della Restaurazione, fra gli ufficiali e i sottufficiali, i quali si trovavano nelle condizioni più efficaci per preparare e attuare colpi di stato e insurrezioni militari. La maggiore delle società segrete che operarono in Italia negli anni Venti fu la Carboneria, introdotta da ufficiali o funzionari francesi nel Napoletano durante il regno di Murat e diffusasi rapidamente in tutto il Mezzogiorno dopo il 1814. Espressione della piccola borghesia provinciale in lotta sia contro i residui feudali sia contro il centralismo murattiano, la Carboneria durante la Restaurazione ebbe quale obbiettivo l’instaurazione di una monarchia costituzionale al posto dell’assolutismo borbonico. Dal regno di Napoli, direttamente o indirettamente attraverso legami con altre società, si estese poi in tutto il paese ispirando la propria azione agli ideali del costituzionalismo liberale. Accanto a essa, ebbero una notevole importanza le società degli Adelfi e dei Filadelfi le quali, sorte in Francia al pari della Carboneria, si erano diffuse in Piemonte già in periodo napoleonico fra nuclei di giacobini repubblicani e, successivamente, tra l’esercito, e quella dei Federati, di indirizzo più moderato, che reclutava i propri aderenti principalmente tra le file dell’aristocrazia. Vi erano, inoltre, le sette dei conservatori e dei reazionari che premevano per l’inasprimento della politica repressiva nei confronti di quanti si erano compromessi con i Francesi o erano sospetti di simpatie liberali. In Italia le principali furono quella dei Calderari, attiva nel regno delle Due Sicilie e protetta dal ministro della Polizia napoletano principe di Canosa, la quale aveva aderenti nell’aristocrazia meridionale ma non esitava a reclutare elementi della malavita o delle bande brigantesche borboniche; quella dei Sanfedisti che nello Stato pontificio agivano per il rafforzamento del potere della Chiesa e del papa e costituirono un importante strumento di lotta contro i movimenti liberali; quella, anch’essa cattolica, ma più moderata, delle Amicizie cristiane, nata in Piemonte dietro ispirazione di de Maistre, il cui programma mirava a rinsaldare l’alleanza tra il trono e l’altare. [314441] Le società segrete di stampo liberale e radicale fornirono la prima grande prova nei moti che scoppiarono in Italia nel 1820-21, al diffondersi delle notizie circa il successo del pronunciamento militare che in Spagna aveva riportato in vigore la Costituzione del 1812 e indotto il re Ferdinando VII di Borbone ad accettare il fatto compiuto. Sull’onda di questi eventi, che si inserivano su una profonda crisi economica e sociale gravante su tutti i paesi europei, crebbe il fermento tra le società segrete, pronte a cogliere le occasioni propizie. I moti iniziarono nel regno delle Due Sicilie, e più precisamente a Nola, in Campania, il 2 luglio 1820 per iniziativa degli ufficiali carbonari M. Morelli e G. Silvati i quali insorsero con il loro squadrone di cavalleria, muovendo verso Avellino dove invitarono il comandante della piazza a proclamare la Costituzione spagnola del 1812. Ben presto il fronte insurrezionale si allargò alla Lucania e alla Puglia, sotto la guida di nuclei di borghesi carbonari, fino a che la sua vittoria fu assicurata dall’adesione sempre più larga dell’esercito, alla cui testa si era messo il generale murattiano G. Pepe. Constatata l’impossibilità di reprimere i moti, come già in Spagna Ferdinando VII, anche Ferdinando I aderì alla richiesta di formazione di un governo costituzionale, contravvenendo agli accordi con l’Austria; quindi, adducendo motivi di salute, per non compromettersi col nuovo regime affidò il regno al figlio Francesco I, il quale il 7 luglio promulgò ufficialmente la Costituzione. Il successo militare e politico dell’insurrezione fu in larga misura dovuto all’alleanza venutasi a creare, in nome della comune lotta contro l’assolutismo, tra i carbonari e la persistente opposizione al regime borbonico proveniente dagli ufficiali fedeli al passato murattiano. Tale alleanza poggiava però su basi la cui fragilità ebbe a manifestarsi ben presto, con effetti negativi sul fronte rivoluzionario. Infatti, mentre gli esponenti degli alti gradi dell’esercito e della burocrazia inclinavano verso una monarchia costituzionale politicamente e socialmente moderata, i carbonari, che esprimevano le aspirazioni della piccola borghesia provinciale, degli ufficiali subalterni e dei sottufficiali, avevano obbiettivi più radicali e democratici e chiedevano la piena applicazione della Costituzione spagnola, con l’instaurazione di un regime parlamentare in grado di limitare i poteri del sovrano e dell’esecutivo. Gli avvenimenti di Napoli ebbero immediata eco in Sicilia, dove l’insurrezione dilagò il 15 luglio. A Palermo scoppiò una rivolta popolare spontanea promossa da operai e artigiani e successivamente appoggiata dalla nobiltà separatista. Il generale Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, inviato sull’isola a reprimere la rivolta, si accordò segretamente con l’aristocrazia palermitana per porre fine alla guerra civile sulla base di un compromesso che venne però respinto dal parlamento napoletano. Sostituito Pepe col generale P. Colletta, prevalse infine la volontà del governo centrale e furono stroncate le aspirazioni autonomistiche, anche grazie all’approfondirsi della frattura tra aristocrazia e masse popolari. L’Austria, nel frattempo, allarmata dall’estendersi dei movimenti insurrezionali, dopo aver disposto l’invio di truppe in Italia per reprimere la rivolta nel regno di Napoli, convocò a Troppau, in Slesia, un congresso fra le grandi potenze (ottobre-dicembre 1820) per concordare una politica comune. Lo scopo era quello di ottenere il consenso all’intervento militare in Italia e Spagna al fine di schiacciare i moti costituzionalisti. Gran Bretagna e Francia, pur favorevoli all’intervento austriaco, rifiutarono di impegnarsi con dichiarazioni di principio. Austria, Russia e Prussia ribadirono invece il principio di intervento e firmarono un protocollo in cui si riaffermava la necessità di “ricorrere, in circostanze così gravi, a un’applicazione legittima e salutare” dei principi sui quali si fondava la Santa Alleanza. Le iniziative concrete da prendersi per ristabilire l’ordine nel regno delle Due Sicilie vennero rinviate a un altro congresso, che si tenne a Lubiana nel gennaio 1821, con la partecipazione del re Ferdinando Italia Il parlamento napoletano autorizzò il re a recarsi al congresso, non prima che questi si fosse impegnato a difendere la Costituzione. Di fronte alle grandi potenze Ferdinando I reclamò invece la piena restaurazione dei propri diritti sovrani, autorizzando di fatto l’intervento militare dell’Austria. Il tradimento del re rafforzò la volontà di resistenza del parlamento napoletano e la linea intransigente dei carbonari contro la maggioranza murattiana. I fatti di Spagna e del regno delle Due Sicilie inasprirono in tutta Italia il confronto tra rivoluzionari e conservatori: le società segrete intensificarono l’attività cospirativa che raggiunse il massimo di intensità in Lombardia e in Piemonte. Gli organi di polizia, per parte loro, accentuarono l’opera di vigilanza e di repressione, specie dopo la scoperta fatta a Milano nel 1820 di una vendita carbonara che aveva portato all’arresto dello scrittore piemontese S. Pellico e del musicista romagnolo P. Maroncelli. Il problema fondamentale che le sette si trovavano ad affrontare era quello di individuare una strategia capace di resistere all’offensiva austriaca. La mancanza di legami con le masse popolari diede forza al programma elaborato in Piemonte dai Federati, cioè dall’ala più moderata dello schieramento settario, che ottenne infine l’appoggio dell’ala più radicale rappresentata dai Sublimi Maestri Perfetti, promossa da F. Buonarroti. Tale programma si articolava in quattro punti principali: 1) utilizzare le tradizionali mire sabaude sulla Lombardia per coinvolgere la monarchia nella lotta contro l’Austria; 2) far sollevare l’esercito piemontese, così da porre il re di fronte al fatto compiuto; 3) indurre quest’ultimo a concedere una costituzione; 4) iniziare una guerra contro l’Austria in vista della formazione di un regno dell’alta Italia e sostenere le sorti della rivoluzione napoletana. I congiurati ritenevano di poter contare sull’appoggio del principe di Carignano, Carlo Alberto di Savoia, che aveva manifestato solidarietà nei confronti dei moti studenteschi del gennaio 1821 e con il quale erano stati stabiliti, attraverso il conte Santorre di Santarosa, un ufficiale dell’esercito aderente alla società dei Federati, contatti valutati positivamente. Tale valutazione si rivelò però al momento decisivo sostanzialmente errata. Timoroso di perdere i diritti di successione al trono in caso di insuccesso, Carlo Alberto dapprima aderì al piano insurrezionale, poi si tirò indietro. I congiurati, messi al corrente, decisero di sospendere l’azione, ma la guarnigione di Alessandria nella notte tra il 9 e il 10 marzo si ammutinò ugualmente. Il 12 marzo, l’insurrezione guadagnò Torino. Vittorio Emanuele I, dopo alcune incertezze sulla condotta da seguire, accantonò i propositi di mettersi a capo della repressione, abdicò nominando reggente Carlo Alberto e partì per Nizza con la famiglia. Il 15 marzo Carlo Alberto giurava con il nuovo governo fedeltà alla Costituzione di Spagna. Mentre iniziava la rivoluzione piemontese, si avvicinava la fine di quella napoletana. I contrasti tra moderati e radicali avevano fortemente indebolito la capacità di resistenza del nuovo governo. Le truppe austriache, che avevano iniziato la marcia verso il regno di Napoli nel febbraio, non incontrarono quasi opposizione ed entrarono nella capitale il 23 marzo, ponendo così fine al regime costituzionale. La stessa sorte avrebbe subito di lì a poco quello piemontese. Infatti, Carlo Felice (1821-31), fratello ed erede legittimo di Vittorio Emanuele, da Modena, dove si trovava, sconfessò l’operato di Carlo Alberto e gli ordinò di raggiungere a Novara le truppe fedeli del generale De La Tour. Carlo Alberto, il cui obbiettivo era ormai quello di reprimere l’insurrezione senza subire l’umiliazione impostagli dal re, cercò dapprima di fare il doppio gioco, ma la determinazione di Carlo Felice lo indusse a obbedire. Il 21 marzo nominò Santarosa ministro della Difesa, ma poche ore dopo raggiungeva segretamente Novara. Allora Santarosa, l’unico tra i moderati a non tirarsi indietro, in qualità di capo del governo provvisorio invitò i soldati piemontesi alla guerra contro l’Austria, ma l’improvvisato esercito costituzionalista scontratosi a Novara (7-8 aprile) con i realisti, cui erano arrivati in soccorso gli Austriaci, venne sconfitto. Il 10 aprile il generale De La Tour entrava a Torino, mentre gli Austriaci occupavano Alessandria e Casale e i rivoluzionari cercavano scampo nell’esilio, dal quale avrebbero in molti continuato sia sul piano ideologico sia su quello pratico la lotta contro la reazione. La repressione dei moti in Italia fu il preludio del soffocamento del regime costituzionale in Spagna. Le grandi potenze, riunitesi a Verona (ottobre-dicembre 1822) autorizzarono l’intervento di un esercito francese che ebbe infine la meglio sui costituzionalisti nella battaglia del Trocadero (31 ottobre 1823), alla quale aveva partecipato Carlo Alberto, arruolatosi volontario nell’armata francese per riabilitarsi agli occhi di Carlo Felice e assicurarsi il diritto alla successione al trono sabaudo. Sempre a Verona, l’Austria rilanciò l’ipotesi di creare una lega degli stati italiani sotto il proprio controllo, che venne però respinta dalle altre potenze. Le truppe austriache vennero ritirate dal Piemonte, ma non dal regno delle Due Sicilie, dove restarono fino al 1827. La sconfitta dei costituzionalisti in Piemonte e nel regno delle Due Sicilie provocò la crisi della politica moderata di uomini come P. Balbo, il cardinal Consalvi, L. de’ Medici e la ripresa dell’ala più reazionaria della Restaurazione. Nel Lombardo-Veneto le autorità austriache intensificarono la vigilanza e la repressione poliziesca per evitare il ripetersi di moti eversivi. Dei numerosi processi che seguirono gli arresti di membri delle società segrete, quello politicamente più importante si svolse contro il conte Confalonieri, capo dei Federati, e altri dirigenti della stessa organizzazione, accusati di aver stabilito contatti con il Piemonte al fine di ottenere un intervento militare in Lombardia e di aver preparato la formazione di un governo provvisorio liberale. Tutti i principali accusati furono condannati a morte (novembre 1823), ma la pena venne successivamente commutata dall’imperatore in ergastolo o in periodi di detenzione minori. Fu allora che la fortezza dello Spielberg, in Moravia, dove furono imprigionati molti patrioti, divenne il simbolo della lotta per l’indipendenza dagli Austriaci. Anche nel regno di Sardegna furono emesse numerose condanne a morte, ma due soltanto vennero eseguite; la maggior parte di coloro che erano compromessi riuscì a darsi alla fuga. L’esercito venne epurato e gli studenti sottoposti a più stretta vigilanza e a una più rigida formazione religiosa. Nello Stato pontificio, dove l’azione delle società segrete direttamente e violentemente contrastata dai sanfedisti si era comunque fatta sentire, non mancarono gli arresti e le condanne; nell’insieme, però, il cardinal Consalvi, pur tra molte difficoltà, riuscì a imporre una politica di moderazione, che ebbe termine bruscamente con la morte di Pio VII e l’avvento al soglio di Leone XII (1823-29), uno dei cardinali zelanti. Consalvi venne congedato e ricevette carta bianca il cardinale Rivarola che, in qualità di legato straordinario per le Romagne nel 1824-25, agì con determinazione nei confronti dei carbonari facendone processare oltre cinquecento. Assai pesante, infine, fu la reazione nel regno delle Due Sicilie. Sconfitti i rivoltosi, Ferdinando I richiamò il principe di Canosa, la cui durezza nell’azione di repressione provocò le proteste dello stesso ambasciatore austriaco a Napoli. Molti furono i deportati e gli esiliati, fra i quali G. Poerio e P. Colletta, i fratelli Pepe, il poeta G. Rossetti e il generale M. Carascosa, mentre vennero impiccati, tra gli altri, gli ufficiali Morelli e Silvati. Si ebbero drastiche epurazioni nell’esercito e nell’amministrazione, furono sottoposte a un rigido controllo poliziesco tutte le associazioni e venne ristabilita la censura. La repressione non riuscì tuttavia ad annientare le organizzazioni settarie, alimentate dall’ottusa chiusura del regime borbonico. Anche dopo la morte di Ferdinando I e l’ascesa al trono di Francesco I (1825-30), le società segrete non cessarono di organizzare congiure e rivolte, a loro volta seguite da nuovi arresti e nuovi processi. [314451] Esito non molto dissimile ai moti degli anni Venti ebbero quelli che scoppiarono nel 1830-31 dietro la spinta delle rivoluzioni liberali europee, in particolare di quella francese. La parte più direttamente interessata fu questa volta l’Italia centrale, con epicentro nel ducato di Modena e Parma. Qui Francesco IV d’Este, ansioso di ampliare i propri domini e di acquistare maggior peso sulla scena politica italiana, fin dal 1823 aveva stabilito dei contatti con il carbonaro E. Misley in quella che venne poi chiamata la “congiura estense”, sperando di sfruttare gli eventuali successi dei moti liberali per porsi alla guida di una rivoluzione monarchico-costituzionale. Gli avvenimenti francesi del 1830, con il successo della rivoluzione di luglio, indussero Francesco IV a cambiare atteggiamento. Temendo che l’ondata rivoluzionaria internazionale sottraesse la cospirazione liberale al proprio controllo e certo che questa avrebbe incontrato la decisa opposizione dell’Austria, egli tentò di bloccarne il corso facendo arrestare C. Menotti, che aveva preso la direzione del movimento, e altri congiurati la notte del 3 febbraio 1831, ma senza successo. Il giorno dopo l’insurrezione scoppiò a Bologna, e da qui rapidamente guadagnò le Marche, il ducato di Modena e Reggio, Parma, gran parte della Romagna. Il risultato più importante dei moti nell’Italia centrale fu la costituzione di un governo provvisorio delle Province Unite con sede a Bologna che agì di concerto con i governi provvisori instauratisi nei ducati. Ma questi, fallita la speranza di un appoggio francese, non furono in grado di resistere alle truppe austriache, inviate da Metternich nel marzo 1831 per ristabilire lo statu quo nell’Italia centrale. Rientrato a Modena, Francesco IV scatenò una dura repressione, che portò all’impiccagione di C. Menotti e del notaio V. Borelli, colpevole di aver stilato l’atto di decadenza del duca. Il fallimento generale a cui andarono incontro i moti promossi dalle società segrete tanto nel 1820-21 quanto nel 1831 fu in larga misura determinato dalla incapacità di elaborare dei programmi in grado di coinvolgere gli strati popolari e dalla conseguente impossibilità di affrontare la reazione delle forze conservatrici. Essi ebbero nondimeno una importante funzione storica in quanto costituirono un momento decisivo per la maturazione politica di nuovi strati di progressisti liberali, democratici e anche socialisti. Con la crisi della Carboneria, ormai screditata, si ebbe la divisione delle forze che premevano per il rinnovamento in due correnti principali: quella mazziniana, con un programma di rivoluzione nazionale fondata sull’iniziativa popolare, e quella moderata, che puntava sull’iniziativa delle classi dirigenti e sull’azione riformatrice dei governi. Va però tenuto presente che l’una e l’altra strategia furono condizionate dalla estrema debolezza di quelle forze sociali che avevano costituito le principali leve del mutamento in Francia e in Gran Bretagna, vale a dire il proletariato urbano e la borghesia capitalistica. Mazzini maturò la critica alla Carboneria e, più in generale, alle società segrete durante l’esilio in Francia, seguìto al processo per cospirazione politica tenutosi nel 1831. Sempre in Francia, egli subì una serie di influenze (Buonarroti, in primo luogo, ma anche Saint-Simon, Cousin e Guizot) che risultarono decisive per l’elaborazione del programma di una nuova organizzazione, la Giovine Italia, fondata nel 1831 e destinata nelle intenzioni a superare nei metodi e nei contenuti i limiti delle vecchie organizzazioni settarie. Tale programma aveva come obbiettivi l’indipendenza, l’unità nazionale e la repubblica, e individuava nella partecipazione delle masse popolari al processo rivoluzionario lo strumento essenziale per il loro conseguimento. Ma proprio la mancata individuazione degli strumenti atti a mobilitare quelle stesse masse, specie contadine che di essa costituivano la stragrande maggioranza, fu alla base dell’insuccesso cui andò incontro la linea mazziniana. Fallirono infatti sul nascere i tentativi insurrezionali messi in atto dagli affiliati alla Giovine Italia nel regno di Sardegna nel 1833-34, in parte per la disorganizzazione interna, in parte per la vigilanza della polizia sabauda; a questi tentativi seguirono numerosi arresti e varie condanne a morte, tra le quali quella in contumacia dello stesso Mazzini (1833) e di Garibaldi (1834), entrato in contatto con gli ambienti mazziniani a Marsiglia, quindi arruolatosi nella marina sarda per promuovere l’insurrezione a Genova in appoggio a una spedizione, abortita, in Savoia. Fallirono le cospirazioni e congiure nell’Italia centrale e meridionale. Né miglior sorte toccò alla nuova fase di lotte iniziata a partire dal 1840, dopo il superamento di una grave crisi politica ed esistenziale sul futuro del movimento attraversata da Mazzini. Fallì, infatti, con grave perdita di credibilità sul piano politico di Mazzini, la spedizione in Calabria tentata nel giugno del 1844 dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, due ufficiali della marina austriaca affiliati alla Giovine Italia, i quali avevano sperato nella sollevazione dei contadini meridionali ed erano invece finiti isolati, braccati dalla gendarmeria borbonica, fucilati con altri sette compagni. L’esito disastroso della impresa dei Bandiera fece una enorme impressione sulla opinione pubblica e, per quanto ingiustificate, le critiche a Mazzini di irresponsabilità e di cinismo, unitamente alle pressanti esigenze dello sviluppo economico-sociale e al vento liberale che spirava dalla Francia e dalla Gran Bretagna, contribuirono al rilancio del riformismo moderato che aveva cominciato ad affermarsi a partire dalla metà degli anni Trenta. I moderati mirarono innanzitutto a promuovere un movimento di opinione nelle file dell’aristocrazia liberale e della borghesia capace di scongiurare una rivoluzione e di orientare i governi in senso riformatore, isolando le correnti reazionarie che restavano ancorate alla politica dell’alleanza tra trono e altare. Sul terreno economico essi adottarono una ideologia libero-scambista, funzionale al superamento dei vincoli posti alla circolazione delle merci dalla frammentazione politica e, in prospettiva, alla creazione di un mercato nazionale. L’orientamento liberistico era accompagnato, specie in Lombardia, Toscana e Piemonte, da una forte attenzione per le tematiche sociali, che ebbe importanti risvolti pratici nel campo dell’assistenza e dell’educazione, secondo un’ispirazione paternalistica tendente a inglobare gli strati popolari nell’egemonia culturale della borghesia riformatrice. Sul terreno politico, l’opinione pubblica moderata trovò la sua prima ed efficace sintesi nelle opere di V. Gioberti e di C. Balbo, i più rappresentativi esponenti di quella corrente che venne chiamata neoguelfa in quanto individuava nel papato la grande forza di unificazione spirituale dell’Italia, affidandogli un ruolo di primo piano nel processo di rinascita della nazione. Sia l’uno sia l’altro furono decisamente ostili alla soluzione unitaria e repubblicana perseguita da Mazzini: auspicarono invece la creazione di una confederazione di stati italiani che, per Gioberti, avrebbe dovuto essere presieduta dal papa, l’unico in grado per il prestigio e l’autorità morale del suo ministero universale, di assicurare all’Italia quel primato affidatole dalla Provvidenza; mentre per Balbo, secondo il quale la nuova Italia non avrebbe potuto nascere se non con l’indipendenza dallo straniero, la futura confederazione avrebbe potuto realizzarsi soltanto per principale impulso dello stato sabaudo, l’unico in grado di guidare il processo e di costringere l’Austria a cedere il Lombardo-Veneto. Nel pensiero di Balbo il moderatismo italiano veniva in tal modo a saldarsi con i tradizionali interessi espansionistici di casa Savoia, dando al problema dell’indipendenza una prospettiva più realistica di quella prospettata da Gioberti. Un ulteriore contributo alla formazione di una forza politica omogenea sotto l’egemonia dei moderati piemontesi venne da M. d’Azeglio il quale, in un opuscolo che ebbe grande successo, prendendo spunto dal fallimento dei moti avvenuti nello Stato pontificio, e in particolare nella Romagna (1845), denunciò il fallimento del metodo insurrezionale, contrapponendo a esso l’azione feconda di un crescente movimento di opinione pubblica capace di esercitare una pressione sui governi. All’orientamento dei moderati che avevano individuato nel liberalismo cattolico e nella iniziativa piemontese le due leve con cui mettere in moto il rinnovamento nazionale, nonché alle finalità unitarie e al metodo rivoluzionario propri del programma mazziniano, si contrappose la corrente dei federalisti repubblicani che ebbe in C. Cattaneo e G. Ferrari i suoi esponenti più significativi. Entrambi collaboratori degli Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio, la rivista di Romagnosi, espressione della borghesia più moderna e aperta alle influenze del liberalismo d’oltralpe, essi condussero la loro battaglia contro il neoguelfismo così come contro il mazzinianesimo, in nome di una rivoluzione democratica e popolare capace di liberare il paese dalla sua arretratezza politica e culturale. L’obbiettivo dell’unità, tanto più sotto l’egemonia della casa Savoia, più retriva dello stesso governo imperiale nelle sue province italiane, non era per Ferrari e Cattaneo né realizzabile né auspicabile: non realizzabile perché troppo lontano dalle caratteristiche storico-politiche dell’Italia; non auspicabile perché il centralismo appariva loro indissolubilmente legato col dispotismo, mentre le esperienze più progredite di governo andavano in direzione del decentramento. Essi furono quindi convinti fautori di un progetto federalistico, repubblicano e democratico, che rimase però fortemente minoritario. [314461] Il periodo che corre tra il 1831 e il 1846, anno che segnò una svolta nelle relazioni tra gli stati italiani, fu contrassegnato da una sostanziale continuità nella politica interna ed estera dei governi. Il quadro complessivo venne a mutare quando entrarono in crisi i rapporti di cordialità di Carlo Alberto con l’Austria. Il contrasto maturò sul terreno delle politiche doganali, allorquando nel 1846 l’Austria, come ritorsione per un precedente rifiuto da parte del governo sabaudo di porre termine all’esportazione in Svizzera di sale di cui rivendicava il monopolio, decise di stabilire un forte dazio sull’importazione di vini piemontesi in Lombardia. Il conflitto commerciale assunse ben presto carattere politico e l’opinione pubblica si schierò dalla parte del re. Carlo Alberto riuscì a ottenere il consenso tanto dei conservatori, fautori dell’espansionismo piemontese verso il Lombardo-Veneto e sempre meno interessati alla solidarietà ideologica con lo spirito metternichiano, quanto dei liberali moderati, che vedevano nei Savoia i principali campioni della lotta per l’indipendenza nazionale contro la tutela dell’Austria sull’Italia. Tra il 1846 e il 1848, inoltre, sembrarono maturare alcune condizioni favorevoli al ricongiungimento degli stati italiani, fatta eccezione per il Lombardo-Veneto, a quel liberalismo politico che si era già affermato in Italia e in Francia. Nello Stato pontificio l’elezione di Pio IX (1846-78) fu accompagnata da una serie di misure (amnistia per i reati politici, maggiore libertà di stampa, una Consulta aperta ai laici e una Guardia civica) che accreditarono l’immagine di un papato rinnovato e sollecitarono il movimento liberale a intensificare l’azione di pressione sugli altri sovrani per la concessione di analoghe riforme. E quando l’Austria, preoccupata degli avvenimenti, decise di occupare Ferrara (luglio 1847) suscitando le proteste di Pio IX e di Carlo Alberto, il movimento per le riforme prese una connotazione apertamente antiaustriaca e nazionalistica. Da Roma, l’onda riformatrice raggiunse la Toscana, dove Leopoldo II concesse la Guardia civica, la Consulta e una più ampia libertà di stampa, e il regno sardo, dove una serie di riforme furono precedute dal licenziamento del ministro reazionario Solaro della Margherita. Il coronamento del nuovo corso riformistico dei tre stati fu la firma dei preliminari di una lega doganale italiana il 3 novembre 1847, le cui finalità economiche e commerciali non escludevano esplicitamente l’ipotesi di una sua eventuale estensione sul terreno militare. A questo punto entrarono in agitazione i liberali del regno delle Due Sicilie. In seguito all’arresto dei promotori di alcune manifestazioni, il 12 gennaio 1848 scoppiò a Palermo una insurrezione che si diffuse rapidamente a tutta la Sicilia e da qui al Napoletano. Ferdinando II (1830-59), dopo aver chiesto inutilmente l’aiuto austriaco, reso impossibile dal rifiuto del papa di concedere il permesso di transito delle truppe, nella convinzione che fosse l’unico mezzo per salvare la monarchia concesse, primo fra i sovrani italiani, una costituzione (29 gennaio 1848), seguito da Leopoldo II di Toscana (17 febbraio), da Carlo Alberto (4 marzo) e, infine, da Pio IX (14 marzo). Si trattava di una costituzione assai moderata, ispirata a quella francese del 1830, con la quale ai sovrani venivano affiancati un senato di nomina regia e una camera eletta a suffragio ristretto. Quella dello Stato pontificio, inoltre, subordinava la validità delle leggi all’approvazione del collegio cardinalizio. Sul nuovo corso della politica italiana, tuttavia, si abbatté di lì a poco l’esplosione rivoluzionaria che investì l’Europa negli anni 1848-49 mettendo a nudo le debolezze di tutte le correnti del rinnovamento italiano, dai liberali moderati ai democratici repubblicani. [314471] La rivoluzione scoppiata a Vienna il 13 marzo 1848 e la caduta di Metternich ebbero quale effetto di radicalizzare l’opinione pubblica italiana, spingendo altresì le forze democratiche repubblicane a prendere l’iniziativa di una lotta risoluta contro l’Austria, anzitutto nel Lombardo-Veneto. A Venezia, una grande manifestazione popolare chiese e ottenne il 17 marzo la liberazione di D. Manin e N. Tommaseo, arrestati nel gennaio. Ma la prima grande insurrezione antiaustriaca scoppiò a Milano allorquando borghesi, operai e artigiani ingaggiarono una lotta armata contro le truppe del maresciallo Radetzky, riuscendo a cacciarle dopo cinque giorni di combattimenti (18-22 marzo). Anche nei ducati di Parma e Modena i sovrani vennero deposti. Queste insurrezioni creavano un vuoto di potere e mettevano i sovrani di fronte all’alternativa di scegliere fra l’Austria e le forze insurrezionali. E proprio l’atteggiamento da tenere nei confronti dei sovrani, specialmente di Carlo Alberto, fece emergere i contrasti latenti all’interno del movimento per l’indipendenza nazionale. A Milano, dove venne formato un governo provvisorio, i nobili moderati guardavano a un intervento di Carlo Alberto come all’unica possibilità di dare alla lotta contro l’Austria un carattere conservatore. Cattaneo pensava invece che la lotta per l’indipendenza non dovesse nascere con l’ipoteca rappresentata dai fini espansionistici di casa Savoia. Mazzini, dal canto suo, aveva accantonato la pregiudiziale repubblicana mettendo in primo piano il comune obbiettivo della vittoria contro gli Austriaci. In questo clima di incertezza maturò la decisione di Carlo Alberto di dichiarare guerra all’Austria. Lo spinsero a questo passo non solo le manifestazioni popolari scoppiate nel regno a favore dell’intervento, ma anche la speranza di poter al più presto liberare la penisola dalla tutela asburgica, arrivando alla formazione di quel regno dell’alta Italia che era nelle aspirazioni tradizionali di casa Savoia, e il timore, dopo la proclamazione della Repubblica di Venezia (22 marzo), di un eccessivo rafforzamento delle forze politiche più radicali. Carlo Alberto si mosse il 23 marzo e il 26 entrò in Milano in un clima di generale entusiasmo patriottico. I sovrani di Toscana, Roma e Napoli inviarono contingenti militari cui si affiancarono gruppi di volontari, ma sotto l’apparente unità di intenti degli stati italiani, sanzionata dall’autorità morale del papa, si celavano aspri contrasti. Carlo Alberto, ansioso di volgere a proprio vantaggio l’andamento della crisi, suscitò le diffidenze di tutti: della Toscana e dello Stato pontificio, perché contravvenendo agli accordi presi per l’attuazione della lega doganale ne chiese la trasformazione in una intesa militare; dei milanesi, per le pressioni esercitate dai suoi emissari affinché si pronunciassero per l’unione della Lombardia con il Piemonte prima della fine della guerra; del movimento indipendentista, per la sua tiepidezza verso l’apporto dei volontari, da lui considerato un ostacolo alla piena libertà di azione sia militare sia politica. Una simile linea avrebbe avuto una sua efficacia unicamente nel quadro di una supremazia militare autonoma. L’esercito sardo, invece, non era in grado da solo di fronteggiare gli Austriaci. E quando la guerra “federalista”, in seguito al ritiro di Pio IX, di Leopoldo II e di Ferdinando II dalla coalizione, si trasformò in “guerra sabauda”, esso mostrò le sue debolezze. Dopo i primi successi militari culminati nella presa di Peschiera (30 maggio), cui seguirono quelli politici segnati dalle votazioni in favore dell’annessione al Piemonte di Milano, di Parma e Modena, del Veneto e, da ultimo, di Venezia, la situazione si capovolse. Agli inizi di luglio gli Austriaci avevano ormai una netta superiorità di uomini, armamenti e direzione strategica. Il 23-25 luglio l’esercito piemontese, attaccato da Radetzky, venne duramente sconfitto a Custoza, nei pressi di Verona, e indotto alla ritirata. Il 9 agosto il generale Salasco firmò a nome del re l’armistizio con l’Austria. Furono i democratici, a questo punto, ad assumere la direzione del movimento per l’indipendenza nazionale. Venezia rifiutò di arrendersi e organizzò la resistenza sotto la direzione di D. Manin. In Toscana, alla fine di ottobre, si costituì un governo democratico presieduto da G. Montanelli e con D. Guerrazzi al ministero degli Interni, che aveva quale programma la convocazione di una costituente italiana. Nel novembre, a Roma, dopo una grande manifestazione, i democratici furono chiamati al potere da Pio IX il quale, però, fuggì a Gaeta chiedendo la protezione di Ferdinando II. Anche a Roma il governo provvisorio accolse l’idea di una costituente italiana per stabilire l’assetto istituzionale della futura nazione. Nel frattempo si convocò la costituente romana che il 9 febbraio 1849 dichiarò la fine del potere temporale dei papi e proclamò la repubblica. L’avvento dei democratici al potere sia in Toscana sia a Roma indusse Mazzini a premere per la creazione di uno stato unico repubblicano. Ma il progetto fallì per l’opposizione decisa di Guerrazzi, contrario a qualsiasi ipotesi di unificazione. In Piemonte, intanto, fallita una mediazione anglo-francese per il riconoscimento da parte dell’Austria dei diritti sabaudi sull’alta Italia, Carlo Alberto si apprestava a riprendere la guerra, considerata necessaria per il prestigio e l’avvenire della dinastia. Trascinato dal parlamento e dall’opinione pubblica, il 12 marzo 1849 ruppe l’armistizio con l’Austria. Le operazioni militari ebbero un esito catastrofico. L’esercito piemontese fu rovinosamente sconfitto a Novara il 23 marzo. La sera stessa Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II (1848-78) e partì in incognito per il Portogallo, dove morì quattro mesi dopo. Il nuovo re ottenne dal maresciallo Radetzky condizioni di pace più favorevoli di quelle che avrebbe potuto ottenere il padre, responsabile della guerra. L’armistizio di Vignale (24 marzo) stabilì lo scioglimento dei corpi di volontari e l’occupazione austriaca di parte del Piemonte. Vittorio Emanuele II, che in effetti condusse le trattative al di fuori del parlamento, si impegnò con l’Austria ad avversare i democratici ponendo fine alla loro influenza, ma non revocò lo statuto. L’armistizio con l’Austria pose il movimento democratico in gravi difficoltà. A Genova un’insurrezione scoppiata tra la fine di marzo e i primi di aprile contro la fine della guerra venne repressa dal generale La Marmora che cannoneggiò la città. Brescia, sollevatasi negli stessi giorni contro gli Austriaci, subì una durissima reazione. In Toscana, dopo una parentesi di dittatura personale di Guerrazzi, i moderati ripresero il potere e invitarono il granduca a tornare rispettando la costituzione, ma gli Austriaci lo indussero a rifiutare. Ridotto a vassallo dell’impero asburgico, Leopoldo II rientrò a Firenze il 28 luglio e abrogò lo statuto. Resistevano ancora le repubbliche di Roma e di Venezia. La prima rappresentò il punto più alto per la coerenza della sua direzione politica, nella quale Mazzini rivelò determinazione e notevole abilità. In contrapposizione al tradizionale malgoverno dello Stato pontificio, i democratici repubblicani, con la costituzione del 3 luglio 1849, proclamarono la sovranità popolare, l’impegno dello stato a promuovere il benessere dei cittadini, l’autonomia delle amministrazioni locali, la libertà religiosa e il suffragio universale, l’appartenenza di tutti i cittadini alla guardia nazionale e il carattere volontario dell’esercito. Il governo progettò inoltre una riforma agraria basata sulla redistribuzione dei beni ecclesiastici che, anche se rimase inattuata, rappresentò il momento di maggiore apertura del movimento democratico sul piano sociale. Il destino della repubblica era però ormai segnato. Pio IX si era rivolto con successo alle potenze cattoliche per essere restaurato sul trono. Luigi Napoleone colse l’occasione per acquistare in Francia l’appoggio dei conservatori facendosi paladino della causa pontificia. Fu infatti l’esercito francese comandato dal generale Oudinot ad abbattere la repubblica, con l’aiuto di truppe inviate dal re di Napoli e dalla Spagna. A difesa di Roma accorsero con Garibaldi volontari da tutta l’Italia. La resistenza, cui partecipò la popolazione con grande coraggio, fu accanita, ma il 4 luglio, dopo un mese di assedio, si arrivò alla resa. Anche Venezia, presa d’assedio, proclamò il 2 aprile la resistenza a oltranza. La città, colpita da epidemie e dalla fame, resistette fino al 23 agosto, ma infine il 26 venne firmata la resa. [314481] Con la vittoria delle forze conservatrici in tutti gli stati in cui erano scoppiate le rivoluzioni del 1848-49, le possibilità di sviluppo in senso democratico furono bloccate. Da ciò le premesse per la ripresa politica del movimento di rinnovamento nazionale a partire dal liberalismo piemontese, rimasto l’unico punto di riferimento nel quadro di quella restaurazione antiliberale e antinazionale che si abbatté sull’Italia. Fra il 1848 e il 1860, infatti, attorno allo stato sardo si raccolse la parte più viva del movimento per l’indipendenza e l’unità nazionali, rafforzando un processo già iniziato con Carlo Alberto e divenuto successivamente più coerente e dinamico. Un fattore decisivo di questo processo fu senza dubbio rappresentato dalla nomina a ministro dell’Agricoltura, Commercio e Marina nel gabinetto d’Azeglio – lo stesso che aveva approvato nel febbraio del 1850 le cosiddette leggi Siccardi, dal nome del ministro della Giustizia, che aveva presentato il progetto sulla nuova legislazione ecclesiastica – di Camillo Benso conte di Cavour, un deputato distintosi nella discussione parlamentare sulle leggi Siccardi ed emerso quale capo della maggioranza moderata. Il programma presentato dal Cavour mirava sul piano economico-sociale a favorire lo sviluppo di un moderno capitalismo attraverso l’alleanza tra aristocrazia e borghesia nel quadro di un regime liberale parlamentare; sul piano politico al raggiungimento dell’indipendenza nazionale sotto la guida dello stato sardo, allargatosi fino a costituire quel regno dell’alta Italia che era uno degli obbiettivi tradizionali della diplomazia sabauda. In qualità di ministro per l’Agricoltura e il Commercio, Cavour, con la firma di trattati commerciali ispirati a una politica liberistica, cercò di inserire l’economia del regno in quella dell’Europa. Inoltre procedette alla riorganizzazione dell’amministrazione finanziaria dello stato. Ma la sua personalità politica andò nettamente delineandosi nella battaglia parlamentare in difesa della libertà di stampa contro gli ambienti più conservatori i quali, incoraggiati dalla svolta autoritaria impressa da Luigi Napoleone in Francia, tentavano di svuotare le istituzioni liberali. In occasione di questa battaglia avvenne l’avvicinamento tra le forze di “centro-destra”, guidate da Cavour, e quelle di “centro-sinistra” guidate da U. Rattazzi. Si ebbe così quello che è passato alla storia come il “connubio”, cioè un’alleanza politica e parlamentare che, isolando la destra più conservatrice e la sinistra democratica radicale sulla base di un programma liberale orientato al conseguimento dell’indipendenza nazionale e alla promozione del progresso civile, sanciva la formazione di un blocco sociale organico formato dall’aristocrazia più avanzata e dalla borghesia. Mentre in Piemonte il liberalismo riusciva a superare il difficile periodo del dopoguerra, nel resto d’Italia si ebbe una ripresa del movimento per l’indipendenza dietro l’impulso di Mazzini, convinto, come la maggior parte dei democratici europei, che si fosse alle soglie di una nuova ondata rivoluzionaria internazionale e che questa avrebbe coinvolto i paesi oppressi come l’Italia, l’Ungheria, la Germania e la Polonia, uniti nella Santa Alleanza dei popoli. Sul piano pratico, Mazzini, tra il 1850 e il 1852, si gettò in una intensa opera di riorganizzazione della rete clandestina. Nella sua strategia, la nuova ondata insurrezionale avrebbe dovuto ripartire dalla Lombardia, da dove si sarebbe estesa all’Italia centrale e meridionale e, quindi, all’intero continente europeo. Di fatto, l’insurrezione di Milano del 6 febbraio 1853, tentata da Mazzini nonostante la macchina poliziesca austriaca avesse già compromesso la rete mazziniana nel Lombardo-Veneto, fu un completo fallimento che portò a centinaia di arresti e a 15 impiccagioni. A questo insuccesso Mazzini reagì intensificando gli sforzi organizzativi e fondando il Partito d’azione, che aveva quali obbiettivi l’unità e la repubblica. Incontrò però il disaccordo delle correnti mazziniane di destra, che intendevano dare la priorità alla lotta per l’indipendenza senza la pregiudiziale antimonarchica, finendo col favorire la convergenza di queste con il liberalismo cavouriano. Una critica serrata all’impostazione di Mazzini venne anche da quei democratici più vicini alle correnti socialiste, come Ferrari e, in maniera ancora più netta, C. Pisacane, i quali ritenevano che il successo della lotta per l’indipendenza fosse legato a un allargamento della base del movimento, cioè alla “questione sociale” e, innanzitutto, alla soluzione della “questione agraria”. Per Pisacane, in particolare, proprio la mancanza di un moderno sviluppo capitalistico, che aveva quale conseguenza la debolezza degli strati borghesi e la persistente miseria delle masse popolari, rendeva possibile il collegamento della rivoluzione nazionale con quella sociale. In realtà, tutti gli sforzi per far nascere una nuova formazione politica a sinistra di Mazzini furono delusi. Andava invece delineandosi con chiarezza la strategia di Cavour, nominato presidente del Consiglio nel novembre 1852, tesa a creare le condizioni interne ed esterne per il conseguimento dei suoi obbiettivi. Gli elementi essenziali di tale strategia, che mirava all’ammodernamento e alla progressiva laicizzazione dello stato, allo sviluppo economico e a una alterazione dell’assetto istituzionale-statuale della penisola a favore della formazione di un regno dell’alta Italia erano: in politica interna, il contenimento dell’influenza della destra più conservatrice e clericale sulla vita politica, la limitazione dei poteri di intervento della corona sul governo, l’assorbimento delle tendenze più moderate del movimento democratico nella politica governativa e la repressione di quelle radicali e repubblicane e, sul versante economico, il consolidamento di una politica liberoscambista; in politica estera, l’inserimento del regno sardo nell’arena internazionale, il rafforzamento dei legami con la Gran Bretagna e la Francia, la costruzione di una alleanza militare con quest’ultima in funzione anti-austriaca e l’affermazione del primato sabaudo-piemontese in Italia. La prima grave questione che Cavour dovette affrontare nella sua qualità di primo ministro riguardò il provvedimento di confisca di beni dei profughi politici della Lombardia e del Veneto, deciso dall’Austria nel febbraio 1853, come rappresaglia contro il tentativo di rivolta mazziniano. Cavour reagì richiamando l’ambasciatore piemontese a Vienna e facendo votare un contributo finanziario agli esuli. Le elezioni del dicembre dello stesso anno diedero una forte maggioranza al centro rafforzando Cavour sul piano parlamentare. Il che gli permise di far fronte a due problemi che avrebbero potuto travolgerlo politicamente: la linea da tenere di fronte alla guerra di Crimea e un nuovo capitolo nella storia dei rapporti tra Stato e Chiesa. Per quanto riguarda il primo, Cavour cedette alle pressioni di Francia e Gran Bretagna che, desiderose di coinvolgere l’Austria nella guerra contro la Russia, intendevano rassicurarla che il Piemonte non ne avrebbe approfittato per una azione contro il Lombardo-Veneto; e il 4 marzo 1855 entrò in guerra a fianco delle prime. La successiva decisione dell’Austria di non schierarsi contro la Russia consentì a Cavour di raccogliere frutti insperati da questa partecipazione. Il secondo problema si pose al momento della discussione di un progetto di legge presentato da Rattazzi e appoggiato da Cavour, che prevedeva la soppressione di alcuni ordini religiosi e il passaggio dei loro beni all’amministrazione dello stato. La destra, sostenuta da una dura presa di posizione di Pio IX e dall’opposizione del re alla legge, tentò al senato, dove era più forte, di far ritirare la legge, già approvata alla camera, in cambio di un consistente contributo finanziario allo stato. La sconfitta di Cavour avrebbe rappresentato un duro colpo per la sua politica, segnando una affermazione della destra e dell’intervento personalistico del re. Il governo reagì allora rassegnando le dimissioni che provocarono una forte reazione liberale (aprile 1855). Dopo di che il re, constatata l’impossibilità di formare un nuovo governo, dovette ridare l’incarico a Cavour. La legge venne approvata il 23 maggio 1855 con alcuni emendamenti. Conclusasi positivamente questa vicenda interna, Cavour si trovò ad affrontare le questioni connesse con la fine della guerra di Crimea, cui il Piemonte aveva partecipato con un corpo di spedizione guidato dal generale A. La Marmora. Al congresso di pace, apertosi a Parigi nel febbraio 1856, grazie all’appoggio di Francia e Gran Bretagna Cavour venne ammesso alle trattative su un piede di parità con le altre potenze e da qui, cogliendo l’occasione di una discussione sulla situazione dell’Italia (8 aprile 1856), denunciò l’occupazione militare delle Legazioni pontificie da parte degli Austriaci e si fece difensore, presso l’opinione pubblica internazionale, dell’egemonia piemontese, presentata come l’unica alternativa valida alla rivoluzione e al malgoverno soprattutto dello Stato pontificio e del regno delle Due Sicilie. Cavour mirava a ottenere l’appoggio delle potenze, soprattutto della Francia di Napoleone III, in vista di eventuali mutamenti sulla scena italiana. Ma, al contempo, avvertiva la necessità di affermare la supremazia del liberalismo sabaudo nel movimento per l’indipendenza nazionale. Un passo in questa direzione fu la nascita nel 1857 della Società nazionale, creata per iniziativa del veneto D. Manin, del lombardo G. Pallavicino e del siciliano G. La Farina allo scopo di unire democratici moderati e liberali filo-piemontesi verso il comune obbiettivo dell’unità. L’accettazione della monarchia costituiva il trait d’union tra le due componenti. La società accrebbe enormemente il suo prestigio con l’adesione di Garibaldi, che ne divenne in seguito vicepresidente: Cavour poté quindi contare su una rete cospirativa inserita nella strategia piemontese. Per contro, una crisi assai grave investì il Partito d’azione dopo il fallimento della spedizione nel Mezzogiorno (giugno-luglio 1857) di C. Pisacane il quale, con l’accordo non solo di Mazzini, ma anche di Pallavicino e di La Farina, aveva sperato di sollevare i contadini meridionali contro Ferdinando II e di rilanciare a partire dal Napoletano il movimento insurrezionale. L’esito disastroso della spedizione, attirando critiche pesantissime su Mazzini e sulla sua organizzazione, ebbe quale effetto di rafforzare ulteriormente la linea della Società nazionale e quella di Cavour. Il 1857 fu un anno importante non soltanto per gli avvenimenti sopra ricordati, ma anche perché segnò una svolta tanto nella politica interna al regno sardo quanto in quella dell’Austria nei confronti dei possedimenti italiani. Nel regno sardo entrò in crisi la formula del connubio fra centro e sinistra. Le elezioni tenutesi in novembre diedero la maggioranza alla destra indebolendo la maggioranza cavouriana. Cavour ne trasse le conseguenze bloccando alcune riforme e inducendo Rattazzi, ministro dell’Interno, alle dimissioni nel gennaio 1858. In Austria, in concomitanza con la messa a riposo del maresciallo Radetzky e la nomina a governatore del regno Lombardo-Veneto del fratello di Francesco Giuseppe, Massimiliano, si impose un nuovo corso improntato a una politica di moderazione e di apertura verso l’opposizione moderata. Ciò non contribuì a migliorare le relazioni con il regno sabaudo, che erano state interrotte nel marzo 1857, in seguito alle polemiche prese di posizione della stampa subalpina nei confronti della visita nel Lombardo-Veneto di Francesco Giuseppe. Al contrario, dopo l’attentato dell’ex mazziniano Felice Orsini a Napoleone III (14 gennaio 1858), vennero intensificati i rapporti tra il Piemonte, impegnatosi a combattere le vie della cospirazione politica, e la Francia, intenzionata a sostituire a quella dell’Austria la propria influenza sulla penisola, fino alla conclusione di un’alleanza militare in funzione anti-austriaca. Un incontro segreto a Plombières nei Vosgi tra Napoleone III e Cavour il 20-21 luglio 1858 definì gli scopi comuni. I due stati avrebbero provocato una guerra con l’Austria, facendola apparire come un’aggressione al Piemonte in modo tale da legittimare la richiesta di aiuto di quest’ultimo alla Francia nell’ambito di un’alleanza a carattere difensivo. Dopo la vittoria, l’assetto dell’Italia avrebbe dovuto essere il seguente: un regno dell’alta Italia sotto casa Savoia che avrebbe acquistato la Lombardia, il Veneto, l’Emilia e la Romagna; un regno dell’Italia centrale formato dalla Toscana e dai domini del pontefice, cui sarebbe rimasta la sovranità su Roma e i dintorni; un regno dell’Italia meridionale che avrebbe avuto i confini del regno delle Due Sicilie. Il regno sardo, quale compenso dell’aiuto ricevuto, avrebbe ceduto alla Francia Nizza e la Savoia. Al papa sarebbe andata inoltre la presidenza della costituenda confederazione fra gli stati italiani. Il matrimonio tra Gerolamo Napoleone, cugino dell’imperatore, e la figlia di Vittorio Emanuele II, Clotilde, doveva sanzionare l’alleanza, che venne siglata dai due sovrani tra il 24 e il 26 gennaio 1859, dopo che Napoleone III aveva fatto conoscere il suo disappunto per il deterioramento dei rapporti con gli Austriaci e Vittorio Emanuele II proclamato, nel discorso della corona, di non essere insensibile al “grido di dolore” che dall’Italia si levava verso il Piemonte. [314491] Il piano di una conferenza europea sulla questione italiana, caldeggiata dalla Gran Bretagna, parve a un certo punto fermare Napoleone III. Ma la decisione austriaca di rivolgere un ultimatum al Piemonte che armava con deliberata ostentazione volontari e costituiva, agli ordini di Garibaldi, il corpo dei cacciatori delle Alpi consentì all’alleanza di scattare. Il 26 aprile 1859, giorno in cui Cavour respinse l’ultimatum, ebbe inizio la seconda guerra di indipendenza. Le operazioni, poste sotto il comando supremo di Napoleone III, si conclusero entro giugno con la sconfitta degli Austriaci nelle battaglie decisive di Solferino contro i Francesi e di San Martino (24 giugno) contro i Piemontesi. Le ripercussioni della guerra e le vittorie degli alleati determinarono l’insurrezione delle regioni centrali, ma la presenza al loro interno di una forte componente favorevole all’annessione col Piemonte conferì agli avvenimenti una piega in contrasto con gli accordi di Plombières e quindi sgradita a Napoleone III. Questi decise unilateralmente di porre fine alla guerra in Italia e concluse l’11 luglio con l’Austria l’armistizio di Villafranca, in base al quale la Lombardia veniva ceduta alla Francia che l’avrebbe a sua volta ceduta al Piemonte, declassato in tal modo a partner di secondo rango; Mantova e Peschiera con le loro fortezze restavano in mano austriaca mentre nell’Italia centrale venivano ristabilite le autorità legittime. Vittorio Emanuele II accolse di buon grado una soluzione che ingrandiva il suo stato della regione più progredita d’Italia. Cavour, invece, rendendosi conto che l’accordo di Villafranca sarebbe stato inaccettabile sia per la Società nazionale sia per i repubblicani e che ciò avrebbe rilanciato il prestigio di Mazzini, protestò energicamente e diede le dimissioni il 13 luglio. Il 10 novembre i preliminari di Villafranca furono trasformati nella pace, firmata a Zurigo senza che venisse presa alcuna decisione concreta circa il futuro assetto dell’Italia centrale. Il 21 gennaio del 1860, dietro le pressioni francese e inglese, Cavour fu richiamato al potere. Approfittando di una svolta nella politica di Napoleone III, il quale, considerando politicamente dannoso reprimere con la forza il movimento che aveva egli stesso contribuito a suscitare nell’Italia centrale, fece pubblicare un opuscolo anonimo favorevole a una drastica riduzione dello Stato pontificio, Cavour decise di passare all’annessione delle regioni insorte. L’11 e il 12 marzo la Toscana, l’Emilia e i ducati espressero con un plebiscito la loro volontà di unione al regno di Sardegna. Il 15 aprile, sempre dopo i plebisciti, Nizza e la Savoia venivano cedute alla Francia. Mentre nell’Italia centro-settentrionale si svolgevano questi avvenimenti, nel regno delle Due Sicilie maturava la crisi definitiva. La morte di Ferdinando II e l’ascesa al trono del figlio Francesco II (1859-60) non contribuirono in alcun modo a migliorare i rapporti tra le forze liberali moderate e la dinastia; il re, infatti, bloccò ogni tentativo di rinnovamento delle istituzioni in senso parlamentare. In un simile quadro, il Partito d’azione, cui Garibaldi si era riavvicinato, ritrovò un proprio spazio di azione assumendo l’iniziativa di una spedizione nel Mezzogiorno a partire, questa volta, dalla Sicilia, dove esistevano condizioni più favorevoli al successo di una insurrezione sia per la tradizione antiborbonica e separatista sia per la migliore organizzazione della rete cospirativa sia, infine, per la possibilità di un ampio appoggio popolare. Un ruolo importante nella preparazione della spedizione ebbero gli esuli R. Pilo e F. Crispi: il primo recandosi in Sicilia a organizzare il movimento dopo la rivolta scoppiata, e sanguinosamente repressa, a Palermo (aprile 1860); il secondo, adoperandosi per guadagnare alla causa Garibaldi. I preparativi della spedizione, segretamente appoggiata da Vittorio Emanuele II dopo le rassicurazioni di Garibaldi sugli obbiettivi, si svolsero con l’opposizione di Cavour. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, un migliaio di garibaldini approssimativamente equipaggiati salparono con due navi da Quarto, nei pressi di Genova, alla volta della Sicilia dove giunsero l’11 maggio. Accolto con entusiasmo dalle popolazioni contadine, che vedevano in lui un “liberatore” anche sociale, Garibaldi poté contare sul loro appoggio e sulla inefficienza dell’esercito borbonico. A Calatafimi i Mille ottennero una prima importante vittoria, quindi puntarono su Palermo, che venne formalmente liberata il 6 giugno. Travolto dalle circostanze, Francesco II cercò di guadagnare alla propria causa i liberali moderati concedendo la costituzione del 1848; ma era ormai troppo tardi. Dopo un’aspra battaglia sostenuta a Milazzo, l’isola, fatta eccezione per la cittadella di Messina, venne liberata (20 luglio). Di fronte ai successi di Garibaldi, la politica di Cavour ebbe una svolta significativa. Tenendo conto del favore con cui Gran Bretagna e Francia guardavano agli avvenimenti del Mezzogiorno d’Italia, egli acconsentì all’invio di uomini e armi in Sicilia al fine da un lato di contribuire alla vittoria militare, dall’altro di condizionare Garibaldi e porre le basi per l’annessione della Sicilia al Piemonte. Il piano di Cavour urtava contro quello di Garibaldi: questi intendeva fare dell’isola la base per il proseguimento dell’impresa fino alla liberazione di Napoli e di ciò che restava dello Stato pontificio; quello temeva che il prestigio venuto ai democratici da un eventuale successo avrebbe potuto rimettere in discussione l’assetto politico-istituzionale del futuro stato italiano, che egli intendeva dovesse invece configurarsi come allargamento territoriale di quello sardo e delle sue strutture politiche e amministrative. Un tentativo di Cavour di organizzare un moto moderato a Napoli, che proclamasse l’annessione immediata al Piemonte precedendo l’arrivo di Garibaldi, fallì. A questo punto, in parte per realismo politico, in parte perché conquistato all’idea dell’unificazione italiana, Cavour rinunciò a opporsi alla guerra di liberazione. Mentre Garibaldi sbarcava in Calabria per entrare trionfalmente in Napoli il 7 settembre 1860 accolto come liberatore, egli, con l’appoggio di Napoleone, riprendeva in mano l’iniziativa, facendo occupare dall’esercito sardo le Marche e l’Umbria. Il conflitto tra Garibaldi e Cavour si fece acutissimo. Il primo chiese a Vittorio Emanuele II il licenziamento di Cavour. Il secondo, preoccupato dalla ripresa politica del Partito democratico – in settembre Mazzini e Cattaneo erano arrivati a Napoli – il cui programma era l’Assemblea costituente e la guerra per la liberazione di Roma, era deciso a imporre la propria soluzione. Nei giorni del 1°-2 ottobre Garibaldi ottenne la sua più grande vittoria nella battaglia sul Volturno. Il 3 le truppe piemontesi, guidate personalmente dallo stesso re, si misero in marcia verso il Mezzogiorno, mentre Cavour faceva approvare dalla camera una legge sull’annessione incondizionata delle terre liberate. La linea cavouriana venne attivamente sostenuta dalle classi dominanti meridionali, che considerarono l’annessione come una garanzia per la salvaguardia dei rapporti sociali esistenti. Per contro, la delusione delle classi contadine, che avevano appoggiato i garibaldini sperando che la cacciata dei Borboni avrebbe coinciso con l’avvio di un processo di emancipazione dalla miseria e dallo sfruttamento, fu grave e destinata ad alimentare quella vera e propria guerra sociale che passò sotto il nome di “brigantaggio”. Il 21 ottobre 1860 ebbero luogo, nei territori dell’ex regno delle Due Sicilie, i plebisciti che sanzionarono l’annessione. L’incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele II del 26 ottobre a Teano segnò il passaggio dei poteri nelle regioni meridionali dalle autorità garibaldine a quelle piemontesi. Il 4 novembre si tennero i plebisciti per l’annessione delle Marche e dell’Umbria e poco dopo cadevano le ultime roccaforti della resistenza borbonica. Garibaldi si ritirò allora sull’isola di Caprera, dopo aver manifestato la sua volontà di continuare la lotta fino alla liberazione di Venezia e di Roma. Il 17 marzo 1861 il primo parlamento nazionale proclamò a Torino Vittorio Emanuele II re d’Italia. Cavour e i liberali moderati avevano così vinto la loro battaglia su quel Partito d’azione che era stato capace di assumere l’iniziativa della spedizione dei Mille, ma non aveva potuto reggere il confronto politico e sociale con le assai più organiche forze guidate dallo stato piemontese. [3144101] I problemi che si presentavano al nuovo stato unitario erano di enorme portata. Il primo, e in un certo senso preliminare, era il passaggio dall’unificazione politica a quella amministrativa, attraverso un processo di omogeneizzazione delle leggi e degli apparati civili e militari. In secondo luogo, occorreva elaborare una politica di sviluppo che tenesse conto delle differenze socio-economiche esistenti tra le diverse regioni e della complessiva arretratezza dell’intera nazione rispetto a quelle più progredite dell’Europa. In terzo luogo, si doveva dare una salda direzione politica a un paese attraversato da gravi tensioni politiche e sociali (si pensi, per es., al problema del rapporto Nord-Sud, al brigantaggio e ai tentativi degli agenti borbonici e clericali di imprimere al risentimento delle masse contadine una direzione antiunitaria, al conflitto tra cattolici e liberali). Infine, era necessario trovare una soluzione al difficile rapporto con la Chiesa; riuscire a strappare il Veneto all’Austria; trovare una conveniente collocazione nella politica internazionale, in una fase storica di grandi trasformazioni. L’Italia, infatti, si presentava sulla scena europea come uno stato politicamente giovane, economicamente arretrato, complessivamente in ritardo nel processo di modernizzazione: ultima delle maggiori potenze del continente, prima tra quelle di secondo rango. Cavour, l’impareggiabile capo del Partito liberale moderato negli anni decisivi del Risorgimento, morì a Torino il 6 giugno 1861 senza che nessuna delle personalità più eminenti della sua corrente potesse avvicinarglisi per le qualità di statista. La preoccupazione principale dei moderati fu quella di costruire un apparato di controllo politico e amministrativo affidabile ed efficiente: i prefetti e i sindaci nominati dal centro divennero il simbolo della volontà unitaria dello stato. Gli eredi di Cavour furono quelli che formavano la Destra, in seguito definita “storica”, dello schieramento parlamentare. Ne facevano parte conservatori moderati, per lo più del Nord e del Centro, che intendevano l’unità nazionale e la formazione del nuovo stato come una missione storica da realizzare nel quadro di una difesa intransigente degli interessi delle classi alte. Alla Destra si contrapponeva una Sinistra, erede della democrazia risorgimentale e divisa al suo interno in varie correnti, la quale, ridotta la repubblica a una alternativa più ideologica che concreta, premeva per una estensione del suffragio e, più in generale, dei diritti di cittadinanza alle masse popolari. Dal punto di vista della loro organizzazione interna, le due formazioni (a differenza dei partiti di tipo moderno) erano schieramenti di opinione i cui esponenti si legavano agli elettori attraverso le proprie “clientele” e, in occasione del rinnovo del parlamento, i propri comitati elettorali. A Cavour successe B. Ricasoli (giugno 1861 - marzo 1862), che proseguì senza successo i contatti avviati dal suo predecessore con Pio IX per indurlo a rinunciare al potere temporale e ad accettare un regime di separazione tra Stato e Chiesa. Di fronte alle pressioni congiunte di garibaldini e mazziniani da una parte, e del re dall’altra, a favore di una politica meno timorosa delle complicazioni internazionali e in grado di portare a compimento l’unità, Ricasoli si dimise lasciando il potere a U. Rattazzi (marzo-dicembre 1862), apertamente sostenuto da Vittorio Emanuele II. Questi pensò di poter sfruttare, riprendendo le linee della strategia cavouriana, l’iniziativa di Garibaldi verso il Veneto e Roma senza compromettere direttamente lo stato. Ma il gioco non era ripetibile sia per l’ostilità di Napoleone III, ansioso di farsi perdonare dai clericali francesi l’appoggio dato ai Piemontesi nel 1859, sia per l’impossibilità per l’Italia di sostenere da sola una guerra con l’Austria. Se ne accorse lo stesso Rattazzi, il quale tentò di far marcia indietro, facendo sciogliere con la forza (15 maggio 1862) le truppe che Garibaldi aveva cominciato a raccogliere per liberare il Veneto. Questi allora si diede a preparare un’azione in direzione di Roma, che era stata solennemente proclamata capitale dal parlamento italiano il 27 marzo 1861, recandosi in Sicilia dove lo raggiunsero volontari da tutta Italia. Napoleone III protestò energicamente e Vittorio Emanuele, temendo che un eventuale successo portasse a una ripresa del movimento democratico, sconfessò la spedizione e decretò lo stato d’assedio in Sicilia. Garibaldi con il suo esercito riuscì egualmente a sbarcare in Calabria, da dove intraprese la marcia verso il Nord. Il governo ordinò alle truppe di fermare i volontari con la forza e i soldati, incontratisi il 29 agosto con i garibaldini sull’Aspromonte, aprirono il fuoco: nello scontro vi furono morti e feriti. Lo stesso Garibaldi, che aveva fatto di tutto per scongiurare una tale evenienza, fu ferito e arrestato. La reazione dell’opinione pubblica fu però tale da indurre Rattazzi alle dimissioni. Dopo un breve ministero Farini, il nuovo capo del governo, M. Minghetti (marzo 1863-settembre 1864), negoziò con la Francia un compromesso su Roma che rispondeva alla duplice esigenza di trovare un accomodamento con Napoleone III da una parte e dall’altra di spuntare un’arma nelle mani del Partito d’azione. Il 15 settembre 1864 i due governi sottoscrissero la cosiddetta convenzione di settembre, in base alla quale l’Italia si impegnava a difendere lo Stato pontificio da qualsiasi attacco esterno; la Francia dal canto suo s’impegnava a ritirare le proprie truppe entro due anni. Come segno della rinuncia italiana a ogni pretesa su Roma, l’imperatore chiese che la capitale venisse fissata in un’altra città, che poi risultò essere Firenze. La decisione di spostare la capitale altrove provocò a Torino, che si considerava la capitale del Risorgimento, disordini repressi così duramente da provocare una trentina di morti e oltre cento feriti (21-22 settembre). Come Rattazzi dopo l’Aspromonte, così Minghetti dopo i fatti di Torino dovette lasciare il potere che passò nelle mani del generale A. La Marmora (settembre 1864-giugno 1866) sotto il cui governo si ebbe il trasferimento della capitale a Firenze (giugno 1865). Nel dicembre 1866 le truppe francesi lasciarono definitivamente lo Stato pontificio. Importanti avvenimenti erano nel frattempo maturati sul versante delle relazioni con l’Austria. Durante il governo Minghetti era venuta dalla Prussia l’offerta di un’alleanza militare contro l’Austria vista con favore da Napoleone III il quale, ignaro dei mutamenti intervenuti nei rapporti di forze tra le due potenze germaniche, sperava di trarre vantaggio dal loro reciproco indebolimento. Firmata l’8 aprile 1866, l’alleanza scattò nel giugno con l’attacco all’Austria deciso da Bismarck, l’allora primo ministro prussiano. La guerra, mentre segnò il trionfo dei Prussiani, si rivelò un disastro per l’esercito e la flotta italiani i quali, nonostante la superiorità di uomini e mezzi, andarono incontro a brucianti sconfitte per la cattiva direzione e la mediocre organizzazione di cui diedero prova. La Marmora, che aveva lasciato la direzione del governo a Ricasoli (giugno 1866-aprile 1867) per assumere il comando delle operazioni, e il generale Cialdini, comandante dell’esercito, non riuscirono a coordinare i movimenti delle truppe e furono gravemente battuti a Custoza il 24 giugno. Dal canto suo l’ammiraglio Persano, a capo di una flotta più numerosa e meglio armata di quella austriaca, venne sconfitto a Lissa il 20 luglio. Solo i volontari guidati da Garibaldi riuscirono a riportare una vittoria a Bezzecca, nel Trentino, il 21 luglio. Terminata la guerra per le vittorie prussiane, il 12 agosto venne firmato l’armistizio di Cormons fra l’Italia e l’Austria. Con la pace di Vienna (3 ottobre), l’Austria cedette il Veneto all’Italia ma, come già nel 1859, tramite la Francia per umiliare un paese vincitore grazie alle armi altrui. L’esito della guerra provocò aspre polemiche. Contro il governo si pronunciarono le opposizioni parlamentari, Mazzini e in generale i democratici repubblicani, i cattolici ostili a uno stato considerato “nemico del papa”. Garibaldi e il Partito d’azione videro nell’incapacità dei generali monarchici la conferma del fatto che l’iniziativa per la liberazione di Roma dovesse tornare alle forze extra-governative e si accinsero a preparare nella capitale una insurrezione che potesse legittimare l’intervento dei volontari. Rattazzi, tornato al potere (aprile-ottobre 1867), non si sbilanciò ufficialmente, anche se un’insurrezione a Roma, non contemplata dalla convenzione di settembre, avrebbe potuto costituire un modo per risolvere la questione romana aggirando gli accordi con la Francia. Comunque, egli non poteva permettere attacchi dall’esterno. Fece quindi arrestare platealmente Garibaldi a Sinalunga il 24 settembre 1867 nel mezzo dei preparativi per la spedizione, ma non ostacolò la penetrazione dei volontari nello Stato pontificio, provocando la reazione di Napoleone III che minacciò di intervenire. Rattazzi fu costretto a dimettersi, ma nel frattempo Garibaldi sbarcò in Toscana da Caprera, dove si trovava in residenza sorvegliata, per mettersi a capo dei volontari. Gli avvenimenti presero però una piega sfavorevole. Il 22 ottobre fallì a Roma quella insurrezione che avrebbe dovuto giustificare politicamente l’aiuto militare dei garibaldini. Garibaldi non rinunciò all’impresa e penetrò con le sue forze nei domini pontifici in un clima di incertezza e di confusione che provocò molte diserzioni. Il re, posto di fronte alla realtà dell’intervento francese, sconfessò allora la sua azione e formò un governo di estrema destra presieduto dal generale L. F. Menabrea (ottobre 1867-dicembre 1869), il quale fece arrestare Garibaldi, uscito sconfitto da uno scontro con le truppe francesi, armate con moderni fucili di nuovo tipo, a Mentana il 3 novembre. La liberazione di Roma divenne possibile soltanto con la caduta di Napoleone III in seguito alla guerra tra Francia e Prussia scoppiata nel 1870. Fu infatti dopo la proclamazione della repubblica francese, e non senza aver tentato inutilmente di trovare un accordo con Pio IX per porre fine pacificamente al potere temporale della Chiesa, che le truppe italiane, comandate dal generale R. Cadorna, dopo un breve cannoneggiamento a Porta Pia entrarono in Roma occupandola il 20 settembre 1870. Pio IX, protestando contro lo stato usurpatore, si ritirò nel Vaticano. Il 2 ottobre un plebiscito sanzionò il fatto compiuto. Nel luglio 1871 la corte e il governo si trasferirono nella nuova capitale. L’atteggiamento di chiusura del papa pose il governo italiano nella necessità di definire unilateralmente i rapporti con la Chiesa. Ciò avvenne con la legge delle guarentigie, votata il 13 maggio 1871 e non riconosciuta dalla controparte. Con questa legge, che si richiamava al principio cavouriano della separazione tra Stato e Chiesa, veniva pienamente tutelata la libertà religiosa dei cattolici; si riconosceva l’extra-territorialità dei palazzi del Vaticano, del Laterano e della villa di Castelgandolfo; si assegnava alla Santa Sede una dotazione pari a quella di cui godeva al tempo del potere temporale; si assicurava l’inviolabilità della persona del pontefice, il libero esercizio del suo potere spirituale e la possibilità di comunicare con l’Italia e con l’estero; veniva infine ribadita la piena indipendenza del clero da ogni controllo regio, fatte salve alcune limitazioni in materia economica. La legge delle guarentigie, anche se respinta dalla Santa Sede, venne applicata dallo stato italiano in modo rigoroso, cosicché la Chiesa poté continuare nella sua protesta, senza però poter credibilmente presentarsi come perseguitata. Compiuta l’unità nazionale l’Italia si volse quindi ad affrontare i molti problemi che le stavano di fronte. La questione del brigantaggio, che era stata l’espressione della rivolta dei contadini poveri del Mezzogiorno, strumentalizzata dai legittimisti borbonici e dai clericali, i quali avevano in parte finanziato i briganti cercando di imprimere una direzione politica reazionaria alla protesta sociale, venne affrontata in termini di difesa dell’unità dello stato contro la minaccia di restaurazione borbonica e quindi in termini militari. L’ampiezza della repressione può essere valutata tenendo presente che nel 1863 essa impegnava circa 120.000 soldati, vale a dire la metà di tutto l’esercito, e che tra i ribelli si ebbero migliaia di morti. La lotta contro il brigantaggio, almeno come fenomeno di massa, poté considerarsi chiusa nel 1865. Non cessarono però le rivolte tra le masse contadine meridionali, la cui avversione nei confronti dello stato crebbe per effetto della coscrizione obbligatoria e dell’inasprimento fiscale. Un’occasione per avviare a soluzione la questione del Mezzogiorno si presentò con la liquidazione delle terre ecclesiastiche e dei beni demaniali incamerati dal nuovo stato. Ma questo, anziché favorire la formazione di uno strato di piccoli e medi agricoltori, concedendo la terra ai contadini dietro rimborso differito, preferì un realizzo più rapido procedendo, dopo il 1866, a una vendita accelerata delle terre ai grandi proprietari che rafforzarono in tal modo la propria potenza economica e la propria influenza politica e sociale. Il “divorzio” tra contadini meridionali e stato si accentuò ulteriormente. Il problema del Mezzogiorno venne affrontato a partire dagli anni Settanta da studiosi liberali come P. Villari, S. Sonnino, G. Fortunato e L. Franchetti, i quali auspicarono una politica che avesse quali punti qualificanti la diminuzione della pressione fiscale, il sostegno agli investimenti produttivi, la lotta alla proprietà assenteista e il risanamento della vita pubblica. Ma l’effetto delle loro denunce e dei loro programmi fu pressoché nullo. Entro il 1865 venne altresì ultimata l’unificazione doganale, monetaria, finanziaria e amministrativa. Si trattò in realtà di una estensione all’intero paese della legislazione e degli ordinamenti del regno sardo, che non fu priva di inconvenienti, sia per la marcata diversità tra le regioni italiane sia per la relativa arretratezza di quel tipo di legislazione rispetto a quelle vigenti, per es., in Toscana o in Lombardia. Per quanto riguarda la politica economica, la Destra in corrispondenza col prevalere degli interessi agricoli all’esportazione dei prodotti della terra e all’importazione di macchinari e manufatti, si attenne a criteri rigorosamente liberistici, creando difficoltà notevoli ad ampi settori della debole industria interna. Ma la preoccupazione più forte fu quella del risanamento del deficit del bilancio e della diminuzione del debito pubblico, che vennero affrontati mediante il ricorso a una fortissima pressione fiscale, in larga misura indiretta e, di conseguenza, particolarmente gravosa per le masse popolari. Significativa di questa politica fu la famosa tassa sul macinato, introdotta nel luglio 1868, che colpiva un prodotto da cui dipendeva la sopravvivenza stessa degli strati più poveri e che diede origine a proteste e tumulti nel corso dei quali morirono oltre 250 persone. Gli effetti dell’inasprimento fiscale furono, in termini strettamente finanziari, positivi. Sotto la direzione di Q. Sella, ministro delle Finanze, i conti migliorarono rapidamente finché nel 1876, essendo presidente del Consiglio M. Minghetti, venne raggiunto il pareggio del bilancio. [3144111] La durezza della politica fiscale e il carattere ristretto del blocco politico-sociale che aveva consentito alla Destra di portare a compimento l’unificazione nazionale e di creare quel sistema istituzionale che, nelle sue linee fondamentali, sarebbe durato fino all’avvento del fascismo, finirono col suscitare un malcontento diffuso di cui seppe farsi portatrice la Sinistra cosiddetta giovane, in rappresentanza degli interessi tanto della piccola e media borghesia del Nord, che chiedeva riforme politiche e sociali, quanto dei proprietari e intellettuali meridionali, che aspiravano a una distribuzione del carico fiscale e della spesa pubblica che tenesse conto delle differenze regionali. Il programma di governo della Sinistra, enunciato nel novembre 1875 agli elettori del collegio di Stradella dal suo più autorevole esponente, Agostino Depretis, prevedeva: la difesa dello stato laico e la lotta al clericalismo; l’istruzione elementare obbligatoria; il decentramento amministrativo; la diminuzione e redistribuzione del carico fiscale a favore delle regioni meridionali. E quando il ministero Minghetti cadde su una questione di secondaria importanza il re affidò a Depretis l’incarico di formare il nuovo governo, che entrò in carica nel marzo 1876. Si parlò allora di una “rivoluzione parlamentare”, ma in realtà il passaggio dalla Destra alla Sinistra, al di là delle polemiche verbali, avvenne all’insegna della continuità. Infatti, una volta giunto al potere, Depretis, che governò il paese quasi ininterrottamente dal 1876 fino al 1887, attenuò sensibilmente il proprio programma di riforme, impegnandosi a far convergere attorno a sé gli uomini della Destra e a isolare con il loro contributo la nuova opposizione di sinistra, formata da repubblicani, radicali e dai primi socialisti. In un discorso dell’ottobre 1882, egli rivolse l’invito ai suoi oppositori a “trasformarsi” diventando progressisti. Questo invito, che venne ampiamente accolto a livello parlamentare, diede origine al fenomeno del trasformismo, vale a dire a quella pratica tesa ad assicurare ai governi la più larga maggioranza parlamentare, facendo confluire assieme gruppi appartenenti a diversi schieramenti politici. Le riforme introdotte nell’era di Depretis rispecchiarono la duplice esigenza di allargare la base del consenso sociale e di soddisfare istanze di progresso civile già affermate nei paesi più progrediti. Vennero così approvate la legge Coppino sull’obbligo scolastico di almeno due anni per tutti i bambini (1877) e la riforma elettorale (1882), che portava a circa due milioni gli aventi diritto al voto, escludendo gli analfabeti e i nullatenenti. Dal godimento restarono in conseguenza escluse in primo luogo le masse dei contadini, specie meridionali, prive dei requisiti per accedere al diritto di voto, e le donne. Un capitolo decisivo della politica economica fu costituito dall’introduzione, nel 1878 e nel 1887, di una legislazione protezionistica, rivolta a proteggere dalla concorrenza sia la giovane e fragile industria italiana del Nord sia, specialmente, la cerealicoltura arretrata del Sud; in tal modo fu rinsaldato il patto di alleanza politica e sociale fra la borghesia settentrionale e gli agrari meridionali. In politica estera la Sinistra seguì una strategia già delineata dalla Destra, che aveva le sue premesse nell’alleanza con la Prussia del 1866 e nelle tensioni con la Francia prima per la questione romana poi per quella di Tunisi. L’Italia, infatti, concluse il 20 maggio 1882 il trattato della Triplice Alleanza con Prussia e Austria in funzione essenzialmente antifrancese. Questo trattato ebbe ripercussioni significative sulla politica interna del paese, che vide il rafforzamento delle tendenze più conservatrici. Naturalmente, l’alleanza con l’Austria modificò l’atteggiamento del governo nei confronti dell’irredentismo, cioè del movimento di rivendicazione delle terre italiane ancora soggette alla dominazione asburgica (Trento, Trieste e l’Istria), che fu sottoposto a un più stretto controllo e, in alcuni momenti, anche soffocato. Proprio all’indomani della firma del trattato veniva impiccato il giovane triestino G. Oberdan, accusato di voler assassinare l’imperatore Francesco Giuseppe. Toccò, infine, a Depretis aprire un nuovo capitolo nella storia della giovane nazione, inaugurando una politica coloniale italiana. Favorevoli all’espansione coloniale furono da una parte alcuni settori politici e militari, che assistevano con crescente frustrazione alle conquiste inglesi e francesi, e dall’altra quegli ambienti industriali e armatoriali che contavano di trarre profitto dalle commesse militari e dal trasporto di truppe e materiali. Il colonialismo italiano, però, a differenza di quello inglese o francese, non fu l’espressione di un capitale industriale e finanziario in forte espansione. L’Italia si imbarcò pertanto in imprese coloniali che poi non sarebbe stata in grado di sostenere per la propria debolezza economica e militare. La prima spedizione in Africa, inviata nel 1885 a occupare la zona costiera tra Massaua e la Baia di Assab, terminò con la disfatta delle truppe italiane sorprese e annientate a Dogali nel 1887 da soverchianti forze etiopiche. L’ultima iniziativa di Depretis fu il tentativo, sostenuto dal governo e appoggiato dai cattolici “transigenti”, di indurre Leone XIII alla riconciliazione e a un nuovo corso nelle relazioni fra Stato e Chiesa. Il tentativo fallì per l’impossibilità di raggiungere un accordo sul problema del potere temporale dei papi, e il fallimento portò a una ripresa dell’anticlericalismo da una parte e dall’altra delle polemiche dei cattolici “intransigenti”. [3144121] Il 29 luglio 1887 Depretis morì. Gli successe F. Crispi, la personalità più autorevole della maggioranza parlamentare. Ex rivoluzionario e democratico sostenitore del suffragio universale, Crispi si era convertito alla monarchia divenendo uno degli esponenti di spicco della Sinistra moderata. Ammiratore della politica della forza, convinto nazionalista e fautore dell’espansionismo coloniale in Africa, appena giunto al potere, assumendo nuovi impegni da parte italiana in caso di guerra, mirò a dare all’alleanza con Prussia e Austria un carattere di aperta ostilità verso la Francia che portò nel 1888 a una vera e propria guerra commerciale tra i due paesi. In campo coloniale Crispi si impegnò a rialzare il prestigio italiano e segnò un successo con la firma del trattato di Uccialli (1889), in base al quale il nuovo sovrano di Etiopia, Menelik, si impegnava a riconoscere le conquiste italiane in Eritrea, che venne proclamata ufficialmente colonia nel 1890. In politica interna, coerentemente con la sua vocazione bismarckiana e con quella che era stata l’ispirazione della Destra prima e poi di Depretis, Crispi operò in modo da rafforzare il potere dell’esecutivo, accentrando nella sua persona le cariche di presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e ministro degli Interni. Sotto la sua presidenza venne emanata una serie di leggi di carattere progressivo (allargamento della base elettorale delle amministrazioni locali ed eleggibilità dei sindaci, abolizione della pena di morte, libertà di sciopero), ma si ampliò a tal punto il controllo dello stato su tutte le manifestazioni o riunioni pubbliche da scoprire mire autoritarie. Questo autoritarismo si manifestò innanzitutto in una politica repressiva nei confronti delle opposizioni, che furono ostacolate in tutti i modi, e poi, dopo un nuovo fallimento delle trattative per arrivare a una conciliazione tra Stato e Chiesa, nell’esasperazione delle tendenze anticlericali a fini socialmente e politicamente conservatori. Crispi si trovò inoltre a fronteggiare una difficile situazione economica e finanziaria, caratterizzata da una crisi nell’agricoltura e nell’industria e da un crescente disavanzo del bilancio. Coinvolto con interventi creditizi e sovvenzioni nel salvataggio in extremis di numerose banche impegnatesi nel finanziamento di attività speculative nel settore dell’edilizia, il governo Crispi evitò lo scandalo tenendo segreti i risultati di una commissione di indagine ministeriale nominata per far luce sulle irregolarità dell’operazione (1889). Esso si dimise nel gennaio 1891 quando la Camera si rifiutò di accogliere alcune proposte di inasprimento fiscale. Seguì un breve ministero presieduto dal marchese siciliano A. di Rudinì a cui successe nel maggio 1892 lo statista piemontese G. Giolitti, già ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo Crispi, dal quale si era dimesso nel dicembre 1890 per divergenze sulla politica di spesa. Già dal primo ministero Giolitti, ancorché breve (maggio 1892-dicembre 1893), emersero con sufficiente chiarezza quelle che sarebbero state le linee maestre dell’azione di governo dell’uomo politico piemontese negli anni successivi. Egli manifestò l’intenzione di diminuire il carico fiscale a favore dei meno abbienti; allentò la pressione sulle opposizioni, in particolare sui socialisti, instaurando un clima più liberale; ma, al tempo stesso, non esitò, secondo una tecnica già ampiamente usata dai governi precedenti, a servirsi dell’apparato statale e dei prefetti per assicurarsi, ora con le minacce ora con la corruzione, una solida maggioranza alle elezioni del 1892. Elemento unificante di questi orientamenti apparentemente contraddittori era l’obbiettivo di Giolitti di arrivare ad avere nel parlamento uno strumento efficace per portare il paese a un equilibrio più moderno, basato su un confronto dinamico e avanzato della borghesia con il movimento dei lavoratori. Il disegno di Giolitti venne interrotto da due fatti: lo scandalo della Banca Romana e la crisi provocata dalle agitazioni dei Fasci siciliani. Sotto il suo ministero riemerse con grande violenza la questione degli scandali bancari, e in particolare quello delle irregolarità nella gestione della Banca Romana. In questo scandalo furono coinvolti molti uomini politici tra cui lo stesso Crispi, che riuscì però a mettere in serie difficoltà Giolitti, accusandolo di essere stato a conoscenza dei risultati della commissione amministrativa del 1889 in qualità di ministro del Tesoro. Nel frattempo, in Sicilia, per effetto della crisi che aveva investito l’agricoltura, erano scoppiate violente agitazioni guidate da uomini di orientamento socialista che diedero vita al movimento dei Fasci, diffusosi rapidamente in tutta l’isola a partire dal 1892. Il movimento esprimeva la protesta dei contadini, dei mezzadri e dei braccianti contro l’eccessivo fiscalismo e lo strapotere dei ceti dominanti locali, rivendicando al tempo stesso la revisione dei patti agrari e l’assegnazione di terre da coltivare. Giolitti, al contrario di Crispi e dei proprietari terrieri che chiedevano una rapida repressione manu militari delle rivolte, diede disposizioni alla polizia di colpire ogni atto illegale, ma si rifiutò di affrontare le agitazioni sociali con misure di stato d’assedio. Criticato per le vicende della Banca Romana e giudicato debole nei confronti dell’agitazione dei Fasci, Giolitti si dimise nel novembre 1893 e il 15 dicembre tornò al potere Crispi, salutato dalla borghesia come l’uomo forte richiesto dal momento. Crispi fece subito proclamare lo stato d’assedio in Sicilia dove venne inviato un contingente di truppe. La repressione iniziò immediatamente e provocò un centinaio di morti. Un tentativo di insurrezione anarchica in Lunigiana, subito sventato, contribuì ad alimentare i timori, del tutto infondati, di una cospirazione generale diretta a colpire lo stato e a minacciarne l’unità. Si arrivò al punto di sostenere che i Fasci intendessero staccare la Sicilia dall’Italia per consegnarla a una potenza straniera. I capi del movimento furono così arrestati e condannati a severe pene detentive. Crispi procedette quindi a reprimere le organizzazioni operaie e socialiste in tutto il paese. Le difficoltà in politica interna non distolsero Crispi dagli obbiettivi di espansione coloniale. Dopo la proclamazione della Colonia Eritrea e la rottura delle trattative con il negus Menelik su un articolo del trattato di Uccialli (1891), le relazioni tra Italia ed Etiopia erano andate peggiorando fino alla denuncia formale del trattato da parte di quest’ultima nel febbraio 1893. Ma la sproporzione tra obbiettivi e mezzi dell’imperialismo italiano si rivelò ancora una volta nella sua reale portata. Nel 1895, in seguito allo sconfinamento nei territori controllati dall’Italia da parte del ras del Tigré, si ebbe una ripresa dell’offensiva espansionistica nella regione attuata dal generale O. Baratieri, governatore dell’Eritrea e capo dell’esercito italiano in Africa, che si concluse il 7 dicembre con una rovinosa sconfitta ad opera dell’esercito abissino all’Amba Alagi. Crispi cercò la rivincita a ogni costo. Il 1° marzo 1896 circa 20.000 Italiani si scontrarono presso Adua con 100.000 Etiopi e vennero messi in rotta, lasciando sul campo circa 7.000 morti. Alla notizia scoppiarono violente manifestazioni contro la guerra coloniale e Crispi, che l’aveva voluta, dovette rassegnare le dimissioni. [3144131] A Crispi successe nel marzo 1896 il marchese di Rudinì, cui non restò altro che firmare la pace con Menelik e accontentarsi del possesso della sola Eritrea, abbandonando ogni sogno di ulteriore espansione in direzione dell’Etiopia. Il governo Rudinì (marzo 1896-giugno 1898) si trovò a gestire una eredità pesante, che affrontò cercando innanzitutto di allentare la tensione interna attraverso la concessione di una amnistia per i condannati dei Fasci. Ma le forze che avevano sostenuto Crispi (gli industriali e gli armatori interessati alle spese militari e alle guerre coloniali, gli agrari meridionali che avevano plaudito allo stato d’assedio, la piccola borghesia nazionalista, i militari e gli ambienti di corte) spingevano per il proseguimento di una politica autoritaria e finirono per gettare il paese in una crisi senza precedenti. Il successo dei socialisti e dell’opposizione radicale e repubblicana nelle elezioni del marzo 1897 contribuì ad accrescere l’impazienza dei conservatori. La situazione precipitò nella primavera del 1898, apparentemente in seguito a un forte rincaro del prezzo del grano. Un’ondata di agitazioni si diffuse in tutto il paese. A Milano scoppiarono violenti tumulti (6-9 maggio). Il generale F. Bava-Beccaris, convinto di essere di fronte a una insurrezione guidata dai socialisti, affrontò la folla con l’artiglieria provocando 80 morti secondo le fonti ufficiali, oltre 300 secondo altre fonti. Seguirono centinaia di arresti, fra cui quelli dei capi socialisti Turati, Bissolati, Costa, di alcuni radicali e repubblicani e anche di don Albertario, un cattolico intransigente. I tribunali pronunciarono pesanti condanne. All’interno del ministero crebbero i contrasti. Rudinì, sperando di uscirne rafforzato, chiese al re di sciogliere la camera e indire nuove elezioni, ma questi rifiutò. Rudinì allora si dimise e il re affidò l’incarico di formare il governo al generale L. Pelloux che rimase in carica per due anni (giugno 1898-giugno 1900). Il tentativo di quest’ultimo di ristabilire una situazione di normalità non ebbe successo per le pressioni esercitate sia dal re sia dagli ambienti di corte, decisi a metter fine al regime parlamentare e a instaurare un regime di tipo prussiano. L’attuazione di questo piano, che aveva trovato il suo ideologo in S. Sonnino, esigeva la neutralizzazione delle opposizioni. Nel febbraio 1899 venne presentato alla camera un progetto di legge sui “provvedimenti politici” che intendeva limitare la libertà di stampa, di associazione, di riunione e di sciopero. Questa svolta reazionaria creò un fronte di opposizione che andava dai socialisti alla sinistra liberale, favorevole a una politica di apertura democratica e riformistica. Il braccio di ferro tra governo e opposizione sui provvedimenti si concluse infine con lo scioglimento della camera (maggio 1900). Le elezioni politiche, che si tennero nel giugno, videro una forte affermazione della estrema sinistra e della sinistra costituzionale. La compagine governativa mantenne la maggioranza ma con margini ristretti. Di fronte a quella che fu da tutti considerata una sconfitta politica, Pelloux rassegnò le dimissioni e al suo posto venne nominato il vecchio senatore G. Saracco (giugno 1900-febbraio 1901). Poco tempo dopo Umberto I (1878-1900), assurto a simbolo della svolta autoritaria di fine secolo, cadeva per mano di un anarchico, G. Bresci, venuto apposta dagli Stati Uniti per vendicare i morti di Milano del 1898 e l’offesa della decorazione della gran croce dell’Ordine dei Savoia concessa dal re a Bava-Beccaris per la sanguinosa repressione. Gli successe il figlio Vittorio Emanuele III (1900-46). L’assassinio di Umberto I, nonostante le sue ripercussioni, non rimise in discussione il fatto storico della vittoria del liberalismo parlamentare. Infatti, dopo le dimissioni di Saracco, rassegnate in seguito a uno sciopero generale proclamato a Genova contro il decreto di scioglimento della locale Camera del lavoro e alla sua successiva revoca, il nuovo re tirò le somme dalla situazione politica creatasi nel paese con la sconfitta della reazione e nominò presidente del Consiglio G. Zanardelli (febbraio 1901-ottobre 1903), colui che aveva guidato l’opposizione liberale a Pelloux; questi scelse come ministro degli Interni G. Giolitti. [314511] Tra il 1896 e il 1914 l’Italia conobbe, in forte ritardo rispetto agli altri grandi paesi dell’Europa occidentale e agli Stati Uniti, una vera e propria fase di decollo industriale. Tale decollo, però, per la particolare configurazione dei fattori di localizzazione, restò confinato alle regioni nord-occidentali, accentuando ulteriormente il divario tra un’Italia settentrionale, che andava rapidamente trasformandosi, e un’Italia meridionale di fatto esclusa da ogni sviluppo economico e sociale. L’intensificazione del processo di industrializzazione avvenne in concomitanza con una congiuntura economica particolarmente favorevole a livello internazionale. Essa segnò l’emergere sulla scena nazionale in modo più energico e distinto delle organizzazioni sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro, il cui peso era però fortemente limitato dal ruolo tuttora determinante del settore agricolo e della sua arretratezza e dalla conseguente influenza che ceti sostanzialmente parassitari, come i latifondisti meridionali, erano in grado di esercitare sull’azione dei governi. In una situazione così complessa e differenziata, con un misto di prudenza e di determinazione, si mosse Giolitti in quei primi anni del nuovo secolo che presero da lui il nome di “età giolittiana”. Guardando alle esperienze dei paesi più avanzati, egli si era reso conto che il movimento operaio e contadino non poteva essere affrontato con successo mediante il ricorso alla repressione e che anche la borghesia italiana doveva porsi sulla strada del confronto con i sindacati e con i socialisti. Il suo obbiettivo fondamentale fu quello di integrare le masse popolari nello stato liberale, sottraendole all’influenza delle ideologie rivoluzionarie. Il dominio di Giolitti durò, salvo brevi interruzioni, dal 1901 al 1909 e dal 1911 al 1914. Egli si trovò quindi alla guida dello stato sia nella fase di rapida espansione dell’industria durata fino al 1907 sia in quella successiva di crisi economica culminata nel 1913. Nel giro di questi anni, anche se il settore agricolo restava ancora quello prevalente nel quadro generale dell’economia, l’Italia assunse il carattere di paese industriale. Divenuto ministro degli Interni nel gabinetto Zanardelli, Giolitti si distinse da tutti i predecessori per il suo atteggiamento nei confronti dei conflitti di lavoro. Egli adottò una strategia tesa da una parte a legittimare, in certi casi anche a favorire, gli scioperi di carattere economico per consentire il rialzo dei salari e, di conseguenza, l’accrescimento della domanda interna e della produzione; dall’altra a combattere gli scioperi di natura politica in nome della tutela dell’ordine pubblico. Nonostante le resistenze del padronato e degli apparati dello stato, in particolare della magistratura, le organizzazioni del movimento operaio ebbero nel contesto politico creato dal gabinetto Zanardelli un notevole impulso. Il centro del sindacalismo operaio fu costituito, più che dalle Federazioni nazionali di mestiere, dalle Camere del lavoro che raggruppavano i lavoratori su base territoriale. Particolarmente forte divenne nelle campagne della Valle Padana il movimento delle leghe e delle cooperative e il Partito socialista, che pure aveva una forte componente contadina, acquistò la leadership del proletariato con una forza e una responsabilità nuove. Le principali tendenze all’interno del partito erano quella riformistica, guidata da F. Turati, e quella “intransigente” o rivoluzionaria, guidata da A. Labriola ed E. Ferri. Zanardelli, malato, si dimise nel 1903. Gli successe Giolitti il quale formò il suo secondo ministero (novembre 1903-marzo 1905). Questi tentò fin dall’inizio, mediante l’offerta a Turati di entrare nel governo, di scindere il Partito socialista attirando a sé l’ala riformista e isolando quella rivoluzionaria. Ma Turati rifiutò, sapendo che il partito, all’interno del quale andava delineandosi un netto spostamento a sinistra, non lo avrebbe seguito. In effetti, il congresso di Bologna del 1904 diede la maggioranza alla corrente rivoluzionaria che dovette affrontare una situazione di grave tensione provocata dall’ondata di violenze compiute dalla forza pubblica a danno di manifestanti e scioperanti in varie parti d’Italia. Nonostante il parere contrario della direzione del partito si giunse nel settembre alla proclamazione dello sciopero generale. Giolitti non cedette ai conservatori che spaventati chiedevano la repressione aperta; sciolse invece la camera e fece indire dal re nuove elezioni (6 novembre) che segnarono un netto successo per il governo. A questo risultato contribuì il fatto che Pio X, successo a Leone XIII nell’agosto 1903, permise ai cattolici di votare liberale, facendo eccezione al non expedit, per impedire la vittoria dei candidati socialisti. La decisione di Pio X, d’altro canto, si collocava all’interno di una intensa attività svolta da un lato dalle organizzazioni cattoliche facenti capo all’Opera dei congressi, fondata nel 1874 per promuovere l’innalzamento della classe operaia e contadina attraverso una rete di associazioni tra cui spiccavano per importanza le casse rurali e le società di mutuo soccorso; dall’altro dalla corrente della “democrazia cristiana” che, traendo impulso dall’enciclica sociale di Leone XIII Rerum novarum (1891), raccoglieva gli ambienti più avanzati del mondo cattolico e riteneva che una efficace opera di contenimento dell’influenza socialista dovesse passare attraverso la creazione di organizzazioni autonome dei lavoratori per la difesa dei propri interessi. Contro il radicalismo del cattolicesimo sociale si schierò però gran parte del cattolicesimo moderato e Pio X, per porre fine ai contrasti interni, nel 1904 sciolse l’Opera dei congressi, ponendo il movimento alle dipendenze dei vescovi e decidendo, nello stesso anno, di soccorrere i liberali nella consultazione elettorale. Il secondo ministero Giolitti terminò nel marzo 1905 in seguito alle agitazioni dei ferrovieri di fronte a un progetto di statizzazione delle ferrovie che ne avrebbe vietato lo sciopero. A Giolitti successero, dopo un brevissimo interinato di T. Tittoni (16-27 marzo 1905), dapprima A. Fortis (marzo 1905-febbraio 1906), un suo luogotenente, quindi il capo dell’opposizione liberale antigiolittiana S. Sonnino (febbraio-marzo 1906), con un programma di riforme a favore del Mezzogiorno che venne osteggiato tanto dai latifondisti meridionali quanto dagli industriali settentrionali. Seguì il terzo ministero Giolitti, il più lungo (maggio 1906-dicembre 1909), che permise allo statista piemontese di operare con forza per una modernizzazione del paese, che però ebbe sede essenzialmente nel Nord e non modificò i grandi equilibri di potere sociale fra borghesi settentrionali e agrari meridionali. La crisi industriale, che investì tutti i paesi avanzati e che si fece sentire anche in Italia a partire dal 1907, portò a una maggiore concentrazione delle imprese più forti e all’accentuazione del loro carattere monopolistico. Tale concentrazione e la conseguente modificazione dei rapporti sociali all’interno dell’industria provocarono una crescente centralizzazione delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori: contemporaneamente alla Confederazione generale del lavoro (1906), di orientamento socialista, nasceva a Torino una Lega industriale, sfociata nel 1910 nella forte Confederazione italiana dell’industria. Nel dicembre 1908 un catastrofico terremoto colpì Messina e Reggio di Calabria, provocando oltre 100.000 morti. Le elezioni politiche del 1909 videro un ulteriore rafforzamento dei socialisti, dei radicali e dei repubblicani. In seguito al rifiuto della camera di approvare alcuni suoi decreti legge, Giolitti si dimise lasciando il posto prima a Sonnino, che durò in carica pochi mesi, quindi a L. Luzzatti (marzo 1910-marzo 1911). Questi cadde su un progetto di riforma elettorale considerato troppo moderato dallo stesso Giolitti, che ritornò al potere formando il suo quarto ministero (marzo 1911-marzo 1914), agli inizi del quale vennero approvate tre leggi di notevole importanza: quella sull’istruzione elementare che poneva la scuola primaria sotto il controllo dello stato e migliorava sensibilmente il trattamento economico degli insegnanti; quella sul monopolio di stato delle assicurazioni sulla vita; quella sul suffragio universale maschile che estendeva il diritto di voto anche agli analfabeti che avessero compiuto i trent’anni (25 maggio 1912), nella stragrande maggioranza contadini e braccianti che acquisirono così per la prima volta i diritti politici. Poste con queste leggi le premesse per un allargamento del consenso alla sua sinistra, Giolitti rilanciò la politica coloniale preparando la guerra contro la Libia, da lui voluta sia per motivi di ordine internazionale – occorreva evitare che la regione, data la sua importanza strategica per l’Italia, cadesse nelle mani di qualche altra potenza europea – sia per motivi di ordine interno; a favore si pronunciarono nazionalisti, cattolici, sostenitori di varia corrente del colonialismo “proletario”, sindacalisti rivoluzionari e settori del socialismo riformista, ambienti economici e finanziari interessati alla corsa imperialistica. L’impresa dalla stampa filogovernativa venne presentata come tale da aprire all’emigrazione italiana, e quindi ai contadini poveri, grandi possibilità. Solo alcune voci isolate, come quella di G. Salvemini, si opposero alla propaganda documentando la povertà delle risorse naturali della Libia. La guerra, iniziata nel settembre 1911 contro la Turchia, sotto la cui sovranità si trovava la Libia, terminò nell’ottobre 1912 con la pace di Losanna che riconobbe all’Italia la sovranità sulla Tripolitania e la Cirenaica. Fu una guerra più lunga e difficile del previsto che provocò migliaia di morti e feriti, consumò ingenti risorse e peggiorò ulteriormente i conti dello stato. I contraccolpi si fecero sentire sugli equilibri politici interni, e in particolare sul Partito socialista. Al XIII congresso (1912), nel corso del quale emerse come rivoluzionario intransigente B. Mussolini, i contrasti si acutizzarono al punto di determinare l’espulsione della corrente riformista di Bissolati, che fondò un nuovo partito. Nell’ottobre 1913 si tennero le prime elezioni a suffragio universale maschile in una situazione difficile per l’economia italiana, investita da una crisi a carattere internazionale. Ai liberali, messi in difficoltà dalla mancanza di una organizzazione partitica moderna capace di mobilitare le masse in vista del voto, vennero in soccorso i cattolici, gli unici in grado di contrapporre alla ramificata struttura territoriale del Partito socialista la rete capillare delle parrocchie e delle associazioni a carattere religioso. Non presentando proprie liste, l’Unione elettorale cattolica, nella persona del suo presidente conte O. Gentiloni, invitò i candidati liberali a sottoscrivere un patto, detto in seguito patto Gentiloni, in base al quale questi ultimi si impegnavano in cambio del voto a opporsi nella nuova camera a qualsiasi legge che andasse contro gli interessi dei cattolici. Giolitti non si impegnò personalmente, ma lasciò fare. L’appoggio dei cattolici e l’aperta collusione, specie nel Mezzogiorno, della macchina dei prefetti, della polizia e della stessa mafia, impegnati con ogni mezzo legale e illegale a intimidire le opposizioni, salvarono i liberali da una secca sconfitta elettorale, ma non impedirono un consistente rafforzamento dei socialisti e dei radicali, e una forte ipoteca del voto cattolico sulla formazione liberale (su 304 deputati liberali eletti ben 228 avevano sottoscritto il patto). Ritenendo insoddisfacenti i risultati usciti dalle urne e prendendo atto del mutamento intervenuto nel clima politico e sociale del paese, Giolitti il 10 marzo 1914 si dimise. Il suo disegno di governare il paese contando su una docile maggioranza parlamentare urtava contro la svolta in senso radicale dei socialisti, l’agitazione antidemocratica e antiliberale dei nazionalisti, il nuovo ruolo dei cattolici e le divisioni interne al campo liberale. Giolitti stesso indicò quale proprio successore A. Salandra, un liberale di destra pugliese, legato agli agrari meridionali, ma gradito anche alla grande industria. Il suo ministero (marzo 1914-giugno 1916) si distinse per la sanguinosa repressione delle agitazioni scoppiate nel giugno 1914 in seguito all’uccisione a opera della polizia di tre operai nel corso di una manifestazione antimilitarista ad Ancona. Mentre in Italia la tensione interna si manteneva elevata, la situazione internazionale precipitava. Il 28 giugno moriva in un attentato a Sarajevo, nella Bosnia-Erzegovina, l’erede al trono asburgico; si apriva così una crisi catastrofica in Europa e nel mondo che doveva sfociare nella prima guerra mondiale. [314521] Il ruolo crescente nei principali paesi industrializzati del capitale finanziario, con le sue tendenze all’esportazione di capitali e all’espansionismo territoriale in un clima di accentuata concorrenza internazionale, significò per l’Europa la fine del periodo di pace iniziato nel 1871, l’erompere dei conflitti interimperialistici e la formazione di blocchi contrapposti in lotta per il predominio mondiale. La politica estera italiana nei primi anni del secolo era stata dominata dall’interesse per l’Africa nord-orientale e quindi da una intensa azione diplomatica volta a ottenere, avendo già il via libera dagli alleati, il riconoscimento della propria influenza sulla regione in primo luogo dalla Francia, che vantava diritti sull’Africa settentrionale, quindi dalla Gran Bretagna. L’accordo raggiunto con la Francia, firmato il 30 giugno 1902, subito dopo il rinnovo della Triplice Alleanza (28 giugno), collocava l’Italia in una posizione di fatto assai vicina all’Intesa, come ebbe a osservare il cancelliere tedesco von Bülow che parlò in proposito di “giro di valzer” con “un altro ballerino”. Tale posizione venne rafforzata da un accordo, firmato in occasione della visita dello zar Nicola II in Italia (1909), col quale la Russia appoggiava le mire italiane in Africa, ottenendo in cambio l’appoggio alle sue mire sugli Stretti; e l’uno e l’altro paese si accordavano per bloccare ogni tentativo di espansione dell’Austria nei Balcani. E ciò nonostante l’Italia avesse sottoscritto pochi giorni prima un altro accordo proprio con l’Austria, in base al quale non solo si prevedevano compensi per la prima nel caso la seconda si fosse estesa verso i Balcani, ma le due potenze si impegnavano reciprocamente a non trattare con terzi questioni riguardanti questa regione. La guerra italo-turca, conclusasi con la cessione di fatto della Tripolitania all’Italia, ebbe effetti immediati nella penisola balcanica. Greci, Serbi, Bulgari e Montenegrini approfittando del malcontento delle minoranze nazionali oppresse attaccarono la Turchia che, sconfitta, dovette accettare con la pace di Londra (30 maggio 1913) la spartizione della Macedonia, cedendo altresì la Tracia con l’accesso al Mar Egeo alla Bulgaria e Creta alla Grecia. Una seconda guerra balcanica, scoppiata subito dopo in seguito al mancato accordo fra Serbia e Bulgaria sulla spartizione della Macedonia, si concluse con la vittoria della prima, con la quale si erano schierate anche la Romania, la Grecia e la Turchia. Il bilancio delle guerre balcaniche era tale da alterare i rapporti di forza tra le grandi potenze nella regione. L’Intesa anglo-franco-russa usciva rafforzata dalla crisi mentre si indeboliva la Triplice Alleanza non solo per la vittoria della Serbia, saldamente legata alla Francia, ma anche per i contrasti al suo interno tra Italia e Austria, divise dalla questione delle terre “irredente” e, più in generale, dai divergenti interessi nei Balcani. Da tutto questo l’Austria trasse la conclusione che fosse giunto il momento di eliminare una volta per tutte l’ostacolo principale alla sua egemonia nei Balcani, vale a dire la Serbia. L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono imperiale e capo dell’ala militarista, e di sua moglie avvenuto a Sarajevo fornì l’occasione. Tra la fine di luglio e i primi di agosto le grandi potenze entrarono in guerra. L’Italia, adducendo a motivo il carattere difensivo e non offensivo della Triplice Alleanza e la mancata osservanza da parte dell’Austria dell’impegno a una consultazione preliminare con gli alleati in caso di guerra, il 3 agosto dichiarò la propria neutralità, rispecchiando l’orientamento della grande maggioranza sia del parlamento sia del paese. Contrari all’intervento erano i liberali giolittiani, consapevoli della inadeguatezza militare, e gran parte del mondo industriale; i socialisti, in osservanza ai principi dell’internazionalismo proletario; i cattolici, i quali esprimevano i sentimenti pacifisti delle masse, specie contadine, e i timori del Vaticano che l’Italia potesse scendere in guerra a fianco dell’Intesa contro l’Austria cattolica. A favore stava una minoranza assai composita, divisa tra gli “interventisti democratici” (che vedevano nella guerra all’Austria l’occasione per la liberazione dei popoli da questa oppressi), una parte dei sindacalisti rivoluzionari (che speravano che la guerra avrebbe fatto da battistrada alla rivoluzione sociale), i nazionalisti interventisti di destra, notoriamente sostenuti da alcuni settori dell’industria pesante (secondo i quali la neutralità avrebbe condannato l’Italia a una posizione di secondo rango e frustrato le sue ambizioni espansionistiche). A favore era anche la monarchia. Dal connubio fra liberali antigiolittiani, interventisti di destra e sinistra e monarchia uscì la forza che finì per trascinare l’Italia in guerra. Il blocco interventista compensò la sua inferiorità numerica con l’influenza che fu in grado di esercitare sullo stato, attraverso il governo e la monarchia, e nelle piazze, grazie alla capacità di mobilitazione del movimento nazionalista. In sostanza, il passaggio dalla neutralità all’intervento venne deciso, al di fuori dell’opinione pubblica e dello stesso parlamento, dal governo e dalla corte con l’appoggio esterno dei nazionalisti. Salandra, capo del gabinetto, seguì dapprima una politica di patteggiamenti in tutte le direzioni, ma la logica degli interessi spingeva l’Italia nel campo dell’Intesa. Le sue rivendicazioni (Trento, Trieste, il controllo dell’Adriatico, l’influenza sui Balcani) erano tutte a spese dell’Austria che non intendeva farsene carico, nonostante le pressioni tedesche, se non in misura molto parziale. Per contro, alle potenze dell’Intesa non costava nulla accedere a tutte le richieste italiane che andavano a scapito di una potenza nemica. Spinto da questa logica, e sotto l’impressione della grande battaglia della Marna che aveva bloccato lo slancio offensivo tedesco, il governo italiano nella persona del suo ministro degli Esteri Sonnino intensificò i contatti con l’Intesa mentre erano ancora in corso trattative con l’Austria. Tali contatti sfociarono nel patto di Londra (26 aprile 1915) in base al quale l’Italia si impegnò a entrare in guerra a fianco della Gran Bretagna entro un mese dalla sua firma. Il patto, che rimase segreto fino al 1917, da una parte in nome del principio di nazionalità sanciva il diritto all’unificazione con l’Italia dei territori popolati da Italiani e soggetti all’Austria; dall’altra contraddiceva tale principio prevedendo compensazioni territoriali per l’Italia su territori non italiani. All’Italia venivano promessi il Trentino, il Tirolo cisalpino fino al Brennero (con popolazioni tedesche), l’Istria fino al Quarnaro esclusa Fiume (con popolazioni slave), la Dalmazia, Valona e il protettorato sull’Albania, il Dodecaneso e, come risultato della distruzione dell’impero turco, il bacino carbonifero di Adalia. Si prevedevano altresì non meglio precisati compensi coloniali e la Gran Bretagna si impegnava a concedere ingenti crediti. Manifestazioni di piazza, diventate famose come le “radiose giornate di maggio”, orchestrate dal governo per fare da contraltare al neutralismo delle masse popolari, ingrossate dalla partecipazione degli studenti, dominate dalla demagogia di intellettuali come D’Annunzio, si susseguirono nel mese di maggio in appoggio all’intervento già deciso. Occorreva però venire a capo della maggioranza parlamentare, schierata su una linea neutralista. L’ostacolo venne aggirato da Vittorio Emanuele III il quale respinse le dimissioni rassegnate strumentalmente da Salandra il 16 maggio, con l’implicita motivazione che il paese era a favore dell’intervento. Qualche giorno dopo (20 maggio) il parlamento, operando una svolta radicale, votava a larghissima maggioranza i pieni poteri al governo in caso di guerra. A questo risultato contribuirono il rifiuto di Giolitti di capeggiare apertamente e attivamente l’opposizione alla guerra, per non entrare in aperto conflitto con la monarchia, e le pressioni, spesso degenerate in violenza, dei nazionalisti e degli interventisti in genere. Il 23 maggio l’Italia indirizzò un ultimatum all’Austria e il 24 entrò in guerra contro quest’ultima. L’esercito italiano, guidato dal generale L. Cadorna, affrontò la guerra forte sul piano numerico, ma debole sul piano dell’organizzazione e della preparazione tecnica. Fra la fine di giugno e l’inizio di dicembre gli Italiani sferrarono una serie di offensive nella zona dell’Isonzo e del Carso che non riuscirono tuttavia a conseguire risultati di rilievo. Il 1916 fu caratterizzato dal tentativo da parte degli Austriaci di eliminare l’Italia dal conflitto con una “spedizione punitiva” contro l’ex alleato, effettuata a partire dal 15 maggio tra il Garda e il Brenta, nel corso della quale venne fatto prigioniero e impiccato in quanto suddito austriaco C. Battisti. Gli Italiani furono salvati da un fulmineo attacco sferrato dai Russi all’Austria, che riuscì a contenerne l’avanzata con l’aiuto dei Tedeschi, e nell’agosto lanciarono una controffensiva conquistando Gorizia. Ma l’andamento della guerra provocò in Italia una grave crisi politica. Salandra, considerato responsabile della impreparazione dell’esercito messa in luce dall’offensiva austriaca, dovette dimettersi. Al suo posto, a capo di un “ministero nazionale” nel quale entrarono anche i riformisti Bissolati e Bonomi, venne nominato P. Boselli (giugno 1916-ottobre 1917), mentre Sonnino restava al ministero degli Esteri per garantire la continuità negli obbiettivi. Il 28 agosto 1916 l’Italia, nel clima di ottimismo creatosi in seguito alla conquista di Gorizia, dichiarò guerra alla Germania. A partire da settembre riprese la guerra di posizione, con una serie di scontri sul Carso che diedero scarsi risultati, ma costarono un numero estremamente elevato di vite umane. Anche il 1916 si chiuse senza che dall’una o dall’altra parte venissero conseguiti risultati decisivi. Svanita l’illusione di un conflitto di breve durata, il paese dovette affrontare i costi di una estenuante guerra di logoramento decisamente al di sopra delle proprie possibilità. Gli scarsi successi furono ottenuti al prezzo di inaudite perdite umane. Quando gli Austriaci (24 ottobre 1917), rafforzati da sette divisioni tedesche, sfondarono le linee nei pressi di Caporetto sembrò giunta l’ora della sconfitta definitiva. La ritirata acquistò il carattere di una rotta disordinata ed ebbe gravi ripercussioni sul governo e sul comando supremo. Essendo reale il pericolo di invasione, la reazione della nazione fu immediata: anche socialisti riformisti come Turati e Treves esortarono alla resistenza. Il governo Boselli cadde e fu sostituito da uno presieduto da V. E. Orlando (ottobre 1917-giugno 1919); mentre al posto di Cadorna, inviso alle truppe per la brutale disciplina e l’indifferenza per la vita dei soldati, andò A. Diaz. Nei mesi successivi l’esercito riuscì a contenere l’offensiva degli Austriaci, che furono fermati sul Monte Grappa e sul Piave. Un ultimo tentativo da parte di questi ultimi di vincere la resistenza italiana venne compiuto nel giugno 1918, ma gli Austriaci furono respinti con perdite pesantissime da entrambe le parti. La vittoria giunse infine con l’attacco generale sferrato dall’esercito italiano il 24 ottobre, che si concluse con la battaglia di Vittorio Veneto in cui l’Austria, ormai in piena dissoluzione, subì la disfatta definitiva. Travolte su tutti i fronti, Austria e Germania chiesero l’armistizio. L’Italia uscì dal conflitto mondiale vittoriosa sul piano militare, ma in preda a una grave crisi politica e sociale. Lo sforzo che il paese aveva compiuto era stato enorme in rapporto alle proprie risorse interne, ma modesto a confronto di quello compiuto dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Di conseguenza, alla Conferenza generale per la pace apertasi a Parigi il 18 gennaio 1919 l’Italia venne trattata dagli alleati come una potenza di secondo rango, gettando in uno stato di frustrazione profonda coloro che avevano voluto e sostenuto l’intervento nella speranza di sostanziosi compensi. Inoltre, a differenza che in Francia e in Gran Bretagna, le masse popolari non avevano sentito la guerra come un evento crudele ma necessario alla difesa della nazione, bensì come una fonte di sofferenze ingiustificate imposte da una classe dirigente che fin dalla formazione dello stato unitario non era riuscita a raccogliere attorno a sé che un grado di consenso assai limitato. Fu così che alla conclusione della guerra scoppiarono con rinnovata violenza le polemiche tra neutralisti e interventisti. I primi accusavano i secondi di aver gettato il paese in una crisi economica e sociale senza precedenti in vista di obbiettivi rivelatisi irrealistici. I secondi, dal canto loro, erano divisi tra quanti si ritenevano soddisfatti dei risultati raggiunti con l’acquisto di Trento e Trieste che portavano a compimento l’unità nazionale, e interventisti di destra di varie sfumature che rivendicavano il possesso di parte della Dalmazia, di Fiume, di ampie zone dell’Anatolia e di altri territori coloniali. Alla Conferenza generale per la pace di Parigi Orlando e Sonnino incontrarono l’ostilità di Wilson, che accusava gli Italiani con le loro richieste di voler violare i diritti di altre nazionalità, in particolare di quella slava, e la freddezza di Clemenceau e Lloyd George i quali, nel tentativo di sottrarsi agli accordi presi col patto di Londra del 1915, trovarono conveniente lasciare inasprire il dissenso fra l’Italia e gli Stati Uniti, che a quel patto non si sentivano vincolati non avendolo sottoscritto. La “questione adriatica”, cioè il futuro della Dalmazia e di Fiume, suscitò contrasti tali per cui Orlando e Sonnino nell’aprile 1919 abbandonarono, temporaneamente, la Conferenza in segno di protesta. La pace dell’Austria con l’Intesa venne infine firmata il 10 settembre: l ’Italia ottenne il Trentino fino al Brennero, la Venezia Giulia, l’Istria, parte della Dalmazia ma non Fiume. Il 12 settembre G. D’Annunzio, contando sulla complicità dei comandi militari e sull’esasperazione nazionalistica di una parte degli ufficiali e delle loro truppe, occupò Fiume con reparti ribelli proclamandone l’annessione all’Italia. L’atteggiamento di fronte ai risultati della vittoria divideva le classi e i gruppi sociali, ma questa divisione rispecchiava una divisione più profonda di natura socio-economica. [314531] La guerra aveva mutato profondamente la struttura della società italiana. La piccola e media borghesia, che aveva fornito i quadri di complemento all’esercito, era passata dalla iniziale esaltazione patriottica e dall’orgoglio per la vittoria ottenuta alla frustrazione per le difficoltà economiche del dopoguerra e alla delusione per il divario tra compensi attesi e ottenuti, specie sotto il profilo dell’espansione coloniale, da cui si attendevano abbondanti materie prime e terre da sfruttare. Molti ufficiali, che si erano abituati al comando durante la guerra, quando vennero smobilitati si trovarono disoccupati ed emarginati socialmente in un sistema produttivo troppo debole per offrire lavoro a tutti. Di fronte alla piccola borghesia stavano la grande borghesia finanziaria e industriale, la vera beneficiaria della guerra, che aveva grandemente ampliato l’apparato produttivo realizzando enormi profitti con le commesse belliche; la classe operaia, che grazie allo sviluppo industriale e alla forza della propria organizzazione sindacale era riuscita a salvaguardare il proprio potere d’acquisto attraverso consistenti aumenti salariali; e, infine, la grande massa dei lavoratori, formata non da operai, ma da piccoli contadini e braccianti in condizioni miserevoli, che avevano fornito il grosso dell’esercito e a cui la classe dirigente aveva promesso nel 1917 una legge di riforma agraria. A guerra finita iniziò un periodo di continue agitazioni. Le masse lavoratrici nel loro insieme aspiravano a profondi mutamenti nella struttura sociale del paese, ma divergevano circa la natura di tali mutamenti. I contadini piccoli proprietari volevano la terra, e cioè una riforma agraria di tipo democratico-borghese che rafforzasse la piccola e media proprietà. I lavoratori salariati, per contro, che avevano nel Partito socialista, nelle Camere del lavoro e nei sindacati i propri punti di riferimento, anche per effetto degli eventi russi auspicavano un governo rivoluzionario che portasse alla socializzazione dei mezzi di produzione, primo passo verso l’instaurazione di una società senza classi. Il timore di un simile rivolgimento spinse il Vaticano ad accettare la formazione di un partito dei cattolici italiani, che nacque nel 1919 sotto la direzione di L. Sturzo e prese il nome di Partito popolare italiano. Socialisti e cattolici raccolsero attorno a sé le grandi masse interpretandone, sia pure con diversi programmi e prospettive, la volontà di rinnovamento. Altre forze però andavano nascendo sul terreno della crisi sociale e politica; tra queste il movimento dei Fasci di combattimento, fondato a Milano nel marzo 1919 da Mussolini, il quale nel 1914, espulso dal partito socialista, era passato infine a posizioni accesamente interventiste. Il movimento fascista non presentava caratteristiche ben definite: la sua propaganda aveva quali punti essenziali la difesa dell’intervento e della guerra, la critica da un lato all’impotenza della classe dirigente liberale e dall’altro ai socialisti, denunciati come una forza antinazionale, radicali quanto contraddittorie richieste di mutamento politico e sociale. Il suo programma era un misto di rivoluzionarismo anticapitalistico e di esaltazione nazionalistica, ed esprimeva le aspirazioni confuse di giustizia sociale e di grandezza nazionale di certi strati della piccola e media borghesia, premuta fra grande borghesia e proletariato, e di ex combattenti il cui inserimento nella società civile incontrava difficoltà di ordine oggettivo e soggettivo. In una situazione di tale fermento, la classe dirigente liberale rivelò tutta la sua inadeguatezza. Essa avvertiva che la sua autorità e il suo prestigio erano profondamente scossi, ma era incerta e anche divisa sul da farsi, come mostrarono i governi che si succedettero nel 1919-20. Nel giugno 1919 cadde il governo Orlando, pagando quello che era percepito come l’insuccesso al tavolo delle trattative di pace. Gli successe F. S. Nitti, che rimase al governo dal giugno 1919 al giugno 1920. Questi tenne un comportamento oscillante nei confronti dell’impresa di Fiume, deplorandola prima e poi tollerandola, col risultato di scontentare tanto gli avversari di D’Annunzio quanto i suoi sostenitori. Durante il suo governo si svolsero le elezioni generali, le prime col sistema della proporzionale. I risultati mostrarono la portata della crisi liberale: oltre la metà dei seggi andò ai due grandi partiti di massa, socialista (156) e popolare (100), mentre i liberali non potevano più contare su una maggioranza autonoma. Nitti si dimise nel giugno e venne sostituito dal vecchio Giolitti, che rimase in carica dal giugno 1920 al luglio 1921. Tornato al potere, egli pensò di poter aprire un corso riformatore in Italia grazie alla sua abilità di mediatore fra le diverse forze politiche, ma mancavano ormai i presupposti indispensabili per una simile operazione. I risultati più consistenti Giolitti li ottenne in politica estera firmando il trattato di Rapallo (12 novembre 1920) col quale l’Italia otteneva tutta l’Istria e la città di Zara, lasciava alla Iugoslavia la Dalmazia e Fiume diventava una città-stato indipendente. Risolta la questione con lo stato iugoslavo, Giolitti ordinò all’esercito di porre fine all’occupazione di Fiume, operazione che venne effettuata entro i primi giorni del 1921. In politica interna, egli si trovò ad affrontare il più grande conflitto di lavoro del dopoguerra, cioè l’occupazione delle fabbriche decisa il 30 agosto 1919 dal sindacato dei metalmeccanici (FIOM) in risposta alla serrata delle officine Romeo di Milano. Da Milano, l’occupazione si estese a Torino, che divenne il centro maggiore del movimento, e ad altre zone del paese. Giolitti agì con grande abilità. Rifiutò di affrontare l’occupazione delle fabbriche con la repressione militare, come chiedevano gli industriali, nella convinzione che ciò comportasse il rischio di trasformare il movimento in una insurrezione politica. E quando vide che i socialisti rinunciavano a porsi alla guida di un processo rivoluzionario, favorì l’azione dei sindacati, fin dall’inizio contrari all’occupazione, e operò per un accordo che chiuse definitivamente l’episodio. L’occupazione delle fabbriche, tuttavia, portò a un inasprimento della lotta politica. La sinistra del Partito socialista, guidata da A. Gramsci e da A. Bordiga, accusò la dirigenza di rivoluzionarismo verbale e si preparò alla scissione. Per contro, una parte della borghesia vide nell’atteggiamento prudente di Giolitti lo specchio delle debolezze del liberalismo e l’abdicazione dello stato di fronte ai compiti di difesa della proprietà e dell’ordine. La grande industria allora cominciò a vedere nei fascisti un utile strumento da contrapporre al movimento operaio, e prese a finanziarli in modo consistente. Così il fascismo, che aveva preso quota partendo dalle campagne dell’Italia centrale, dove aveva agito come “guardia bianca” al servizio degli agrari, ottenne anche il crescente appoggio degli industriali. Il 1921 segnò una svolta decisiva nella crisi dello stato liberale. In gennaio, come contraccolpo anche del fallimento dell’occupazione delle fabbriche, i comunisti si scissero dai socialisti, dando vita al Partito comunista d’Italia, con obbiettivi rivoluzionari. Sentendo vacillare la propria maggioranza in parlamento, Giolitti fece sciogliere le camere e indisse nuove elezioni che si tennero nel mese di maggio. Queste, per volontà di Giolitti stesso, videro l’ingresso dei fascisti nei “blocchi nazionali” accanto ai liberali, segnando con ciò la piena accettazione del fascismo da parte della classe dirigente e il riconoscimento della sua funzione di argine contro il socialismo. Ma i risultati delle votazioni non diedero a Giolitti la maggioranza sperata. Quando vide che il suo programma di politica interna non aveva più il sostegno di una classe dirigente ormai schierata su posizioni di rigida conservazione e di attacco contro il movimento operaio in termini che andavano oltre i suoi obbiettivi, Giolitti rinunciò a formare il governo. Gli successe I. Bonomi (luglio 1921 - febbraio 1922), il quale costituì un governo di coalizione tra liberali, popolari e socialisti riformisti. Fu durante il suo ministero che venne meno la speranza, nutrita dallo stesso Giolitti, di “costituzionalizzare” il fascismo. Mussolini, entrato in parlamento come uno dei 35 deputati fascisti eletti nei Blocchi nazionali, si apprestò a raccogliere in sede politica i frutti delle violenze extraparlamentari accreditando l’immagine del fascismo come forza politicamente matura e indispensabile al mantenimento della pace civile. Al congresso di Roma (novembre 1921), il movimento fascista si trasformò in Partito nazionale fascista. Nel febbraio 1922, L. Facta, un giolittiano di modesta levatura, successe a Bonomi in quello che doveva essere l’ultimo governo liberale prima dell’avvento del fascismo al potere. La debolezza e l’impotenza di Facta di fronte al dilagare della violenza delle squadre fasciste contro gli oppositori di qualsiasi tipo indussero Giolitti a fare un ultimo tentativo per riportare nel paese un clima di legalità, avviando trattative in varie direzioni, particolarmente con i popolari e i fascisti, che egli credeva ancora di poter integrare in posizione subalterna nello stato liberale. Mussolini, invece, pensò di stringere i tempi. Forte di una propria organizzazione paramilitare e con la complicità aperta delle istituzioni dello stato, fece concentrare i suoi seguaci a Napoli con il fine preciso di esercitare una pressione politica sul re attraverso la minaccia di un colpo di stato. Il 26 ottobre Facta si dimise; contemporaneamente iniziò da varie parti d’Italia la marcia su Roma delle camicie nere fasciste. Il re, in un primo tempo intenzionato a proclamare lo stato d’assedio, rifiutò poi di firmare il decreto temendo di alienare alla monarchia l’appoggio della classe dirigente apertamente schierata a favore di Mussolini. E quando quest’ultimo, appoggiato dalla Confindustria, chiese l’incarico di formare il governo, il re accettò (29 ottobre). Mussolini formò un governo di coalizione, in cui entrarono, assieme ai fascisti, liberali di varie correnti e popolari. La camera votò la fiducia con 306 voti a favore e 116 contrari. Era dominante la convinzione che il fascismo fosse un fenomeno transitorio e che presto si sarebbero ricreate le condizioni per un ritorno alla direzione dei liberali. Senonché tra il 1922 e il 1926 il fascismo, fusosi nel 1923 con il movimento nazionalista, usò le istituzioni ereditate dallo stato liberale per attuare una trasformazione qualitativa della forma di governo le cui tappe principali furono: la creazione di un Gran Consiglio del fascismo, con funzioni di raccordo tra partito e governo; l’inquadramento delle forze paramilitari fasciste in una Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, vero e proprio braccio armato del regime; la legge Acerbo, che attribuiva i due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa che avesse ottenuto il 25% dei suffragi. Alle elezioni del 1924, che si svolsero in un clima di violenze e di intimidazioni contro tutte le opposizioni, un “listone” di emanazione del Gran Consiglio, nel quale entrò anche la maggioranza dei liberali, ottenne la maggioranza assoluta (64,9%). Il parlamento divenne così un docile strumento nelle mani del partito di governo, che usò il principio democratico della maggioranza per vanificare le stesse istituzioni parlamentari. Al momento della convalida dei risultati elettorali da parte della camera, G. Matteotti, segretario politico del Partito socialista unificato costituitosi nel 1922 in seguito a una nuova scissione del socialismo italiano, mise apertamente in discussione la loro validità in conseguenza delle violenze esercitate dai fascisti contro gli oppositori durante la campagna elettorale. Il 10 giugno 1924 Matteotti veniva rapito e ucciso. La reazione nel paese fu enorme, ma le opposizioni, scegliendo di astenersi dai lavori parlamentari fino a che non fosse stata ristabilita nel paese la legalità, con la cosiddetta “secessione dell’Aventino” consentirono al fascismo di superare l’impopolarità del momento e di annientare ogni resistenza. [314541] Col discorso alla camera del 3 gennaio 1925, nel quale si assumeva apertamente la responsabilità dell’accaduto, Mussolini, che aveva ricevuto l’appoggio del re, poteva considerare politicamente chiusa la vicenda e procedere attraverso una serie di leggi dette “fascistissime”, emanate tra il 1925 e il 1926, alla trasformazione dello stato liberale parlamentare dominato dai fascisti in uno stato che acquistò le caratteristiche di vero e proprio regime. Venne infatti eliminato il pluralismo partitico; il parlamento fu ridotto a camera di registrazione della volontà del Partito fascista e, in particolare, di Mussolini; furono abolite le libertà di stampa, di associazione, di organizzazione. Nel 1928 la camera varò una nuova legge elettorale che prevedeva una lista unica nazionale di 400 candidati scelti dal Gran Consiglio da sottoporre agli elettori per l’approvazione in blocco: da allora in avanti le elezioni assunsero di fatto un carattere plebiscitario. Al consolidamento del regime non fu estraneo l’atteggiamento benevolo della Chiesa cattolica seguito all’accordo con lo stato fascista che poneva fine alla annosa questione romana: la conciliazione tra le due istituzioni e i relativi atti giuridici furono firmati l’11 febbraio 1929 a conclusione di una serie complessa di trattative nel palazzo del Laterano a Roma. Da quelli che vennero poi chiamati Patti lateranensi la laicità dello stato uscito dal Risorgimento veniva cancellata, mentre si realizzavano i congiunti propositi di Mussolini di fare del cattolicesimo un pilastro del nuovo ordine politico e della Chiesa di utilizzare lo stato italiano per rinsaldare la sua influenza sulla società civile. I rapporti tra stato fascista e gerarchie ecclesiastiche furono da allora in poi improntati a un reciproco sostegno, anche se non mancarono motivi di tensione, specie per quanto riguardava il problema del controllo sulla gioventù, e dunque sulle istituzioni educative, e la presenza in alcune organizzazioni cattoliche di una componente ostile al regime. Un passo decisivo in direzione della costruzione del nuovo ordine, che avrebbe dovuto secondo Mussolini porsi come alternativa tanto al capitalismo quanto al socialismo, fu rappresentato dal tentativo di realizzare quel sistema corporativo i cui principi generali trovarono espressione nella Carta del lavoro emanata dal Gran Consiglio del fascismo nel 1927. L’intento era quello di creare una serie di norme giuridiche e di istituti pubblici in grado di risolvere pacificamente i conflitti tra capitale e lavoro nel nome dei superiori interessi dello stato. La costruzione dello stato corporativo, delineato nel 1927, venne di fatto rinviata (le corporazioni furono istituite nel 1934 e soltanto nel 1939 alla Camera dei deputati venne sostituita la Camera dei fasci e delle corporazioni). Di fronte al consolidamento del regime, le forze dell’antifascismo furono sottoposte all’interno a una sistematica repressione, sicché esse si riorganizzarono necessariamente all’estero e specie in Francia. Nel 1926 venne arrestato Gramsci, che morì nel 1937 dopo una lunga detenzione e dopo aver consegnato nei Quaderni del carcere il frutto della sua riflessione storico-politica. Croce tenne alto il proprio magistero culturale, che fu anche scuola di antifascismo. L’emigrazione politica annoverò personalità come Nitti, Sturzo, Turati, Gobetti, Amendola, Nenni, Saragat, Togliatti, Salvemini, Sforza. Nel 1927 venne costituita la Concentrazione antifascista (cui non parteciparono i comunisti). Nel 1929 venne fondata da C. Rosselli Giustizia e Libertà, una formazione che, con il partito comunista, diventò il nucleo più attivo dell’antifascismo anche in Italia. Nel 1934 comunisti e socialisti strinsero un patto di unità d’azione. Nel corso della guerra civile spagnola (1936-39), gli antifascisti italiani furono assai attivi nelle brigate internazionali che combatterono a fianco dei repubblicani spagnoli. In Italia come in altri paesi industriali, la grande crisi del 1929 produsse una profonda ristrutturazione dell’intera economia: in particolare, andò rafforzandosi la tendenza alla concentrazione industriale e finanziaria e divenne sempre più massiccio l’intervento statale nell’economia; lo stato assunse il controllo non solo delle maggiori banche italiane, ma anche di importanti settori dell’industria attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) creato nel 1933. In politica estera il fascismo mantenne in una prima fase un atteggiamento di sostanziale prudenza di fronte a quella che era la questione chiave nelle relazioni internazionali, vale a dire la revisione o meno dei trattati di pace. Tale atteggiamento, però, cominciò a mutare quando pensò di poter sfidare l’egemonia francese nella regione balcanica alleandosi con quanti avevano interesse a rivedere i confini fissati nel 1919. Fino al 1934 Mussolini mirò a contenere la Germania, tanto che nel 1934 appoggiò energicamente l’Austria contro le mire naziste. Ma una svolta decisiva si ebbe nel 1935, allorquando l’Italia iniziò l’invasione dell’Etiopia, provocando le reazioni della Società delle Nazioni che condannò l’aggressione e approvò una serie di sanzioni economiche, poco più che formali, peraltro abilmente sfruttate dal fascismo a fini di propaganda interna. La guerra, condotta con grande larghezza di mezzi, si concluse con la vittoria dell’Italia: il 9 maggio 1936 Mussolini poteva proclamare solennemente la fondazione dell’impero d’Etiopia, ottenendo il massimo dei consensi attorno al regime. Questo atto di aperta violazione del sistema di sicurezza collettiva basato sulla Società delle Nazioni portò l’Italia ad allontanarsi dalle potenze che se ne erano fatte garanti, in primo luogo la Francia e la Gran Bretagna, e ad avvicinarsi alla Germania nazista che, proprio nei primi mesi del 1936, aveva rimilitarizzato la Renania, mirando decisamente alla ricostruzione della potenza tedesca e al sovvertimento dell’assetto europeo uscito dai trattati del 1919. L’avvicinamento si fece ancora più stretto con l’intervento della Germania e dell’Italia a fianco delle destre spagnole, nella guerra civile che si combatté in Spagna tra il 1936 e il 1939. Nell’ottobre 1936 G. Ciano, genero di Mussolini e ministro degli Esteri, aveva stipulato con i Tedeschi un accordo, l’“asse Roma-Berlino”, che prevedeva: la permanenza soltanto strumentale dell’Italia nella Società delle Nazioni; l’impegno comune nella lotta contro il pericolo bolscevico e quindi a sostegno delle forze antigovernative in Spagna; una collaborazione per la soluzione delle tensioni esistenti nella regione balcanico-danubiana; il riconoscimento da parte della Germania dell’impero di Etiopia. L’asse Roma-Berlino, che divenne alla fine del 1937 l’asse Roma-Berlino-Tokyo, segnò il definitivo allineamento dell’Italia alla politica tedesca e l’abbandono della Società delle Nazioni. Mentre Hitler portava a compimento il suo proposito di riunificazione nel Terzo Reich di tutti i Tedeschi annettendosi l’Austria (marzo 1938), ottenendo alla conferenza di Monaco, anche grazie alla mediazione di Mussolini (29-30 settembre 1938), l’assenso di Gran Bretagna e Francia allo smembramento della Cecoslovacchia, e accingendosi ad attaccare la Polonia per il possesso di Danzica, l’Italia decise di passare anch’essa all’azione, attaccando l’Albania e annettendola al Regno d’Italia (aprile 1939). Nel frattempo (settembre 1938) erano state introdotte anche in Italia, sull’esempio della Germania, alcune disposizioni discriminanti nei confronti degli Ebrei. Il 22 maggio 1939 Italia e Germania strinsero quello che venne poi chiamato patto d’acciaio, che poneva la prima alla mercé della seconda e dei suoi piani aggressivi, in quanto prevedeva l’ingresso automatico dell’una a fianco dell’altra in caso di guerra. E quando questa scoppiò in seguito all’ingresso delle truppe tedesche in Polonia il 1° settembre 1939, l’Italia, del tutto impreparata sul piano militare, nonostante la retorica bellicistica che aveva caratterizzato il regime fin dalle origini, proclamò la “non belligeranza”, vale a dire una sorta di “pace armata”. La contraddizione tra la consapevolezza della propria debolezza e il desiderio di agire come una grande potenza e conquistare una parte di bottino venne sciolta da Mussolini dopo il crollo della Francia, che fece apparire inarrestabile la marcia delle armate tedesche. Il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra contro Francia e Gran Bretagna, con l’obbiettivo di espandersi in direzione del Mediterraneo (Nizza, Savoia, Corsica e Africa) e della regione danubiano-balcanica. L’attacco sul fronte alpino, malamente condotto quando ormai l’esercito francese era stato sconfitto dai Tedeschi (21 giugno), si concluse con un armistizio firmato con la Francia qualche giorno dopo. L’avanzata italiana nell’Africa britannica, intrapresa nella convinzione di una imminente caduta della Gran Bretagna, dopo qualche successo iniziale venne fermata da una controffensiva inglese. A rendere più difficili le cose nel settore africano intervenne la decisione di attaccare la Grecia, presa da Mussolini pensando a una facile vittoria. Ma l’offensiva contro la Grecia, iniziata alla fine di ottobre dopo la firma a Berlino di un patto tripartito tra Italia, Germania e Giappone, col quale venivano tracciate le linee di un nuovo ordine europeo e mondiale, fallì contro l’inaspettata resistenza greca. Tanto in Grecia quanto nell’Africa settentrionale le sorti pericolanti dell’Italia furono temporaneamente risollevate dai Tedeschi; ma la manifesta inferiorità sul piano militare del regime, segno di più gravi inefficienze sul piano economico e tecnologico, pose fine alla speranza di Mussolini di attuare una “guerra parallela” che desse all’Italia una sua sfera d’influenza e un ruolo autonomo rispetto al potente alleato europeo. A sostegno dell’attacco tedesco, l’Italia inviò nel 1941 un corpo di spedizione in Russia. La pessima prova fornita dal regime e in particolare le gravissime sconfitte dell’Asse in Africa nel 1942 (El Alamein) e in Russia nel 1943 (Stalingrado) ebbero profonde ripercussioni sul fronte interno, minando alla base la credibilità del fascismo tanto tra le masse popolari, colpite sempre più duramente da restrizioni di ogni genere e ormai consapevoli dell’imminente catastrofe, tanto nella classe dirigente, intenzionata a non lasciarsi travolgere dal crollo del regime. Gli eventi precipitarono allorquando gli Alleati, partiti dalla Tunisia, sbarcarono in Sicilia il 10 luglio 1943. L’occupazione della Sicilia da parte degli Alleati fece maturare anche ai vertici del regime l’idea di sbarazzarsi di Mussolini. Fu così che nella seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943, un ordine del giorno, proposto da D. Grandi, che invitava il capo del governo a dimettersi consentendo la riassunzione da parte del re delle prerogative costituzionali, venne approvato a larga maggioranza. Il re, messo di fronte alla crisi del regime, fece arrestare Mussolini e nominò capo del nuovo governo il maresciallo P. Badoglio. Obbiettivi del nuovo governo erano il ritorno al regime prefascista, evitando la convocazione di una Costituente che avrebbe potuto mettere in discussione la monarchia, lo sganciamento dai Tedeschi e il riallineamento con le potenze antinaziste. Badoglio, nel corso del governo detto dei 45 giorni, impose all’interno un ordine militare e, dopo aver dato ai Tedeschi assicurazioni circa la fedeltà dell’Italia, condusse con gli Alleati trattative segrete che portarono alla firma di un armistizio il 3 settembre L’armistizio, annunciato l’8 settembre, provocò la disgregazione dell’esercito, lasciato colpevolmente senza istruzioni operative. Il 9 settembre il re e Badoglio abbandonarono Roma e fuggirono prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli Alleati, dove insediarono il governo. La reazione dei Tedeschi fu immediata: posta sotto controllo militare l’Italia centro-settentrionale, essi il 12 settembre liberarono dal confino del Gran Sasso Mussolini, il quale si affrettò ad annunciare la costituzione del Partito fascista repubblicano, la nascita della Repubblica sociale italiana nei territori controllati dai Tedeschi e la costituzione di un nuovo governo con sede a Salò (23 settembre). L’Italia si trovò così divisa in due parti: una repubblica fascista, di diretta emanazione dei Tedeschi, e un “regno del Sud”, il 13 ottobre entrato in guerra contro la Germania. Mentre nel Nord andarono costituendosi le bande partigiane e prese ad agire il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI), nel regno del Sud si pose con urgenza il problema della formazione di un governo rappresentativo dei partiti politici antifascisti, che usciti dalla clandestinità avevano ripreso la loro attività. A dividere le forze in campo era l’atteggiamento da tenersi nei confronti del re e di Badoglio, dei quali i partiti antifascisti chiedevano l’allontanamento immediato in quanto corresponsabili del fascismo, mentre gli Alleati ne imponevano il rispetto a garanzia dell’armistizio e di un futuro assetto moderato. La situazione venne sbloccata nella primavera del 1944 allorché l’URSS, con una azione inattesa e precedendo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, riconobbe il governo Badoglio. Poco dopo Togliatti, leader del Partito comunista italiano, con la cosiddetta svolta di Salerno si espresse a sua volta a favore della formazione di un governo di unità nazionale, presieduto da Badoglio e appoggiato da tutti i partiti, avente come obbiettivo la lotta contro il nazifascismo; egli proponeva altresì che ogni decisione sui problemi di ordine istituzionale venisse rinviata alla fine della guerra e alla convocazione di un’assemblea costituente. Alla proposta di Togliatti, accolta da liberali e democristiani, si adeguarono infine anche il Partito d’azione e il PSIUP, sicché si arrivò il 21 aprile 1944 alla formazione di un nuovo governo Badoglio composto da esponenti dei partiti antifascisti, a seguito dell’impegno preso dal re di abdicare non appena Roma fosse stata liberata e di sottoporre a referendum popolare la scelta tra monarchia e repubblica a guerra finita. Fu così che il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione di Roma, il re trasferì i poteri al figlio Umberto in qualità di luogotenente e Badoglio si dimise: gli successe Italia Bonomi (giugno-dicembre 1944), il quale dovette affrontare il problema dei rapporti con la Resistenza che era andata sviluppandosi al Nord subito dopo l’8 settembre. Il movimento partigiano aveva coinvolto tutte le classi sociali; ma la massa dei combattenti era formata prevalentemente da operai, contadini e piccoli borghesi convinti che la lotta al nazifascismo costituisse il primo passo di una più ampia battaglia per la democratizzazione del vecchio stato. Interpreti di queste esigenze erano le formazioni partigiane legate ai socialcomunisti e al Partito d’azione (sorto nel 1942 principalmente dall’eredità di Giustizia e Libertà), le quali nutrivano la speranza che la fine della guerra avrebbe creato le condizioni per un abbattimento rivoluzionario del vecchio stato (fra i socialcomunisti era altresì diffusa la speranza che questa rivoluzione acquistasse anche un carattere sociale). Accanto a queste stavano le formazioni di orientamento moderato, minoritarie sul piano numerico, ma dotate di una notevole influenza in quanto appoggiate dalla borghesia, spostatasi all’ultimo momento sul fronte antifascista, dalla Chiesa e infine dagli Alleati, preoccupati che il movimento partigiano potesse diventare al Nord un fattore di radicalizzazione politica, difficilmente incanalabile alla fine della guerra. Occorreva dunque definire i rapporti tra il CLNAI, l’organismo cioè di direzione politica della Resistenza, il governo del Sud e gli Alleati. La soluzione adottata vide il pieno riconoscimento del movimento partigiano e dell’autorità del Comitato da parte degli Alleati e del governo Bonomi. Al tempo stesso, però, essi si impegnarono a sottostare al comando supremo dell’esercito regolare italiano e, in ultima istanza, al comando militare alleato; a riconoscere il governo del Sud come unico governo legittimo; ad accettare le decisioni del governo militare alleato all’atto della liberazione. Tutto questo mirava a limitare l’autonomia politica e militare del CLNAI e a impedire che dalla Resistenza potesse scaturire una forza di governo alternativa rispetto a quella del Sud. Tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 le forze partigiane nel Nord impegnarono Tedeschi e fascisti in scontri duri e sanguinosi. Il 24-25 aprile 1945, mentre le truppe alleate invadevano la Pianura Padana, raggiunse il culmine l’insurrezione che accelerò la resa dei Tedeschi, ormai vicini alla capitolazione. Mussolini, riconosciuto dai partigiani mentre, travestito da tedesco, tentava la fuga verso la Svizzera, venne arrestato e giustiziato il 28 aprile. Alla Conferenza di Parigi, tenutasi fra il luglio e l’ottobre 1946, per definire i trattati con i paesi alleati della Germania, vennero dettate le condizioni di pace. L’Italia perdeva Briga e Tenda a favore della Francia e la Venezia Giulia a favore della Iugoslavia. La città di Trieste, fonte di acute tensioni, venne dichiarata Territorio Libero e divisa in due zone: la zona A sotto amministrazione anglo-americana; la zona B sotto amministrazione iugoslava. Le colonie furono perdute: l’Albania e l’Etiopia riacquistarono l’indipendenza; si rinviò, per mancanza di accordo, ogni decisione in merito al futuro destino di Libia, Eritrea e Somalia; Rodi e il Dodecanneso andarono alla Grecia. All’Italia furono inoltre imposti una drastica riduzione delle forze militari e il pagamento di ingenti riparazioni di guerra. [314551] Il fascismo e la guerra lasciarono all’Italia una pesante eredità: una situazione economica assai grave; la frattura venuta a crearsi con la divisione politica e militare del paese durante il periodo della Resistenza, che aveva portato il Nord grazie al movimento di lotta contro il nazifascismo su posizioni più radicali e progressiste che non il Sud, dove la presenza del governo e della monarchia avevano assicurato la continuità delle vecchie strutture dello stato; la realtà dei partiti antifascisti, con le loro organizzazioni in via di consolidamento, i quali non erano in grado, in assenza di elezioni generali, di conoscere i reciproci rapporti di forza nonché gli orientamenti di fondo del paese. A ciò si deve aggiungere l’influenza della amministrazione militare alleata che condizionò pesantemente il clima politico ponendosi a garanzia dei partiti moderati. La situazione economica, pur essendo migliore di quella di altri paesi europei, era comunque assai pesante. Fortemente ridotta la capacità produttiva dell’apparato industriale; impoverita l’agricoltura; danneggiata la rete dei trasporti e il patrimonio edilizio: di fronte a questa realtà né lo stato né i privati erano in grado di avviare una seria ripresa per mancanza di capitali. Anche per affrontare questi problemi era più che mai urgente definire il tipo di direzione politica e sociale da dare al paese. E in ultima analisi prevalse sulle aspirazioni a un profondo rinnovamento del paese, diffuse prevalentemente al Nord, l’orientamento moderato proveniente dal Sud che portò ben presto alla ricostituzione del vecchio stato, di cui si affermò la “continuità” contro ogni proposito di rottura da parte delle forze di sinistra. I partiti politici, infine, attendevano le elezioni che avrebbero decretato la vittoria dell’uno o dell’altro orientamento. Con la liberazione, Bonomi dovette cedere il potere a un governo più rappresentativo delle forze politiche in gioco. Da un compromesso tra i maggiori partiti uscì la designazione di F. Parri (giugno-novembre 1945) il cui governo durò in carica pochi mesi per il venir meno dell’appoggio di democristiani e liberali al suo programma di politica economica, giudicato troppo sbilanciato a sinistra. Seguì il primo ministero di A. De Gasperi (dicembre 1945-luglio 1946) che attuò energicamente una svolta moderata. Forte del fatto che dal 1° gennaio 1946 gli Alleati avevano restituito alle autorità italiane l’amministrazione dell’Italia del Nord, De Gasperi provvide subito a eliminare i prefetti e i questori nominati dai CLN all’atto della liberazione, reintegrando a pieno titolo la burocrazia centrale, e si affrettò a chiudere il processo di epurazione dei fascisti, con l’adesione dello stesso PCI e con soddisfazione delle forze moderate e anche degli Alleati. Un avvenimento importante furono le elezioni amministrative svoltesi nella primavera del 1946, poiché per la prima volta consentirono di quantificare il consenso per ciascun partito. Si affermarono come grandi partiti di massa la Democrazia cristiana, il Partito socialista e il Partito comunista. Il 2 giugno 1946 si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente e il referendum per la scelta della forma istituzionale, monarchia o repubblica. Le prime confermarono nella sostanza i risultati delle amministrative: i tre grandi partiti raccolsero, infatti, da soli il 75% dei suffragi. La Democrazia cristiana ebbe una forte affermazione in tutta Italia (35,2%) anche grazie all’appoggio della Chiesa cattolica schieratasi in modo massiccio al suo fianco; ai socialisti (20,7%) e ai comunisti (19%), invece, andò prevalentemente il voto del proletariato industriale e agricolo dell’Italia centro-settentrionale. Una bruciante sconfitta subì il Partito d’azione (1,5%), che aveva avuto un ruolo di primo piano nella Resistenza e vantava tra le sue file molti degli intellettuali e politici di maggior prestigio. E fortemente ridimensionato uscì il Partito liberale (6,8%), che era stato al potere per i primi cinquant’anni dello stato unitario. Il referendum istituzionale portò alla fine della monarchia nonostante Vittorio Emanuele III il 9 maggio, con una mossa atta a sgomberare il terreno dalla sua persona compromessa con il fascismo, avesse abdicato a favore del figlio Umberto. I voti per la repubblica furono 12.717.923; quelli per la monarchia 10.719.284, rispettivamente il 54,3% e il 45,7%. Il 28 giugno venne eletto presidente provvisorio della Repubblica il liberale indipendente De Nicola. Primo presidente eletto dalle Camere (11 maggio 1948) dopo il varo della costituzione sarebbe stato il liberale L. Einaudi. Dopo le elezioni si formò il secondo ministero De Gasperi (luglio 1946-febbraio 1947), l’ultimo retto da una coalizione tra partiti di centro (DC, PRI) e di sinistra (PCI, PSIUP). Nel frattempo l’Assemblea costituente aveva iniziato i lavori per dare al paese una nuova carta costituzionale. Particolare valore ebbe, per le conseguenze che ne sarebbero derivate, la discussione dell’art. 7 che doveva sancire l’inserimento nella costituzione degli accordi del Laterano, cioè il concordato del 1929 fra la Chiesa cattolica e lo stato fascista. Di fronte alla minaccia di De Gasperi di sottoporre il testo costituzionale a referendum nel caso l’articolo non venisse approvato e nel timore di una rottura della coalizione, Togliatti annunciò il voto favorevole del suo partito. Con l’opposizione di socialisti, repubblicani e azionisti, il 25 marzo 1947 entrò nel testo costituzionale il concordato che riconosceva alla Chiesa cattolica una condizione di privilegio sulle altre confessioni religiose. Ma proprio mentre il partito comunista cercava in ogni modo di garantire la sua permanenza al governo, cominciavano a farsi sentire anche in Italia gli echi di quella “guerra fredda” che avrebbe di lì a poco diviso in due blocchi contrapposti i democristiani e i comunisti con i rispettivi alleati. La prima grave frattura si produsse nel partito socialista, dal quale si staccarono per iniziativa di G. Saragat quanti erano contrari a una intesa con i comunisti (gennaio 1947). Prendendo atto della scissione del partito socialista che modificava i rapporti interni ai partiti di governo, De Gasperi, rientrato da un viaggio negli S.U.A. dove aveva ricevuto promesse di consistenti aiuti economici, diede le dimissioni e formò un nuovo governo (febbraio-maggio 1947) chiaramente a carattere transitorio. Quindi, nel maggio, sentendosi sufficientemente forte, decise di liquidare i governi di coalizione con le sinistre aprendo la stagione dei governi di centrodestra con un gabinetto nel quale entrarono esponenti liberali e repubblicani come Einaudi e Sforza. Il 1° maggio 1947 in Sicilia, a Portella della Ginestra, la banda di S. Giuliano compì una strage contro contadini inermi, nel quadro della lotta delle forze moderate contro la sinistra e delle ormai moribonde velleità del movimento separatista siciliano. Il 22 dicembre 1947 l’Assemblea costituente, che era stata presieduta prima dal socialista Saragat poi dal comunista Terracini, approvò con 453 voti a favore e 62 contrari il testo della nuova costituzione repubblicana, che entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Nei suoi contenuti essa fu il frutto dell’incontro fra i principi generali del liberalismo democratico e le istanze sociali avanzate dalle grandi forze popolari della sinistra e della Democrazia cristiana: infatti i “diritti di libertà” vennero posti a fondamento di una concezione che si allargava al riconoscimento dei “diritti sociali”, nella consapevolezza storica del nuovo peso acquistato dalle masse lavoratrici. Una volta varata, la costituzione restò per molti anni disattesa nelle sue parti più innovative per la resistenza delle forze conservatrici. La divisione sempre più netta dell’Europa in due sfere di influenza ebbe importanti conseguenze sulla politica interna italiana. L’opinione pubblica si trovò spaccata in due campi contrapposti: la scelta per la DC divenne scelta a favore dell’“Occidente”; la scelta per il PCI e il PSI divenne scelta a favore dell’“Oriente”. Il 18 aprile 1948 si tennero le elezioni politiche. Nella campagna elettorale i temi di politica interna passarono in secondo piano rispetto a quelli ideologici e di schieramento internazionale. Ai due maggiori partiti della sinistra, uniti in una lista di Fronte popolare, si contrappose un blocco anticomunista all’interno del quale la DC si presentò come l’unica alternativa democratica e moderata. Finanziata dagli S.U.A., sostenuta dalla Chiesa che fece del voto al partito cattolico un dovere religioso, fiancheggiata da una rete di comitati civici e dall’Azione cattolica, la DC condusse una offensiva propagandistica di grande efficacia. E difatti la sua vittoria fu clamorosa: essa ottenne il 48,5% dei voti e 305 seggi contro il 31% e 183 seggi del Fronte popolare. Benché in possesso della maggioranza assoluta dei seggi, e di conseguenza in grado di formare un governo monocolore democristiano, De Gasperi preferì evitare di portare da solo la responsabilità del potere in una situazione sociale e politica ancora difficile e offrì ai partiti minori (repubblicano, liberale e socialdemocratico) la partecipazione al governo. Ebbe così avvio nel maggio 1948, con un governo quadripartito sotto il saldo controllo della DC, la fase storica cosiddetta del centrismo. Il clima di violenta contrapposizione tra comunismo e anticomunismo, che aveva già prodotto la divisione del socialismo italiano, portò nel 1948 alla scissione della Confederazione generale italiana del lavoro, risorta come organizzazione unitaria di tutti i lavoratori nel 1944. Alcuni esponenti di minoranza, legati politicamente ai partiti anticomunisti, presero l’iniziativa di creare un’alternativa sindacale legata al campo occidentale. L’occasione venne offerta da una grave crisi politica che investì il paese dopo un attentato alla vita di Togliatti compiuto da uno studente il 14 luglio. La reazione dei lavoratori fu immediata e spontanea. Si ebbero scontri violenti tra polizia e operai, che non sfociarono in una guerra civile anche grazie alle direttive dello stesso Togliatti, il quale si oppose fermamente a una insurrezione. Le agitazioni vennero contenute e quindi si spensero. Ma la proclamazione dello sciopero generale da parte della CGIL il 14 luglio spinse a uscire dal sindacato unitario, accusato di filocomunismo, prima i sindacalisti cattolici e poi, pochi mesi dopo, quelli repubblicani e socialdemocratici. Nacquero così nel 1949 la Unione italiana del lavoro (UIL), e nel 1950 la Confederazione italiana sindacati lavoratori (CISL), di ispirazione cattolica; nel 1950 nasceva altresì la Confederazione italiana sindacati nazionali lavoratori (CISNAL), di matrice fascista. Operata con decisione la scelta di campo a favore del mondo occidentale, la classe dirigente italiana si accinse a guidare il processo di ricostruzione del paese. Tra le due possibili scelte di politica economica: che lo Stato assumesse nelle proprie mani l’opera di ricostruzione, oppure che questa venisse affidata sostanzialmente all’iniziativa privata, prevalse la seconda. Contrari al dirigismo statalistico erano i maggiori economisti italiani, che vedevano in una politica liberistica e privatistica il presupposto per eliminare i residui di parassitismo di tanta parte dell’industria italiana, cresciuta all’ombra del protezionismo fascista. E furono proprio questi gli uomini che diressero la politica economica dell’Italia nel periodo della ricostruzione. La ripresa produttiva fu lenta, ma i risultati, anche grazie ai consistenti aiuti americani, non mancarono. Decisiva fu la svolta impressa da Einaudi, allora ministro del Bilancio, con le drastiche misure adottate nel 1947 per contenere l’inflazione e il rialzo dei prezzi: sostanzialmente, svalutazione e stretta creditizia. Ma alla fine del 1948 la produzione industriale e agricola dell’Italia che in giugno aveva aderito al piano Marshall, era in netta ascesa. L’atteggiamento delle sinistre di fronte ai problemi della ricostruzione fu improntato in generale a uno spirito di “solidarietà nazionale” e, quindi, di collaborazione condizionata con le forze imprenditoriali. Esso era d’altra parte il risultato della scelta iniziale di assumere posti di responsabilità nei governi di coalizione e di rinuncia a una alternativa rivoluzionaria. Tra il 1948 e il 1953, anno di nuove elezioni, si succedettero quattro governi De Gasperi, tutti di coalizione, con l’appoggio parlamentare dei quattro partiti di centro. Questo periodo fu contraddistinto da uno sforzo di rinnovamento della struttura economico-sociale messo in atto da quelle stesse forze moderate che si erano affermate così clamorosamente nel 1948. La DC, a parte la sua destra più conservatrice, intendeva contrapporre ai partiti di sinistra una sua politica riformatrice per acquisire un più ampio e stabile consenso, specie nelle campagne meridionali dove il PCI aveva esteso la sua influenza tra i braccianti e i contadini poveri in lotta contro i latifondisti. A premere perché venisse introdotta una serie di riforme nei settori più arretrati dell’economia nazionale era anche una parte della borghesia imprenditoriale, quella cioè che considerava il permanere di una struttura agraria ancora di tipo semifeudale come un ostacolo a un moderno sviluppo capitalistico. Nel 1950 venne dunque varata una riforma agraria i cui risultati furono però modesti per le tenaci resistenze che incontrarono i pur moderati progetti elaborati dal governo. Il fine era quello di dar vita a una robusta piccola proprietà contadina che mettesse fine al regime di latifondo; ma i criteri, in larga misura politico-clientelari, adottati per la distribuzione della terra, si rivelarono del tutto inadeguati. Le nuove proprietà, che i contadini assegnatari dovevano riscattare, risultarono di dimensioni troppo ridotte, costituite dai terreni meno fertili che i latifondisti avevano acconsentito a cedere dietro indennizzo, e per lo più prive di una adeguata assistenza tecnica. La produttività rimase quindi al limite della sussistenza, tanto che molti degli assegnatari avrebbero poi preso la via dell’emigrazione verso il Nord Italia o verso l’estero. Un’altra legge destinata ad avere conseguenze di lungo periodo fu quella che istituì nel 1950 la Cassa per il Mezzogiorno, un ente per l’attuazione mediante finanziamento pubblico di un piano di infrastrutture che avrebbero dovuto stimolare lo sviluppo economico delle regioni meridionali. I risultati non furono proporzionali agli investimenti effettuati; venne comunque avviato il processo di modernizzazione delle strutture economiche e sociali. [314561] Il quinquennio 1948-53 si chiuse con un bilancio soddisfacente sotto il profilo della mera crescita economica: già nel 1950 la ricostruzione poteva considerarsi ultimata e nel 1954 la produzione era quasi raddoppiata rispetto a quella del 1938. Tale crescita, però, da attribuirsi all’incremento della produttività, era stata ottenuta senza che venissero affrontati e attenuati i profondi squilibri che caratterizzavano la società italiana. Questi dovevano inevitabilmente emergere negli anni successivi, a mano a mano che perdevano di importanza i fattori che avevano determinato la grande vittoria della DC nel 1948, vale a dire: la psicosi anticomunista, la promessa degli aiuti americani condizionati al voto, il convergere verso questo partito della gran parte dei conservatori. Già le elezioni amministrative del 1951 e 1952 avevano segnato un consistente calo elettorale del partito di maggioranza relativa. Nel 1951 venne varata la riforma fiscale di cui fu artefice E. Vanoni, la quale introdusse l’imposta sul reddito. Per garantire alla maggioranza di governo una salda maggioranza nel futuro parlamento, De Gasperi fece approvare una nuova legge elettorale, la quale prevedeva che ai partiti apparentati che avessero ottenuto il 50,01% dei voti sarebbe andato il 65% dei seggi alla Camera dei deputati. La legge venne aspramente combattuta sia dalle destre sia dalle sinistre, che la battezzarono la “legge truffa”. Le elezioni si svolsero il 7 giugno 1953. I partiti della coalizione governativa (DC, PRI, PLI e PSDI) ottennero il 49,85% dei suffragi, mancando il quorum necessario a far scattare la legge elettorale per soli 57.000 voti; nel luglio 1954 la legge maggioritaria sarebbe stata abrogata. La DC perse, rispetto al 1948, quasi due milioni di voti e in regresso furono anche i partiti alleati. Ebbero al contrario un notevole successo le sinistre, nonostante la scomunica lanciata da Pio XII contro i marxisti e, al lato opposto, le destre monarchica e neofascista. I cinque anni della seconda legislatura (1953-58) furono poco incisivi dal punto di vista politico e segnarono un rallentamento del processo di modernizzazione della società italiana. All’ultimo, fallito tentativo di formare un governo da parte di De Gasperi, seguirono cinque governi, di cui tre monocolore, i primi due e l’ultimo, e due con l’apporto di liberali e socialdemocratici. Nel 1955 l’Italia entrò a far parte dell’ONU. Di notevole peso fu l’accordo raggiunto nel 1954 sulla questione di Trieste. Gli Anglo-Americani si erano pronunciati prima delle elezioni del 1948 a favore della restituzione della città all’Italia. Nel 1953 annunciarono il ritiro delle truppe dalla zona occupata e la trasmissione al governo italiano dei poteri da essi esercitati, in attesa di una soluzione definitiva della questione. Le dichiarazioni di G. Pella, allora presidente del Consiglio, di voler annettere l’intero Territorio Libero di Trieste aprirono una grave crisi nelle relazioni tra Italia e Iugoslavia, che portò alla mobilitazione di truppe da entrambe le parti. La tensione presto diminuì, ma la questione rimase sul tappeto e si concluse il 5 ottobre 1954, sotto il governo Scelba, con la firma a Londra di un memorandum di intesa in base al quale l’Italia rinunciava alla zona B in favore della Iugoslavia ottenendo a sua volta Trieste e la zona A. A metà della legislatura cadde l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo la fine del settennato Einaudi. Il candidato della DC, C. Merzagora, non ottenne i voti necessari e al suo posto venne eletto, grazie all’appoggio determinante dei comunisti e dei socialisti, un democristiano di sinistra, G. Gronchi (aprile 1955), il quale nel suo messaggio al paese rivolse un chiaro invito alle classi dirigenti a porre fine al centrismo inaugurando una nuova stagione di riforme. L’invito cadde sostanzialmente nel vuoto e la legislatura finì senza atti di grande rilievo sul piano politico, se si eccettua la nomina nel 1955 della Corte costituzionale, avvenuta con sette anni di ritardo per le resistenze dei conservatori ad accettare la piena attuazione della costituzione repubblicana e l’adeguamento conseguente della legislazione fascista alle norme da questa previste. La “destalinizzazione” prima e poi l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche nel 1956 ebbero profonde ripercussioni sulla sinistra italiana, portando prima alla rottura del patto di unità di azione fra PCI e PSI, quindi a un avvicinamento del PSI alla socialdemocrazia. Dal canto suo Togliatti sottolineò che il PCI intendeva seguire una “via italiana” al socialismo. Nel 1957 si avviò concretamente a Roma il processo di integrazione europea, con la firma dei trattati istitutivi della CEE (Comunità economica europea) e dell’Euratom per lo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare. Le elezioni del maggio 1958 confermarono un quadro di sostanziale stabilità politica. La DC, pur non avendo al suo attivo grandi riforme, poté presentarsi agli elettori come il partito che aveva assicurato al paese un notevole sviluppo economico e venne da questi premiata (passò dal 40,1% al 42,3%). Queste elezioni caddero in un clima interno e internazionale profondamente modificato rispetto alle condizioni che avevano favorito la genesi e quindi la stabilizzazione della formula centrista. In primo luogo, l’inizio del processo di distensione internazionale e l’assottigliarsi delle barriere create dalla guerra fredda indebolivano l’anticomunismo programmatico imposto dall’alleanza con gli Stati Uniti e avallato ufficialmente dalla Chiesa cattolica. In secondo luogo, andava maturando nel paese l’esigenza di dare espressione, coinvolgendole nelle scelte di governo, alle masse lavoratrici che avevano sopportato i maggiori costi della ricostruzione prima e poi dell’intenso sviluppo economico degli anni 1953-58. È vero che la DC manteneva le sue caratteristiche di partito popolare, con una componente anche operaia e soprattutto contadina; ma il proletariato urbano era per lo più legato ai partiti della sinistra, comunista e socialista, o direttamente o attraverso la CGIL. Andava quindi facendosi strada l’esigenza di un accordo politico tra la DC e parte dell’opposizione. A renderlo possibile, con molte contraddizioni e limitazioni, intervennero l’evoluzione politica e ideologica del PSI e il suo distacco dal PCI. A questo punto la DC, che non avrebbe potuto accettare un’intesa con i comunisti, accettò invece quella con i socialisti, intenzionata anche a trarre profitto dalla rottura determinatasi tra i maggiori partiti della sinistra. Si inaugurò così la stagione del centrosinistra, favorita anche dall’elezione al pontificato nell’ottobre 1958 di Giovanni XXIII, che, con la svolta altresì impressa dall’apertura del concilio Vaticano II (1962-65), aprì la Chiesa cattolica a nuove istanze sociali e alla distensione, dopo lo spirito di crociata che aveva ispirato l’azione di Pio XII. Il centrosinistra, come formula di intesa tra democristiani e socialisti per avviare nel paese un programma di riforme capace di correggere nuovi e vecchi squilibri della società italiana, ebbe fin dall’inizio dei vincoli assai pesanti. La DC, infatti, rimase complessivamente troppo legata a interessi conservatori per mettersi con decisione sulla strada di un rinnovamento che, se reale, avrebbe inevitabilmente colpito proprio quegli strati sociali su cui poggiava in larga misura il suo potere. Il centrosinistra fu dunque più una esigenza programmatica che una politica concreta e apparve segnato fin dal suo nascere da polemiche e ambiguità che finirono per determinare un senso di frustrazione nei suoi stessi artefici. Nei disegni della DC e del PSI uno degli obbiettivi del centrosinistra era quello di ridurre l’area di consenso di cui godeva il PCI in quanto forza di opposizione, ma la scarsa incisività dell’azione riformatrice avrebbe avuto l’effetto opposto. La svolta fu comunque tutt’altro che facile. Ci vollero ancora quattro anni, dopo le elezioni del 1958, prima che si costituisse nel 1962 il primo governo di centrosinistra, non senza che venisse tentato dalle forze di destra, appoggiate dalle gerarchie ecclesiastiche, di fermare con F. Tambroni (marzo-luglio 1960) l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. Questi, divenuto presidente del consiglio con i voti, oltre che della DC, dei liberali e dei neofascisti, si distinse per la durezza con la quale affrontò l’ondata di manifestazioni contro i rischi di involuzione del clima politico. Ma il processo di apertura era ormai andato troppo avanti e Tambroni fu costretto a dimettersi proprio dietro la pressione dell’opinione pubblica, indignata dalle violenze della polizia contro la protesta democratica e antifascista che riempì le piazze delle maggiori città italiane. Nel gennaio 1962 un congresso della DC, tenutosi a Napoli, varò definitivamente la linea di centrosinistra sotto la leadership ideologica di A. Moro e di A. Fanfani. Quest’ultimo formò il primo governo con l’appoggio parlamentare dei socialisti, nel corso del quale furono conseguiti alcuni importanti obbiettivi programmatici, tra i quali la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’estensione dell’obbligo scolastico fino a 14 anni. Non venne invece attuato un punto fondamentale, e cioè quello relativo all’istituzione delle Regioni a statuto ordinario previste dalla Costituzione, per l’ostilità della DC, timorosa che l’autonomia potesse diventare un punto di forza per le sinistre, specie per i comunisti. Le elezioni del 1963 segnarono una battuta d’arresto nella politica di centrosinistra. I risultati furono deludenti per i partiti che l’avevano sostenuta, fatti oggetto di attacchi concentrici da destra e da sinistra. Moro, segretario della DC, incaricato di fare un governo con tale formula, dovette rinunciare per la mancanza di accordo sul programma fra i democristiani, all’interno dei quali forti erano le pressioni per una impostazione moderata, e i socialisti, la cui sinistra chiedeva riforme incisive. Si arrivò così a un governo di transizione presieduto dal democristiano G. Leone, che portò avanti una politica di ordinaria amministrazione. Nel dicembre 1963 Moro formò il primo governo con la partecipazione diretta del PSI, avente quali obbiettivi principali l’attuazione dell’ordinamento regionale e l’avvio di una politica di programmazione economica. Questo governo non ebbe vita facile non soltanto per l’opposizione della destra democristiana e della sinistra del PSI, che nel 1964 si staccò dal partito dando vita al PSIUP, ma anche per le difficoltà della congiuntura economica entrata in una fase recessiva. Il governo cadde nel luglio 1964, ma il centrosinistra riportò una vittoria con l’elezione a presidente della Repubblica di G. Saragat, il capo del partito socialdemocratico. Questi era successo ad A. Segni, eletto nel 1962 e dimessosi nel 1964 per ragioni di salute, dopo essersi dimostrato un deciso avversario del centrosinistra. Con tutti i limiti e le contraddizioni, la svolta rappresentata dal centrosinistra ebbe significative ripercussioni sui partiti politici italiani. Si accentuarono le divisioni all’interno della DC, tra una destra conservatrice e una sinistra che, forte anche del messaggio di Giovanni XXIII, spingeva per un più radicale rinnovamento e per un più incisivo impegno sociale. Ma una conversione organica di questo partito al riformismo progressista urtava contro la sua struttura interclassista e contro il peso preponderante degli interessi conservatori. Una seria azione riformatrice avrebbe, infatti, dovuto necessariamente colpire quelle pratiche clientelari e quell’appoggio sistematico a ceti ed enti parassitari sui quali la DC aveva costruito nel tempo la base del proprio potere. Al travaglio della DC contribuiva il fatto che essa, pur restando il partito di maggioranza, non riusciva a scalfire la forza dell’opposizione comunista. Socialisti e socialdemocratici ritennero che fossero ormai mature le condizioni per superare la scissione del 1947. Era convinzione comune che un Partito socialista unificato, al quale si giunse non senza gravi contrasti interni al PSI nel 1966, avrebbe potuto presentarsi come alternativa alla lunga egemonia della DC e porre le premesse per la creazione in Italia, come nelle altre democrazie mature, di due grandi partiti, uno conservatore e uno progressista. Anche il PCI si trovò di fronte a problemi che esigevano innovazioni di linea politica. Avvertendo, sia pure con molte contraddizioni, la crisi del modello sovietico, esso si era attestato sulla teoria della “via italiana al socialismo”, vale a dire su una prospettiva di superamento del capitalismo non già mediante un processo rivoluzionario, bensì attraverso riforme di struttura, tali cioè da incidere realmente sul potere del grande capitale monopolistico, da attuarsi per via parlamentare. E poiché i comunisti ritenevano che i socialisti non fossero in grado di guidare un processo riformatore incisivo, per la cui realizzazione giudicavano indispensabile il proprio apporto, la lotta al centrosinistra, che mirava a isolare i comunisti, divenne l’asse centrale della politica del PCI. Queste erano state d’altra parte le indicazioni lasciate da Togliatti, il capo indiscusso del partito per oltre trent’anni, morto nel 1964 a Jalta, nel suo testamento politico, poi noto come il memoriale di Jalta. Fra il luglio 1964 e il giugno 1968, Moro presiedette due governi di centrosinistra, la cui efficacia venne di fatto compromessa dai persistenti contrasti tra le tendenze moderate all’interno della DC e i socialisti. Furono approvate alcune leggi importanti, tra cui quelle sulla programmazione economica, sull’ordinamento regionale, sulla riforma sanitaria. Ma altre riforme rimasero lettera morta e, soprattutto, quelle approvate urtarono contro la mancanza dei mezzi tecnici, finanziari e amministrativi necessari alla loro piena attuazione, rivelando fin dagli inizi quello che sarebbe stato il limite strutturale del processo riformatore italiano. Il carattere nell’insieme assai cauto della svolta attuata da una parte della classe dirigente italiana con l’esperimento di centrosinistra non fu tuttavia sufficiente a vincere i timori degli ambienti più conservatori. A partire dal 1964 cominciò a farsi strada una tendenza all’azione clandestina e illegale a fini eversivi che aveva appoggi all’interno delle stesse istituzioni dello stato. In quell’anno il generale De Lorenzo, capo del Servizio informazioni delle forze armate (SIFAR), prese contatti con esponenti politici ostili all’apertura verso i socialisti per un eventuale colpo di stato militare (piano Solo). Lo scandalo del coinvolgimento dei servizi segreti in trame eversive venne alla luce nel 1967 e provocò forti reazioni nell’opinione pubblica, nonostante i tentativi da parte dello stesso governo di soffocarne l’ampiezza. Il 19 maggio del 1968 si svolsero le elezioni politiche. I risultati, favorevoli alla DC e al PCI, segnarono il fallimento dell’unificazione avvenuta nel 1966 fra socialisti e socialdemocratici (che, dopo aver dato vita al Partito socialista unificato, tornarono nel 1969 ai loro partiti tradizionali) e videro accentuarsi la polarizzazione dell’elettorato sui due grandi partiti di massa. Ma il centrosinistra non aveva alternative e si mantenne come formula di governo, svuotata di ogni spinta innovativa, proprio nel momento in cui venivano a galla i numerosi problemi insoluti. Questi provocarono un’ondata di gravi tensioni politiche e sociali, che costituì la componente di un più generale processo di mobilitazione che coinvolse tra il 1967 e il 1968 gran parte dei paesi occidentali. In Italia la debolezza dell’azione riformatrice e il persistere di profondi squilibri economici e sociali alimentarono una generale insoddisfazione che portò masse crescenti di studenti e di operai su posizioni di critica radicale della realtà nazionale. Molta parte della gioventù studentesca diresse inizialmente tale insoddisfazione contro le istituzioni scolastiche e universitarie, viste come lo specchio di una società incapace di rinnovarsi. Gli operai, invece, si rivoltarono contro un tipo di sviluppo che produceva nuovi e profondi squilibri. La contestazione studentesca si saldò quindi con la protesta operaia, dando al movimento una profondità di radici prima e una durata poi senza paragone in alcun altro paese. Nel 1968-69 si ebbero continue manifestazioni culminate nell’occupazione a catena delle università e un’ondata di scioperi senza precedenti, accompagnati da violenti scontri con le forze dell’ordine. Le lotte operaie ebbero l’effetto di compattare il fronte dei lavoratori favorendo l’unificazione sindacale, che trovò espressione nella stipulazione di un patto di unità di azione fra le tre maggiori Confederazioni e in una riacquistata autonomia dei sindacati dai partiti. Furono con ciò conseguiti alcuni importanti obbiettivi: l’adeguamento dei salari italiani alla media europea e, nel 1970, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori che mutò sostanzialmente il clima delle relazioni industriali, garantendo i lavoratori dai licenziamenti arbitrari, tutelando la presenza sindacale e le libertà politiche all’interno dei luoghi di lavoro. Ma la classe dirigente italiana si dimostrò impreparata ad affrontare l’ondata di agitazioni che sconvolse il paese. Le destre, compresa quella della DC, chiesero a gran voce un “governo forte” che mettesse fine ai disordini, attaccando al tempo stesso la svolta politica degli ultimi anni, accusata di aver aperto le porte alla rivoluzione sociale. Forze eversive di destra, con l’appoggio mascherato di ambienti conservatori e la complicità di parte dei servizi segreti, presero a tessere “trame nere” puntando al collasso della repubblica. Nel dicembre 1969, numerosi attentati dinamitardi, compiuti per diffondere il panico nel paese, culminarono nella strage della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana, a Milano, dove un ordigno provocò la morte di 16 persone e numerosi feriti, segnando l’inizio di quella che venne definita “strategia della tensione”. [314571] La strage di piazza Fontana aprì uno dei periodi più drammatici della storia d’Italia, caratterizzato da una crisi crescente di delegittimazione dello stato democratico, dovuta in egual misura all’incapacità delle classi dirigenti di risolvere i problemi di una società in crescita disordinata e alla presenza di opposizioni di destra e di sinistra, decise ad attaccare le istituzioni. Infatti, ad auspicare l’abbattimento del debole e inefficiente stato democratico non erano soltanto le forze eversive di destra – che nel 1970 fomentarono una vera e propria rivolta a Reggio di Calabria, seguita nel 1971 da una ondata di agitazioni in altre zone del Sud – ma anche quelle della sinistra extraparlamentare, cioè di quella costellazione di gruppi i quali, in polemica con il “revisionismo” e il “riformismo” dei partiti tradizionali delle sinistre, e in particolare del PCI, ritenevano stessero maturando in Italia le condizioni per una rivoluzione proletaria. A portare su un terreno direttamente sovversivo le tendenze neorivoluzionarie fu il terrorismo di sinistra, che contribuì, con quello di destra, a creare nel paese, durante gli anni Settanta, una situazione sempre più drammatica. Esso esercitò una forte attrazione su consistenti strati di operai, studenti e intellettuali anche grazie al clima di incertezza creato dalle “trame nere”, alla inefficienza e corruzione dei partiti di governo, alla complicità di influenti settori degli stessi apparati statali con il terrorismo di destra. Sorse così un vero e proprio partito armato di sinistra, composto da una serie di organizzazioni tra cui si distinsero le Brigate rosse, nate nel 1970 e in seguito diventate protagoniste di sequestri, ferimenti, assassini politici accompagnati da processi rivoluzionari e da propaganda ideologica. Tra il 1969 e il 1972 si succedettero quattro governi in parte monocolore in parte stanche riedizioni del centrosinistra, al cui attivo furono però le leggi del 1970 che, oltre che il menzionato Statuto dei lavoratori, istituirono l’ordinamento regionale e il divorzio. Nel dicembre 1971 venne eletto presidente della Repubblica, con i voti determinanti del MSI, il democristiano G. Leone, che si sarebbe dimesso nel giugno 1978 in seguito ad accuse giornalistiche di irregolarità fiscali, di traffici immobiliari e di un suo coinvolgimento nello scandalo Lockheed. Nel maggio 1972 si tennero le elezioni anticipate, le prime nella storia della repubblica. I risultati non registrarono spostamenti significativi, se si eccettua l’avanzata del MSI-Destra nazionale che raggiunse l’8,7%. Seguirono un governo centrista guidato da G. Andreotti (giugno 1972-luglio 1973), caratterizzato da una grande dilatazione della spesa pubblica, finalizzata a ottenere il consenso di forti categorie sociali, e due governi Rumor (luglio 1973-novembre 1974), che dovettero adottare una serie di provvedimenti di politica economica per combattere l’inflazione e gli effetti della crisi energetica seguita alla guerra arabo-israeliana del 1973. Il clima generale della vita pubblica si era però fortemente deteriorato. In questi anni entrò nel linguaggio corrente il termine “lottizzazione” per indicare l’occupazione dei posti di potere a opera dei partiti di governo, e si diffuse fortemente la pratica delle tangenti. Proprio in relazione a quest’ultima, nel 1974 scoppiò un grave scandalo che coinvolse i partiti di governo per illeciti favoreggiamenti concessi a grandi compagnie petrolifere in cambio di cospicui finanziamenti. Per porre argine alla corruzione il parlamento varò in quello stesso anno la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, ma gli effetti furono assai modesti. Per contro, il diffondersi della corruzione pubblica e l’emergere della complicità di influenti forze politiche e sociali nelle “trame nere” diedero nuovo impulso alla protesta estremistica, spingendo nuove leve di giovani ad appoggiare direttamente o indirettamente il terrorismo di sinistra. Nel 1974 il rapimento del giudice genovese Mario Sossi segnò l’inizio di una stagione caratterizzata dal tentativo delle formazioni clandestine della sinistra extraparlamentare di sovvertire lo stato mediante il ricorso ad azioni illegali che avrebbero dovuto mostrare alle masse la sua vulnerabilità e spostarle su posizioni rivoluzionarie. Sempre nel 1974 si ebbero la strage di Brescia e l’attentato al treno Italicus. Sequestri e attentati contro esponenti della classe dirigente – uomini politici, dirigenti industriali, magistrati, giornalisti e intellettuali – rapine, scontri armati tra terroristi e forze dell’ordine si susseguirono per circa un decennio, lasciando un solco sanguinoso nella storia di quegli anni, non a caso definiti “anni di piombo”. Di fronte alla minaccia di scardinamento dello stato i comunisti, investiti dalla critica distruttiva delle formazioni extraparlamentari e preoccupati di un possibile cedimento dello stato, trovarono una oggettiva convergenza e un terreno di intesa con la DC nella difesa delle istituzioni. Nell’autunno del 1973 il segretario del Partito comunista, E. Berlinguer, lanciò la linea detta del compromesso storico tra comunisti, socialisti e democristiani che avrebbe dovuto portare alla formazione di un governo di solidarietà nazionale in grado di opporsi alla destabilizzazione delle istituzioni e aprire un nuovo e più efficace processo riformatore. L’interlocutore privilegiato di Berlinguer nella DC divenne Moro, convinto sostenitore della necessità di un accordo politico di fondo con i comunisti. Fu infatti Moro, lo stesso che aveva costituito nel 1963 il primo governo organico di centrosinistra, a formare nel novembre 1974 un governo DC-PRI che, pur godendo dell’appoggio parlamentare di PSI e PSDI, di fatto segnò l’esaurimento di quella formula. Il leader democristiano riteneva che fosse giunto il momento di dare al paese un nuovo corso politico, ma le resistenze all’interno del suo partito erano forti. Tanto più che i processi di mutamento in senso antitradizionale e antiautoritario, nella mentalità e nei costumi specie delle masse giovanili, messi in moto dalla contestazione a partire dal 1968, avevano profondamente allarmato il mondo cattolico – come ebbe a dimostrare la battaglia contro il divorzio, combattuta strenuamente dai cattolici e persa due volte: una prima al momento della sua approvazione al parlamento nel 1970 e poi, nel 1974, con la sconfitta subita nel referendum popolare per la sua abrogazione. Un significato importante per l’evoluzione del quadro politico ebbero le elezioni amministrative del giugno 1975 che, grazie alla forte affermazione del partito comunista, videro il passaggio di importanti regioni, province e comuni del Centro-Nord sotto amministrazioni di sinistra. Il successo del partito comunista uscì confermato e rafforzato dalle elezioni politiche del 1976 che segnarono altresì l’ingresso in parlamento, per la prima volta, dei radicali, che erano stati i protagonisti delle lotte per l’affermazione e l’allargamento dei diritti civili. Il consenso raccolto dal PCI, che toccò allora il suo massimo storico (34,4%), fu in larga misura espressione dell’insoddisfazione di ampi strati di ceto medio, tradizionalmente schierati con la Democrazia cristiana e i suoi alleati, nei confronti della politica dei partiti di governo e della corruzione legata all’esercizio del potere. E il Partito comunista poté beneficiarne in quanto partito di opposizione che aveva dato sufficienti garanzie di lealtà democratica sia con la ferma condanna del terrorismo rosso sia con la revisione ideologica avviata con la svolta “eurocomunista”. Con questa svolta, sviluppatasi fra il 1974 e il 1977 e che coinvolse anche i comunisti spagnoli e francesi, il PCI teorizzò la piena adesione ai principi della democrazia pluralista e la ricerca di “una terza via” fra comunismo di tipo sovietico e socialdemocrazia. Il suo successo elettorale rese però impraticabile sia l’accordo diretto con la Democrazia cristiana sia la ricostituzione del centrosinistra. E nell’impossibilità di dar vita a una formula più ampia si giunse alla formazione di un monocolore democristiano presieduto da Andreotti (luglio 1976-marzo 1978), che si resse su una base inedita: la “non sfiducia” non solo dei tradizionali alleati di governo, ma soprattutto del partito comunista, che in un momento di particolare gravità per il paese, posto di fronte a una pesante crisi economica con inflazione al 18% e la sfida del terrorismo, scelse la via della collaborazione. Simile scelta attirò sul partito comunista la critica serrata dei gruppi estremistici di nuova formazione, facenti capo alla cosiddetta area dell’“autonomia”, che ebbero successo nel promuovere violente agitazioni in molte parti del paese. Il governo riuscì, anche grazie alla favorevole congiuntura internazionale, a prendere misure efficaci sia in campo economico sia nella lotta contro il terrorismo. Nel novembre 1977 il partito comunista chiese formalmente la costituzione di un governo di unità nazionale composto da tutti i partiti dell’arco costituzionale. Al rifiuto della Democrazia cristiana, pesantemente condizionato dal veto degli Stati Uniti assai cauti nel valutare la svolta eurocomunista, esso si dichiarò disposto a entrare nella maggioranza parlamentare. L’operazione, caldeggiata da Moro allora segretario della Democrazia cristiana, su questo terreno in disaccordo con l’alleato americano, andò in porto e mise capo a un nuovo monocolore presieduto da Andreotti (marzo 1978-marzo 1979) che ottenne l’appoggio esplicito del PCI. La formula, definita di “solidarietà nazionale”, venne considerata da coloro che l’avevano promossa il preludio a una futura grande coalizione DC-PCI. In questo clima politico in forte movimento e carico di incertezza avvenne il rapimento di Moro e l’uccisione dei cinque agenti della sua scorta a Roma il 16 marzo 1978 a opera delle Brigate rosse. Il rapimento, che suscitò drammatici interrogativi circa i reali obbiettivi che lo avevano determinato e alimentò sospetti di un coinvolgimento dei servizi segreti americani o sovietici, gli uni e gli altri variamente interessati al futuro assetto dell’Italia, ebbe conseguenze rilevanti. Esso giovò innanzitutto ai tradizionali partiti di governo e ai gruppi estremistici che avevano avversato il nuovo corso politico voluto da Moro. Durante la prigionia, che durò fino alla tragica conclusione dell’assassinio di Moro, il cui corpo venne ritrovato nel bagagliaio di un’auto abbandonata nel centro di Roma il 9 maggio 1978, le forze politiche e l’opinione pubblica si divisero profondamente sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei sequestratori. La DC e il PCI difesero strenuamente la linea dell’intransigenza, che escludeva qualsiasi trattativa con i sequestratori, negando loro la dignità di interlocutori politici; i socialisti, invece, con altre forze minori come i radicali o i gruppi alla sinistra del PCI, sostennero la necessità di una maggiore flessibilità per arrivare a salvare la vita dell’ostaggio. La morte di Moro mise comunque la parola fine alla politica di apertura verso i comunisti. Nello stesso mese di maggio 1978, soprattutto su pressione dei movimenti femministi, fu approvata una legge che consentiva l’interruzione volontaria della gravidanza (sottoposta, per iniziativa cattolica, a giudizio referendario, la legge sarà confermata nel 1981). Un avvenimento importante, che svolse un ruolo fondamentale nella tenuta delle istituzioni democratiche all’attacco del terrorismo di destra e di sinistra, fu l’elezione a presidente della Repubblica del socialista S. Pertini, avvenuta l’8 luglio 1978 a grandissima maggioranza dopo le dimissioni di G. Leone. Pertini, che divenne il più popolare dei presidenti grazie al suo prestigio politico e morale, riuscì infatti nella difficile opera di mantenere unito il paese in uno dei momenti più difficili della sua storia. Mentre sulle strade italiane infuriava il partito armato, il Partito comunista uscì dalla maggioranza provocando la caduta del governo Andreotti. Nel giugno 1979 vi furono nuove elezioni politiche anticipate che penalizzarono sensibilmente lo stesso Partito comunista, oggetto di critiche da destra e da sinistra. Dei voti in uscita dal Partito comunista beneficiarono i radicali, mentre il Partito socialista non riuscì neppure questa volta a superare la soglia del 10%. L’evoluzione politica degli anni Settanta aveva creato una situazione critica per quest’ultimo partito che, dopo il fallimento dell’unificazione con i socialdemocratici, era rimasto prigioniero dell’alleanza con la Democrazia cristiana in una posizione sempre più subalterna. La mancanza di una significativa affermazione sul piano elettorale, d’altra parte, unitamente alla strategia del compromesso storico, avevano fatto temere il raggiungimento tra i due maggiori partiti italiani di un accordo che portasse alla emarginazione del Partito socialista. La mancanza di una chiara linea politica da parte del vecchio gruppo dirigente preparò le condizioni favorevoli all’emergere di una nuova leadership all’interno del partito, che si impose allorché a una riunione del Comitato centrale del 1976 il vecchio segretario, F. De Martino, dovette dimettersi lasciando il posto a B. Craxi, un autonomista nenniano. Il nuovo segretario sviluppò la sua azione lungo tre direzioni: la prima, di attacco verso il Partito comunista, accusato di essere ancora troppo legato alla sua matrice leninista per poter assumere responsabilmente funzioni di governo; la seconda, di critica verso l’ipotesi di una grande coalizione tra PCI e DC, ritenuta dannosa per il mantenimento del pluralismo democratico; la terza infine, di carattere strategico, centrata su una ipotesi di alternativa alla DC da realizzarsi con il PCI non appena questo avesse portato a compimento la sua revisione ideologica. Nel frattempo, Craxi indicava come unica possibile base di governo un rinnovato accordo tra un Partito socialista liberatosi della vecchia subalternità e una Democrazia cristiana capace di accettare con esso un rapporto paritetico quindi anche l’alternanza alla guida dell’esecutivo. Tramontata con la morte di Moro l’ipotesi della “grande coalizione” tra democristiani e comunisti, la linea di Craxi, che rese irreversibile il distacco ideologico del PSI dal marxismo collegandolo alle grandi socialdemocrazie europee, finì con l’affermarsi. [314581] Nel giugno 1980 un DC 9 dell’Italia precipitò in mare presso Ustica, provocando la morte di 81 persone; sulle cause dell’incidente negli anni successivi non venne fatta alcuna chiarezza, ma gravarono pesanti sospetti sulle forze militari italiane e di vari paesi. Nell’agosto 1980 un attentato provocò una strage alla stazione di Bologna. In ottobre prese vita un governo presieduto da A. Forlani (ottobre 1980-maggio 1981), autore del famoso “preambolo” con il quale si escludeva ogni possibilità di intesa con il Partito comunista, ribadendo la collaborazione di governo tra Democrazia cristiana e Partito socialista, non priva però di elementi fortemente conflittuali. Il governo Forlani fu travolto dal dilagare degli scandali, tra cui quello della P2, una loggia massonica “coperta” avente finalità eversive, che aveva tra i suoi iscritti numerose personalità del mondo politico, degli apparati dello stato, del giornalismo e della finanza. A partire da questo momento si cominciò a parlare, soprattutto per iniziativa del Partito comunista, dell’esistenza di una “questione morale”. Un evento sconvolgente fu l’attentato compiuto nel maggio 1981 da un terrorista turco contro il papa Giovanni Paolo II. Nel giugno, per la prima volta dopo il 1945, diventò presidente del Consiglio un laico, lo storico ed esponente del PRI G. Spadolini, che restò al potere fino al novembre 1982. In politica interna, il governo Spadolini si caratterizzò per il duplice tentativo di contenere l’inflazione, che aveva superato alla fine degli anni Settanta un tasso annuo del 20%, e di dare una svolta alla lotta contro la criminalità mafiosa, inviando a Palermo, con le funzioni di superprefetto, il generale C. A. Dalla Chiesa, distintosi per i successi conseguiti nella lotta contro il terrorismo. Il 3 settembre 1982 Dalla Chiesa veniva assassinato nel pieno centro di Palermo. In maggio era giunto al culmine lo scandalo, dai risvolti rimasti oscuri, legato al Banco Ambrosiano, il cui presidente Roberto Calvi venne trovato morto a Londra. In politica estera, Spadolini rilanciò la partecipazione dell’Italia all’Alleanza atlantica permettendo l’installazione di basi missilistiche in Sicilia per bilanciare la potenza sovietica e decidendo la partecipazione italiana alla forza multinazionale dei paesi occidentali nel Libano dilaniato dalla guerra. Il governo Spadolini cadde per le tensioni createsi all’interno della maggioranza tra democristiani e socialisti. Gli successe Fanfani (dicembre 1982-agosto 1983). Nel marzo 1983 a Torino scoppiò lo “scandalo delle tangenti”, con cui emerse chiaramente l’intreccio fra partiti e mondo degli affari. Le elezioni anticipate del giugno 1983 furono favorevoli ai repubblicani, che ottennero il 5,1% beneficiando della buona prova offerta da Spadolini, e ai socialisti che passarono dal 9,8% all’11,4%. Una secca sconfitta subì invece la Democrazia cristiana che dal 38,3% andò al 32,9%, rendendo in tal modo possibile l’ascesa alla guida del governo di Craxi, primo presidente del Consiglio socialista nella storia italiana. Craxi, che restò al potere con due successivi governi dall’agosto 1983 all’aprile 1987, conseguì alcuni successi di politica economica nella lotta contro l’inflazione e nel contenimento, attraverso la riduzione con decreto legge di alcuni punti della scala mobile, del costo del lavoro, scontrandosi con la maggioranza della CGIL e con i comunisti. Le elezioni europee del giugno 1984 segnarono un successo clamoroso per il PCI, che con il 33,3% superò per la prima volta la DC. Nel 1985 un referendum sulla scala mobile promosso in primo luogo dal Partito comunista segnò una vittoria per la linea di Craxi e gli procurò una immagine di capo di governo deciso. E tale immagine venne rafforzata dall’atteggiamento di fermezza e di autonomia tenuto nei confronti degli Stati Uniti, dapprima con la condanna dell’invasione di Grenada del 1983, quindi in occasione della crisi scoppiata nel settembre 1985 in seguito al sequestro, da parte di un commando palestinese, di una nave da crociera italiana e alla uccisione di un ebreo americano che si trovava a bordo, nel corso della quale Craxi si rifiutò di consegnare agli Americani alcuni Palestinesi fatti atterrare in Italia. Durante il governo Craxi venne anche firmato, il 18 febbraio 1984, il nuovo concordato tra lo Stato e la Chiesa, in sostituzione di quello del 1929; con esso la religione cattolica cessava di essere considerata religione di stato e cadeva l’obbligatorietà dell’insegnamento della medesima nelle scuole pubbliche. Nell’aprile 1986, a fronte del bombardamento effettuato dagli Americani su Tripoli e Bengasi, i Libici per rappresaglia lanciarono due missili, privi di effetto, verso Lampedusa (sede di una installazione d’avvistamento statunitense), nonostante l’atteggiamento mediatorio tenuto dall’Italia. Nel febbraio 1987 venne approvata la riforma del codice penale. Il governo cadde nel marzo, in seguito al conflitto scoppiato tra socialisti e democristiani circa il mancato rispetto del cosiddetto “patto di staffetta”, dell’impegno cioè da parte degli uni a lasciare il posto agli altri a un certo punto della legislatura. Il presidente F. Cossiga, succeduto a Pertini nel 1985, indisse le elezioni politiche anticipate per il mese di giugno. Queste segnarono un ulteriore progresso dei socialisti che raggiunsero il 14,3%, una moderata ripresa della DC e una perdita secca del PCI che scese al 26,6%. Entrarono, inoltre, per la prima volta nel parlamento, quali rappresentanti dei vari movimenti ecologisti, i verdi. L’indebolimento comunista e la contemporanea avanzata di socialisti e democristiani ebbe l’effetto di accrescere la già elevata conflittualità esistente tra i due principali partiti governativi. Al debole governo presieduto del democristiano G. Goria (luglio 1987-aprile 1988) – durante il quale si svolsero vari referendum, fra cui alcuni che bloccavano le iniziative di sviluppo delle centrali nucleari destinati ad avere enormi ripercussioni su tutta la politica energetica – successe quello presieduto dal segretario della DC, C. De Mita (aprile 1988-luglio 1989); neppure questo però riuscì ad affrontare quello che, in conseguenza delle cattive prestazioni offerte dal sistema politico nel suo insieme, era venuto sempre più configurandosi come il problema più urgente, vale a dire la riforma delle istituzioni. Il crescente deterioramento del clima politico spiegò in parte il risultato ottenuto dal PCI con un inatteso 27,6%, nonostante gli effetti negativi della crisi in atto nei paesi dell’Est europeo, alle elezioni per il Parlamento europeo del 1989. Per altro, la crescente incapacità del sistema politico italiano di porre un limite alla corruzione, legata in larga misura alla pratica della lottizzazione del potere, ha contribuito in larga misura al dilagare nel Mezzogiorno, ma non solo in esso, della mafia, della camorra e di altre organizzazioni criminali che hanno assunto il controllo sociale di intere zone del paese, forti della potenza economica raggiunta con il traffico di droga, i sequestri, le estorsioni. Poco dopo la formazione del sesto governo Andreotti nel luglio 1989, esplose lo scandalo legato alla filiale della Banca nazionale del lavoro, accusata di aver concesso crediti illeciti all’Iraq per circa 3500 miliardi. In dicembre, per fronteggiare il problema fattosi sempre più acuto dell’immigrazione straniera, per lo più clandestina, proveniente dai paesi poveri, venne varato il decreto legge Martelli sulla regolamentazione del fenomeno. [314591] Nel gennaio 1990 ebbe inizio nelle università un vasto movimento di protesta, detto la pantera, contro la legge di riforma Ruberti, accusata di aprire le porte all’influenza dei privati. Un rilevante significato politico ebbero le elezioni amministrative del maggio, poiché esse videro esplodere nel Nord il fenomeno delle leghe locali, in aperta protesta contro la politica dei partiti tradizionali e in particolare il centralismo romano. In giugno vennero approvate una legge sulla regolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici e una nuova legge sull’uso della droga, in base alla quale era da considerarsi un reato anche il possesso di una pur modica quantità di sostanze stupefacenti. Una crisi politica interna di vaste proporzioni, con la contrapposizione tra movimenti pacifisti e partiti di governo, venne provocata nel paese dagli effetti della crisi del Golfo, scoppiata in agosto in seguito all’occupazione del Kuwait da parte delle truppe irachene e alla successiva risposta militare promossa dagli Stati Uniti e autorizzata dall’ONU agli inizi del 1991, alla quale partecipò, seppure in misura assai modesta, anche l’Italia. In ottobre esplose il caso Gladio, la struttura segreta formata per fronteggiare una invasione sovietica, che suscitò subito una ondata di polemiche per i sospetti di essere stata, oltre che illegale, anche strumento di trame eversive di destra. Lo scandalo avrebbe poi investito direttamente il ruolo passato del presidente Cossiga. L’avvenimento politico più rilevante degli inizi del 1991 fu costituito dalla decisione della grande maggioranza del PCI, investito dagli effetti della disgregazione del mondo sovietico, di procedere allo scioglimento del partito e alla fondazione di una nuova formazione, denominata Partito democratico della sinistra. A questa trasformazione, diretta da A. Occhetto, rispose negativamente una minoranza, che diede vita al Partito della rifondazione comunista. Nell’aprile 1991 si formò il settimo governo Andreotti, quadripartito, con il PRI all’opposizione. Un aspetto sempre più caratterizzante della situazione politica diventò il ruolo assunto dal presidente Cossiga, che si fece a mano a mano sempre più deciso ed esplicito fautore di riforme istituzionali in senso presidenzialista, ottenendo l’appoggio di PSI, PLI, MSI e delle leghe, creando un imbarazzo e una opposizione crescenti nella DC e soprattutto inducendo il PDS a chiederne formalmente l’impeachment. Nel corso dell’anno si susseguirono aspri conflitti non solo fra i partiti, ma anche fra gli stessi poteri dello stato, in particolare fra il presidente e il Consiglio superiore della magistratura. Furono varate leggi importanti come quella antimonopolistica, di riforma degli enti locali e, in via definitiva, sull’immigrazione (legge Martelli). In agosto una vera e propria ondata di immigrazione clandestina dall’Albania creò una situazione di emergenza, che venne risolta da un lato con il rimpatrio forzato e dall’altro con l’incremento degli aiuti economici al vicino paese. Un evento politico di grande significato fu il successo che alle elezioni amministrative di Brescia portò la Lega Lombarda guidata dal senatore U. Bossi a diventare il primo partito. Questo successo diventò il fattore dominante delle successive elezioni politiche dell’aprile 1992; le quali da un lato videro l’introduzione della preferenza unica, decisa in seguito a un referendum tenuto nel maggio 1991 e diretta a ridurre il controllo clientelare del voto, dall’altro la formazione di un “patto referendario” stretto fra candidati di vari partiti, fra cui faceva spicco il democristiano M. Segni, e teso a un comune impegno per una riforma del sistema elettorale in senso maggioritario. La DC scese al 29,7%; il PDS risultò secondo partito, ma con un fortissimo ridimensionamento rispetto al PCI in quanto ottenne il 16,1%; il PSI rimase stazionario; la Lega Lombarda, che aveva agitato una riforma in senso federalistico dello stato, ottenne un forte successo nel Nord con una media nazionale dell’8,7%; un notevole risultato ebbero Rifondazione comunista con il 5,6% e la Rete, nuovo movimento di opposizione creato dall’ex sindaco di Palermo L. Orlando, con l’1,9%. Il 25 aprile Cossiga annunciò le proprie dimissioni da presidente della Repubblica. Le elezioni, che avevano segnato la sconfitta politica della formula di quadripartito, determinarono altresì l’insuccesso del disegno PSI-DC di far eleggere un nuovo presidente espressione del quadripartito; sicché il 24 maggio, in un clima reso incandescente dall’assassinio del giudice G. Falcone a Palermo, veniva eletto, con il concorso del PDS, il democristiano O. L. Scalfaro già aperto avversario dei disegni presidenzialistici di Cossiga e caratterizzato da indipendenza personale. Oramai in crisi la formula di quadripartito, fu formato un governo guidato dal socialista G. Amato. Questi affrontò la grave congiuntura economica e l’enorme debito pubblico facendo uscire l’Italia dallo SME e svalutando la lira, avviando le privatizzazioni, tagliando la spesa sanitaria, modificando il sistema pensionistico e stabilendo con i sindacati un’intesa che poneva fine all’ancoraggio delle retribuzioni all’indice del costo della vita; fu anche ratificato il trattato di Maastricht volto ad accelerare l’unità europea. Intanto un ciclone investiva i partiti, specie di governo, a opera della magistratura e in particolare della procura milanese, che procedette a scoperchiare, nell’ambito di un’iniziativa che venne detta “mani pulite”, il sistema della corruzione pubblica, per il quale fu coniato il termine di “tangentopoli”. Il paese era pervenuto a una vera crisi di regime, tanto che a partire dal 1992 DC, PSI, PSDI, PRI e PLI – che avevano molti parlamentari inquisiti, insieme con esponenti dell’industria e della finanza – conobbero un crescente sfaldamento interno. La magistratura, le forze di polizia e la Commissione parlamentare antimafia utilizzarono più efficaci strumenti legislativi e furono conseguiti alcuni successi nella lotta alla criminalità organizzata, mettendone a nudo i legami con il potere politico ma provocando (1992) la feroce risposta mafiosa con gli assassini dei giudici G. Falcone e P. Borsellino, mentre nel 1993 alcuni attentati a Firenze e a Roma provocarono vittime e danni al patrimonio artistico e fecero pensare a una riedizione della strategia della tensione alimentata da poteri occulti. Inequivocabile espressione della volontà del paese di pervenire a incisive riforme istituzionali fu il risultato del referendum dell’aprile 1993 che di fatto introduceva al Senato un sistema elettorale maggioritario (votò in favore l’82,8%). Amato, sentendo erosa la maggioranza parlamentare dalla crisi dei partiti, rassegnò le dimissioni, e il presidente Scalfaro affidò l’incarico di formare il governo al governatore della Banca d’Italia C. A. Ciampi. Questi costituì l’esecutivo rimarcandone il carattere istituzionale e di transizione, finalizzato al proseguimento del risanamento finanziario e al varo di una nuova legge elettorale. Nell’agosto 1993 fu introdotto anche per la Camera il sistema maggioritario a circoscrizioni uninominali, con una quota proporzionale del 25% dei seggi da attribuirsi a liste bloccate di partito, riservata ai simboli che avessero superato il 4% su scala nazionale; fu invece respinta la proposta del PDS di doppio turno “alla francese”. In campo economico Ciampi proseguì sulla linea delle privatizzazioni, raggiunse un accordo con imprenditori e sindacati per una politica dei redditi concordata, ottenne nel dicembre 1993 l’approvazione della legge finanziaria col voto determinante del PDS. Esaurito il compito prefisso del governo, Ciampi rassegnò le dimissioni (gennaio 1994), prelusive allo scioglimento delle Camere. Intanto, anche in vista del nuovo sistema elettorale, nell’equilibrio dei partiti si andavano verificando alcune modifiche sostanziali. Le recenti elezioni dei sindaci (novembre 1993), svoltesi con la nuova legge che prevedeva il doppio turno di ballottaggio, avevano fatto emergere come potenzialmente maggioritario il cartello delle sinistre, prevalenti in molte amministrazioni delle maggiori città. In queste competizioni il MSI si era presentato con il simbolo Alleanza nazionale, ricevendo consensi dall’elettorato moderato, disorientato per la crisi dei partiti di centro. Nel gennaio 1994, la Democrazia cristiana, fortemente penalizzata, dava vita al Partito popolare italiano, guidato da M. Martinazzoli, mentre un’ala più moderata costituiva il Centro cristiano democratico. La novità più rilevante fu però la costituzione di Forza Italia, movimento politico di centro-destra fondato da S. Berlusconi, che nella campagna elettorale riusciva ad aggregare in modi diversi Alleanza nazionale, la Lega Nord, i cristiano democratici, i sostenitori di M. Pannella e spezzoni socialisti e liberali, facendo il possibile perché in ciascun collegio si confrontasse un solo candidato del “polo delle libertà” con i candidati del centro (popolari e alleati) e della sinistra, unita sotto il segno dei “progressisti”. Il risultato elettorale (27-28 marzo) modificò sostanzialmente il quadro politico: Forza Italia e i suoi alleati con il 42,9% (quota proporzionale della Camera) ebbero una netta maggioranza di seggi alla Camera e poco meno della maggioranza al Senato; il centro raccolse il 15,7% e ancor più fu penalizzato in termini di seggi, mentre alla sinistra andava il 34,4% e il 3,5% alla lista Pannella. [3145101] Nel maggio 1994 Berlusconi formava un governo sostenuto dalle forze del “polo delle libertà”. I risultati delle elezioni europee di giugno confortarono la coalizione di governo (essa ottenne il 49,7% dei voti e in particolare Forza Italia balzò dal 21% al 30,6% dei consensi); tuttavia il nuovo esecutivo fu ben presto minato da gravi contrasti interni, resi evidenti quando il ministro della Giustizia A. Biondi presentò (luglio) un decreto che prevedeva forti restrizioni ai poteri di arresto da parte dei giudici e aboliva di fatto la custodia cautelare in carcere per i reati di corruzione e concussione. La netta opposizione della Lega Nord, che pure aveva inizialmente approvato il testo presentato da Biondi, portò alla fine alla bocciatura da parte della Camera del decreto, che aveva riacceso il dibattito sulla delicata questione del conflitto di interessi riguardante il presidente del Consiglio. Da tempo, infatti, Berlusconi aveva assunto posizioni sempre più critiche nei confronti dell’operato della magistratura milanese, in particolare dopo il coinvolgimento della Fininvest e di Publitalia in inchieste relative ai reati di falso in bilancio e frode fiscale (marzo). Anche sul piano economico emerse, nel giro di pochi mesi, la fragilità del governo, che aveva presentato un programma ispirato a un marcato liberismo e teso a perseguire la ripresa produttiva e il risanamento della finanza pubblica attraverso una drastica riduzione della spesa sociale, una serie di incentivi fiscali alle imprese, un’ampia deregolamentazione del mercato del lavoro e l’accelerazione del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche. La presentazione di una manovra finanziaria che prevedeva 50 mila miliardi tra tagli ed entrate da condoni, il blocco delle assunzioni per sei mesi nel pubblico impiego e delle pensioni di anzianità (tale questione, su sollecitazione del presidente della Repubblica Scalfaro, fu poi stralciata dalla finanziaria e inserita in un complessivo progetto di riforma del sistema previdenziale) condusse, in autunno, a forti tensioni sociali in tutto il paese e a un inasprimento del clima politico, dovuto anche al modo di procedere dell’esecutivo nei confronti delle opposizioni e delle parti sociali. Dopo la rottura della prassi ormai consolidata che voleva assegnate alla minoranza la presidenza di una delle due camere (presidenti della Camera dei deputati e del Senato erano stati eletti, rispettivamente, la leghista I. Pivetti e l’esponente di Forza Italia C. Scognamiglio) e di almeno alcune delle commissioni parlamentari, il governo dimostrò una scarsa disponibilità al dialogo anche nei confronti dei sindacati. Di fronte a tale situazione, riprendeva slancio l’azione delle organizzazioni sindacali e dei partiti della sinistra, impegnati da mesi in un serrato dibattito interno (a giugno S. Cofferati era stato eletto segretario generale della CGIL al posto di B. Trentin e Occhetto aveva rassegnato le proprie dimissioni, sostituito da M. D’Alema, già coordinatore della segreteria e presidente del gruppo parlamentare alla Camera). Mentre Alleanza nazionale e Lega Nord, anche al fine di salvaguardare il consenso della parte popolare del loro elettorato, dimostravano di non condividere del tutto la radicalità delle proposte governative, il sindacato, interpretando il diffuso malcontento popolare, proclamò per il 14 ottobre uno sciopero generale contro la finanziaria, che vide scendere in piazza circa tre milioni di persone. La manifestazione di protesta del 12 novembre a Roma, con la partecipazione di oltre un milione di persone e la proclamazione di un nuovo sciopero generale per il 2 dicembre costrinsero infine il governo a riprendere le trattative con le parti sociali. L’accordo raggiunto il 1° dicembre con i sindacati (furono cancellate le restrizioni sulle pensioni di anzianità e si stabilì la limitazione del blocco dei trattamenti pensionistici anticipati fino al riordino del sistema previdenziale e comunque non oltre il giugno 1995) non risolse però le difficoltà dell’esecutivo, stretto tra la debolezza della lira sui mercati finanziari e il coinvolgimento di Berlusconi nelle indagini condotte dalla procura di Milano (nel novembre 1994 il presidente del Consiglio fu raggiunto da un avviso di garanzia per concorso in corruzione, nel quadro di un’inchiesta dei magistrati milanesi sulla Guardia di Finanza). A decretare la crisi del governo fu la Lega Nord, che accusò Berlusconi di aver tradito gli accordi iniziali sulle riforme istituzionali in senso federalista, sulla privatizzazione del settore pubblico e sulla liberalizzazione dell’economia (in particolare del settore televisivo).L’accordo sempre più stretto tra PDS, PPI (guidato dal luglio da R. Buttiglione) e Lega Nord fu il preludio all’uscita di quest’ultima dalla maggioranza e alle dimissioni di Berlusconi (22 dicembre).Nonostante le accuse da questo rivolte alla Lega di aver tradito la volontà popolare espressa con il voto del marzo 1994 e le richieste di un immediato ricorso alle urne, avanzato soprattutto da Forza Italia, il presidente Scalfaro, ribadita la piena legittimità del Parlamento, affidò l’incarico di formare un nuovo esecutivo a L. Dini, già ministro del Tesoro nel precedente gabinetto. [3145111] Dini ottenne la fiducia delle Camere (gennaio1995) grazie alla formazione di una composita maggioranza comprendente il PDS, il PPI, la Lega Nord, il Patto Segni, i Verdi, la Rete e Alleanza democratica; Forza Italia, Alleanza nazionale e il Centro cristiano democratico si astennero, mentre i soli voti contrari furono espressi dal Partito della Rifondazione comunista, guidato da F. Bertinotti. Anche in previsione di prossime elezioni anticipate il nuovo governo, composto esclusivamente da “tecnici” non appartenenti direttamente a partiti politici, nacque con un programma limitato ad alcuni obiettivi prioritari: nuove norme in materia di propaganda elettorale attraverso il mezzo radiotelevisivo in modo da garantire la parità di condizione fra i partecipanti alla competizione elettorale (un disegno di legge sulla cosiddetta par condicio fu approvato dal Consiglio dei ministri in febbraio), una nuova legge elettorale regionale, interventi correttivi sulla finanza pubblica e l’avvio della riforma del sistema previdenziale. Nei mesi successivi, Forza Italia e i suoi alleati assunsero un atteggiamento di opposizione nei confronti del governo e quando in marzo quest’ultimo ricorse a un nuovo voto di fiducia per ottenere l’approvazione di una manovra economica aggiuntiva (previsti 20 mila miliardi di cui 15 mila di nuove entrate e 5 mila di tagli alla spesa pubblica) votarono contro; a favore della manovra, oltre alle forze che sostenevano l’esecutivo, si schierò anche una minoranza di Rifondazione comunista, che in giugno sarebbe uscita dal partito per dar vita alla formazione dei Comunisti unitari. Intanto le elezioni regionali dell’aprile-maggio 1995 confermavano la mobilità del quadro politico determinata dalla crisi dei partiti tradizionali. Le consultazioni, svoltesi con una nuova legge elettorale che prevedeva l’attribuzione del 20% dei seggi con un criterio maggioritario, videro un relativo insuccesso di Forza Italia e dei suoi alleati, a vantaggio di coalizioni tra forze di sinistra e centriste, che vinsero in 9 regioni su 15 (in particolare avanzarono il PDS e Rifondazione comunista).Tale mobilità trovò riscontro anche nei risultati dei referendum svoltisi a giugno. In particolare ebbero esito negativo quelli promossi allo scopo di limitare le posizioni oligopolistiche nel sistema radiotelevisivo e quello che mirava a estendere a tutti i comuni il sistema elettorale fortemente maggioritario introdotto nel 1993 per i comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, mentre ottennero successo i referendum volti a ridurre le prerogative delle confederazioni maggiormente rappresentative nel godimento dei diritti sindacali. Tra i fattori che avevano concorso a modificare sensibilmente il quadro politico c’era stata la trasformazione di Alleanza nazionale in un vero e proprio partito: nel gennaio1995, a Fiuggi, si era infatti celebrato l’ultimo congresso del MSI e il primo della nuova forza politica, nata con l’intento di superare l’eredità fascista e promuovere una ristrutturazione della destra italiana. Anche all’interno del PPI si erano verificati importanti cambiamenti: in primavera, l’esplosione di gravi contrasti tra i sostenitori di un’intesa con le forze progressiste e i fautori di un’alleanza con quelle di centro-destra aveva portato a una sua scissione in due spezzoni contrapposti, guidati rispettivamente da G. Bianco e Buttiglione (a luglio quest’ultimo avrebbe poi dato vita a un nuovo partito, denominato Cristiani democratici uniti, CDU). A sinistra, mentre dal novembre 1994 l’eredità del PSI era raccolta da una nuova formazione politica denominata Socialisti italiani (SI), il PDS proseguiva la politica già avviata a livello amministrativo e volta a costruire un’alleanza di governo con i partiti di centro, dando a luglio il sostegno ufficiale alla candidatura di R. Prodi quale leader dello schieramento di centro-sinistra denominato l’Ulivo. Rifondazione comunista, invece, continuava la politica di netta opposizione al governo Dini e cercava di farsi interprete di istanze più radicali, specialmente sul terreno sociale. In particolare, il PRC aveva contrastato fortemente, ricorrendo anche all’ostruzionismo parlamentare, il progetto di riforma previdenziale presentato in maggio dall’esecutivo, sul quale si era registrata una parziale convergenza tra le forze che sostenevano il gabinetto Dini e quelle del centro-destra. Dopo alcune modifiche, tra luglio e agosto il Parlamento approvò un disegno di legge che, pur salvaguardando in parte i diritti acquisiti dei lavoratori già occupati, modificava il sistema di calcolo della rendita pensionistica, che, a partire dal gennaio 1996, non era più riferito alle retribuzioni percepite, ma ai contributi versati durante l’attività lavorativa, e avviava un processo di equiparazione tra pensioni di anzianità e pensioni di vecchiaia. I mesi successivi furono caratterizzati da un forte intreccio tra vicende politiche e giudiziarie. In ottobre tutti gli esponenti politici inquisiti nell’ambito del caso Enimont furono riconosciuti colpevoli dal tribunale di Milano (tra gli altri vennero condannati, con pene diverse, Craxi, Forlani, Martelli, Cirino Pomicino e l’ex amministratore della DC S.Citaristi). Mentre Berlusconi, rinviato a giudizio per le presunte tangenti pagate dal Gruppo Fininvest alla Guardia di Finanza, accentuava la polemica contro la magistratura milanese lamentando un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti, sorgeva un aspro contrasto tra la procura di Milano e il ministro di Grazia e Giustizia F. Mancuso, in seguito alle ispezioni ministeriali e alle azioni disciplinari promosse da quest’ultimo nei confronti dei magistrati del pool di “mani pulite”.La vicenda sfociò in una aperta crisi politica e istituzionale, che vide contrapposte le forze del Polo delle libertà, schierate con il guardasigilli, e quelle della maggioranza, che sostennero la mozione di sfiducia personale presentata dai Progressisti nei confronti di Mancuso, costretto infine alle dimissioni e sostituito ad interim dal presidente del Consiglio. Portati a termine, con l’approvazione della legge finanziaria, i compiti prefissati, Dini rassegnò le dimissioni (gennaio 1996). Fallito il tentativo del presidente del Consiglio incaricato A.Maccanico di formare un governo di “larghe intese”, che desse avvio a una riforma istituzionale in senso semipresidenziale, a febbraio il presidente della Repubblica Scalfaro sciolse le Camere e divenne indispensabile un nuovo ricorso alle urne. In vista delle elezioni politiche, fissate per il 21 aprile, lo stesso Dini decise di allearsi all’Ulivo, alla guida di una formazione politica di centro, moderata e riformista, denominata Rinnovamento italiano e comprendente, tra gli altri, il ministro delle Finanze A. Fantozzi e quello del lavoro T. Treu.Dello schieramento di centro-sinistra, guidato da Prodi, facevano parte anche il PDS, il PPI, i Verdi e l’Unione democratica, formazione politica di ispirazione laica fondata per l’occasione da Maccanico; con Rifondazione comunista venne invece stipulato un accordo elettorale di “desistenza”, in base a cui l’Ulivo rinunciava, in alcuni collegi, a presentare un proprio candidato per sostenere quello di Rifondazione; da parte sua quest’ultima si impegnava a sostenere i candidati del centro-sinistra negli altri collegi. Le elezioni, fecero registrare il successo della coalizione di centro-sinistra, che conquistò alla Camera dei deputati 284 seggi contro 246 del Polo per le libertà (già Polo delle libertà), mentre Lega Nord e Rifondazione comunista ottennero rispettivamente 59 e 35 seggi. Per quanto riguarda le singole forze politiche, nella quota proporzionale alla Camera il PDS con il 21,1% dei voti risultò il primo partito del paese, seguito a breve distanza da Forza Italia con il 20,6% dei consensi. Tra gli altri partiti dell’Ulivo, la Lista per Prodi (comprendente il PPI, l’Unione democratica e il PRI) ottenne il 6,8%, Rinnovamento italiano il 4,3%, e i Verdi il 2,5% dei voti; tra le forze del Polo per le libertà ad Alleanza nazionale andò il 15,7% dei voti e il 5,8% al CCD e al CDU, presentatisi con una lista comune. La Lega Nord, radicata nelle regioni settentrionali, riportò un sorprendente successo, aumentando i propri consensi rispetto al 1994 (dall’8,4% al 10,1%); Rifondazione comunista, dal canto suo, passò dal 6% all’8,6% dei voti. [3145121] Avviata la XIII legislatura con l’elezione del popolare Mancino alla presidenza del Senato e dell’esponente del PDS L. Violante a quella della Camera, proprio con il decisivo appoggio esterno di Rifondazione comunista a maggio Prodi formò un governo di centro-sinistra di cui entrò a far parte, dopo quasi cinquant’anni, il maggior partito della sinistra italiana (tra i dirigenti del PDS chiamati a far parte dell’esecutivo furono tra gli altri W. Veltroni, ministro dei Beni culturali e vicepresidente del Consiglio, e G. Napolitano, ministro degli Interni).Figure di spicco del nuovo governo erano, poi, gli ex presidenti del Consiglio Dini e Ciampi, ai quali furono assegnati rispettivamente gli incarichi di ministro degli Esteri e ministro del Tesoro e del Bilancio (accorpati in tale occasione); oltre a questi, l’incarico di maggior rilievo fu quello che conferì il ministero dei Lavori pubblici all’ex magistrato simbolo delle indagini di tangentopoli, A. Di Pietro. Quest’ultimo, entrato a far parte dell’esecutivo come indipendente, nell’aprile 1995 aveva dato le dimissioni dalla magistratura; in seguito era rimasto al centro dell’attenzione generale, da una parte, per il suo ventilato ingresso in politica con una collocazione autonoma di centro, dall’altra, per il coinvolgimento in diverse vicende giudiziarie con l’accusa di abuso d’ufficio e concussione, dalle quali era stato però prosciolto (nel novembre successivo, nuovamente indagato per concussione, Di Pietro avrebbe rassegnato le dimissioni da ministro; nel novembre 1997 sarebbe stato eletto senatore per l’Ulivo nelle elezioni suppletive di un collegio toscano). Le principali questioni che il nuovo governo fu chiamato ad affrontare erano, sostanzialmente, quelle del risanamento economico, di una riforma complessiva dello stato sociale e di un nuovo assetto istituzionale del paese. Rimaneva aperto, inoltre, il problema della ricerca di una soluzione politica dei reati legati a tangentopoli e quello, più vasto, di una riforma del sistema giudiziario, destinato ad alimentare nei mesi successivi il confronto tra le forze politiche anche in relazione al contemporaneo svolgimento dei processi di mafia (primo fra tutti quello coinvolgente il senatore a vita Andreotti) e all’uso in essi delle dichiarazioni dei “pentiti”. Spinto anche dalle rivendicazioni in senso federalista avanzate dalla Lega Nord (in seguito spostatasi su posizioni apertamente secessioniste), l’esecutivo adottò una politica volta a favorire un processo di decentramento dei poteri, avviando una riforma della pubblica amministrazione che ne snelliva le procedure e ampliava le funzioni e i compiti delle autorità periferiche. Per quanto riguardava le innovazioni da introdurre nella forma dello stato, il governo, ritenendo questo un compito spettante al Parlamento, promosse il confronto tra maggioranza e opposizione che avrebbe portato alla nascita di una Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, presieduta dal leader del PDS, D’Alema (febbraio 1997). Sul piano economico l’azione del governo Prodi si indirizzò soprattutto al risanamento della finanza pubblica attraverso il contenimento della spesa, al controllo delle dinamiche inflazionistiche e al potenziamento del sistema produttivo, così da rendere realizzabile l’obiettivo della partecipazione dell’Italia all’Unione europea economica e monetaria. Dopo una prima manovra economica aggiuntiva di 16 mila miliardi varata nel luglio 1996, nel settembre successivo il governo predispose una legge finanziaria pari a 62 mila e 500 miliardi che avrebbe dovuto contenere il deficit pubblico al 3% del prodotto interno lordo, in modo da rispettare i parametri previsti dagli accordi di Maastricht e consentire l’ingresso nell’Unione europea economica e monetaria. Nei mesi successivi il dibattito fu particolarmente acceso. I sindacati confederali giudicarono eccessivi i tagli alla spesa sociale previsti dalla finanziaria e criticarono le misure fiscali sulla casa e sul reddito, ritenute penalizzanti nei confronti dei lavoratori dipendenti; anche Rifondazione comunista manifestò il proprio dissenso da questi aspetti della manovra, condizionando il proprio sostegno a un maggiore impegno dell’esecutivo sui temi dell’occupazione. L’opposizione più aspra fu, a ogni modo, quella del Polo per le libertà, che si schierò nettamente contro la politica fiscale del governo e contro provvedimenti che, a suo giudizio, avrebbero colpito il mondo del lavoro autonomo e danneggiato la ripresa produttiva. Critico in particolare nei confronti della tassa regionale sul patrimonio e della cosiddetta eurotassa (un’imposta una tantum che avrebbe fatto incassare allo stato 12 mila e 500 miliardi), il Polo promosse in novembre una vasta manifestazione pubblica di protesta (che mobilitò, per la prima volta in modo così massiccio, ampi settori del ceto medio), arrivando anche ad abbandonare i lavori parlamentari in occasione del voto sulla finanziaria. L’approvazione di quest’ultima (dicembre 1996), modificata in alcuni punti ma invariata nella sua entità complessiva, non risolse però in maniera definitiva il problema della coesione della maggioranza, al cui interno Rifondazione comunista continuava spesso a differenziare la propria posizione da quella dell’esecutivo. Una prima aperta rottura si ebbe in tema di politica estera, quando si acuì la crisi albanese, che da tempo stava spingendo migliaia di profughi verso le coste italiane. In aprile la decisione di guidare, con l’autorizzazione delle Nazioni Unite, la forza multinazionale di protezione inviata in Albania, per garantirvi il ripristino della legalità e libere elezioni, fu apertamente osteggiata da Rifondazione comunista, che, giudicando negativamente l’invio di forze militari, espresse alla Camera un voto contrario alla proposta del governo, approvata con i voti del Polo per le libertà. Le divergenze maggiori rimanevano, comunque, sul terreno economico e sociale, in particolare sui temi del lavoro e dell’occupazione: l’irrisolta questione della riforma dello stato sociale continuava a rappresentare un nodo fondamentale del dibattito politico, finendo inevitabilmente per incidere sui rapporti all’interno della maggioranza e soprattutto della sinistra. Lo scontro divenne aperto quando il governo Prodi, nel settembre 1997, avviò un confronto con le parti sociali per la riforma del sistema previdenziale e presentò la legge finanziaria per il 1998, pari a 25 mila miliardi. Particolarmente netta fu l’opposizione di Rifondazione comunista, critica nei confronti della manovra economica del governo e più in generale della sua azione rispetto al problema dell’occupazione. L’annuncio del voto contrario alla legge finanziaria da parte del PRC, indusse Prodi, il 9 ottobre, a rimettere l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica. Una fitta serie di incontri tra le forze del centro-sinistra e Rifondazione comunista permise tuttavia di evitare che la crisi di governo giungesse alle estreme conseguenze: il 14 ottobre tutte le componenti della maggioranza approvarono la legge finanziaria, sulla base dell’impegno dell’esecutivo a presentare un disegno di legge che consentisse, a partire dal 2001, la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore. La recuperata intesa permise alle coalizioni di centro-sinistra di riportare un importante successo nelle elezioni amministrative di novembre, con la conferma dei sindaci eletti quattro anni prima a Roma, Napoli, Venezia e Palermo. Questo risultato ribadiva quello ottenuto in primavera, quando solo a Milano, tra le grandi città, si era registrata l’affermazione del Polo per le libertà, sconfitto invece a Torino e Trieste. All’inizio del 1998 il quadro politico dimostrava la sua persistente mobilità: mentre da una parte si acuiva il dibattito attorno alle prospettive del Polo per le libertà e in particolare della sua componente centrista, dall’altra il PDS promuoveva lo sviluppo di una nuova forza unitaria in grado di riunire personalità e organizzazioni di area socialista, laica e cattolica di sinistra. [31511] Nel 963 Sigefredo I, conte di Bigdau, acquistò il castello di Lucilinburhuc (Lützelburg), che diede il nome di Lussemburgo ai domini circostanti. Nel secolo 11° i discendenti di Sigefredo governavano su un territorio comprendente grosso modo l’odierna provincia belga di Lussemburgo e l’attuale Granducato. Enrico IV, eletto re dei Romani (Enrico VII, 1308), cedette la contea nel 1310 al figlio Giovanni re di Boemia, e il figlio di quest’ultimo, l’imperatore Carlo IV, elevò nel 1354 il Lussemburgo a ducato assegnandolo al fratellastro Venceslao. A costui succedette il figlio di Carlo, Venceslao, re di Boemia e imperatore, che diede il ducato in pegno (1388) al cugino Joèt di Moravia. Il matrimonio (1409) tra Elisabetta di Görlitz, ultima erede del ducato, e Antonio, duca di Brabante e di Limburgo e fratello del duca di Borgogna Giovanni Senzapaura, decise del futuro del Lussemburgo. Invano l’imperatore Sigismondo cercò di impedire l’annessione della terra dei padri alla potente casata dei duchi borgognoni: Elisabetta cedette tutti i suoi diritti sul Lussemburgo a Filippo il Buono, duca di Borgogna, al quale nel 1451 gli stati del ducato prestarono giuramento di fedeltà. Da allora in poi il Lussemburgo seguì la stessa sorte delle altre province dei Paesi Bassi. Passato, in seguito al matrimonio di Maria di Borgogna con Massimiliano, agli Asburgo e quindi a Carlo V, nel 1555 venne in possesso di Filippo II di Spagna. Nei secoli 16° e 17° il paese soffrì moltissimo a causa delle continue guerre tra Francia e Spagna e perdette anche parte del suo territorio; in virtù della pace dei Pirenei (1659) la Francia estese infatti la sua sovranità sulla parte meridionale del Lussemburgo, costituita dalle prevosture di Thionville, Montmédy, Damvillers, Ivoy, Chauvency e Marville. Nel 1714 (trattato di Rastadt) il Lussemburgo passò sotto la sovranità austriaca, analogamente a tutti i Paesi Bassi spagnoli. Annesso quindi alla Francia, durante l’età rivoluzionaria e napoleonica, fu elevato dal congresso di Vienna a granducato a favore di Guglielmo I re dei Paesi Bassi, per indennizzarlo della perdita dei territori aviti tedeschi (Nassau). Nel 1830 il Lussemburgo prese parte alla rivoluzione belga, e fino al 1839 fu associato alla vita del Belgio. Col trattato del 19 aprile 1839 la parte occidentale del granducato rimase unita al nuovo regno, costituendo la provincia di Lussemburgo del Belgio; la parte orientale continuò a costituire sotto la sovranità del re dei Paesi Bassi un granducato, prendendo poi sempre più i rapporti fra il granducato e il regno dei Paesi Bassi un carattere di semplice unione personale. Il Lussemburgo fece parte della Confederazione Germanica dal 1815 al 1866; nel 1867 fu dichiarato neutrale, dopo un tentativo di Napoleone III di comprare il granducato da Guglielmo III, tentativo che aveva gravemente compromesso la pace europea. L’unione personale tra il granducato e il regno dei Paesi Bassi fu sciolta nel 1890, poiché il re-granduca Guglielmo III era morto senza eredi maschi e nel granducato, diversamente dai Paesi Bassi, non vigeva allora la successione femminile, introdotta poi con legge in data 10 luglio 1907. Salì sul trono Adolfo ultimo duca di Nassau, i cui discendenti regnano tuttora. [31521] La neutralizzazione non valse a impedire l’invasione del paese durante la prima guerra mondiale da parte della Germania, cosicché da allora in poi il granducato rescisse ogni legame di unione doganale con essa. Invaso e occupato anche durante la seconda guerra mondiale (la granduchessa Carlotta si rifugiò in Inghilterra), il Lussemburgo, firmatario della dichiarazione delle N. U. (1942), rinunciò, dopo la fine del conflitto, a ogni forma di neutralità: aderì come membro fondatore al Patto atlantico (1949), all’Unione europea occidentale (1954) e alla CEE (25 marzo 1957). Dopo i governi di unità nazionale (1944-47) il quadro politico del Lussemburgo è stato caratterizzato da una sostanziale stabilità, che ha ruotato attorno al Parti chrétien social che, eccetto le elezioni del 1974, ha mantenuto la maggioranza relativa, fino al 1958 alleato di governo con il Parti ouvrier socialiste. In quegli anni il Lussemburgo rafforzò i legami con i paesi più vicini, inaugurando nel 1948 l’unione economica Benelux (con Belgio e Paesi Bassi), divenuta effettiva nel 1960, e che nel 1970 avrebbe stabilito nei tre paesi un’unica area commerciale. Nel 1959 iniziò il periodo dei governi guidati dal primo ministro cristiano-sociale P. Werner, che governò fino al 1974 con il Parti démocratique (liberale). Intanto nel 1964, la granduchessa Carlotta abdicò in favore del figlio Giovanni. Dal 1974 guidò il paese il primo ministro G. Thorn a capo di una coalizione formata da liberali e socialisti, che tentò una politica più severa nei confronti delle società finanziarie straniere operanti nel paese, ma i nuovi rapporti scaturiti dalle elezioni del 1979 riportarono al potere cristiano-sociali e liberali in un nuovo governo Werner. Nel corso degli anni Settanta si delineava inoltre il declino del settore siderurgico (peraltro vincolato alle oscillazioni dei prezzi) e il Lussemburgo emergeva come centro finanziario internazionale. Nel 1984 i socialisti ebbero un forte incremento elettorale (dovuto anche alla diffusa protesta per le misure di austerità) che ne provocò il rientro nella maggioranza in un governo con i cristiano-sociali guidato dal cristiano-sociale J. Santer, coalizione confermata nelle elezioni del 1989 e in quelle del 1994. Dopo la sua nomina a presidente della Commissione dell’Unione Europea, Santer si dimise e fu sostituito, nel gennaio del 1995, dal cristiano-sociale J.-C. Junker. Nel maggio 1996 il governo annunciò la riduzione dell’imposta sul reddito delle imprese, allo scopo di rilanciare gli investimenti. [31611] Dal punto di vista storico, il territorio costituente l’attuale regno dei Paesi Bassi forma un complesso unitario dal 1579, quando con l’Unione di Utrecht sorse la repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi. Prima di allora le vicende del territorio furono intimamente legate a quelle del Belgio: ambedue i territori furono designati nel Basso Medioevo con il nome comune di Fiandre o , in snso lato, Paesi Bassi. Tra il secolo 1° a.C. e l’inizio dell’era volgare i territori degli attuali Paesi Bassi, abitati da popolazioni germaniche, furono conquistati dai Romani che vi rimasero fino al secolo 4°, quando la pressione delle stirpi germaniche, e soprattutto dei Franchi, li costrinse ad abbandonare tutta la linea del Reno Inferiore. Terminata l’epoca delle migrazioni, sul territorio dell’odierno regno dei Paesi Bassi si erano stabilmente fissati i Franchi (in Brabante, in Olanda Meridionale e in parte della Gheldria), i Sassoni (soprattutto nell’Overijssel, nella Drenthe, e anch’essi in parte della Gheldria), e i Frisoni (nell’Olanda Settentrionale, nella Frisia, e lungo le coste). Sassoni e Frisoni, dopo la predicazione dei santi Willibrord e Bonifacio, furono cristianizzati da Carlomagno ed entrarono a far parte del suo Impero. Sotto i successori di Carlomagno la carenza dell’autorità regia favorì la formazione di vasti feudi, e la lotta delle investiture rese i loro titolari sempre più indipendenti dal potere imperiale. La posizione geografica fu di particolare importanza per lo sviluppo delle relazioni commerciali e per la fondazione di nuove città. Nel secolo 15° il duca Filippo il Buono di Borgogna estese la sua sovranità sulla contea di Olanda propriamente detta (1433), ma non sulle altre regioni. I Paesi Bassi settentrionale e meridionale furono riuniti sotto la sovranità di Carlo V, tra il 1524 e il 1543, anni nei quali l’imperatore s’impossessò della Frisia, di Utrecht, Overijssel, Groninga, Drenthe e Gheldria: nel 1548 tutti i Paesi Bassi entrarono a far parte dell’Impero (col nome di circolo di Borgogna). La diffusione del protestantesimo (soprattutto calvinismo) segnò per i Paesi Bassi l’inizio di una nuova era. Le persecuzioni religiose, dopo l’avvento di Filippo II sul trono di Spagna, assunsero particolare violenza e, falliti i tentativi di accomodamento con la reggente Margherita d’Austria, provocarono gravi tumulti. La situazione peggiorò dopo l’arrivo del duca d’Alba, che domò la rivolta, condannò a morte centinaia di calvinisti, ne fece confiscare i beni e inasprì le imposte. Il duca riuscì così apparentemente a ristabilire la calma, ma, dopo il suo richiamo, l’ammutinamento delle truppe spagnole nelle Fiandre e nel Brabante (1576) favorì la riconciliazione tra i cattolici dei Paesi Bassi meridionale e i ribelli dell’Olanda e della Zelanda, guidati da Guglielmo d’Orange-Nassau (pacificazione di Gand). Fu un accordo temporaneo, stretto con l’intento di preservare il paese dalle soldatesche straniere; esso venne meno a motivo dell’intolleranza religiosa dei calvinisti che non si attenevano ai patti convenuti. Del contrasto trasse profitto il nuovo governatore (dal 1578) Alessandro Farnese, il quale con la promessa del ritiro delle truppe spagnole convinse i Paesi Bassi cattolici a riconoscere la sovranità di Filippo II (unione di Arras, gennaio 1579). Da parte sua, Guglielmo d’Orange, timoroso della riscossa spagnola, promosse la formazione di un legame più stretto tra le province ribelli e l’Unione di Utrecht (egualmente del gennaio 1579). Egli era tuttavia favorevole al mantenimento dell’unione di tutti i Paesi Bassi, e la lega tra le province non cattoliche doveva costituire solo un espediente temporaneo, in opposizione alla politica del Farnese. L’Unione di Utrecht segnò invece l’inizio di un nuovo stato indipendente e inflisse un colpo mortale alla politica di Guglielmo. Le operazioni militari intraprese dal Farnese per ricondurre all’obbedienza spagnola le province ribelli accelerarono il processo di secessione definitiva: nel 1581 gli Stati Generali dell’Aia rifiutarono Filippo II come loro sovrano. Estremamente critico fu il periodo immediatamente successivo: l’assassinio di Guglielmo d’Orange (1584) coincise con notevoli successi militari del Farnese che riuscì a riconquistare tutto il territorio a Sud dei grandi fiumi. Le Province Unite furono salvate dal loro predominio sul mare e dal fatto che Filippo II rinunciò a un’azione a fondo contro di esse per tentare invece la conquista delle isole britanniche: la distruzione dell’Invencible Armada (1588), alla quale contribuirono anche le Province Unite, allontanò l’incubo di una prossima capitolazione. Il decennio 1588-1598 modificò sostanzialmente la situazione. Il genio militare di Maurizio di Nassau e l’abilità politica di J. van Oldenbarneveldt portarono alla vittoria le armi olandesi: tutto il paese a Nord dei grandi fiumi fu liberato dal dominio spagnolo. Francia e Inghilterra contrassero un’alleanza con le Province Unite, riconoscendo l’indipendenza del paese e il suo inserimento nella comunità internazionale. Dopo la pace di Vervins (1598) tra Francia e Spagna, le Province Unite continuarono la guerra, pur essendo stata nel frattempo concessa ai Paesi Bassi meridionali l’indipendenza sotto gli arciduchi Alberto d’Austria e Isabella; ma né la vittoria di Maurizio a Nieuport (1600), né la conquista di Ostenda da parte degli arciduchi assicurarono un chiaro vantaggio a uno dei due contendenti. Dopo la pace fra Inghilterra e Spagna (1604) parve perciò opportuna la conclusione di una tregua, firmata nel 1609 per un periodo di dodici anni, sulla base dell’uti possidetis. Ancora una volta la vita interna delle Province Unite fu sconvolta da contrasti religiosi: in seno al calvinismo scoppiò la lotta tra arminiani e gomaristi. Il conflitto divenne ben presto politico, poiché la pretesa dei gomaristi di demandare al giudizio di un sinodo nazionale la soluzione della controversia sollevò l’opposizione degli Stati Generali, che avevano accordato la loro protezione agli arminiani. Fallito il tentativo dell’Oldenbarneveldt, coadiuvato dagli stati di Olanda, di Utrecht e di Overijssel, di impedire l’espulsione degli arminiani, il sinodo convocato condannò le dottrine eterodosse. Accusato di alto tradimento, l’Oldenbarneveldt fu condannato a morte (1619). Ripresa la guerra nel 1621, morto il Nassau (1625), il comando delle operazioni fu assunto dal fratellastro Federico Enrico, nuovo statolder. Tutt’altro che facile fu il suo compito: gli Stati Generali, e più particolarmente il partito aristocratico, erano gelosi della fama dello statolder, temendo una restaurazione della monarchia in suo favore, ed erano anche timorosi delle conseguenze che potevano derivare ai loro interessi economici e commerciali dall’annessione di Anversa. A quattro riprese (1637-46) lo statolder assediò il porto alla foce della Schelda, ma la conquista non gli riuscì proprio per l’aiuto accordato da Amsterdam agli assediati. Più fortunata fu la guerra sul mare: ripetute volte (celebre la battaglia delle Dune, 1639), la flotta spagnola fu sconfitta. La virtuale eliminazione della minaccia spagnola e il timore della nuova potenza francese agevolarono le trattative di pace, che fu firmata a Münster (30 gennaio 1648); alle Province Unite fu riconosciuta la più assoluta indipendenza. Con la successiva pace di Vestfalia esse cessarono di far parte dell’Impero. Così terminò la cosiddetta guerra degli Ottant’anni. La conclusione della pace non fu favorevole a Gugliemo II, statolder dal 1647, poiché il congedo delle truppe mercenarie, richiesto dagli Stati Generali, tendeva chiaramente al suo spodestamento. Egli risolse il conflitto con la forza, ma la sua morte prematura (1650) tolse ogni ostacolo alle aspirazioni egemoniche dei reggenti, che imposero alle altre province le vacanze delle cariche di capitano generale e di statolder (eccetto che in Frisia e Groninga). Il partito orangista, forte soprattutto dell’appoggio popolare, non disarmò, anche se l’erede diretto del defunto statolder era un bambino in fasce (Guglielmo III era nato otto giorni dopo la morte del padre). La popolarità della casata si manifestò durante la prima guerra inglese (1652-54), quando le sconfitte causate dalla flotta di Cromwell provocarono difficoltà economiche e tumulti a favore degli Orange e contro i reggenti. Il disastroso esito della guerra obbligò gli Stati Generali a votare l’Atto di esecuzione, con cui essi si impegnarono a non eleggere mai l’Orange statolder della loro provincia (Guglielmo III per parte di madre era nipote dello Stuart pretendente al trono inglese). L’Atto di navigazione (1651), che negli intendimenti degli Inglesi doveva inferire un colpo mortale al commercio marittimo delle Province Unite, raggiunse solo in parte il suo intento. La rivalità sul mare tra le due potenze sfociò nella seconda guerra inglese (1665-67), quando gli Stuart con Carlo II erano ritornati sul trono. Stavolta la vittoria, grazie soprattutto alla valentia dell’ammiraglio M. A. de Ruyter, rimase alle Province Unite, e la pace di Breda la sanzionò con la parziale modifica dell’Atto di navigazione. Molto del merito di tutti questi successi spettò a Johan de Witt, gran pensionario dal 1653, la cui abilità politica e diplomatica elevò le Province Unite, sotto l’egemonia olandese, a grande potenza. Negli affari interni, da una parte cercò l’appoggio del ceto mercantile, dall’altra ridusse i poteri dello statolder (1667). Credeva di avere così escluso una volta per sempre gli Orange dalla signoria, ma errati furono i suoi calcoli di fronte alle mire di Luigi XIV, desideroso di estendere la sua sovranità sulle Province Unite. La guerra scoppiò nell’aprile 1672: le Province Unite, di fronte alla coalizione costituita dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’elettore di Colonia e dal vescovo di Münster, si trovarono in grave difficoltà. Guglielmo III fu nominato capitano generale per una sola campagna, poi eletto statolder; e grazie all’appoggio e al patriottismo della popolazione, il paese riuscì a superare la grave crisi. Luigi XIV e i suoi alleati furono costretti a una precipitosa ritirata, quando ormai credevano di aver debellato la repubblica; le Province Unite passarono al contrattacco: Bonn fu conquistata, l’elettore di Colonia e il vescovo di Münster chiesero la pace, seguiti dall’Inghilterra (trattato di Westminster, 1674) e dalla Francia (Nimega, 1678). Il piano di Luigi XIV era fallito, ma la rivalità personale tra il Re Sole e Guglielmo III costituì, da allora in poi, un elemento determinante della politica europea. La politica di Luigi XIV favorì i disegni dello statolder e della grande coalizione antifrancese del 1686 (Lega di Augusta) di cui egli fu l’ispiratore. Nel 1689 Guglielmo d’Orange salì sul trono d’Inghilterra e da allora alla sua morte (1702) la repubblica si trovò pressoché ininterrottamente coinvolta nei conflitti europei, riducendosi in posizione di dipendenza politica dall’Inghilterra e decadendo rapidamente. Partecipò alla guerra di successione spagnola, al cui termine, con il trattato della Barriera, le fu riconosciuto il diritto di tenere guarnigioni in diverse città dei Paesi Bassi meridionali, soggetti ora alla sovranità austriaca, come garanzia contro nuove invasioni francesi. Quell’apparente successo politico, come pure l’estensione della sovranità olandese su Venlo e su Stevensweert in virtù della pace di Utrecht, non impedì il decadimento delle Sette Province da grande potenza. Molteplici motivi vi concorsero, tra i quali il timore di una restaurazione degli Orange. Da quando, alla morte di Guglielmo III, gli Stati delle Province decisero di non nominare più un nuovo statolder, l’oligarchia dominante cercò di isolarsi in una rigorosa politica di neutralità nel timore che la partecipazione alla guerra potesse offrire al partito orangista l’occasione di ritornare al potere. Ciò si verificò infatti durante la guerra di successione austriaca, quando la popolazione si sollevò accusando l’oligarchia dei mercanti di aver sacrificato l’interesse pubblico al tornaconto personale: Guglielmo IV, statolder di Frisia, di Drenthe e di Gheldria, assunse la stessa carica in tutte le altre province (1747), trasmissibile per eredità alla sua discendenza maschile e femminile. Sotto il suo successore Guglielmo V (1751-95) si accentuò la crisi in politica estera e interna. Durante la guerra dei Sette anni, essendo reggenti prima Anna di Hannover, madre del nuovo statolder, e quindi il duca di Brunswick, il commercio subì gravi restrizioni; altre ripercussioni negative sull’economia del paese derivarono dalla rivolta delle colonie inglesi d’America, poiché l’Inghilterra impedì i rapporti commerciali della repubblica con i ribelli, fino a giungere alla guerra (1780-84). Contemporaneamente nel paese la richiesta di riforme divenne sempre più pressante soprattutto da parte del partito dei cosiddetti Patrioti, schieratisi apertamente contro lo statolder. Guglielmo V divenne sempre di più il simbolo del conservatorismo; fallito un tentativo dei patrioti di insediarsi al potere per l’intervento dell’esercito prussiano, i sostenitori delle riforme, abbandonata la repubblica, si rifugiarono in Francia, dove parteciparono alla Rivoluzione. A loro richiesta la Francia rivoluzionaria mosse nel 1793 guerra alle Province Unite. L’esercito francese fu costretto a ritirarsi, ma due anni dopo invase nuovamente e occupò il paese. Così si giunse nel 1795 alla proclamazione della repubblica batava: la repubblica delle sette Province Unite aveva cessato di esistere. [31621] Con la nuova costituzione del 1798 l’esecutivo fu affidato a un direttorio, quindi si ebbe a capo del governo un gran pensionario fino al 1806, e infine una monarchia sotto Luigi, fratello dell’imperatore Napoleone. Costui conservò la corona fino al 1810, quando i Paesi Bassi furono incorporati nell’Impero francese. La campagna di Russia alimentò il movimento di liberazione e già verso la fine del 1813 si procedette alla formazione di un governo provvisorio, che fece proclamare principe sovrano il figlio di Guglielmo V e provvide all’emanazione di una nuova costituzione nel 1814. L’unione dei Paesi Bassi austriaci e del vescovato di Liegi, insieme al conferimento del granducato di Lussemburgo a Guglielmo I, portò alla costituzione del regno dei Paesi Bassi, deliberata al Congresso di Vienna. Il nuovo stato non durò tuttavia più di quindici anni: il contrasto tra il dispotismo illuminato del sovrano e il liberalismo degli ex Paesi Bassi austriaci, e tra i protestanti del Nord e i cattolici del Sud, era troppo profondo. Anche dal punto di vista economico l’unione fu poco felice, perché il liberoscambismo dei Paesi Bassi danneggiava direttamente il Belgio bisognoso di una politica protezionistica. Si giunse così alla rivolta dei Belgi, che nel 1830 si ribellarono apertamente e proclamarono la separazione dai Paesi Bassi. Invano Guglielmo I si oppose alla scissione approvata dalle grandi potenze europee e solo nel 1839 rinunciò ai suoi diritti, dopo aver gravemente compromesso, con la sua ostinazione, la stabilità economica del paese. Il sovrano, che si era ormai del tutto alienate le simpatie della nazione, l’anno dopo (1840) ritenne opportuno rinunciare al trono. Il successore Gugliemo II, dopo aver in buona parte risanato le finanze statali, sotto la spinta del movimento liberale concesse nel 1848 una nuova costituzione che sanciva la responsabilità ministeriale e istituiva, per ambedue le camere degli Stati Generali, il sistema rappresentativo. Il lungo regno del suo successore Guglielmo III (1849-90) fu caratterizzato dal progressivo rafforzamento del sistema parlamentare, di cui il merito spettò soprattutto al capo dei liberali, J. R. Thorbecke. Morto costui nel 1872, cattolici e calvinisti, acerrimi nemici fino ad allora, iniziarono concordi la lotta per le sovvenzioni statali alle loro scuole confessionali e, dopo la riforma costituzionale del 1887, che estese il diritto di voto a categorie rimaste prima escluse, un governo di coalizione cattolico-antirivoluzionario (così era detto quello dei calvinisti) fece approvare una legge che prevedeva sussidi eguali per le scuole private e per quelle governative. Nel 1887 entrò in parlamento il primo deputato socialista e la questione sociale assunse sempre maggiore importanza. [31631] Dai primi anni del 20° secolo si fece viva la richiesta di una democratizzazione dell’ordinamento dello stato: i liberali e i socialdemocratici rafforzarono notevolmente la loro posizione e videro accolte le loro richieste nel 1917 con l’introduzione del suffragio universale maschile e con l’adozione della proporzionale per le elezioni al parlamento. Già nelle elezioni del 1913 i due partiti progressisti erano stati vittoriosi, ma impossibile riuscì la formazione di un governo di coalizione per il rifiuto socialista di assumere gli oneri del potere. Assai difficile e precaria fu la posizione dei Paesi Bassi durante la prima guerra mondiale; il paese, pur mantenendosi strettamente neutrale, soffrì moltissimo e dovette sopportare sacrifici perfino maggiori di quelli sostenuti dagli stati belligeranti. Nel dopoguerra sorsero screzi con il Belgio che aspirava a un plebiscito nel Limburgo. La coalizione di governo, composta di elementi cattolici, antirivoluzionari e cristiano-storici, si mantenne al potere fino al 1925, quando si sfasciò in seguito all’abolizione della rappresentanza politica presso il Vaticano. Dal 1926 al 1939 riuscì impossibile la formazione di un governo stabile e i ministeri che si susseguirono furono tutti extra-parlamentari. Scoppiata la seconda guerra mondiale, i Paesi Bassi si mantennero neutrali, ma l’invasione tedesca del 10 maggio 1940 segnò l’inizio di un periodo assai doloroso nella loro storia. Nei Paesi Bassi furono bombardati gli aeroporti, le opere fortificate e le città. Nonostante le opere difensive predisposte, ogni azione controffensiva olandese fu paralizzata dall’irrompere delle masse di penetrazione attraverso il confine e dall’efficace azione dei paracadutisti operanti in profondità. Le truppe tedesche d’invasione poterono in due giorni impadronirsi delle regioni non fortificate del paese, mentre potenti colonne puntavano su Utrecht e Rosendaal, nonché su Rotterdam, attaccata massicciamente dall’aria e minacciata da formazioni di carri d’assalto. La resa dell’esercito olandese fu conclusa il 17 maggio. Il 22 ottobre 1944, le truppe anglocanadesi raggiunsero la frontiera olandese lungo gli assi stradali per Rosendaal e Breda; il 9 novembre, quasi tutto il territorio sulla sinistra della Mosa era stato sgombrato dai Tedeschi. Le operazioni subirono una sosta fino al 23 febbraio 1945, allorché il gen. D. D. Eisenhower sferrò una grande offensiva sulla Roer, per raggiungere il Reno; però fino all’aprile i progressi degli Anglo-Canadesi in direzione del ridotto olandese furono molto scarsi. Dopo il 13 aprile l’avanzata degli Alleati si fece più celere, sicché, nonostante gli apprestamenti difensivi organizzati dai Tedeschi con opere semipermanenti e con l’impiego di immense masse d’acqua di mare, a fine aprile anche il Zuiderzee e l’estuario dell’Ems furono raggiunti. L’occupazione straniera, aggravata da atti d’imperio della Germania nazista (sfruttamento economico, persecuzioni, deportazioni), rovinò l’economia del paese. La regina Guglielmina e il governo, rifugiatisi a Londra, tornarono in patria nel 1945. Nel 1946 il partito socialdemocratico si fuse con l’ala sinistra del movimento di resistenza di W. Schermerhorn e con altri gruppi e assunse il nome di Partij van de Arbeid (PvdA). Insieme al Katholische Volkspartij (KV), esso costituì una coalizione di governo rimasta in vita sino alla fine degli anni Cinquanta: i singoli ministeri furono a volta a volta guidati dai due leader W. Drees (laburista) e L. J. Beel (cattolico). In politica estera i Paesi Bassi abbandonarono decisamente la neutralità. Nel 1944 avevano costituito, insieme al Belgio e al Lussemburgo, il Benelux, entrato in opera nel 1948, quindi aderirono all’Unione europea occidentale (trattato di Bruxelles, 1948) e alla NATO (1949). Ancora nel 1948 saliva sul trono la regina Giuliana. [31641] Il dopoguerra segnò anche la fine dell’impero coloniale. Falliti i tentativi di domare con le armi i ribelli dell’Indonesia, anche a seguito dell’intervento delle Nazioni Unite, si dovette riconoscere l’indipendenza della nuova repubblica (1949). Nel 1950 si procedette alla costituzione di un’unione tra la madrepatria e l’ex colonia, che nel 1954 cessava di esistere. Inoltre, nello stesso anno, i possedimenti delle Indie occidentali (Suriname e Antille olandesi) divenivano autonomi in un’associazione con i Paesi Bassi (il Suriname sarebbe divenuto indipendente nel 1975). Pur mantenendo il dominio sulla Nuova Guinea o Irian, poi ceduto all’Indonesia con un accordo del 1962, i Paesi Bassi subivano i contraccolpi di una difficile crisi di assestamento in una dimensione esclusivamente europea. A questa nuova situazione fecero fronte rafforzando i rapporti con l’Europa: fu meglio definita l’unione economica del Benelux (1958), furono sancite le adesioni all’OECE (poi OCSE), alla CEE e all’EURATOM. Al periodo della ricostruzione, caratterizzato da governi basati sull’alleanza di cattolici e laburisti, seguì un periodo di governi di centrodestra (1958-73), basato sull’alleanza dei partiti confessionali con il Volkspartij voor Vrijheid en Democratie (VVD) e altre formazioni di ispirazione liberale. Nei primi anni Settanta le affermazioni della sinistra riportarono il PvdA a responsabilità di governo in una coalizione di sinistra (1973-77) cui successero (1977-81, 1982-89) alleanze di governo tra VVD e Christen-Democratisch Appèl (CDA), nuova formazione che raccoglieva i partiti cristiani. Nel 1989 CDA e PvdA varavano un nuovo centrosinistra mentre, dopo le elezioni del 1994, si formava un governo di coalizione formato da PvdA, VVD e Democraten 66 (movimento di centrosinistra), con CDA all’opposizione. Tra le principali iniziative del nuovo esecutivo si ebbero la parziale privatizzazione del settore delle poste e telecomunicazioni (ottobre 1995), l’abolizione del servizio di leva obbligatorio e l’istituzione di un esercito professionale di dimensioni ridotte (agosto 1996) e la revisione, tra 1996 e il 1997, della tradizionale politica estremamente liberale nel campo delle droghe leggere, con l’adozione di misure restrittive volte anche a soddisfare le richieste di un maggior controllo del traffico delle sostanze stupefacenti avanzate dai principali paesi dell’UE (in particolare dalla Francia). [31711] Le prime testimonianze scritte sulla storia della Danimarca risalgono alla fine del secolo 8° (menzioni di incursioni di Vichinghi lasciate da cronisti anglosassoni e franchi). Il primo re di Danimarca storicamente documentato, Goffredo, cadde vittima di una congiura di soldati quando si apprestava a combattere in Germania Carlo Magno; questi fece la pace col suo successore Hemming, e il fiume Eider divenne il confine meridionale della Danimarca. Re Aroldo Klatz, rifugiatosi presso Ludovico il Pio perché insidiato dai figli di Goffredo, riebbe il trono a condizione che acconsentisse (826) alla conversione del suo popolo. La missione, affidata al monaco benedettino Ansgario (m. 865), non ebbe grande seguito, anche perché i re successivi rimasero pagani. La Danimarca fu unificata sotto lo scettro di Gorm il Vecchio, il cui figlio Aroldo II (m. 988) introdusse definitivamente la religione cattolica nel paese, combatté i Vichinghi, s’impadronì della Norvegia e del Holstein. Il figlio Svend, che gli successe, occupò nel 1013 l’Inghilterra, perduta alla sua morte, ma riconquistata da Canuto il Grande, che estese la sovranità danese su tutto il Mare del Nord, padrone com’era dell’Inghilterra e della Norvegia, e controllò buona parte del Baltico. Morto Canuto nel 1035, il grande impero si sfasciò e inutili furono tutti i tentativi dei successori di riconquistare l’Inghilterra. Il norvegese Magnus il Buono, figlio di Olaf il Santo, regnò dal 1042 al 1047 in Danimarca e in Norvegia e salvò, con la vittoria di Lyrskov (1043), il paese da una invasione slava. Alla sua morte la Danimarca riacquistò l’indipendenza con Svend Estridson (1047-76), figlio di una sorella di Canuto il Grande, il quale attuò la separazione della chiesa danese dall’arcivescovato di Amburgo-Brema; fu fondato l’arcivescovato di Lund. Tra i discendenti di Svend scoppiò una sanguinosa guerra civile, dalla quale uscì vittorioso Valdemaro I (1157-82), che combatté con successo contro i Vendi e sottomise alla sovranità danese l’isola di Rügen, parte della Pomerania e del Meclemburgo; fu suo consigliere Absalon, arcivescovo di Lund, protagonista della politica danese anche durante il regno del figlio di Valdemaro, Canuto IV, il quale regnò fino al 1202; sotto Valdemaro II (1202-41), il regno si estese nel Baltico con la conquista dell’Estonia, e in Germania con quelle delle terre tra l’Eider e l’Elba, conquiste riconosciute dall’imperatore Federico II, ma alle quali lo stesso re dovette poi rinunciare dopo la sconfitta di Bornhoeved (1227). Alla sua morte la Danimarca divenne campo di lotte intestine e di aggressioni esterne, che condizionarono la politica del paese per oltre cento anni. Nel corso di esse, signori laici ed ecclesiastici obbligarono re Erik V, nel 1282, a sottoscrivere una Magna charta di diritti: in virtù di essa il sovrano s’impegnava a governare il paese in collaborazione con i nobili e conferiva al parlamento, insieme alle assemblee delle province dello Jütland, del Sjaeland e della Scania, anche poteri legislativi. Il patto costituì la prima pietra dell’ulteriore svolgimento costituzionale danese, funzione che mantenne fino al trionfo dell’assolutismo monarchico nella seconda metà del secolo 17°. [31721] La lotta per il regno tra Cristoforo II e Valdemaro III, nel secondo decennio del secolo 14°, portava all’occupazione del paese da parte di nobili tedeschi; finché Valdemaro IV (1340-75) ristabilì l’autorità della monarchia e poté attuare una politica espansionistica nel Baltico (conquista dell’isola di Gotland, 1361); ma la Lega anseatica, fattasi promotrice d’una coalizione contro di lui, lo obbligò a riconoscere nel 1370 (pace di Stralsunda) il proprio dominio commerciale nel Baltico. Dopo di lui, nel 1397, la regina Margherita, in seguito alla sconfitta del re di Svezia nella battaglia di Falen (1389), costituì l’unione di Kalmar fra i tre regni di Danimarca, Norvegia (dalla quale dipendeva anche l’Islanda), e Svezia (allora comprendente anche la Finlandia) e ottenne che i conti del Holstein, che avevano occupato lo Schleswig, prestassero giuramento di fedeltà alla corona danese. Sotto i successori di Margherita (m. nel 1412) si verificarono tuttavia ripetuti tentativi di distacco da parte della Svezia, che nel 1523 pose termine definitivamente all’unione di Kalmar; alla Danimarca restavano comunque, oltre alla Norvegia e all’Islanda, le regioni sud-occidentali della penisola scandinava (Bohuslän, Halland, Blekinge e Scania). Con l’introduzione della riforma luterana nel 1536, per opera di re Cristiano III, si rafforzò sensibilmente la posizione della monarchia, che poté disporre a suo piacimento dei beni confiscati alla chiesa cattolica. Federico II tentò inutilmente con la guerra nordica dei sette anni (1563-1570), combattuta a fianco della Lega anseatica, di recuperare il trono svedese, e se nei primi decenni del regno di Cristiano IV (1588-1648) la Danimarca riuscì ancora a riaffermare la propria potenza sul Baltico, dopo il suo non brillante intervento (1625-29) nella guerra dei Trent’anni, lo scettro dell’egemonia su quel mare passò decisamente alla Svezia di Gustavo Adolfo, vittoriosa in Germania. Con la pace di Brømsebro (1645) la Danimarca era costretta a cedere alla Svezia l’isola di Gotland e le antiche province norvegesi di Jämtland e Härjedalen, mentre le successive paci di Roskilde (1658) e di Copenaghen (1660) sancivano il passaggio alla Svezia dei rimanenti possessi danesi nella Scandinavia sud-occidentale. [31731] Le disavventure belliche (guerra nordica dei sette anni, guerra dei trent'anni) scossero il prestigio della nobiltà danese. La monarchia da elettiva divenne ereditaria (1660) e la Kongelov (“legge regia”) del 1665 conferì a Federico III poteri assoluti; i suoi successori, Cristiano V e Federico IV, se ne serviranno al fine di promuovere riforme interne e incrementare le attività industriali e commerciali. L’affermazione dell’assolutismo monarchico e lo sviluppo di una burocrazia e di una amministrazione centralizzata si accompagnarono, sul piano sociale, a un rafforzamento della grande aristocrazia terriera, che tra il secolo 16° e il 18° assunse il controllo di quasi tutta la terra coltivabile sottoponendo i contadini danesi a una pesante condizione servile (assai diversa rimase la situazione in Norvegia, le cui stesse caratteristiche geografiche favorirono la permanenza di una popolazione di contadini liberi). La politica di riforme, inaugurata nel 1784 e proseguita fino alla fine del secolo, diede inizio tuttavia a un processo di trasformazione della società danese abolendo progressivamente gli oneri feudali, liberalizzando il commercio, avviando un’ampia redistribuzione della proprietà terriera e l’introduzione di nuove tecniche agricole. Sul piano internazionale, dopo la grande guerra del Nord (1700-21) la Danimarca rinunciò definitivamente ai territori perduti nella Scandinavia meridionale e proseguì una politica mirante a garantire l’equilibrio tra le grandi potenze e la libertà di navigazione per le proprie navi. [31741] Il lungo periodo di pace reso possibile dalla politica delle riforme fu interrotto dalle guerre napoleoniche che videro il paese duramente colpito dallo scontro con l’Inghilterra: il bombardamento di Copenaghen nel 1807, la perdita dell’intera flotta e il blocco dei commerci marittimi ebbero gravi conseguenze economiche e finanziarie, cui si aggiunse nel 1814 la perdita della Norvegia, ceduta con la pace di Kiel alla Svezia. Alla Danimarca rimasero comunque le antiche dipendenze norvegesi dell’Islanda, delle isole Faerøer e della Groenlandia. La ripresa economica, a partire dagli anni Trenta, si accompagnò a una crescita del movimento liberale (attraverso il quale trovavano espressione anche le rivendicazioni contadine per una trasformazione delle affittanze agricole in proprietà) e dell’agitazione nazionalista nei ducati dello Schleswig e del Holstein. Il tentativo di integrare lo Schleswig nello stato danese, dopo un primo scontro con la Prussia (1848-50), provocò la guerra del 1864 contro Austria e Prussia, conclusasi con la perdita dello Schleswig, del Holstein e del Lauenburg da parte della Danimarca. Le rivendicazioni liberali ottennero un primo successo nel 1849, quando Federico VII (1848-63) sostituì alla Kongelov del 1665 una nuova costituzione, che istituiva un parlamento bicamerale e sanciva le libertà fondamentali. La riforma costituzionale del 1866, tuttavia, limitando i poteri della Camera bassa (Folketing) rispetto al sovrano e alla Camera alta (Landsting), dominata dai grandi proprietari fondiari, aprì un lungo periodo di conflitto fra i governi conservatori, sostenuti da Cristiano IX (1863-1906) e dal Landsting, e la maggioranza liberale del Folketing. Soltanto nel 1901 il sovrano accettò definitivamente il principio della maggioranza parlamentare consentendo l’ascesa dei liberali al governo e l’avvio di una politica di riforme. Sul piano economico-sociale, lo sviluppo di un’agricoltura moderna nella seconda metà dell’Ottocento, legato alla diffusione della proprietà contadina e delle aziende cooperative, si accompagnò alla costruzione di infrastrutture e all’avvio di un processo di industrializzazione (grazie anche all’afflusso di capitali dall’estero); con la nascita del movimento operaio a partire dagli anni Settanta il tradizionale conflitto tra liberali e conservatori si andò complicando per la formazione di un partito socialdemocratico, mentre organizzazioni sindacali a carattere nazionale venivano costituite entro la fine del secolo. Dopo il distacco dei radicali dal vecchio troncone liberale (1905), il loro avvento al governo (1909-10; 1913-20) con l’appoggio dei socialdemocratici provocò un’accelerazione della politica di riforme, mentre di fronte alla guerra mondiale veniva ribadita la posizione neutrale assunta dalla Danimarca fin dagli anni Settanta dell’Ottocento. La riforma costituzionale del 1915 sancì la piena affermazione del sistema parlamentare e l’avvento del suffragio universale (comprese le donne) in entrambe le Camere: per il Landsting, aboliti i seggi di nomina regia, l’elezione rimase indiretta e riservata ai maggiori di 35 anni; al Folketing il sistema uninominale fu sostituito dalla proporzionale tra il 1918 e il 1920 e l’età di voto fu abbassata progressivamente da 30 a 29 a 25 anni tra il 1915 e il 1920. Nel 1918 l’Islanda, che a partire dal 1874 aveva goduto di una crescente autonomia, ottenne il pieno autogoverno, restando legata alla Danimarca soltanto nella persona del sovrano (Cristiano X: 1912-47) e per quanto riguarda la politica estera, nel 1920 fu risolta anche la questione dello Schleswig settentrionale, a maggioranza danese, che con un referendum decise la propria annessione alla Danimarca; nello stesso anno questa entrava a far parte della Società delle Nazioni. I liberali tornarono al governo nel 1920-24 e nel 1926-29, ma, a partire dal 1924, i socialdemocratici divennero la principale forza politica del paese, guidando il governo nel 1924-26, con l’appoggio dei radicali, e poi, in coalizione con questi ultimi, dal 1929 al 1940. Durante gli anni Trenta furono adottate misure di controllo dell’economia e un’estesa legislazione sociale, che alleviò le conseguenze della grande depressione, mentre in politica estera il mantenimento di una posizione rigidamente neutrale non salvò la Danimarca dall’aggressione nazista. [31751] Dopo aver firmato, unico tra gli stati scandinavi, il patto di non aggressione proposto dalla Germania nel 1939, il paese fu invaso nella primavera 1940, pur mantenendo una parvenza di autonomia (governi di unità nazionale a guida socialdemocratica) fino al 1943, quando, di fronte allo sviluppo del movimento di resistenza, le autorità militari tedesche proclamarono la legge marziale e imposero un duro regime di occupazione. La situazione bellica contribuì al definitivo distacco dell’Islanda dalla Danimarca: nel 1944 l’isola, che fin dal 1940 era stata occupata dalle forze anglo-americane, rompeva i residui legami con Copenaghen adottando una costituzione repubblicana. Dopo la liberazione (maggio 1945) la Danimarca riconobbe l’indipendenza islandese, rientrando invece in possesso delle isole Faerøer e della Groenlandia, anch’esse occupate dagli alleati durante il conflitto. Le Faerøer ottennero l’autonomia interna nel 1948 mentre alla Groenlandia, divenuta parte integrante dello stato danese (e non più colonia) nel 1953, l’autonomia fu accordata soltanto nel 1979. L’esperienza compiuta durante la guerra indusse la Danimarca, che sin dall’ottobre 1945 era membro dell’ONU, ad abbandonare il tradizionale neutralismo: dopo il fallimento di un’iniziativa svedese per la creazione di un sistema di difesa comune tra i paesi nordici, Copenaghen aderì al Patto atlantico il 4 aprile 1949. Negli anni successivi, comunque, essa condusse una politica prudente nei confronti dell’Unione Sovietica e del blocco orientale (anche per il permanere di forti istanze neutralistiche nell’opinione pubblica danese), rifiutò di accogliere armi nucleari nel territorio nazionale e cercò di limitare le proprie spese militari. L’adesione al Consiglio nordico nel 1952 riconfermava i tradizionali legami con gli altri paesi della regione. Sul piano istituzionale, con la riforma del 1953 fu soppresso il Landsting, introdotto il referendum popolare (obbligatorio per la ratifica di emendamenti costituzionali o di trattati che limitano la sovranità nazionale), abbassata l’età di voto a 23 anni (successivamente ridotta a 21 anni nel 1961, a 20 nel 1971 e a 18 nel 1978) e abrogata la legge salica: a Federico IX (1947-72), che non aveva figli maschi, poté così succedere nel 1972 la figlia Margherita II. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale videro una notevole crescita economica e un ampliamento della base industriale, anche se l’agricoltura mantenne un ruolo assai rilevante, in particolare fra le esportazioni. Il sistema di welfare state, inaugurato negli anni Trenta, fu confermato ed esteso e il benessere della popolazione crebbe sensibilmente, ma la dipendenza strutturale dalle importazioni di materie prime (e in particolare di fonti energetiche) e i cospicui deficit registrati dalla bilancia dei pagamenti, riproposero frequentemente il problema del vincolo esterno allo sviluppo produttivo, alimentando tensioni e conflitti tra le forze politiche e sociali in merito alle decisioni di politica economica. Il sistema politico danese, basato fino al 1940 sui quattro partiti “storici” (conservatori, liberali, radicali e socialdemocratici), nessuno dei quali aveva mai conquistato dopo il 1905 la maggioranza assoluta, vide aumentare nel dopoguerra la propria complessità, in seguito al rafforzamento temporaneo dei comunisti e di un piccolo partito centrista (il Partito della giustizia), che negli anni Trenta avevano una rappresentanza parlamentare estremamente ridotta. I socialdemocratici rimasero di gran lunga la forza principale, ma il sorgere di un polo alla loro sinistra e l’indebolimento dei radicali resero impossibile la ricostituzione della maggioranza bipartita degli anni Trenta. Ciò diede luogo a una notevole instabilità politica e, malgrado l’introduzione di un quoziente elettorale minimo del 2% dei voti per accedere al Folketing e il costante ricorso a elezioni anticipate (dal 1945 al 1992 solo la legislatura del 1960 è durata quattro anni), in tutto il periodo compreso fra il 1945 e il 1973 soltanto nel 1957-60 e nel 1968-71 fu possibile costituire coalizioni di governo dotate di una maggioranza parlamentare (socialdemocratici, radicali e Partito della giustizia nel primo caso; radicali, liberali e conservatori nel secondo). In tutti gli altri casi si formarono gabinetti minoritari, di coalizione o monocolore, con l’appoggio esterno di uno o più partiti (talvolta anche diversi a seconda delle differenti decisioni governative). I socialdemocratici rimasero quasi sempre al governo, salvo che nel 1945-47 (monocolore liberale), nel 1950-53 (coalizione tra liberali e conservatori) e nel 1968-71, mentre alla loro sinistra si affermava dal 1960, a spese dei comunisti, il Partito socialista popolare, fautore di una “via danese al socialismo” e di una piena autonomia da Mosca. La crescita di questo partito negli anni Sessanta portò le forze socialiste a sfiorare la maggioranza assoluta, ma una sua coalizione con i socialdemocratici, malgrado il sostegno parlamentare più volte loro accordato, fu resa impossibile dalle divergenze in politica estera: i socialisti popolari, infatti, erano contrari alla partecipazione della Danimarca alla NATO e al suo ingresso nella CEE, effettivamente avvenuto, dopo un acceso dibattito nel paese e l’approvazione da parte di un referendum popolare, il 1° gennaio 1973. Le isole Faerøer decisero, comunque, di non entrare nella CEE e la Groenlandia ne uscì (1985) dopo aver ottenuto l’autonomia dal governo di Copenaghen. Le elezioni del 1973 registrarono gravi perdite per tutti i partiti tradizionali e l’ingresso nel Folketing di due nuove formazioni centriste, il Centro democratico e il Partito cristiano popolare, insieme a un movimento qualunquista di protesta contro le tasse e la burocrazia statale, il Partito del progresso dell’avv. M. Glistrup, che ottenne un clamoroso successo diventando improvvisamente la seconda forza politica del paese. L’affermazione di questo movimento, per quanto parzialmente ridimensionata negli anni successivi, era il sintomo più evidente di un deterioramento della situazione politica e sociale. I problemi di bilancia dei pagamenti e le connesse spinte inflazionistiche, già riacutizzatesi dalla metà degli anni Sessanta, subirono un deciso aggravamento in seguito alla crisi internazionale degli anni Settanta, che incise pesantemente sull’economia danese, provocando una crescita generale delle tensioni interne e un aumento dell’instabilità politica. La frammentazione della rappresentanza parlamentare (da cinque a dieci partiti), verificatasi nel 1973 e destinata a perdurare negli anni successivi, accentuò le difficoltà già manifestatesi in precedenza nel sistema politico danese: da allora si sono susseguiti a Copenaghen esclusivamente governi minoritari e la durata media delle legislature si è ulteriormente abbreviata. [31761] Dopo un monocolore liberale (1973-75) e una nuova fase di ministeri socialdemocratici (1975-78 e 1979-82 monocolore; 1978-79 in coalizione, per la prima volta, con i liberali), nel 1982 i conservatori tornarono, per la prima volta dal 1901, alla guida del governo, costituendo un gabinetto di centro-destra, presieduto da P. Schlüter, con i liberali, il Centro democratico e i cristiano-popolari. Tra le ragioni del loro successo (dal 1981 si affermarono come il secondo partito danese) vi erano le difficoltà provocate dalla crisi economica alla tradizionale politica dei socialdemocratici e la perdita di consensi subita da questi ultimi in seguito al forte aumento della disoccupazione e ai provvedimenti antinflazionistici adottati tra il 1975 e il 1982. La crescita della polarizzazione politica, indotta dal logoramento dei socialdemocratici e dall’avvento del governo di centro destra, si manifestò, tra l’altro, nel rafforzamento dei socialisti popolari, divenuti negli anni Ottanta il terzo partito del paese. La coalizione di centro-destra, riconfermata come minoritaria dopo le elezioni del 1984 e del 1987, condusse una politica di austerità riuscendo a ridurre sensibilmente il tasso di inflazione, grazie anche alla mutata congiuntura internazionale, ma la disoccupazione si mantenne elevata e pesanti restarono i passivi nei conti con l’estero, malgrado gli effetti positivi della crescente estrazione di idrocarburi dal Mare del Nord. La persistenza di un equilibrio politico precario era confermata dalle numerose sconfitte parlamentari della coalizione guidata da Schlüter, ripetutamente messa in minoranza sulle questioni di politica estera e della difesa dalla confluenza dei voti radicali (che appoggiavano il governo sui temi economici) con quelli socialdemocratici e socialisti popolari. In particolare, nel 1984 il Folketing bloccava il pagamento dei contributi danesi alla NATO per l’installazione degli euromissili e nel 1986 bocciava in un primo momento (gennaio) l’Atto unico europeo, approvandolo (maggio) soltanto dopo il pronunciamento favorevole di un referendum popolare consultivo. [31771] Dopo un’ennesima sconfitta parlamentare nell’aprile 1988 e nuove elezioni che non sbloccarono la situazione, Schlüter costituì un governo di coalizione fra conservatori, liberali e radicali. Il suo programma di tagli alla spesa pubblica e di sgravi fiscali per le imprese e i redditi più elevati accentuò i contrasti con i socialdemocratici, che registrarono una forte crescita nelle elezioni del dicembre 1990. Il successivo ritiro dei radicali dalla coalizione di governo costrinse quest’ultimo a negoziare l’appoggio parlamentare dei partiti di centro in condizioni di maggiore debolezza; ulteriori difficoltà per Schlüter derivarono dalla mancata ratifica nel referendum popolare del giugno 1992 del trattato sull’Unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Successivi negoziati con i partner europei portarono alla esenzione della Danimarca da alcune clausole del Trattato di Maastricht e all’approvazione di quest’ultimo, così emendato, in un nuovo referendum popolare (maggio 1993). Nel gennaio 1993 Schlüter fu costretto a dimettersi in seguito all’accusa di avere coperto di fronte al parlamento, nel 1989, il cosiddetto scandalo Tamilgate: interrogato sulle decisioni adottate nel 1987 dall’allora ministro della Giustizia E. Ninn-Hansen (il quale, violando la legislazione danese sull’immigrazione, aveva rifiutato l’ingresso in Danimarca alle famiglie dei lavoratori Tamil, provenienti dallo Srê Lañka e residenti nel paese), Schlüter aveva infatti negato ogni addebito per sé e per il ministro. La guida dell’esecutivo fu allora assunta dal socialdemocratico P. N. Rasmussen, che diede vita a una coalizione tra i socialdemocratici, i radicali, il Centro democratico e i cristiano-popolari. L’atteggiamento antieuropeo di una parte consistente della popolazione danese risultò confermato dalle elezioni per il parlamento europeo tenutesi nel giugno del 1994 quando due formazioni politiche contrarie al Trattato di Maastricht, il Movimento popolare contro l’Unione Europea e il Movimento di giugno ottennero insieme più del 25% dei voti. Nelle elezioni del settembre 1994 i partiti della coalizione governativa registrarono un certo arretramento (il partito socialdemocratico perse 7 seggi, il Centro democratico 4, i cristiano popolari non raggiunsero il quorum, e solo i radicali aumentarono di un seggio). Il vero vincitore delle elezioni fu il Partito liberale (che passò da 29 a 42 seggi), mentre i conservatori e il Partito socialista popolare persero rispettivamente 3 e 2 seggi. Rasmussen costituì un governo di minoranza con i socialdemocratici, il Centro democratico e i radicali. La situazione economica registrò nel 1995 un aumento degli investimenti insieme però a un netto rallentamento dei consumi. L’aumento dei prepensionamenti consentì di ridurre il tasso di disoccupazione (dal 12,2% del 1994 al 9,3% dell’anno successivo), anche se l’industria continuò a perdere posti di lavoro. Il contenimento dell’inflazione e la riduzione del disavanzo pubblico rimasero gli obiettivi prioritari del governo di centro-sinistra che si espose in parlamento all’accusa di perseguire una politica di destra. Nel dicembre 1996 il Centro democratico abbandonò la coalizione in seguito all’appoggio dei partiti di sinistra, socialisti popolari e raggruppamento della Lista unita, ottenuto da Rasmussen in occasione dell’approvazione della legge finanziaria per il 1997. [31811] Le basi dei regni inglesi furono poste tra la metà del secolo 5° e la metà del secolo 6°. Le zone che opposero maggiore resistenza furono il Galles, che rimase a lungo celtico, e soprattutto la Scozia. Nel Sud si ebbe il piccolo regno di Kent; ma particolare importanza ebbe il regno di Northumbria, fondato da Etelfredo (593-617), nipote di Ida re di Bernicia, che estese i suoi domini fino ai confini del Galles, e per un certo tempo unì ai propri territori il regno di Deira, nella Northumbria meridionale. Dopo aver raggiunto una notevole prosperità con uno dei successori di Etelfredo, Oswiu (654-671), il regno di Northumbria declinò, e nel secolo 8° la supremazia passò al regno di Mercia sotto Etelbaldo (716-757) e Offra (757-796), che si disse rex totius Anglorum patriae; successivamente, il centro politico dell’isola si trasferì nel regno di Wessex, fondato nel secolo 6° da avventurieri sassoni, con Egberto (802-839), che nell’823 conquistò il Kent e nell’827, dopo l’annessione del regno di Mercia, divenne supremo signore dei Northumbri. Gli effetti delle incursioni danesi, iniziate verso la fine del secolo 8°, cominciarono a farsi sentire fortemente già prima della morte (858) di Etelvulfo, figlio di Egberto. Nell’870, un anno prima dell’ascesa al trono di Alfredo il Grande, i Danesi invasero l’Anglia orientale e i midlands dell’Est; e, pur subendo l’anno successivo una grave sconfitta ad Ashdown, continuarono a occupare parte del Wessex, che abbandonarono solo dopo un accordo con Alfredo, il quale stabilì un confine tra i possessi sassoni e i territori occupati dagli invasori. Dopo un periodo di potenza dei re del Wessex, che coincise con il regno di Edgardo il Pacifico (959-975), le incursioni dei Danesi ricominciarono, e culminarono nell’invasione del re norvegese Sven (1013). Figlio di lui, il re danese Canuto raccolse intorno a sé parte della nobiltà sassone, e nel 1016 fu incoronato re del Wessex. Il potere che Canuto affidò ai ministri indigeni fu tuttavia causa di molte agitazioni dopo la sua morte. L’ealdorman, capo militare e ufficiale civile in ognuno dei distretti in cui era diviso il regno, responsabile dell’amministrazione della legge nei tribunali del distretto e del comando della polizia locale (fyrd), esercitava un potere che un sovrano forte poteva volgere a vantaggio della corona. Sotto Canuto l’ealdorman divenne conte, e l’isola fu divisa in varie contee, tra le quali assunsero particolare importanza quella della Mercia e quella del Wessex. Edoardo il Confessore (1042-66), eletto dall’assemblea dei nobili (Witan), governò cercando un equilibrio tra le lotte dei cortigiani, tra le quali s’inserì, alla sua morte, il duca di Normandia Guglielmo, che, sbarcato sul suolo inglese, sconfisse il nuovo sovrano Aroldo a Hastings (1066) e conquistò l’isola, facendosi incoronare re; negli anni successivi stroncò con grande energia le rivolte interne e respinse l’invasione danese (1067, 1072). [31821] La conquista normanna fu un evento decisivo nella storia inglese. Durante il periodo precedente l’Inghilterra era stata in parte feudalizzata e il villaggio o comune inglese era, in molti casi, andato assumendo, socialmente ed economicamente, il carattere del feudo continentale, col suo signore e i fittavoli, liberi e non liberi, che gli dovevano denaro e servigi. La formazione d’una classe non libera, vincolata alla gleba, che poteva occupare il terreno solo a patto di coltivare i domini del signore, era stata agevolata dai disastri delle guerre danesi, in mezzo ai quali gli uomini ridotti in povertà avevano dovuto chiedere protezione e il sostentamento per vivere a signori, con i quali erano entrati, così, in rapporti di dipendenza. Come sistema politico, il feudalesimo si affermò tuttavia solo con la conquista normanna configurandosi, proprio nell’onda di una conquista militare, in una forma gerarchizzata più di quanto non avvenisse sul continente. Guglielmo il Conquistatore divise la terra tra i suoi seguaci, come vassalli principali, che a loro volta concessero il proprio dominio in feudo a vari vassalli minori. Mentre l’unità economica del sistema feudale fu il castello (manor), l’unità politica fu costituita dal feudo del cavaliere, che comprendeva una quota di prestazioni alla quale dovevano rispondere uno o più manors. Questa suddivisione in feudi tra i vassalli del sovrano risulta dal celebre registro noto come Domesday Book, in cui sono indicati i redditi risultanti dalle relazioni dei commissari inviati da Guglielmo, dopo l’assemblea tenuta a Gloucester nel Natale 1085. Lo scopo originario del Domesday Book (che testimonia l’esistenza di una numerosa e capace burocrazia) era fiscale: l’indicazione dei redditi mirava a sottoporre ogni manor alla tassa originariamente imposta come Danegeld (soldo danese) e alla rettifica di essa secondo l’aumento o la diminuzione dei redditi verificatisi dal tempo della conquista. Ciò che emerge con chiarezza è la divisione d’ogni contea tra il re (che si riservava una parte cospicua dei territori) e i suoi vassalli, laici ed ecclesiastici. D’altra parte, le istituzioni politiche e giudiziarie del periodo sassone furono mantenute: tuttavia il potere degli ealdormen locali declinò, mentre cresceva parallelamente l’importanza di funzionari della corona, come gli sceriffi. Il monopolio dell’educazione e dell’istruzione rimase al clero; i tribunali ecclesiastici furono separati da quelli laici. Tra i successori di Guglielmo, Enrico I (1100-35) limitò rigidamente l’accrescimento dei possessi feudali, e l’influenza baronale nella curia regis, incoraggiando una nuova classe di magnati, che dovevano la loro elevazione unicamente al giudizio del re sulla loro abilità. Inoltre egli iniziò una riorganizzazione della giustizia, continuata dal primo re plantageneto, Enrico II (1154-89). Il regno di questi, noto per il dissidio con Tommaso Becket (poi fatto assassinare dal re), vide da un lato un tentativo della corona di sottoporre alla propria giurisdizione la gerarchia ecclesiastica (costituzione di Clarendon, 1164), dall’altro un ampliamento della giurisdizione della curia regis, a cui corrispose una diminuzione del potere dei tribunali locali. Questa trasformazione dell’apparato giudiziario, e il miglioramento che ne seguì, fu in definitiva un grosso fatto politico: e non è casuale che il regno di Enrico II segnasse una tappa decisiva verso la formazione di una nazione inglese, con l’introduzione della parità legislativa tra popolazione indigena e popolazione di stirpe normanna. Al regno di Riccardo Cuor di Leone (1189-99), soprattutto impegnato nella III Crociata, successe quello di Giovanni (1199-1216) detto Senzaterra, che vide la perdita della Normandia a vantaggio di Filippo II di Francia (1204) e il grave dissidio tra i baroni e il sovrano. La perdita della Normandia contribuì, indirettamente, a rafforzare il sentimento “inglese” della monarchia e, in genere, della grande feudalità, privata di ogni possibile alternativa di dominio continentale: ma, sulle prime, quella perdita determinò un attrito che vide i feudatari allearsi con Filippo II Augusto, in procinto di invadere l’Inghilterra, anche per istigazione di Innocenzo III, cui premeva l’alleanza del re di Francia contro Ottone di Brunswick. Tale attrito sfociò in lotta aperta con il papa, di cui alla fine Giovanni si proclamò vassallo, riconoscendo come arcivescovo di Canterbury Stefano Langton (1213). Sconfitto a Bouvines (1214) dai Franco-Svevi, Giovanni, per sedare almeno la crisi interna, concesse la Magna Charta (1215), documento che, pur avendo all’origine un significato ristretto, fu confermato per due volte (1217 e 1225) da Enrico III (1216-72): esso riconosceva alla nobiltà, alla Chiesa e ai comuni le loro tradizionali libertà di fronte alla corona, e fu considerato in seguito un incunabolo della prassi costituzionale inglese. Sotto Edoardo I (1272-1307) si ebbe uno sviluppo delle istituzioni parlamentari, quale era stato in precedenza auspicato da Simone di Montfort con le Provvisioni di Oxford (1258). Le assemblee dei magnati, convocate a intervalli dal re per deliberare sulle faccende pubbliche, furono comunemente dette parlamenti, secondo un nome invalso in precedenza. Per lungo tempo il parlamento rimase il concilio dei magnati, dei vescovi, degli abati e dei baroni, convocati per mezzo di ordinanze individuali, come vassalli principali del re. I rappresentanti dei comuni erano convocati per deliberare in separata sede sulle richieste di aiuti finanziari presentate loro dal parlamento, e per determinare l’entità dell’aiuto da concedere. Anche il clero, sebbene di norma i prelati fossero in maggioranza tra i magnati, difendeva tenacemente il diritto d’imporsi da sé la tassazione, nella propria assemblea convocata contemporaneamente al parlamento. Alle funzioni giuridiche di quest’ultimo, supremo tribunale del re, e alle sue decisioni legislative, i comuni non partecipavano. Il regno di Edoardo I, che vide questo decisivo sviluppo delle istituzioni parlamentari, fu caratterizzato anche da una limitazione del potere dei baroni e inoltre dal tentativo di dominio inglese sulla Scozia, definitivamente fallito con la sconfitta di Bannockburn (1314). I dissidi tra i baroni e la corona ripresero durante il regno di Edoardo II (1307-27) che vi lasciò la vita. Il figlio di lui, Edoardo III, nel tentativo di difendere i domini inglesi in Aquitania contro il re di Francia Filippo VI, innescò nel 1337 la guerra che fu poi detta dei Cent’anni. Il susseguirsi delle campagne militari, le pestilenze (1349, 1361-62, 1369), si accompagnarono a un periodo d’irrequietezza economica, politica, religiosa (rivolta dei contadini del 1381, movimenti religiosi ereticali dei lollardi e di Wycliffe), che segnò il tracollo dei latifondisti feudali, l’arricchirsi del ceto dei mercanti e imprenditori e il declinare della potenza del parlamento, politicamente oscurato dal potere del consiglio privato del sovrano. Dopo la forzata abdicazione del debole re Riccardo II (1399), cui succedette il duca di Lancaster col nome di Enrico IV, si ebbero una serie di spedizioni che culminarono con l’annessione del Galles; intanto riprendeva la guerra con la Francia. Enrico V (1413-22), con la vittoria di Azincourt (1415) e la pace di Troyes (1420), vedeva formalmente assicurata alla corona inglese la successione al trono di Francia. Ma dopo la morte di Enrico V, e la minorità di Enrico VI, si ebbe un progressivo arretramento delle posizioni inglesi in Francia, che portò infine alla perdita della Guienna (1543). Su queste sconfitte in politica estera, che conclusero la guerra dei Cent’anni (all’Inghilterra rimase solo Calais) s’innestarono i contrasti tra le case di Lancaster e di York sfociati nella guerra delle Due Rose. La monarchia, indebolita anche da continue difficoltà finanziarie, cadde così in preda a contese personalistiche, che nascondevano una profonda crisi politica e amministrativa, in cui l’Inghilterra si dibatterà fino all’ascesa dei Tudor. L’uccisione in battaglia di Riccardo III (Bosworth Field, 1485) segnò infatti la conclusione della guerra delle Due Rose, e insieme l’ascesa al trono di Enrico VII Tudor (1485-1509), imparentato con entrambe le famiglie rivali. [31831] Con l’avvento dei Tudor l’Inghilterra entra in un periodo di decisive trasformazioni. In poco più di un secolo (1485-1603), infatti, la valorizzazione dell’Atlantico dovuta alle grandi scoperte geografiche spinge sempre più gli Inglesi verso l’attività marinara; le manifatture ricevono un impulso decisivo verso la creazione della prima grande industria, quella della lana, agevolata dall’afflusso degli operosi e abilissimi profughi dei Paesi Bassi spagnoli, che portano oltre Manica il segreto della loro attività. Da paese esportatore di lana e importatore dei prodotti da essa ricavati, l’Inghilterra diviene rapidamente un paese esportatore di pannilani superiori ai più celebri prodotti fiorentini e fiamminghi, mentre la marina commerciale si forma non solo per svincolare l’Inghilterra dallo sfruttamento che dei suoi porti facevano le marinerie straniere, ma anche per far concorrenza a queste ultime nei loro paesi d’origine e nelle colonie d’oltre Oceano. Questa profonda trasformazione della società aggravò le condizioni dei contadini, espropriati in seguito al grande movimento delle enclosures, e schiacciati dalle ripercussioni sempre più sensibili della “rivoluzione dei prezzi”. Nella politica internazionale, da Enrico VII a Enrico VIII a Elisabetta, si svolge un sapiente e fortunato gioco di spostamenti e interventi nelle grandi lotte continentali di Spagna, Francia e Impero, diretto a impedire il consolidamento di egemonie pericolose e ad assicurare le condizioni più favorevoli allo sviluppo della potenza inglese. Nella politica interna, le conseguenze della trentennale lotta delle Due Rose, che aveva stroncato e dissanguato la grande nobiltà feudale mentre non si era ancora formata una nuova forte classe terriera e commerciale, insieme al malcontento diffuso nella massa popolare così contro la nobiltà come contro il clero regolare e secolare dalle gerarchie ricchissime e corrotte, crearono le condizioni in cui la dinastia poté esplicare la propria audace politica. In tal modo si rafforzarono le prerogative e il potere della monarchia, che assunse un carattere decisamente assolutistico, organizzando una Chiesa nazionale svincolata da Roma e dipendente dalla corona, ed eliminando le prerogative di controllo del parlamento. Enrico VII (1485-1509) si preoccupò soprattutto di riassestare le finanze del regno, gravemente sconvolte, riuscendo ad accumulare enormi somme di denaro, che lo resero di fatto indipendente dal parlamento, da lui convocato non più di una volta all’anno. In politica estera, Enrico VII cercò di reagire al rafforzamento della Francia (unione della Bretagna alla Francia, 1491) intrattenendo rapporti diplomatici sempre più stretti con la Spagna. Enrico VIII (1509-47) proseguì, sotto la direzione di Th. Wolsey, questa linea politica, intervenendo accortamente nei contrasti continentali, in aiuto degli imperiali. La situazione tuttavia mutò, per la decisione del re di divorziare dalla prima moglie Caterina d’Aragona, e insieme per lo sviluppo di tendenze di riforma religiosa in Inghilterra. Queste tendenze si collegavano in parte alla vecchia propaganda di Wycliffe e al movimento dei lollardi, in parte agli influssi provenienti d’oltre Manica, cioè ai movimenti promossi sul continente da Lutero e dagli altri riformatori. E trovavano terreno favorevole nel sentimento di sdegno o d’irritazione che nella maggioranza della popolazione inglese suscitavano le condizioni degli organismi ecclesiastici, troppo spesso opulenti, mondani e corrotti, che assorbivano, con le rendite di vastissimi possessi e con le decime, tanta ricchezza nazionale, destinata a emigrare in gran parte a Roma. In questa situazione sopraggiunse l’attrito, presto degenerato in rottura completa, tra il re e il papa Clemente VII, per la questione del divorzio che il re cominciò a chiedere nel 1528 e che il papa era riluttante a concedere. Vari furono i tentativi di conciliazione di Wolsey: la decisione del papa di esaminare e risolvere direttamente la questione a Roma, convocandovi il re, portò la tensione all’estremo, esasperando Enrico VIII, che trovò sostegno anche nell’opinione pubblica, irritata nel suo orgoglio nazionale, in quanto la decisione del papa sembrava tendere a sottoporre il re al giudizio di un’autorità straniera, generalmente invisa. L’azione del parlamento, che sentiva fortemente l’influsso delle correnti antiromane, ormai potenti nell’isola, appoggiò il re: si giunse pertanto al distacco da Roma (Atto di supremazia, 1534), e alla trasformazione e riorganizzazione della Chiesa d’Inghilterra sotto il re, suo nuovo capo. Quando Enrico VIII morì (1547), il regno appariva profondamente trasformato non solo sul piano politico per il rafforzamento dell’autorità regia e sul piano religioso per la creazione della nuova Chiesa anglicana, ma anche dal punto di vista della compagine territoriale: nel 1536 il re era riuscito a incorporare completamente nel regno il principato di Galles e la regione detta Marca gallese, equiparandone le condizioni a quelle del resto d’Inghilterra, e successivamente aveva iniziato con fortuna il processo di assorbimento dell’Irlanda, combattendo la potenza della grande famiglia irlandese dei Fitzgerald e favorendo nell’isola lo sviluppo degli elementi inglesi a danno degli elementi celtici. La morte di Enrico VIII aprì nel regno un periodo di ondeggiamenti religiosi e politici che ne misero in pericolo la potenza sotto gli immediati successori finché Elisabetta non riuscì a portare energicamente a compimento l’opera politica e religiosa del padre. Dopo il regno del giovane Edoardo VI (1547-53), durante il quale si allentarono i freni posti da Enrico VIII alla libera discussione religiosa e all’introduzione di idee riformatrici dal continente, e dopo il brevissimo, effimero tentativo di Jane Grey (1553), si ebbe il regno della figlia di Enrico VIII e Caterina d’Aragona, Maria (1553-58), che cercò, con violenze e persecuzioni, di reintrodurre nell’isola il cattolicesimo e la dipendenza da Roma. A questo tentativo sfortunato di restaurazione religiosa corrisposero, in politica estera, l’impopolare alleanza con la Spagna, voluta dal re Filippo II, marito di Maria, e l’infausta campagna conclusasi con la perdita di Calais (1558). La nuova regina, Elisabetta (1558-1603), dopo aver firmato la pace con Francia e Scozia, che suggellava la cessione di Calais e l’abbandono del suolo continentale da parte dell’Inghilterra, cercò di svolgere una politica religiosa intermedia. Da un lato si contrappose ai cattolici, ostilissimi specialmente dopo la scomunica lanciata nel 1570 da Pio V che invitava implicitamente alla sovversione, dall’altro ai calvinisti scozzesi legati a John Knox, che nel 1568 aveva costretto la regina scozzese Maria Stuart a rifugiarsi in Inghilterra. L’intrinseca pericolosità di quest’ultima indusse Elisabetta a metterla a morte (1587); d’altro canto, le vicende della guerra di religione in Francia e della lotta per l’indipendenza dei Paesi Bassi fecero di Elisabetta, quasi contro la sua volontà, la maggiore rappresentante, insieme con Guglielmo d’Orange, della lotta dei protestanti contro la Spagna. L’audacissima guerra di corsa condotta dall’Inghilterra in funzione antispagnola gettò le basi della grande potenza marinara dell’isola: potenza che rifulse già nella vittoria sull’Invencible Armada (1588) e si sviluppò poi in attacchi alle colonie spagnole e nelle attività, poco onorevoli ma assai lucrose, della tratta dei negri e del contrabbando; nell’esplorazione e nella colonizzazione della Virginia; nell’organizzazione commerciale per i traffici oltremarini (Compagnia dei mercanti di Londra). Nella politica internazionale l’Inghilterra, vittoriosa sulla Spagna, aveva un peso superiore a quello della Francia e dell’Impero, dilaniati dalle lotte di religione. Il regno di Elisabetta, caratterizzato dalla straordinaria fioritura letteraria, artistica e culturale che da lei prese il nome, fu suggellato (1603) dalla conquista dell’Irlanda. [31841] L’avvento della dinastia scozzese degli Stuart, accompagnato da contrasti politici e religiosi, pose fine per mezzo secolo all’intervento dell’Inghilterra nella politica europea. La politica assolutistica di Giacomo VI di Scozia, I d’Inghilterra (1603-25), che per la prima volta riunì le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, proseguita con ostinazione anche maggiore da Carlo I (1625-49), determinò un contrasto sempre più grave tra corona e parlamento. Entro quest’ultimo, le forze della media aristocrazia campagnola (gentry) e della nuova borghesia cittadina, in parte animate dallo spirito intransigente dei gruppi puritani, si opponevano con egual vigore ai tentativi degli Stuart di instaurare una prassi di governo personale e di introdurre forme concilianti di protestantesimo (arminianesimo) o, come si diceva, di criptocattolicesimo. L’apertura del Lungo parlamento e le successive vicende – incriminazione e condanna a morte dei due principali esponenti e responsabili del tentativo assolutista di Carlo I, Th. W. Strafford e W. Laud, l’insurrezione dell’Ulster, che si suppose ispirata dal sovrano, il tentativo di colpo di forza di quest’ultimo nei confronti del parlamento – trasformarono i contrasti politici in guerra civile (1642). Mentre intorno al re si schieravano anglicani, cattolici e la maggioranza dei gentiluomini (cavalieri), la massa dei borghesi, dei piccoli proprietari rurali, dei puritani e degli indipendenti – le cosiddette teste rotonde – costituì l’esercito del parlamento. L’energia del suo capo, O. Cromwell, seppe trarre dalla vittoria militare tutte le possibili conseguenze politiche, fino all’imprigionamento, il processo e la condanna del re (1649). Dopo un tentativo d’instaurare una repubblica oligarchica, basata su un parlamento epurato degli elementi stuardisti, si venne a una dittatura di Cromwell (dal 1653), che assunse il titolo di Lord Protettore, e consolidò il suo potere con una ferrea politica all’interno, e un’audace politica estera, che ottenne successi cospicui, come la vittoriosa conclusione della guerra contro l’Olanda seguita all’Atto di Navigazione (proclamato nel 1651), guerra che sancì il dominio inglese sui mari. Ma si trattava di un regime effimero, legato in definitiva alla forte personalità di Cromwell, che significativamente non poté assicurarsi una successione. Il figlio di lui, Riccardo, abbandonò il potere dopo pochi mesi (1659), e dopo una serie di contrasti interni si giunse alla restaurazione stuardista, con Carlo II (1660). Nonostante i tentativi di reazione politica e religiosa seguiti alla proclamazione del nuovo regno, fu ben presto chiaro che un puro e semplice ritorno al passato era impossibile. L’opposizione parlamentare rinacque; la politica di acquiescenza alla Francia di Luigi XIV, svolta da Carlo II e dal ministero detto della Cabala, a lui devoto (trattato segreto di Dover, 1670; partecipazione alla guerra d’Olanda, 1672), suscitò critiche aspre: il contrasto si aggravò allorché si pose in tutta la sua gravità il problema della successione a Carlo II, nella persona del fratello Giacomo (II). Nel corso della lotta per la votazione del bill d’esclusione, che mirava a escludere dalla successione Giacomo perché cattolico, e nella votazione del bill dell’Habeas corpus, che garantiva la libertà personale contro gli arbitri regi (1679), si andarono differenziando i due partiti dei tories e dei whigs, il primo sostenitore e il secondo limitatore delle prerogative reali. Allorché a Giacomo II, sposatosi in seconde nozze con una principessa cattolica, nacque un figlio che fu battezzato cattolico, la situazione s’inasprì, e le correnti d’opposizione decisero di fare appello, per salvaguardare la libertà religiosa e l’indipendenza del regno, allo statolder Guglielmo d’Orange, marito di una figlia del sovrano. La “pacifica” rivoluzione (1688) fu suggellata dall’accettazione da parte del nuovo sovrano di una dichiarazione dei diritti (1689) mirante a garantire i diritti del popolo inglese e a fissare i rapporti tra monarca e parlamento. [31851] Nel periodo che corre dall’avvento di Guglielmo all’avvento della dinastia degli Hannover, si ebbe un consolidamento dell’unità nazionale, attraverso l’Atto di unione con la Scozia (1707), e l’assunzione del nuovo nome di Gran Bretagna, mentre si gettarono le basi dell’ostilità antifrancese (partecipazione alla guerra della Lega d’Augusta e alla guerra di successione spagnola), che proseguì poi ininterrottamente per tutto il secolo 18°. Nello stesso periodo prese corpo l’impero coloniale inglese. In politica interna, si ebbe un accrescimento dell’importanza del parlamento nei confronti del sovrano, col sorgere della figura nuova del primo ministro; e, in seno al parlamento, un accrescersi dell’importanza della camera dei Comuni a spese di quella dei Lord. Alla morte di Anna (1714), succeduta a Guglielmo III, si ebbe un tracollo del partito tory: l’ascesa al trono degli Hannover con Giorgio I (1714-27) segnò il netto prevalere del partito whig, più risolutamente antistuardista, i cui gruppi si contesero da allora, per decenni, il potere. Questo periodo è caratterizzato dal dominio di R. Walpole (1721-41), che, personalmente corrotto, si attirò molte critiche, pur svolgendo una saggia politica di pace, di riforme e di consolidamento costituzionale. Ma l’opinione pubblica finì col reclamare una politica di maggiore intervento nelle questioni europee: la caduta di Walpole si tradusse nella partecipazione della Gran Bretagna alla guerra di successione austriaca. Successivamente, uno dei più accaniti avversari di Walpole, William Pitt, salì al potere, conducendo la Gran Bretagna alla vittoria nella guerra dei Sette anni (1754-63), vittoria che assicurò un’enorme espansione del dominio marittimo e coloniale britannico a spese delle potenze borboniche. Ma all’epoca della pace di Hubertsburg (1763) Pitt non era più al potere, scalzato dal nuovo indirizzo di politica autoritaria e personale iniziato da Giorgio III, che seppe giocare abilmente sulle divisioni dei whigs, assicurando il trionfo dei tories e di W. Pitt il giovane nelle elezioni del 1784. In questa nuova situazione politica s’inserisce il movimento insurrezionale delle tredici colonie americane; il distacco di queste, sancito dalla pace di Parigi del 1783, fu solo parzialmente compensato dall’incremento dei domini indiani, assicurato dall’audace, spregiudicata politica di lord R. Clive e di Warren Hastings. Ma la Gran Bretagna di questo periodo è soprattutto il paese che vede verificarsi per la prima volta sul suo suolo il grandioso fenomeno economico, sociale, tecnologico, che si suol definire “rivoluzione industriale”. L’accumulazione dei capitali provenienti dalla terra e dal commercio è all’origine del rinnovamento dell’industria tessile, dell’affermarsi dell’industria siderurgica, in generale dell’introduzione delle macchine e della trasformazione degli artigiani e lavoratori a domicilio in proletariato alle dipendenze dell’imprenditore-capitalista. Il volto della Gran Bretagna si trasforma rapidamente, sorgono nuove vie di comunicazione, nuovi agglomerati urbani: la rapida proletarizzazione degli abitanti delle campagne significa urbanesimo, e nascita del problema del pauperismo. Ma questi problemi economico-sociali, pur imponendosi fin d’ora con tragica urgenza, troveranno un principio di soluzione, sia pure a prezzo di gravi lacerazioni nel tessuto della società inglese, da parte della classe dirigente soltanto nei primi decenni del secolo 19°: la Rivoluzione francese e l’intervento massiccio della Gran Bretagna nelle guerre delle coalizioni antifrancesi pongono infatti a lungo in primo piano i problemi di politica estera, ostacolando ogni tentativo di riforme all’interno. I fautori delle riforme indietreggiarono, infatti, di fronte allo spettacolo delle violenze rivoluzionarie in Francia, o sono costretti al silenzio da una severa legislazione repressiva. [31861] La lunga lotta, iniziata nel 1793 sotto la guida di Pitt il giovane, interrotta dall’effimera pace di Amiens (1802), acuì i contrasti all’interno, e costrinse a misure eccezionali, come l’Atto di unione dell’Irlanda alla Gran Bretagna (1800), che creò le premesse del problema irlandese. La Gran Bretagna dovette sostenere fame, carestie, disoccupazione, prima di poter giungere alla vittoria sulla minaccia rivoluzionaria e napoleonica. Aveva spezzato il tentativo francese di egemonia continentale, aveva accresciuto il suo impero coloniale e la sua potenza navale: il suo primato nelle colonie e sui mari si presentava incrollabile. Aveva lavorato con successo a Vienna per creare sul continente europeo un assetto che le permettesse di svolgere una politica d’equilibrio e di fronteggiare efficacemente nuovi tentativi egemonici: gli stretti rapporti rinsaldati con la monarchia asburgica attraverso la quasi costante collaborazione antinapoleonica e nelle discussioni a Vienna le permettevano di contare su un alleato efficace; la direttiva espansionistica russa attraverso la penisola balcanica in direzione degli stretti appariva, infatti, altrettanto temibile quanto le mire francesi nella penisola italiana. Ma lo sforzo sostenuto nel periodo del blocco continentale aveva aggravato il debito pubblico e fatto crescere il costo della vita, soprattutto per la politica di rigido protezionismo agrario voluto e attuato dai grandi proprietari dominanti nel parlamento. Dal punto di vista politico e amministrativo la Gran Bretagna era rimasta immobilizzata in forme e sistemi che già nel ’700 avevano suscitato critiche fortissime, proposte e tentativi di riforme. L’amministrazione locale e l’amministrazione della giustizia erano sempre virtualmente in mano all’aristocrazia fondiaria, la gentry, tra le cui file erano scelti gli sceriffi, posti alla testa delle contee, e i giudici di pace, incaricati delle funzioni giudiziarie, poliziesche, assistenziali, fiscali. La camera dei Comuni, e cioè l’organismo parlamentare elettivo, era ancora costituita in base alle vecchie circoscrizioni delle contee e dei borghi, rimaste immutate attraverso i secoli, cosicché si arrivava all’assurdo che alcuni collegi elettorali esistevano soltanto sulla carta, mentre centri industriali di recente sviluppo, come Liverpool, Manchester, Birmingham, non avevano rappresentanza in parlamento. Tale regime elettorale assicurava il predominio dei proprietari terrieri di fronte ai nuovi ceti borghesi industriali e commerciali. L’abilità di uomini politici come Canning, lord Grey, Cobden, Peel, fu d’intuire i pericoli rivoluzionari insiti in questi contrasti, e di attuare una politica di riforme graduali ma coraggiose (riforma elettorale, abolizione del dazio sul grano e vittoria del liberoscambismo), che seppero svecchiare le strutture politiche, economiche e amministrative del paese, assicurandone lo sviluppo economico e sociale, e sventando nello stesso tempo ogni tentativo di soluzioni rivoluzionarie (cartismo). In politica estera, dopo la linea seguita da R. S. Castlereagh, di sostanziale appoggio al sistema politico della Santa Alleanza, si ebbe l’intelligente azione di G. Canning in favore dell’indipendenza degli stati dell’America latina e della Grecia, e, col ritorno al potere dei whigs, l’audace politica di H. J. T. Palmerston. Si era ormai in piena età vittoriana: le riforme interne si accompagnavano a un’accorta tutela dei tradizionali interessi inglesi in campo internazionale e coloniale. Dopo aver bloccato le ambizioni francesi di espansione nel Medio Oriente (crisi del 1840) e i tentativi della Russia d’impadronirsi degli stretti accedenti al Mediterraneo, Palmerston appoggiò abilmente il movimento nazionale italiano, per introdurre un elemento equilibratore contro eventuali tentativi di egemonia francese nel Mediterraneo. Il passaggio dal protezionismo al liberoscambismo si era compiuto sotto il prevalere del partito liberale, che salì al potere nel 1846 dopo la disgregazione del partito conservatore, determinata dal distacco di R. Peel e dei suoi seguaci, e vi rimase per circa un ventennio, con brevi parentesi di ministeri conservatori. Palmerston e J. Russell furono gli uomini più in vista del partito, e accanto a loro cominciò a emergere W. E. Gladstone. Nel ventennio continuò intensa la mirabile ascesa economica e industriale della Gran Bretagna; l’aumento della ricchezza fece sentire i suoi effetti su tutte le classi. Di qui una ripresa del movimento operaio, attraverso l’azione delle trade unions, sindacati di mestiere, che, pur limitandosi inizialmente a un’opera di tutela e di rivendicazione economica, sfociarono poi nell’azione politica per la necessità di ottenere dal governo e dal parlamento il riconoscimento dell’esistenza legale dei sindacati e provvidenze legislative a tutela dei diritti degli operai. Di fronte a questo progressivo aggravarsi delle tensioni politiche, B. Disraeli, esponente del nuovo torismo, introdusse una nuova riforma elettorale, che canalizzò nell’alveo legale le opposizioni operaie. Parallelamente, Disraeli si fece fautore in campo coloniale di un audace imperialismo, contrapponendosi alla politica di pace e riforme interne (tentativi di soluzione del problema irlandese) proposta da Gladstone. Si ebbe così il consolidamento del dominio inglese in India, che nel 1858 era stata tolta alla Compagnia delle Indie e annessa alla corona, in Cina, Africa, Medio Oriente (Afghànistàn). In Europa, l’esito vittorioso della guerra anglo-franco-russa (1856) respinse la Russia dal Mediterraneo. Nel 1876 la regina Vittoria era proclamata imperatrice. Ma, come Disraeli aveva a un certo punto fatto proprio il programma gladstoniano di riforme, così Gladstone, tornando ancora una volta al potere (1880), continuò la politica espansionistica di Disraeli (insediamento in Egitto, 1882; occupazione della Birmania, 1885). Il pacifico alternarsi dei due grandi partiti, conservatore e liberale, fu spezzato dal dissidio tra Gladstone e J. C. Chamberlain. Quest’ultimo sostenne un programma di unione doganale fra la Gran Bretagna e le colonie, protette contro la concorrenza americana e tedesca da un sistema di tariffe elevate. Sebbene questo programma economico non fosse interamente attuato, grande sviluppo ebbero le sue ripercussioni politiche: l’Impero fu portato a nuova espansione in Estremo Oriente e in Africa, nell’Oceano Indiano e sul Golfo di Guinea. L’assorbimento delle repubbliche boere (1899-1902) portò quasi a compimento il programma di C. Rhodes, inteso a costituire una serie ininterrotta di possessi britannici dal Capo al Cairo. La prima fase della politica europea del governo Chamberlain, culminata nell’incidente di Fàshüda (1898), fu essenzialmente antifrancese e triplicista. Ma il timore della potenza tedesca e l’arrendevolezza francese nelle controversie coloniali determinarono una graduale evoluzione: costretta la Russia, dopo la sconfitta subita dal Giappone (1905), a rinunciare all’espansione in Oriente, si delineò un nuovo sistema europeo, caratterizzato dalle intese anglo-francese (1907) e anglo-russa (1907). La conferenza di Algeciras (1906) vide, dunque, l’isolamento della Germania e dell’Austria di fronte a uno schieramento che comprendeva Gran Bretagna, Francia, Russia, Italia. Ritiratosi Chamberlain dalla politica attiva, logorata la coalizione governativa dalle reazioni sfavorevoli alla guerra boera e dalla prima attività del partito laburista (fondato nel 1893), le elezioni generali del 1906 segnarono l’avvento di radicali come Lloyd George ed E. Grey. Si consolidò in politica estera l’evoluzione in senso antitriplicista, mentre tornavano all’ordine del giorno riforme sociali e politiche: nel 1910 la camera dei Lord perse antiche prerogative, mentre il potere politico fu concentrato nella camera dei Comuni; nel 1914 fu votata una legge che prevedeva per l’Irlanda un parlamento e un governo separati, legge mai attuata a causa dello scoppio della prima guerra mondiale che trovava la Gran Bretagna di fronte a problemi insoluti, con un governo in difficoltà per le reazioni provocate dall’Home rule irlandese e per gli scioperi suscitati dal recente aumento dei prezzi. [31871] La violazione della neutralità belga da parte delle truppe germaniche fornì l’occasione all’entrata in guerra della Gran Bretagna (4 agosto 1914). Il fronte interno resse in genere molto bene, ma in Irlanda il prolungamento del conflitto incoraggiò le correnti antinglesi. Nella Pasqua del 1916 scoppiò a Dublino un’insurrezione capeggiata da P. Pearse, facilmente soffocata dal massiccio intervento di truppe e di navi. L’esercito britannico operò in Francia, contribuendo ad arginare l’avanzata tedesca, e, con alterna fortuna, nel Medio Oriente; sui mari, gli Inglesi, vittoriosi nella battaglia dello Skagerrak o dello Jütland (31 maggio - 1° giugno 1916), non riuscirono tuttavia ad annientare la flotta germanica. Il programma di abbattimento dell’Impero turco convinse il governo a cambiare le linee dell’azione tradizionale del Foreign Office, che fino a quel momento s’era svolta in sostegno degli Ottomani; all’atteggiamento filo-arabo del colonnello G. Lawrence si accompagnò una politica di espansione imperiale (proclamazione del protettorato inglese sull’Egitto e annessione di Cipro). Anche in Gran Bretagna il dopoguerra si presentò subito irto di problemi. I laburisti decidevano di abbandonare il gabinetto di unione nazionale formato da Lloyd George negli anni critici della guerra, mentre lo stesso Lloyd George costituiva un ministero di coalizione conservatore-liberale; contemporaneamente la crisi economica scatenava minacciose agitazioni operaie. I deputati irlandesi separatisti, guidati da E. de Valera e poi da A. Griffith, costituivano un parlamento illegale a Dublino (gennaio 1919), col quale Lloyd era costretto a stipulare un trattato che conferiva all’Irlanda meridionale lo statuto dei dominions; nel Medio Oriente, i nazionalismi arabo, egiziano e sionista creavano difficoltà diplomatiche e militari. Col gennaio 1924 s’inaugurò un lungo periodo di predominio laburista (ministeri di J. Ramsay MacDonald), finché le difficoltà causate dalla grande crisi economica imposero un governo di coalizione: il conservatore H. W. Baldwin fu nominato (agosto 1931) lord presidente del Consiglio Privato, la sterlina fu svalutata (settembre 1931) del 30%, la conferenza imperiale di Ottawa (luglio-agosto 1932) creò un sistema organico di tariffe preferenziali nell’ambito dell’Impero. Durante tutto questo periodo il laburismo non rivela tendenze radicali: la vita politica inglese appare, dunque, solidamente contenuta negli argini del tradizionale parlamentarismo, e il passaggio dal governo di coalizione alla fase di predominio conservatore avviene senza scosse, al di là della crisi che portò all’abdicazione di Edoardo VIII. Si pone invece fuori del sistema politico britannico il leader di sinistra O. Mosley, divenuto capo di un esiguo gruppo di fascisti inglesi. Il paese trovò quindi l’unità nel 1939, mentre si aggravava la minaccia del totalitarismo continentale, tenacemente denunziato dal conservatore ribelle W. Churchill. Fallita la politica di contenimento pacifico tentata da N. Chamberlain, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania (3 settembre 1939), mentre Churchill fu nominato primo lord dell’Ammiragliato e A. Eden ministro dei dominions. Quando la guerra appariva perduta per l’occupazione della Danimarca e della Norvegia, la rinnovata unità nazionale si espresse nel governo Churchill-Attlee (maggio 1940), che avviò la cosiddetta “rivoluzione silenziosa”: poiché la vittoria era possibile solo con la mobilitazione totale del paese, s’imponevano la riorganizzazione finanziaria e il dirigismo economico. Così nacque, nel 1942, quel progetto di assistenza sociale, di garanzie assicurative, di controlli alla produzione, che va sotto il nome di piano Beveridge e che, come tale, entrò in vigore nel 1948. [31881] Pur vincitrice, la Gran Bretagna usciva dalla guerra stremata, con immensi problemi di ricostruzione economica, partecipe di uno scenario mondiale profondamente mutato. Se l’acquisizione di un seggio permanente presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU le assicurava un ruolo di protagonista, risultava evidente che gli equilibri generali non permettevano la pratica della tradizionale politica egemonica e imperiale. Sul piano interno, le elezioni del 1945, affrontate dai conservatori all’insegna della lotta al pericolo costituito dall’espansionismo sovietico, furono vinte di larga misura dai laburisti, e il governo di C.R. Attlee (1945-51) gestì la prima fase del dopoguerra in bilico tra un programma di nazionalizzazione delle industrie di grande rilevanza economica (carbone, acciaio, trasporti, Banca d’Inghilterra, aviazione civile, gas) nonché di promozione del welfare state (servizi pubblici, scuola e, soprattutto, sistema sanitario), e le ristrettezze del bilancio imposte dalla difficile ripresa postbellica (indicativo dello stato dell’economia il fatto che nel 1946 le esportazioni raggiungessero circa un terzo del valore del 1938); queste difficoltà vennero largamente fronteggiate attraverso gli aiuti statunitensi del piano Marshall e un regime di austerità fiscale. Sul piano internazionale, la Gran Bretagna si orientò da un lato verso una stretta collaborazione con l’altra potenza anglosassone, gli Stati Uniti d’America (scelta sulla quale pesava anche il drammatico ricordo dell’isolamento in cui il paese si era trovato nel 1940), della cui politica internazionale fu e rimase la più esplicita sostenitrice, fino al punto di rimanere a lungo estranea al processo di integrazione europea; dall’altro subì senza opporre una rigida resistenza (evitando così le difficoltà incorse, per es., alla Francia in Indocina e in Algeria) la rapida disgregazione dell’Impero coloniale, che modificò profondamente anche il carattere e l’estensione del Commonwealth: la Birmania, ottenuta l’indipendenza, non vi aderì (1948), l’Unione Indiana e il Pakistan ottennero lo status di dominions (1947) e nel 1949 la prima approvò una costituzione repubblicana, la repubblica d’Irlanda ne uscì nel 1949. Tra i problemi che hanno accompagnato, talora in modo cruento, le vicende britanniche del dopoguerra è l’irrisolto conflitto tra la maggioranza protestante e la minoranza cattolica dell’Irlanda del Nord. Più travagliate e drammatiche le vicende britanniche in Medio Oriente, specie in Palestina durante il difficile processo che portò alla costituzione dello Stato d’Israele, in un quadro in cui risultò problematico anche il disimpegno dall’Egitto, dalla Giordania e dall’Iraq. Vivacemente contestato dall’opposizione (guidata dal prestigioso leader W. L. S. Churchill), che ai laburisti rimproverava gli insuccessi economici e le nazionalizzazioni (causa dell’esclusione della grande industria privata dalla ricostruzione), il governo Attlee fu rovesciato nelle elezioni anticipate del 1951 che inaugurarono una lunga serie di ministeri conservatori (Churchill 1951-55, A. Eden 1955-57, H. Macmillan 1957-63, A. Douglas-Home 1963-64), mentre nel 1952 moriva re Giorgio VI e al trono succedeva Elisabetta II, che rinnovò l’immagine e il prestigio della corona. Negli anni Cinquanta molte delle ex colonie aderirono al Commonwealth, mentre le tensioni con la Rhodesia portarono alla sua traumatica fuoruscita nel 1966 (le relazioni si sarebbero normalizzate nel 1980, con la nascita dello Zimbabwe). Complessi anche i problemi dell’economia che, passata la fase ricostruttiva, si sarebbero definiti con sempre maggior precisione: la Gran Bretagna aveva perso già nel primo dopoguerra il ruolo economico rivestito nel secolo 19°; nel secondo dopoguerra la produzione industriale si è sviluppata ad un saggio di crescita inferiore a quello di altri paesi europei, consentendo uno standard di vita meno elevato che non, per es., negli S.U.A., nella Francia, nella Repubblica Federale di Germania. Se nessuna misura sarebbe riuscita per molti anni a rovesciare questa tendenza, la scena politica sarebbe stata prevalentemente dominata dallo scontro tra gestione privatistica dell’economia e difesa dello stato sociale, punti di riferimento dei maggiori partiti (rispettivamente il conservatore e il laburista) alternatisi alla guida del paese, conflittuali in politica interna ma largamente convergenti in quella estera. In effetti, la politica conservatrice, specie nella versione un po’ paternalistica di Churchill, sulle prime non si distanziò molto da quella laburista: le nazionalizzazioni (tranne l’industria dell’acciaio) vennero mantenute e non fu liquidato il welfare state. Fu piuttosto in politica estera che – dopo che il vecchio leader aveva deciso di ritirarsi dall’attività (1955) – la condotta britannica ebbe una brusca impennata: nel 1956, contro la decisione egiziana di nazionalizzare il canale di Suez, Gran Bretagna e Francia organizzarono una spedizione militare che si risolse in un insuccesso politico e diplomatico per l’atteggiamento contrario di S.U.A. e URSS e il voto di condanna dell’ONU; in patria questo fallimento – che peraltro ridimensionò ulteriormente l’influenza britannica nella regione – contribuì alla fine del governo Eden. Con il governo Macmillan emerse in piena visibilità il difficile rapporto con l’Europa: sul finire degli anni Cinquanta si avvertì che il pur limitato saggio di crescita dell’economia era messo in discussione da deficienze strutturali del sistema produttivo, mentre prive di risultati e per di più impopolari si erano manifestate misure quali la manovra sui tassi e la politica dei redditi; la soluzione parve la richiesta d’ingresso nella CEE nell’ottobre 1961, peraltro in contrasto con alcuni interessi britannici in agricoltura e nel Commonwealth e avversata da settori laburisti, richiesta che inoltre modificava sostanzialmente l’atteggiamento tradizionale. Infatti, membro della NATO, la Gran Bretagna aveva rifiutato già nel 1950 l’adesione alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), primo nucleo della CEE, alla quale nel 1958 aveva confermato l’estraneità, contribuendo invece alla creazione dell’European free trade association (1959) e aderendo all’intesa politico-militare dell’Unione europea occidentale e al Consiglio d’Europa. Allorché la Gran Bretagna chiese di aderire alla CEE, si scontrò con il veto francese (nel gennaio 1963 Ch. de Gaulle affermò che geografia, economia e mercato rendevano impossibile l’ingresso della Gran Bretagna nella CEE). Questo insuccesso, insieme ad un celebre scandalo (l’affare Profumo), ebbe peso nel segnare la sorte del governo Macmillan (peraltro penalizzato da elevata inflazione e disoccupazione crescente), al quale seguì la breve esperienza del primo ministro Douglas-Home. Intanto, riorganizzati attorno al nuovo segretario H. Wilson, i laburisti si presentarono alle elezioni del 1964 insistendo sul bisogno di cambiamento e vincendo le elezioni di stretta misura. Confermata la maggioranza laburista nelle elezioni del 1966, questa volta con più ampio margine, il governo Wilson poté operare nel periodo 1966-70 una severa politica di bilancio (nel 1967 la sterlina fu svalutata del 14,3%) e dei redditi, con un atteggiamento fermo verso i sindacati e una concezione “selettiva”, più che universale, del welfare state. Nel 1970 fu lo stesso Wilson a chiedere una conferma elettorale del suo operato, ma dalle urne uscì una maggioranza conservatrice e alla carica di primo ministro fu chiamato E.R.G. Heath (1970-74). Il governo conservatore dovette fronteggiare una fase di aspro scontro sociale, l’esplodere delle tensioni in Irlanda del Nord, la più estesa disoccupazione del dopoguerra; in particolare, la disoccupazione fu affrontata con misure d’emergenza quali la settimana lavorativa di tre giorni in alcuni settori produttivi, ma i risultati non parvero risolutivi, e se anche Heath – come aveva promesso nella campagna elettorale – riuscì a portare la Gran Bretagna all’adesione alla CEE (gennaio 1973), le elezioni del 1974 riconsegnarono il governo ai laburisti con esile maggioranza. Le misure del nuovo governo Wilson (1974-76) furono soprattutto riduzioni di spese, sia militari che civili, e un blocco dei salari per sei mesi concordato con i sindacati, ma non attenuarono il deprezzamento della sterlina, l’inflazione al 25%, la recessione industriale. Nel 1975 un referendum confermava con la maggioranza di due terzi l’adesione alla CEE. Dimessosi Wilson, gli successe il laburista J. Callaghan (1976-79) che allargò la maggioranza, ormai limitatissima, ai liberali. Dinanzi alle ulteriori difficoltà della sterlina, il cui valore era sceso a 1,60 dollari nell’ottobre 1976, intervenne il Fondo monetario internazionale con un prestito che alimentò la difficile ripresa economica del 1977-78, peraltro sostenuta anche dall’aumento della produzione di petrolio nel Mare del Nord, mentre la politica dei redditi – anche se concordata con i sindacati – diede luogo a una grande ondata di scioperi. [31891] Le elezioni politiche del maggio 1979 segnarono un successo per i conservatori, guidati dal 1975 da M. H. Thatcher, che assunse la carica di primo ministro (1979-90). Sostenitrice di un pronunciato liberismo, allo scopo di rinnovare radicalmente la struttura produttiva nazionale la Thatcher inaugurava una politica rigidamente monetarista, varava un piano di privatizzazione delle imprese nazionalizzate, decurtava le sovvenzioni statali alle imprese, tagliava la spesa pubblica e il prelievo fiscale; ne derivarono l’aumento della disoccupazione e una forte recessione, cui fece riscontro l’apprezzamento della sterlina sul mercato dei cambi. Sul terreno politico ciò determinò uno spostamento dei laburisti e dei sindacati su una linea di netta opposizione (1981); il partito laburista subiva però nel 1983 una scissione di orientamento socialdemocratico. Nel 1982 il governo Thatcher intervenne con decisione e durezza contro l’Argentina, che aveva occupato il possedimento britannico delle Isole Falkland (da tempo rivendicato dall’Argentina come parte integrante del proprio territorio nazionale), dichiarandole guerra e sconfiggendola in pochi giorni, ma suscitando altresì forti perplessità da parte europea e statunitense sull’opportunità dell’intervento britannico. Anche la politica interna negli anni Ottanta conosceva momenti di tensione di una certa gravità, dovuti sia ai problemi di integrazione posti dalla massiccia presenza di immigrati delle aree più povere del pianeta, sia al rincrudirsi della questione irlandese, sia a tradizionali conflitti sociali aggravati dalla politica economica del governo (per es., il grande sciopero dei minatori del 1984 e la vivace protesta sociale contro la poll tax del 1990). Il governo Thatcher fu comunque confermato dopo le elezioni del 1983 e 1987. Nel novembre 1990, alle dimissioni della Thatcher, diveniva primo ministro il conservatore J. Major, che nell’aprile 1992 riusciva a confermare, anche grazie alla riproposta di una politica di defiscalizzazione, la maggioranza governativa conservatrice. Durante il 1992 non veniva ratificata l’adesione al Trattato di Maastricht, sostenuta da una troppo ristretta maggioranza guidata da Major e contrastata da laburisti e settori conservatori, mentre nel settembre 1992 la sterlina abbandonava lo SME. Nel mese successivo l’annuncio della chiusura di trentuno miniere di carbone, su cinquanta in tutta la Gran Bretagna, generò una forte opposizione nel paese e dissidi interni allo stesso Conservative party, obbligando il governo a una parziale revoca della decisione. Ulteriori difficoltà emersero in occasione dell’approvazione britannica del Trattato di Maastricht per l’Unione Europea (firmato dai paesi della Comunità il 7 febbraio1992).Nonostante si fosse espressa all’interno del Conservative party una corrente fortemente contraria all’unificazione europea, il timore di una crisi di governo e di nuove elezioni convinse i dissidenti ad appoggiare la politica del loro partito, consentendo nell’agosto 1993, dopo un tormentato iter legislativo, la ratifica definitiva del trattato. Ulteriori difficoltà per il partito di governo vennero alla luce quando, nel marzo 1993, il cancelliere dello Scacchiere N.Lamont propose l’introduzione della VAT (Value Added Tax “imposta sul valore aggiunto”) sul carburante: l’accanita resistenza dell’opposizione fu premiata dall’elettorato in diverse occasioni (elezioni suppletive e amministrative) nello stesso 1993. Si rese dunque necessario un rimpasto di governo, con la sostituzione di Lamont da parte di K.Clarke: per arginare il dissenso intorno alla nuova tassa sul carburante, il nuovo responsabile delle finanze propose una serie di provvedimenti volti a favorire i pensionati, i disabili e gli indigenti; tuttavia, l’annuncio di nuove misure per incrementare il gettito fiscale scatenò ancora una volta le proteste dell’opposizione, che accusò i conservatori di non tener fede all’impegno di ridurre il livello di tassazione. Fortemente contestata fu anche, nel novembre 1993, una proposta di legge che prevedeva l’adozione di misure severissime contro la criminalità (come, per es., la soppressione del diritto dell’accusato al silenzio; misura condannata in seguito – luglio 1995 – dalla Commissione per i diritti umani dell’ONU). In campo internazionale fu rilevante il contributo britannico alla missione ONU in Bosnia (novembre1992), che consentì alla Gran Bretagna di prendere parte alle iniziative diplomatiche volte a trovare una soluzione per l’assetto politico e territoriale dell’ex Iugoslavia. Ancora tormentate apparivano invece le relazioni con l’Argentina (riprese nel febbraio 1990 dopo essere state interrotte nel 1982 sulla questione delle isole Falkland), nonostante gli accordi per la cooperazione nella gestione e conservazione dei prodotti della pesca nell’Atlantico meridionale (dicembre 1992 e novembre 1993). Frattanto, a partire dalla fine del 1992, una serie di gravi scandali coinvolse i vertici del potere politico. L’ambiguità della condotta governativa fu oggetto di aspre critiche in due occasioni: lo scandalo per la fornitura di armi all’Iraq, in contravvenzione all’embargo del 1985, e la scoperta di un accordo con il governo malese secondo il quale la Gran Bretagna avrebbe finanziato la costruzione di una centrale idroelettrica in Malesia in cambio della concessione degli appalti a ditte britanniche. Ulteriori scandali sulla condotta privata e pubblica di esponenti del Conservative party vennero alla luce nel corso del 1994: le accuse di cattiva amministrazione, corruzione e frode si moltiplicarono, mettendo il partito di Major in una condizione assai difficile. Le elezioni europee del giugno 1994 si conclusero con il crollo dei tories da 32 a 18 seggi, mentre i laburisti salivano da 45 a 62 seggi. L’istituzione, nell’ottobre 1994, di una commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla condotta di tutti i membri della pubblica amministrazione non bastò a ristabilire la fiducia nei confronti del partito di governo, che ora vacillava anche in seguito alle divisioni interne sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione Europea: ancora una volta fu solo la minaccia di una crisi di governo a consentire a Major di far approvare l’aumento del contributo britannico al bilancio comunitario (novembre 1994). I contrasti interni sulla questione europea rendevano d’altra parte sempre più isolata la posizione del paese in seno all’Unione. Anche nell’ambito delle relazioni internazionali, il rapporto privilegiato che legava Gran Bretagna e Stati Uniti si deteriorò notevolmente nel febbraio 1994 in seguito alla visita a Washington del leader del Sinn Féin (il principale partito indipendista e cattolico dell’Irlanda del Nord), G.Adams. Positivo invece fu, nello stesso periodo, il rafforzamento delle relazioni con il Sudafrica che, in seguito alla fine del regime di apartheid, fu riammesso all’interno del Commonwealth (giugno 1994). Le difficoltà per il Conservative party proseguirono nel 1995: nei mesi di aprile e maggio le elezioni locali in Scozia, Inghilterra e Galles segnarono un suo forte calo. Fu così che nel giugno, in risposta anche alle crescenti polemiche interne al partito, Major si dimise dalla carica di primo ministro e di leader del partito. Nel confronto con lo sfidante, il thatcheriano J.Redwood (luglio 1995), Major conquistò tuttavia fin dal primo turno il voto di 218 su 329 parlamentari conservatori, contro gli 89 di Redwood. Il ritrovato consenso all’interno del suo partito e la conseguente riorganizzazione dei ruoli in seno al gabinetto non furono però sufficienti al premier per ristabilire l’equilibrio nell’ambito della formazione di governo. In breve tempo, tra le sconfitte in varie elezioni suppletive e le defezioni di alcuni parlamentari, i conservatori giunsero (aprile 1996) a detenere un solo seggio di maggioranza. Nel marzo 1996, il fondato sospetto di un collegamento tra i casi di encefalopatia spongiforme bovina verificatisi nel paese e l’insorgere in alcuni casi di una patologia analoga nella popolazione portarono la Commissione europea a imporre un blocco sull’esportazione di qualunque prodotto di origine bovina di provenienza britannica: i malumori che ne derivarono reiterarono le istanze dei critici verso l’Unione Europea (i cosiddetti “euroscettici”), numerosi fra i conservatori, mettendo in luce la sostanziale debolezza del governo. In questo clima, le elezioni legislative del maggio 1997 si configurarono come una vittoria annunciata per il Labour party di T.Blair. Il nuovo leader della sinistra britannica esibiva un programma che comprendeva fra l’altro l’appoggio all’Unione economica e monetaria europea (purché sostenuto dalla volontà popolare tramite un referendum) e l’opposizione alle privatizzazioni nel sistema pensionistico e sanitario: un punto che si distingueva all’interno di una linea politica complessivamente favorevole ad aperture liberiste. Major vi contrapponeva una linea prudente sull’Europa e la prosecuzione della politica finanziaria fino ad allora adottata, che nell’ultimo periodo del suo governo aveva finalmente ottenuto buoni risultati sul piano del risanamento economico del paese, anche se a prezzo di un aumento del divario fra ceti più e meno abbienti. I risultati confermarono i pronostici: i laburisti riportarono una vittoria schiacciante, conquistando ben 419 seggi su 659, contro i 165 dei conservatori; i liberal-democratici, anche loro in aumento, ottennero 46 seggi. Dopo 18 anni, dunque, i laburisti tornavano al governo. A determinarne la vittoria avevano contribuito essenzialmente due elementi: da un lato la debolezza di un partito conservatore schiacciato dai conflitti interni e dagli scandali, e dall’altro l’abilità di Blair nel costruire “un’alternativa credibile”, lontana da “pericolose” reminiscenze marxiste e vicina al liberismo di tradizione conservatrice (seppure con un occhio più favorevole allo stato sociale e all’integrazione europea). In ambito internazionale, l’elezione di Blair si inquadrava inoltre nel processo generale che, dopo l’avvento al governo del socialista L. Jospin in Francia (giugno 1997), aveva portato all’affermazione della sinistra in 13 su 15 dei paesi dell’Unione Europea. Fra i punti principali del programma laburista vi era l’indizione di due referendum per la realizzazione di strutture autonome in Scozia e Galles. L’11 settembre 1997, a schiacciante maggioranza (74,29%), fu approvata la creazione di un parlamento autonomo scozzese: a parere di Blair, convinto sostenitore di questa riforma, si trattò di un passo non verso il separatismo, ma verso la stabilità. Meno entusiastico (50,3%) fu l’assenso, una settimana dopo, alla costituzione di un’assemblea autonoma (meno potente del parlamento scozzese) nel Galles. La debolezza di quest’ultimo esito sembrò smorzare parzialmente il successo del nuovo premier; tuttavia, solo pochi giorni dopo, il consenso a Blair fu trionfalmente confermato nel corso del congresso laburista di Brighton (settembre-ottobre 1997), nel quale il leader proclamò il suo impegno per l’Europa, per la riforma del welfare e per una riaffermazione dell’orgoglio nazionale, elemento quest’ultimo fino ad allora patrimonio quasi esclusivo della tradizione conservatrice. [31911] L’Irlanda, abitata dai Celti, subì l’invasione, dall’807 circa, dei popoli nordici (chiamati Danesi nelle fonti locali) che, ora combattuti ora favoriti dai sovrani locali a seconda dei loro particolari interessi, per oltre due secoli percorsero l’isola saccheggiando e distruggendo a varie riprese i più celebri monasteri; ma che anche contribuirono in maniera determinante, con le loro stazioni commerciali, alla formazione e allo sviluppo di quelli che saranno successivamente i massimi centri urbani in Irlanda: Dublino, Limerick, Kilkenny, Meath e altri. Quando re Brian del Thomond, ard righ dal 1002, volle condurre contro gli invasori nordici una lotta decisa, i re provinciali preferirono allearsi con quelli, nel timore di dover sottostare a un forte potere centrale; ma egli vinse gli uni e gli altri e la battaglia di Clontarf (1014), durante la quale fu ucciso, segnò anche la fine del predominio danese nell’isola. Il periodo successivo fu contrassegnato da guerre intestine fra i re celti; e fu appunto uno di questi, Dermot MacMurrough, sovrano del Leinster, in lotta con il re supremo d’Irlanda, Rodrigh O’Connor, a sollecitare l’intervento inglese nell’isola. [31921] Arruolati da Dermot in Inghilterra con l’autorizzazione di re Enrico II, cavalieri e arcieri normanni erano tecnicamente di gran lunga superiori ai Celti e ai Danesi d’Irlanda: e la conquista del paese fu assai presto conclusa. Bastarono 400 Inglesi a fare di Baginbun un primo inespugnabile caposaldo, nel 1169; l’anno successivo Richard de Clare, conte di Pembroke, ottenuta la corona del Leinster, conquistava Waterford ed entrava in Dublino, sotto le cui mura veniva distrutto l’esercito nazionale gaelico, condotto dallo stesso ard righ O’Connor. Ma Enrico II, che temeva le aspirazioni di potenza proprie dei cavalieri normanni, assunse personalmente la direzione dell’impresa, sbarcando in Irlanda (ottobre 1171): porti e città furono sottoposti direttamente alla sovranità del re d’Inghilterra, il quale insieme ne confermava i privilegi tradizionali. A Dublino, dove il sovrano si fermò nell’inverno 1171-72 e ricevette l’omaggio dei principi gaelici (non si sottomise però l’ard righ), fu da lui data pratica attuazione ai principi del feudalesimo normanno, distribuendo parte del suolo irlandese ai vittoriosi baroni; e fu istituito a garanzia del nuovo ordinamento politico-amministrativo il lord justiciar d’Irlanda delegato a rappresentare l’autorità sovrana. Fattore essenziale di stabilizzazione politica fu allora la Chiesa: che, se non incitò direttamente all’impresa di conquista, sanzionava già nel 1172 ufficialmente il fatto compiuto con Alessandro III, il quale, mentre investiva Enrico II di una missione riformatrice, assicurava al re la collaborazione del clero irlandese. Tuttavia la differenza della lingua, che era il francese per gli invasori, mentre quella dei vinti restava il gaelico, e delle istituzioni (giacché al regime feudale dei primi continuò a opporsi fra gli altri il tradizionale regime patriarcale), resero in un primo tempo problematica l’integrazione tra Inglesi e Irlandesi. Mentre il re d’Inghilterra, padrone dei porti (laddove una nuova borghesia di mercanti britannici sostituiva ormai, nel 13°-14° secolo, gli antichi coloni danesi), si contentava di controllare da lontano il paese (del quale rifiutava di essere, nel titolo, il sovrano), tre grandi casate feudali di antica origine normanna dominarono di fatto, per tutto il Medioevo, la scena irlandese: i Fitzgerald, signori del Kildare e del Desmond; i Butler, che all’Ormonde (Munster orientale) aggiunsero, sino al 1240, il Kilkenny; i de Burgh (o Burke), che, unendo al Connacht i possessi ereditati da H. de Lacy, il celebre primo justiciar nell’Ulster Orientale, affermarono la loro potenza su un territorio che si estendeva ininterrottamente da un mare all’altro. All’aggressione straniera il paese reagiva intanto con l’aperta ribellione (tali furono i tentativi d’instaurazione monarchica del 1258, del 1263 e ancora del 1315-18: quest’ultimo contrassegnato dalle vittoriose imprese, fino alla sconfitta finale e alla morte, di Edoardo Bruce, che era venuto dalla Scozia inviatovi dal fratello Roberto, dopo la vittoria di Bannockburn, per conquistare la corona d’Irlanda). Un graduale processo di assorbimento dell’invasore, che si andò successivamente imponendo in forza delle alleanze matrimoniali e della suggestione della cultura nazionale (così, per es., Gerald Fitzgerald, terzo conte di Desmond, sarà compositore di versi in gaelico), si scontrò con la promulgazione da parte di Edoardo III, nel 1367, dei famosi statuti di Kilkenny: i quali, nel dare consistenza giuridica alla separazione degli abitanti dell’isola in tre gruppi (gli Inglesi puri, sudditi fedeli del Pale, enorme campo trincerato fra Dublino e Dundalk, che era stato istituito in contea alle dirette dipendenze della corona; gli Inglesi definiti “degeneri”, in quanto accusati di infedeltà verso il re; infine i “nemici Irlandesi”, esclusi dalla protezione della legge), resero con ciò impossibile, anche se raramente applicati in tutto il rigore delle sanzioni penali, qualsiasi intesa fra il re d’Inghilterra e il popolo irlandese. Enrico VII, dopo la rivolta (1486) di Gerald Fitzgerald conte di Kildare, accentuava il carattere odiosamente discriminatorio di quelle norme mediante il Poynings’ Law (dall’inviato del re inglese, lord Poynings) che poneva altresì il parlamento d’Irlanda alle dirette dipendenze del lord justiciar di Dublino e per esso, nello spirito del sorgente assolutismo monarchico, del sovrano inglese (1495); ma era ugualmente costretto a cedere poco dopo, all’inglese “degenere” Gerald Fitzgerald, la suprema carica di justiciar (1496-1513). Analogamente falliva il tentativo di governo autocratico compiuto da Enrico VII, anche se attuato con spietata energia (impiccagione, nel 1537, di Garret Oge, conte di Kildare, e di cinque suoi zii), per l’insanabile deficienza di mezzi militari e finanziari. Gli Irlandesi dovettero però accettare la Riforma che quel re impose estendendo al paese l’Act of supremacy, mentre assumeva il nuovo titolo di re d’Irlanda (1541): aveva termine conseguentemente la finzione giuridica che nello spirito della teocrazia faceva del papa il sovrano irlandese, e del re d’Inghilterra soltanto il suo rappresentante. Da Elisabetta I l’Irlanda, ribelle per la difesa delle tradizioni cattoliche contro le innovazioni culturali del Common prayer book, fu resa teatro di repressioni sanguinose; l’Ulster di Hugh O’Neill resistette con disperato valore durante dieci anni di lotte, che videro l’intervento a sostegno dei cattolici di truppe spagnole, la sfortunata spedizione del conte di Essex, e infine la clamorosa vittoria del viceré Ch. Blount barone di Mountjoy a Kinsale (1603). [31931] L’avvento al trono inglese di Giacomo I (1603), se fu inizialmente seguito da un atto di perdono verso i vinti, vide peraltro anche l’instaurazione di un centralismo amministrativo più accentuato (furono quasi abolite le tradizionali libertà cittadine), mentre un’Alta Corte sedeva in permanenza comminando severe sanzioni agli Irlandesi cattolici che rifiutavano il giuramento prescritto dall’Act of supremacy; intorno al 1610 aveva inoltre inizio la colonizzazione (le cosiddette plantations) del paese con elementi scozzesi e presbiteriani: e poiché persecuzione religiosa e confisca dei beni procedevano del pari, anche le istanze nazionali e religiose confluivano in un’unica aspirazione di libertà, mentre il clero romano assumeva nella vita politica quella posizione di guida, che manterrà anche nelle future lotte per l’indipendenza. La ribellione cattolica del 1641 (gli Inglesi furono massacrati a migliaia dai contadini dell’Ulster) dimostrò l’inefficacia della politica di espropriazione parziale che esasperava gli animi, senza assoggettarli; e il parlamento inglese decise che, ad eccezione che nel Connacht, si procedesse ovunque, a favore dei mercanti speculatori inglesi, all’esproprio totale delle terre (Adventurers’ Act: febbraio 1642). La guerra civile inglese vide il clero diviso a favore del re (col nunzio apostolico G. B. Rinuccini) o dei parlamentari; Dublino cadde in mano dei secondi e l’Irlanda fu aperta alla conquista di Cromwell: questi prese Drogheda (settembre 1649), che sottopose a massacro, come anche Wexford, per vendicare le uccisioni del 1641; H. Ireton portava a conclusione l’impresa, costringendo alla resa la fortezza di Galway (1652). Con l’Act of settlement (1652) circa 11 milioni di acri, su una superficie totale di 20, furono allora confiscati, per compensare gli adventurers che avevano finanziato l’impresa, e insieme i soldati e gli ufficiali che avevano combattuto la guerra; una nuova classe di proprietari, protestanti, si stabilì pertanto sulle terre, ormai solo per un terzo in mano ai cattolici; mentre ai riformati fu assicurata la prevalenza nei primi nuclei industriali, nel commercio, nelle professioni liberali. Ma durante i successivi regni di Carlo II e di Giacomo II la politica del parlamento di Londra, che sacrificava gli interessi degli allevatori d’Irlanda all’economia inglese, provocò di riflesso l’unione, sul piano degli interessi economici, dei protestanti ai cattolici. Nel 1690, il tentativo di restaurazione di Giacomo II polarizzava tuttavia ancora attorno alle forze alleate giacobite e francesi l’opposizione cattolica e gaelica contro i protestanti, nel tentativo di riconquistare le terre confiscate; ma la vittoria protestante sul fiume Boyne (1° luglio 1690) liberava l’Inghilterra dalla minaccia giacobita e assicurava il possesso dell’Irlanda a Guglielmo III d’Orange. La pace di Limerick, firmata da Guglielmo, che assicurava ai cattolici libertà religiosa e ai ribelli le loro proprietà, non fu rispettata dal parlamento, che sottopose con speciali “leggi penali” i cattolici a nuove gravi restrizioni religiose, economiche e politiche (dal 1691 i cattolici non saranno più eleggibili al parlamento irlandese, e dal 1727 neppure elettori): molti preferirono l’esilio. Con Giorgio III (re d’Inghilterra dal 1760) diminuiva il rigore delle sanzioni: anche in ricompensa della sua partecipazione attiva nella guerra dei Sette anni (1757-63), l’Irlanda otteneva l’attenuazione delle “leggi penali”, il riconoscimento a Dublino del rango di capitale, sede di un viceré (1767); più tardi si ebbe il rafforzamento dell’indipendenza del suo parlamento in seguito all’azione politica promossa da Henry Grattan; nel 1782 furono revocate le leggi Poynings. Ma le aspirazioni dei seguaci di Grattan a una pacificazione interna e a normali rapporti con l’Inghilterra furono deluse dalle ripercussioni della Rivoluzione francese: gli Irlandesi Uniti, fondati da Th. Wolfe Tone nel 1791 con il programma di uguaglianza confessionale e di piena indipendenza politica, si allearono con il Direttorio francese che tentò più volte, senza successo, l’invasione dell’isola. E l’insurrezione popolare scoppiata nel maggio 1798 falliva anch’essa lo stesso anno con la disfatta sui campi di Vinegar Hill. W. Pitt, nella convinzione che un’unione parlamentare tra Inghilterra e Irlanda potesse evitare in avvenire la pericolosa collusione con i Francesi di Bonaparte, restaurando insieme con l’emancipazione politica dei cattolici (che non fu però concessa) la pace interna, fece votare al parlamento inglese l’Act of union (maggio 1800), per il quale veniva soppresso il parlamento di Dublino e l’Irlanda inviava una rappresentanza di 100 deputati ai Comuni e 28 pari ai Lord, mentre giurava fedeltà alla corona inglese “nella successione protestante”. [31941] Nella nuova situazione determinata dall’Atto di unione, le aspirazioni irlandesi fondamentali, all’inizio del 19° secolo, erano dirette al riscatto sociale e all’uguaglianza religiosa. Impossibilitata a far valere i propri diritti nel parlamento londinese dove venivano inviati solo delegati di confessione protestante, l’Irlanda cattolica mirò anzitutto all’abrogazione delle leggi che vietavano il suo accesso alla vita politica e amministrativa; a tal fine sorgeva (1823) la Lega cattolica di D. O’Connell, che nel 1828 riusciva a far sanzionare l’elezione del suo capo (nonostante il rifiuto a prestare il giuramento antipapale) e l’anno successivo costringeva Wellington, primo ministro, ad abrogare (1829) il Test Act del 1692. L’emancipazione dei cattolici del Regno Unito, e con ciò stesso l’uscita dalla minorità politica della maggior parte degli Irlandesi, era ormai un fatto compiuto; anche se il governo inglese, a evitare paventate vittorie parlamentari del movimento popolare di O’Connell, aveva allora fortemente limitato il diritto elettorale. Continuò comunque a figurare in primo piano il problema confessionale, che era strettamente legato a quello sociale, dato che la soppressione di una chiesa di stato in Irlanda era connessa con il miglioramento economico della classe contadina, oppressa dagli obblighi della “decima”, cioè della tassa destinata al mantenimento della chiesa anglicana. E mentre nel paese si seguiva apertamente una tattica rivoluzionaria con il rifiuto a pagare la tassa e l’uccisione degli esattori, sul piano parlamentare O’Connell svolgeva un’abile politica che gli consentiva di disporre della maggioranza dell’assemblea; e assicurando nel 1835 la prevalenza ai liberali, riuscì a far approvare il principio che il pagamento della decima fosse dovuto dai proprietari (anglosassoni) anziché dagli affittuari, che erano appunto in Irlanda cattolici (1838). Il problema sociale, cioè l’esigenza di riformare il regime oppressivo della proprietà terriera, fu da allora in poi in primo piano: per risolverlo la Repeal association chiese ormai la revoca dell’Atto di unione e l’indipendenza, e il movimento politico della Giovane Irlanda (1842) si pose sul piano dell’azione diretta, rivoluzionaria. Questa fu interrotta dalla grave carestia che nel 1845-47 decimò la popolazione, scesa rapidamente da 8,5 milioni, anche per effetto della conseguente emigrazione, a 6,5 milioni di abitanti (nel 1851). Nel 1848 la Giovane Irlanda tentò nel Munster l’avventura rivoluzionaria: ma furono battuti, i loro capi condannati a morte o deportati. La costituzione del grande ministero Gladstone (1869-74) portò notevoli benefici all’Irlanda, dove la situazione interna si era aggravata per la comparsa, dal 1858, del movimento terrorista dei feniani: nel 1869 fu tolto alla Chiesa episcopale irlandese (che fu privata anche di un quarto delle rendite) il riconoscimento di confessione ufficiale, e fu attuata così l’uguaglianza religiosa; l’anno successivo fu promulgata la prima legge (Land Act) protettiva dei contadini affittuari. Alla politica di conservazione sociale di Gladstone si contrappose dal 1879 il movimento della Land league col programma di conquistare ai contadini irlandesi lo stato di liberi agricoltori; e alla lega si unì il movimento di Ch. S. Parnell volto alla conquista della cosiddetta Home rule (autonomia nell’ambito dell’Unione, da realizzarsi per via parlamentare e legale); attentati contro i proprietari e la prassi del boicottaggio portarono alla legge protettiva sugli sfratti e i fitti del 1881. La situazione parlamentare, che lo poneva alla mercé dei deputati irlandesi, persuase Gladstone ad accettare la Home rule; la decisione determinava la scissione del partito liberale e la caduta del governo (1886). Ma invano, con una politica di parziali concessioni amministrative e sociali, i governi conservatori, tra il 1895 e il 1903, ritennero di poter accantonare la questione dell’autonomia irlandese. In seguito alle elezioni del 1910 fu concessa all’isola, attraverso due successive votazioni ai Comuni, la Home rule. Contro di essa tuttavia insorsero nel 1913, sotto la guida di E. Carson, i protestanti dell’Ulster, per non essere soggetti alla maggioranza cattolica del nuovo parlamento autonomo; lo scoppio della prima guerra mondiale sospendeva l’applicazione della Home rule, ma nella Pasqua 1916, guidati da P. Pearse, gli Irish Volunteers, formazioni militari cattoliche, insorgevano a Dublino: la rivolta era soffocata nel sangue dalle truppe inglesi che, bombardata la città, passavano per le armi i capi dell’insurrezione. Finalmente nel gennaio 1919 i 73 deputati appartenenti al movimento indipendentista Sinn Féin si riunivano nel Dail Éireann (“Assemblea d’Irlanda”) e proclamavano la repubblica, designandone presidente E. De Valera allora detenuto nelle prigioni inglesi. Il trattato istituente lo “Stato Libero d’Irlanda”, che concedeva all’Irlanda lo stato di dominion nell’ambito del Commonwealth, e dal quale, per volontà della maggioranza protestante, restava escluso l’Ulster, cui era già stata riconosciuta (1920) una limitata autonomia, fu sottoscritto il 6 dicembre 1921; ma la lotta armata scoppiata fra gli indipendentisti di De Valera, organizzati militarmente nell’IRA, e i moderati capeggiati da A. Griffith e M. Collins durò ancora a lungo, fino al 1923. Assunto il potere nel 1923, De Valera, sfruttando la crisi costituzionale provocata dall’abdicazione di Edoardo VIII (dicembre 1936), promulgava unilateralmente (29 dicembre 1937) una nuova costituzione che sanciva la nascita dell’Éire, “stato sovrano, indipendente e democratico”. [31951] Nella seconda guerra mondiale il governo De Valera (1932-48) manteneva il paese neutrale, rifiutando alla flotta inglese l’uso delle basi marittime dell’Éire. Il partito governativo Fianna Fail era battuto nelle elezioni del 1948 e lasciava la direzione politica a un ministero di coalizione presieduto da J. A. Costello, cui spettava di proclamare (17 aprile 1949) la Repubblica d’Irlanda, atto di ratifica di un ormai più che decennale stato di fatto. Tornato di nuovo al potere nel 1951, De Valera veniva battuto nel giugno del 1954, con conseguente ritorno al potere di Costello, a capo di un gabinetto di coalizione. L’Irlanda è stata ammessa alle N. U. nel dicembre 1955. De Valera ritornò al potere nel 1957 per due anni; il 17 giugno 1957 fu eletto presidente della Repubblica e confermato nel 1966, quale espressione del Fianna Fail, contro il candidato del Fine Gael e del partito laburista. Quale presidente del consiglio successe a De Valera Seán Lemass (giugno 1959), confermato dopo le elezioni dell’aprile 1965. A lui successe John Lynch (16 novembre 1966), confermato anche dopo le elezioni del giugno 1969, che videro un leggero incremento delle posizioni del Fianna Fail. I primi anni Settanta videro abbattersi sul paese le difficoltà di una grave crisi economica accompagnate dalle conseguenze dello scoppio della crisi dell’Irlanda del Nord. Il contrasto tra cattolici e protestanti nell’Ulster, che andava sempre più assumendo il carattere di guerra civile, divise l’opinione pubblica, mentre il primo ministro J. Lynch, pur sostenendo le rivendicazioni dei cattolici nordirlandesi, condannava l’azione dei guerriglieri dell’IRA. Nel 1972, con un referendum popolare, fu decisa l’adesione alla CEE (effettiva dal 1° gennaio 1973). L’anno successivo, alle elezioni di febbraio, la coalizione del Fine Gael e del partito laburista vinse le elezioni e L. Cosgrave, leader del Fine Gael, sostituì Lynch nella carica di primo ministro, mentre le elezioni presidenziali (maggio 1973) vedevano la vittoria del candidato del Fianna Fail E. Childers, che succedeva così a De Valera. I tentativi di mediazione sulla questione nordirlandese ottenevano frattanto alcuni successi, mentre il terrorismo varcava i confini fra le due Irlande. Nel 1976 il presidente C. O’Dalaigh, che era succeduto a Childers morto nel novembre 1974, si dimise per le accuse di aver ritardato la nuova legislazione contro il terrorismo; fu così proclamato presidente il candidato del Fianna Fail P. Hillery (novembre 1976). La grave e persistente crisi economica, unita alle conseguenze del conflitto nordirlandese, premiavano, alle elezioni del giugno 1977, il partito d’opposizione (Fianna Fail). Il nuovo governo di J. Lynch adottò allora una politica meno repressiva verso i guerriglieri dell’IRA, premendo al contempo su Londra per il ritiro delle truppe inglesi dall’Ulster. Nel dicembre 1979 Lynch fu sostituito alla guida del governo dal nuovo leader del Fianna Fail C. Haughey, il quale tuttavia, per la sconfitta elettorale del giugno 1981, dovette cedere la carica di primo ministro a G. FitzGerald leader del Fine Gael. Il governo FitzGerald (costituito da una coalizione comprendente il Labour party) conservò la maggioranza fino al 1986 (tranne una parentesi nel 1982 in cui si costituì un governo Haughey e il Fianna Fail tornò al potere), in una fase particolarmente delicata per la soluzione della questione nordirlandese, per la quale il governo si impegnò con l’accordo intergovernativo con la Gran Bretagna del 1985 e partecipando a iniziative antiterroristiche su scala europea (anche se le richieste britanniche di estradizione dei militanti dell’IRA posero problemi giuridici e anche diplomatici con il Regno Unito). In politica interna, nel 1986 un referendum bocciava una proposta di legge governativa che introduceva il divorzio. Nel 1987 fu confermata ed estesa la partecipazione alla CEE. Dopo le elezioni del 1987 tornò al potere il Fianna Fail (che aveva ottenuto 81 seggi su 166) con un governo di minoranza guidato da Haughey e un programma di austerità economica. Sebbene le elezioni anticipate del 1989 segnassero un arretramento del suo partito, Haughey fu nuovamente primo ministro di un governo di coalizione, ma nelle elezioni presidenziali del novembre 1990, al termine del secondo mandato presidenziale di Hillery, fu eletta capo dello Stato la laburista indipendente M. Robinson. Nel febbraio 1992 il cambio della direzione del Fianna Fail determinava le dimissioni di Haughey e la formazione di un governo, cui partecipavano anche i democratici progressivi, guidato da A. Reynolds. Dopo l’approvazione tramite referendum popolare (giugno 1992) della ratifica al Trattato di Maastricht per l’adesione all’Unione Europea e dopo la rottura della coalizione governativa per il presunto coinvolgimento di Reynolds in uno scandalo finanziario, nel novembre1992 si svolsero nuove elezioni legislative anticipate, che confermarono la progressiva frammentazione del quadro politico irlandese: Fianna Fail e Fine Gael subirono infatti un netto calo di consensi, a vantaggio del Labour party e dei Progressive democrats; contemporaneamente si tennero tre referendum costituzionali, che mitigarono parzialmente la rigida legislazione antiabortista (in particolare, furono rimossi i limiti all’espatrio volti ad impedire a cittadine irlandesi di abortire all’estero, una norma in contrasto con i principi di libera circolazione in Europa sanciti dal Trattato di Maastricht). Nel gennaio 1993 Reynolds formò un governo di coalizione (Fianna Fail e laburisti), che svalutò la moneta del 10% nel tentativo di rilanciare le esportazioni, promosse alcune riforme in campo sociale e si adoperò per rilanciare, dopo una fase di stallo, il processo di distensione in Irlanda del Nord. Nel novembre 1994 il Labour party, contrario alla nomina alla Corte suprema di un giudice noto per le sue posizioni conservatrici, si ritirò dalla coalizione di governo; nel mese successivo fu costituito un nuovo esecutivo, cui parteciparono laburisti, Democratic left (DL, formazione progressista nata nel 1992) e Fine Gael, presieduto dal leader di quest’ultimo, J. Bruton. Sulla questione nordirlandese, il gabinetto Bruton continuò ad adoperarsi per cercare una soluzione definitiva, ma si scontrò con l’intransigenza di Londra, ferma nella sua richiesta all’IRA di consegnare le armi come condizione preliminare all’avvio di negoziati con la partecipazione del Sinn Féin, suo braccio politico. Solo dopo l’avvento di un governo laburista a Londra (maggio 1997) fu possibile avviare negoziati che condussero nell’aprile 1998 a un primo accordo di pace. Nel novembre 1995, nonostante l’esplicita opposizione della Chiesa cattolica, un referendum popolare sostenuto da tutti i principali partiti abrogò a strettissima maggioranza il divieto posto dalla costituzione al divorzio. A dispetto di alcuni positivi risultati raggiunti in politica economica, la cosiddetta Coalizione arcobaleno, ossia l’alleanza delle forze di governo, fu sconfitta nelle elezioni del giugno 1997 dal cartello di centro-destra (Fianna Fail e PD); il nuovo leader del Fianna Fail, B. Ahern, diede vita nello stesso mese a un governo di coalizione di minoranza. Nel settembre 1997 M.Robinson lasciò anticipatamente la carica presidenziale, alla quale fu eletta il mese successivo M. McAleese, candidata del Fianna Fail. [32011] La polemica iconoclastica (726) aperta da Leone III approfondì il contrasto tra Roma e Bisanzio che nel 1054 aderì allo Scisma staccandosi dalla Chiesa di Roma. A più breve termine, l’editto contro le immagini provocò la sollevazione della Grecia e delle Cicladi che proclamarono un anti-imperatore che tentò la conquista di Costantinopoli; la flotta ribelle fu allora distrutta dalle squadre imperiali e la rivolta fu soffocata: sintomo notevole questo, tuttavia, di una vitalità nuova che, come nelle province greche d’Italia, si fa luce attraverso la lotta contro l’autocrazia politico-religiosa bizantina. In effetti, stabilizzatesi le popolazioni immigrate sul suolo greco (e dalla fusione di esse con la popolazione indigena trae origine il popolo neogreco, che gli scrittori bizantini, già nell’8° secolo, individuano col nome di Helladikòi, distinguendolo spregiativamente dagli antichi Elleni e dai Romei, cioè dai veri cittadini dell’Impero), si ebbe sin dall’alto Medioevo un sensibile progresso, che fu non solo agricolo ma anche artigianale e urbano (lavorazione della seta a Tebe e Corinto, già nel 9° secolo). Parallelamente si andava formando nei suoi elementi strutturali la fisionomia sociale del paese caratterizzata da una assoluta prevalenza economica e politica della grande proprietà terriera, e dal concentrarsi del monopolio della cultura nelle mani di una ristretta aristocrazia ecclesiastica la quale seppe farsi portatrice del sentimento nazionale greco contro il cattolicesimo romano, e in funzione antibizantina. Traggono origine dalla crisi politico-militare dell’Impero, nel quadro degli avvenimenti generali del tempo in Europa e nel Mediterraneo, l’occupazione araba di Creta (826-961), donde nel 9°-10° secolo le navi musulmane mossero sovente a devastare le isole dell’Egeo e le coste dell’Attica e del Peloponneso; la temporanea occupazione della Grecia continentale per opera dei Bulgari sollevatisi contro l’imperatore Basilio II (976), fino al 981; e nel 10°-11° secolo le incursioni dei Normanni che nel 1147 saccheggiarono Corinto, Tebe e Atene. Sprovvista di presidi imperiali e nell’insofferenza dell’amministrazione bizantina, la Grecia fu facile preda delle milizie feudali latine partite per l’Oriente in occasione della 4ª crociata. Espugnata Costantinopoli, i crociati invasero la Grecia tra il 1204 e il 1205, mentre i Veneziani ne occupavano le isole. Con l’introduzione sia nei domini franchi sia in quelli veneziani degli istituti particolaristici del feudalesimo occidentale, la storia della Grecia perdette ogni significato unitario, per scindersi in tante storie locali quante erano le signorie sorte sul suo territorio nel disgregarsi dell’Impero bizantino. Sorsero allora, per i capi franchi della 4ª crociata, il principato di Acaia nel Peloponneso (che cambiò il nome in Morea), il regno di Tessalonica comprendente la Macedonia e parte della Tessaglia, il ducato di Atene e altri feudi minori; mentre i Veneziani sottoponevano al loro dominio diretto le Isole Ionie, Metone, e Corone nel Peloponneso (dove, nel 1388, fonderanno colonie anche a Nauplia e Argo), Creta e Cerigo, affidando invece a membri della loro aristocrazia, col vincolo feudale, il possesso dell’Eubea (Negroponte), delle Cicladi, Stampalia, Scarpanto. In posizione antilatina il bizantino Michele Angelo Comneno costituì il despotato di Epiro, che comprendeva anche l’Acarnania e l’Elide e assorbì più tardi (1223) lo stesso regno di Tessalonica. Libertà e tolleranza contrassegnarono (se si eccettuano i rapporti con la chiesa, che fu sottoposta per ovvie ragioni politiche all’autorità di quella romana) la dominazione latina: le principali città garantite, secondo una prassi affine a quella delle città dell’Occidente, nei loro diritti; rispettata, col corrispettivo di un tributo, la proprietà privata e assimilati ai “milites” del sistema feudale occidentale gli stradioti (grossi proprietari fondiari greci). Ma più sollecito del benessere economico e del progresso civile delle popolazioni soggette fu certo il governo dei mercanti veneziani; dove questo durò più a lungo (le Isole Ionie furono venete fino al 1797) si ebbe talora l’assimilazione del ceto dirigente: così a Creta, dove l’aristocrazia veneta fornì elementi alle rivolte locali del 14° secolo; ovvero rimasero tracce cospicue della civiltà veneziana nella lingua, nelle istituzioni e nel costume delle popolazioni indigene (nelle Isole Ionie principalmente). Durante la seconda metà del 13° secolo gran parte del Peloponneso era nuovamente in possesso dei sovrani del ricostituito Impero bizantino d’Oriente; questi, nella nuova situazione determinata dalla conquista turca dell’Asia, gli riconobbero particolare importanza politico-strategica, e nel 14° secolo ne affidarono il governo a un principe della dinastia regnante col rango di despota. Il dominio ottomano (affermatosi su tutta la Grecia continentale, per la conquista di Maometto II, dal 1460) ristabiliva l’unità territoriale, ma segnò per i Greci l’inizio di un’epoca di oppressione e di miseria. Soppressa violentemente in gran parte l’élite sociale e intellettuale della nazione, privata anche della sua parte migliore mediante lo schiavistico istituto della leva quinquennale (o devshirmè), per il quale i giovani più dotati erano inviati a Costantinopoli a servire il sultano nella guardia personale o nel corpo dei giannizzeri, la Grecia ebbe a soffrire le conseguenze di un ordinamento amministrativo (fondato sulla suddivisione del paese in sei distretti, o sangiaccati, governati ciascuno da un bey con poteri civili e militari) che era ispirato a esigenze esclusivamente difensive e fiscali. Così l’iniquità delle sue condizioni sociali, rese oppressive dall’alleanza tra la vecchia aristocrazia indigena degli stradioti convertiti all’islamismo e quella dei nuovi feudatari turchi, fu mitigata solo in parte più tardi (17° secolo) dall’abolizione delle servitù personali. La progressiva conquista delle isole, eccetto Tino, fu completata dai Turchi con l’occupazione di Cipro nel 1571; rimasero veneziane Creta, sino al 1669, e Corfù, Cefalonia e Zante fino alla caduta della Repubblica (quando passarono alla Francia, nel 1797). Venezia approfittava nel 1684 delle difficoltà turche nel bacino danubiano per attaccare la Morea, riconosciutale dal trattato di Carlowitz (1699); ma la restituì nuovamente agli Ottomani nel 1718 al termine di una campagna triennale, anche per la passività della popolazione greca, mostratasi allora indifferente ai vantaggi della mite amministrazione veneziana. Durante il 18° secolo il miglioramento delle condizioni generali (abolizione, avvenuta già nel 1676, della leva quinquennale; partecipazione dei Greci agli impieghi civili e militari; accresciuta libertà e influenza del clero ortodosso, specie nei Balcani) non elimina le ragioni di insofferenza per la dominazione ottomana, sicché l’influenza della cultura europea e l’azione della chiesa ortodossa portano i Greci all’aperta rivolta. Questa trovò nel disordine amministrativo, nelle intemperanze dei giannizzeri, nell’anarchia dei maggiori feudatari le condizioni propizie al suo affermarsi; nei clefti, i suoi eroici guerriglieri; e nella ricca borghesia greca di Bisanzio e dei principali empori del Mediterraneo, i suoi quadri dirigenti. Già nel 1770, durante la guerra russo-turca, tutta la Grecia si sollevò, appoggiata dalla flotta zarista; ma la rivolta fallì per mancanza di un’efficiente organizzazione e per l’incertezza degli obiettivi politici. [32021] Agli inizi del secolo 19°, con la fondazione della Eteria, il moto antiturco acquistò nuovo vigore; ben presto tutta la Grecia e la penisola balcanica erano avviluppate dalla rete di quella potente setta segreta che giungeva fino alla corte dello zar Alessandro I attraverso il ministro G. A. conte di Capodistria e l’aiutante Alessandro Ipsilanti. Lo spunto all’insurrezione nazionale venne dalla ribellione di ‘Alê Tepedelenlê, pascià di Giànnina, contro il sultano; l’Eteria raccoglieva la richiesta di aiuto fattale da ‘Alê e diede inizio a un doppio movimento convergente: dall’esterno con A. Ipsilanti, che il 7 marzo 1821 passava il Pruth ed entrava in Moldavia, dove tentava invano di sollevare la popolazione romena e marciava con pochi Greci su Bucarest, che occupava il 9 aprile; dall’interno, dove il paese sorgeva in armi contro il dominio turco. L’Ipsilanti (cui era mancato non solo il concorso dei Romeni ma anche l’appoggio dello zar, che si era dichiarato per la solidarietà conservatrice della Santa Alleanza) fu però costretto sin dal giugno successivo a rifugiarsi in Ungheria, dove fu imprigionato; invece la rivolta nel sud aveva esito fortunato; al comando di Demetrio Ipsilanti, fratello di Alessandro, i clefti delle montagne liberavano la Morea, mentre i marinai delle isole assalivano le navi turche nell’arcipelago; ai massacri turchi di notabili e dignitari ecclesiastici nel Fanàri (il ricco quartiere greco di Costantinopoli donde traeva origine l’Eteria) e altrove, i patrioti risposero proclamando a Epidauro, il 1° gennaio 1822, l’indipendenza della Grecia e costituendo un governo nazionale (organo esecutivo con a capo A. Maurocordato e un senato). Seguì il massacro totale della popolazione cristiana della fiorente isola di Chio (1822), nella cui rada poco dopo andò distrutta la flotta ottomana. A favore della Grecia (mentre i governi delle grandi potenze si mostravano ostili alla rivoluzione, negando ai delegati greci anche di farsi ascoltare al Congresso di Verona nel 1822), si era mossa nel frattempo l’opinione pubblica liberale dell’Europa: comitati “filellenici” raccolsero ovunque armi e denaro e, animati dagli ideali culturali e politici del Romanticismo, uomini di ogni nazione accorsero per combattere a fianco dei Greci; tra questi, G. Byron morì all’assedio di Missolungi (15 aprile 1824), Santorre di Santarosa cadde combattendo nell’isola di Sfacteria (9 maggio 1825). Intanto anche il presidente J. Monroe affermava la volontà liberale degli S.U.A. inviando un messaggio di solidarietà agli insorti. Ma l’intervento della flotta e dell’esercito egiziano al comando di Ibràhêm, figlio dell’ambizioso chedivè Moéammed ‘Alê, segnò la crisi della rivoluzione sino allora vittoriosa: attaccata nel giugno 1825, nonostante mirabili prove di eroismo (assedi di Missolungi, dell’acropoli di Atene), nell’estate 1827 tutta la Grecia continentale era nuovamente soggetta ai Turchi. L’indipendenza ellenica divenne allora problema politico europeo: a neutralizzare le velleità imperialistiche del nuovo zar Nicola I, la Gran Bretagna liberale di G. Canning realizzava nel luglio 1827 la conferenza di Londra che stabilì il principio della mediazione russo-franco-britannica, al fine di imporre al sultano un armistizio e il riconoscimento dell’autonomia greca. Ma non avendo il sultano accettato tale mediazione si dovette giungere alla distruzione della flotta turco-egiziana per opera delle tre potenze europee nella rada di Navarino (20 ottobre 1827) e a una campagna biennale di guerra che vide i Francesi combattere in Morea e la Russia impegnata in Europa e in Asia con Turchia e Persia, fino alla pace di Adrianopoli (14 settembre 1829): in seguito ad essa il sultano sconfitto s’impegnò ad accettare per la Grecia le deliberazioni della conferenza londinese. Il protocollo di Londra del 3 gennaio 1830, che poneva in crisi il sistema della Santa Alleanza, dava origine al regno indipendente di Grecia però limitato territorialmente tra il Golfo d’Arta e quello di Volos, mentre la Gran Bretagna conservava il possesso delle Isole Ionie (cedute ai Greci solo nel 1863); la successiva convenzione del 7 maggio 1832 dava la corona a Ottone di Wittelsbach, secondogenito del re di Baviera. Il nuovo stato, privato a Londra delle regioni più produttive (Tessaglia, Macedonia, Creta), dovette anche addossarsi i debiti della guerra di liberazione. Divenne perciò economicamente feudo britannico, mentre nella politica interna prevalevano, sul libero funzionamento del regime parlamentare (posto in essere dalla costituzione accordata dal re soltanto nel 1844), la volontà autocratica del sovrano e gli intrighi delle grandi potenze; finché Ottone fu deposto e una costituente diede un altro re al paese, Giorgio I, figlio del re di Danimarca (1863). La nuova costituzione (1864) stabilì un regime di democrazia liberale (una sola Camera eletta a suffragio universale; ampia libertà di riunione, di associazione e di stampa), che durò fino al 1911. Ostacolato dalle potenze straniere, il governo greco falliva però nel tentativo di liberare i Cretesi insorti contro il dominio ottomano (1866-69); in seguito alla crisi balcanica del 1877-78, che vide l’intervento armato dei Greci in Tessaglia e nell’Epiro, la conferenza internazionale di Costantinopoli assicurò invece alla nazione Larissa e la bassa valle del Peneo (1881). Il primo concreto impulso al suo sviluppo economico e civile fu dato al paese dall’azione di governo di C. Trikùpis (1882-90). Ma le modeste risorse della Grecia non ressero allo sforzo imposto da una politica militare volta a realizzare le aspirazioni dell’irredentismo: fallito, infatti, l’intervento del conflitto balcanico del 1885-86, la guerra contro i Turchi per la liberazione di Creta (aprile-settembre 1897) si concludeva con una grave sconfitta e le grandi potenze, pur assicurando a Creta una limitata autonomia sotto re Giorgio nominato alto commissario, imponevano al governo greco il controllo internazionale delle finanze statali (1898). [32031] Il governo di E. Venizèlos, salito al potere nel 1910, segnò per la Grecia un periodo di importanti avvenimenti: promosse un’efficace riforma costituzionale (1911), la ricostruzione tecnica delle forze armate, e, mediante un’efficace azione diplomatica e militare durante la crisi balcanica del 1912-13, riuscì ad assicurare al paese, coi trattati di Bucarest e Londra, importanti acquisti territoriali (Giànnina, Salonicco, Kavàlla, Creta e le isole dell’Egeo tranne il Dodecaneso). La prima guerra mondiale vide la Grecia internamente agitata dal conflitto tra la corona, che era favorevole agli Imperi centrali, e il partito liberale guidato da Venizèlos, auspicante l’intervento a fianco dell’Intesa. Gli sviluppi del conflitto consentivano infine ai franco-britannici di imporre l’allontanamento di Costantino I, salito al trono nel 1913 dopo l’assassinio del padre Giorgio I (gli succedette il figlio secondogenito Alessandro), e il ritorno al potere di Venizèlos, che dichiarava guerra alla Germania, alla Turchia e alla Bulgaria. Il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) assegnò alla Grecia la Tracia orientale fino al Mar Nero, la penisola di Gallipoli e il territorio di Smirne, dove le truppe elleniche erano sbarcate su richiesta degli alleati il 15 maggio 1919. Battuto Venizèlos nelle elezioni del 1920, un plebiscito restaurava sul trono, morto Alessandro I, il deposto re Costantino I. Ma le potenze occidentali non riconobbero il nuovo regime e la Turchia kemalista oppose più valida resistenza all’occupazione greca; i Greci dovettero sgomberare Smirne (settembre 1921); seguì la caduta di Costantino (sostituito sul trono dal figlio Giorgio II) e del suo governo, mentre la pace di Losanna (24 luglio 1923) concludeva il conflitto con la Turchia imponendo alla Grecia sacrifici territoriali (la Tracia a Est della Marizza). Intanto un accordo greco-turco del gennaio 1923 aveva stabilito il principio dello scambio delle popolazioni alloglotte, la cui attuazione, se poneva il difficile problema di dar sistemazione a più di 1.200.000 Greci immigrati, consolidava tuttavia l’unità nazionale. L’anno successivo, una rivoluzione promossa dalle sfere militari abbatteva la monarchia e instaurava, con voto dell’assemblea nazionale costituente, la repubblica (25 marzo 1924); nel nuovo regime, dopo un periodo di forti contrasti politici, prevaleva infine ancora la corrente liberale-nazionale di Venizèlos, che tornato al potere nel luglio 1928 riuscì ad attuare il reinserimento della Grecia nella politica europea e mediterranea (accordi con l’Italia del settembre 1928; con la Iugoslavia del marzo 1929; con la Turchia del 30 ottobre 1930); ma ebbe minore successo nel proposito di consolidare nel paese la democrazia repubblicana, come mostrò, nel marzo 1933, la vittoria elettorale dell’opposizione filo-monarchica, che provocava la caduta del suo ministero, e, dopo il vano tentativo di riconquista rivoluzionaria del potere effettuato il 1° marzo 1935 dai venizelisti, il colpo di stato del gen. G. Kondölis, che portava alla restaurazione della monarchia (10 ottobre; un plebiscito ratificava il 2 novembre la deliberazione dell’Assemblea nazionale). In seguito il governo di I. Metaxàs si trasformava progressivamente, a partire dall’agosto 1936, in regime dittatoriale sul modello fascista; ma sebbene il 3 novembre 1939 uno scambio di note fra i governi italiano e greco avesse rinnovato gli impegni del patto d’amicizia del 1928, Mussolini, il 28 ottobre 1940, inviava ad Atene un ultimatum nel quale imponeva a Metaxàs l’occupazione militare, ai fini della guerra in atto contro la Gran Bretagna, di basi strategiche in territorio greco. Aveva inizio così la guerra in cui il popolo greco diede prova di eccezionale valore nella difesa, che si mostrò efficace nonostante l’inferiorità tecnica e numerica, del suolo nazionale ma dopo l’invasione della Iugoslavia, il 6 aprile 1941, le truppe tedesche varcarono il confine e ogni difesa crollò rapidamente. Il 28 aprile i Tedeschi entrarono in Atene; il 20 maggio sbarcarono in forze a Creta, dove re Giorgio e il governo avevano organizzato l’estrema resistenza: questa però cessava nell’isola, di fronte alla schiacciante superiorità nemica, il 1° giugno. Il re aveva abbandonato Creta il 20 maggio, per trasferirsi al Cairo col governo (che rientrò poi ad Atene nell’autunno 1944). Il periodo dell’occupazione italo-tedesca fu grave di conseguenze per il popolo greco; l’inflazione, che arrivò poi al suo massimo subito dopo la liberazione, andava sempre più accentuandosi e la carestia costò la vita a 300.000 persone. Ma iniziatasi l’offensiva alleata, evacuata l’Africa dalle forze dell’Asse, prese vigore nella seconda metà del 1943 la resistenza, particolarmente contro i Tedeschi; d’intesa con le similari organizzazioni partigiane che agivano contemporaneamente in Bulgaria, Albania e Iugoslavia, l’EAM e l’ELAS avevano già sotto il loro controllo vaste zone del paese quando, nell’autunno 1944, vi ebbero inizio gli sbarchi alleati. [32041] Dopo la liberazione la situazione politica interna, sotto la pressione della crescente rivalità tra le potenze occidentali e l’URSS, entrò rapidamente in crisi: dopo un vano tentativo di compromesso effettuato con la mediazione inglese (accordo di Vàrkiza, febbraio 1945) scoppiò la guerra civile tra le organizzazioni partigiane dell’ELAS e dell’EAM sostenute dal partito comunista, e le forze governative a sostegno del restaurato regime monarchico (per il referendum istituzionale del 1° settembre 1946). La guerriglia continuò accanita durante tutto il 1947 e portò anzi alla costituzione di un governo repubblicano popolare della “Grecia libera” sotto la direzione di Màrkos Vafiàdis; finché l’offensiva iniziata il 15 aprile 1948 dalle forze governative, col concorso di ufficiali osservatori anglo-americani, portò alla finale eliminazione (1949) della resistenza comunista, anche per gli sviluppi nel frattempo intervenuti nella penisola balcanica (rottura di rapporti fra il maresciallo Tito e l’URSS). Nel 1947 il Dodecaneso, ceduto dall’Italia, era entrato a far parte del territorio nazionale. Ma la situazione politica interna greca continuò a essere confusa alternandosi al potere gabinetti di coalizione, per lo più effimeri, unico dei quali ad avere una certa stabilità fu quello dell’Unione nazionale del maresciallo A. Papàgos (novembre 1952 - ottobre 1955), emerso nella guerra civile. A Papàgos, morto nell’ottobre 1955, succedette K. Karamanlìs che alla testa di un nuovo partito (Unione radicale) conquistò una debole maggioranza nelle elezioni del febbraio 1956, rafforzatasi però nel 1958 e 1961. In politica estera la Grecia nell’ottobre 1951 aderì alla NATO; il 9 agosto 1954 firmò con la Iugoslavia e la Turchia il Patto balcanico di alleanza, cooperazione politica e mutua assistenza che rimase poi praticamente inoperante. Nello stesso tempo la Grecia appoggiò le aspirazioni di unione (ènosis) formulate dai Ciprioti, ponendo in seria crisi sia i rapporti con la Gran Bretagna, sia quelli con la Turchia, chiamata in causa dai Britannici, a motivo della minoranza turca, per contrastare le aspirazioni greche. Le elezioni del marzo 1958 videro l’ascesa della Unione democratica delle sinistre e la sconfitta dei liberali di Venizèlos-Papandrèu. [32051] Le dimissioni di Karamanlìs (giugno 1963) dopo circa otto anni di potere aprirono la strada a un periodo di instabilità politica che trovò sbocco nelle elezioni del novembre 1963 con la vittoria dell’Unione di centro e la conseguente formazione del governo G. Papandrèu, il quale si fece promotore di una politica di distensione nei riguardi delle sinistre. La morte di re Paolo I (6 marzo 1964) e l’ascesa al trono del figlio Costantino II (XIII) aumentarono la virulenza della lotta politica, che sboccò nel 1965 in un duro contrasto fra re Costantino e Papandrèu, in seguito al quale, dimessosi Papandrèu il 15 luglio, si aprì una lunga crisi politica, con susseguirsi di governi precari. Il 21 aprile 1967, un gruppo di ufficiali di destra si impadronì del potere, arrestando i principali avversari politici, relegando nelle isole alcune migliaia di oppositori e abolendo alcuni articoli della costituzione. Ebbe così inizio un regime dittatoriale, guidato dalla cosiddetta “giunta” militare (formata da G. Papadòpulos, S. Patakòs, N. Makerèzos), anche se la giunta procedette subito alla costituzione di un gabinetto presieduto dal procuratore generale K. Kòllias. Un tentativo di re Costantino di riprendere il controllo della situazione con l’aiuto dell’esercito, iniziato il 13 dicembre, quando il regime militare appariva in certo modo scosso da un insuccesso subìto per l’atteggiamento risoluto della Turchia nei riguardi di Cipro, fallì immediatamente e Costantino si rifugiò a Roma, dove ebbero inizio lunghe e difficili trattative col nuovo governo, presieduto da G. Papadòpulos. Stroncata ogni opposizione con l’arresto degli uomini politici più in vista (fra cui i due Papandrèu, che furono poi liberati: il padre rimase ad Atene sotto stretta sorveglianza e vi morì nel novembre 1968, e il figlio Andrea prese a dirigere dall’estero la lotta al regime), il sovrano fu sostituito nei suoi poteri da un reggente, membro della giunta militare (dicembre 1967). In queste condizioni il gabinetto “civile” – che nel febbraio 1968 sostituì la giunta militare e i cui maggiori esponenti erano G. Papadòpulos, primo ministro e ministro della Difesa, e S. Patakòs, vicepresidente e ministro dell’Interno – introdusse una nuova costituzione di stampo fortemente autoritario, che fu sottoposta a un controllato e fittizio referendum popolare il 28 novembre 1968. [32061] Nonostante la repressione, le forze democratiche si andavano organizzando clandestinamente dando vita a varie formazioni, quali il Fronte patriottico, il Gruppo di difesa democratica e il Fronte panellenico di liberazione. La situazione economica si faceva sempre più pesante, in particolare a partire dal 1973 quando subì i contraccolpi della crisi mondiale. Ne derivò una forte tensione: nel maggio 1973 l’ammutinamento di una unità della marina militare fornì occasione al governo per la proclamazione della Repubblica, alla cui presidenza fu nominato Papadòpulos (luglio); nel novembre dello stesso anno all’occupazione studentesca del Politecnico di Atene si associò la protesta operaia. La brutale reazione del regime aprì una crisi nello stesso schieramento governativo, cosicché il 25 novembre il gen. F. Ghizikis depose Papadòpulos sostituendolo al governo. Ma fu solo il 23 luglio dell’anno successivo, in seguito allo scacco subito a Cipro (quando il regime militare greco tentò di rovesciare il presidente cipriota Makàrios, subendo una dura reazione militare turca), che la giunta militare fu costretta a dimettersi e fu richiamato in patria dall’esilio l’ex premier conservatore Karamanlìs con l’incarico di formare un nuovo governo composto da civili. Costituito un governo di salvezza nazionale, furono ripristinati gli istituti e le libertà democratici, e il 17 novembre 1974 Nuova democrazia (ND), il partito di Karamanlìs, vinceva le elezioni col 54% dei voti e 220 deputati su 300, mentre l’8 dicembre 1974 un referendum istituzionale confermava la forma repubblicana. Il 7 giugno 1975 veniva approvata la nuova costituzione della Repubblica, alla cui presidenza era eletto K. Tsàtsos, che confermava l’incarico di primo ministro a Karamanlìs. Tra le prime iniziative del governo, fu decisa l’uscita dall’alleanza militare della NATO al fine di indurre gli S.U.A. a non fornire aiuti militari alla Turchia, con cui la Grecia manteneva un contenzioso relativo a Cipro e alle acque dell’Egeo. Nel novembre 1977 si tennero le elezioni politiche anticipate che, pur mostrando in crescita il maggior partito d’opposizione, il Movimento socialista panellenico (PASOK) guidato da A. Papandrèu, confermavano la maggioranza a ND (41,9%). Costituito un nuovo governo Karamanlìs, nel maggio 1979, fu decisa l’adesione alla CEE, operativa dal 5 giugno 1981, scelta su cui pesavano le necessità di superare la grave crisi economica con gli aiuti europei e contemporaneamente di rafforzare le istituzioni democratiche. [32071] Il 5 maggio 1980, Karamanlìs veniva eletto presidente della Repubblica, e la carica di primo ministro passava nelle mani di G. Ràllis, anch’egli di ND. Nell’ottobre 1980, la Grecia rientrava nel Comando militare alleato della NATO. Già evidente la crisi di ND, divisa tra un’anima conservatrice e una liberale e quindi senza una linea politica, le elezioni dell’ottobre 1981 assegnarono la maggioranza (48%) al PASOK e determinarono la formazione del governo Papandrèu. In politica interna il governo socialista varò una serie di provvedimenti quali la riforma del codice civile, l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio, la riforma della pubblica amministrazione, l’indicizzazione dei salari, in relazione all’inflazione (misura poi rivista perché in contrasto con la politica dei redditi adottata poi), il voto a 18 anni, ecc. In economia si orientò verso la compartecipazione di capitale pubblico e privato, l’industrializzazione e la valorizzazione delle ricchezze naturali. In politica estera rientrarono rapidamente le ventilate ipotesi di fuoruscita dalla NATO (per cui fu rinegoziato il trattato di cooperazione militare e rinnovata per un quinquennio, dal 1983, la cessione di basi militari) e di ridiscussione dell’appartenenza alla CEE, del cui trattato di adesione fu data un’interpretazione più favorevole agli interessi ellenici. Difficili rimasero comunque i rapporti con la Turchia: rispetto alla questione di Cipro, fallito un tentativo di mediazione dell’ONU, si ebbe un momento di particolare tensione quando, nel 1983, le forze turche di occupazione proclamarono la Repubblica turca di Cipro. Confermata la maggioranza socialista dalle elezioni europee (giugno 1984) e dalle elezioni politiche anticipate (giugno 1985), che segnarono però la ripresa di ND, il 29 marzo 1985, dopo una proposta di ridimensionamento dei poteri del presidente della Repubblica e le dimissioni per protesta di Karamanlìs, il PASOK elesse presidente il proprio candidato Ch. Sartzetàkis (già presidente della Corte suprema). Non risolti i problemi della crisi economica (inflazione e deficit pubblico elevati, ristagno produttivo, disoccupazione), Papandrèu adottò un programma biennale di austerità che suscitò opposizioni nello stesso campo socialista, radicalizzò il movimento sindacale, fece lievitare l’opposizione comunista, con l’effetto di rafforzare complessivamente ND che, guidata da C. Mitsotàkis, nelle elezioni amministrative dell’ottobre 1986 raggiunse il 50%. Dopo un inasprimento della polemica con la Turchia, per cui nel marzo 1987 si giunse al limite di uno scontro armato per la delimitazione delle acque territoriali dell’Egeo, alle difficoltà del governo si aggiunsero le ripetute accuse di malversazione e corruzione mosse dai deputati di ND, finché lo scandalo della Banca di Creta (novembre 1988) coinvolse alcuni ministri e lo stesso Papandrèu. Tra richiesta di elezioni anticipate e proposte di voti di sfiducia da parte di ND, rimpasti governativi, creazione del cartello elettorale della Coalizione di sinistra, la legislatura giunse a termine. Nel giugno 1989, le elezioni politiche (in coincidenza con quelle europee) diedero a ND il 44%, al PASOK il 39%, alla Coalizione di sinistra il 13%. Dato che nessuno dei partiti maggioritari riuscì a formare un governo, l’incarico venne affidato al comunista Florakis, che patteggiò con ND un governo a termine di tre mesi (primo ministro T. Tzannetàkis di ND) che avrebbe dovuto affrontare una campagna di kàtharsis (purificazione) e affidare alla giustizia i ministri corrotti per poi ripresentarsi agli elettori. Dalle elezioni del novembre 1989 però la situazione emerse immutata riguardo alla possibilità di costituire maggioranze stabili (ND 46%, PASOK 41%, Coalizione di sinistra 11%), e i tre partiti decisero la formazione di un nuovo governo a termine sostenuto da tutte le forze politiche (primo ministro l’indipendente X. Zolòtas). [32081] Le elezioni dell’aprile 1990 assicurarono la maggioranza a ND (46,9%, 150 deputati), e con l’aiuto di un deputato di una formazione minore Mitsotàkis poté formare il governo ed eleggere Karamanlìs presidente della Repubblica (maggio). Nel 1991-92 le misure di austerità provocarono ondate di scioperi, mentre, sul piano internazionale, la Grecia si opponeva al riconoscimento da parte della Comunità europea dello stato macedone nato dalla dissoluzione della Iugoslavia. Nell’ottobre 1993 nuove elezioni politiche generali riportavano al potere il PASOK (46,9%) e il suo leader A. Papandrèu il quale pose un freno al programma di privatizzazione avviato dal suo predecessore e favorì l’elezione alla presidenza della Repubblica, nel marzo 1995, di K. Stefanòpulos, in passato ministro di Nuova democrazia e ora appoggiato dai socialisti. Sul piano della politica estera il governo favorì la ripresa delle relazioni diplomatiche (ottobre1995) con la Repubblica ex iugoslava di Macedonia, estremamente critiche sin dal 1991, quando la Grecia si era opposta al riconoscimento dello stato macedone nato in seguito alla dissoluzione della Iugoslavia, nel timore di possibili rivendicazioni territoriali nei confronti della Macedonia greca. Alla fine dell’anno l’azione dell’esecutivo risentì delle numerose polemiche sorte intorno al ruolo assunto dalla moglie di Papandrèu, Dimitra Liani, nelle principali decisioni dell’anziano leader. Nel gennaio1996, quando questi fu costretto alle dimissioni per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, fu nominato capo del governo K.Simìtis, che dal settembre precedente aveva assunto nei confronti di Papandrèu una posizione critica, dimettendosi da ministro dell’Industria e sostenendo la necessità di un profondo rinnovamento del partito. Mentre i rapporti con la Turchia conoscevano nuovi momenti di tensione a causa del permanere del contenzioso sulla delimitazione delle acque territoriali nel Mare Egeo e dei contrasti tra la comunità greca e quella turca a Cipro, l’esecutivo varò una serie di riforme economiche ritenute necessarie per l’ingresso della Grecia nell’Unione monetaria europea (tra le altre cose fu avviata la privatizzazione del settore delle telecomunicazioni). Sempre a questo scopo Simìtis rafforzò le misure di austerità in campo economico dopo le elezioni del settembre 1996, che confermarono la maggioranza socialista in Parlamento (41,5% dei voti e 162 seggi contro il 38,2% e 108 seggi di Nuova democrazia, mentre i comunisti e la Coalizione di sinistra ebbero il 5,6% e il 5,1% dei voti, pari a 11 e 10 deputati rispettivamente). La politica economica del nuovo governo presieduto da Simìtis causò, alla fine dell’anno, forti agitazioni sociali e numerosi scioperi di protesta, che proseguirono nel corso del 1997. A novembre l’esecutivo presentò un piano di semplificazione delle amministrazioni locali che ne riduceva il numero e che causò, per questo, una serie di manifestazioni di protesta da parte delle popolazioni di molti piccoli comuni. [32111] Dopo una prima fortunata scorreria del capo Tarif, spintosi fino ad Algeciras (710), seguì, nell’aprile 711, lo sbarco di alcune migliaia di soldati, in gran parte Berberi sotto il capo Tariq Ibn Ziyad: vincitori del re Rodrigo a Guadalete (luglio 711), poco dopo padroni di Toledo, essi occuparono rapidamente il paese e, trasformando la scorreria in conquista stabile (nel 713 il califfo di Damasco fu proclamato, in Toledo, sovrano della regione occupata), dettero inizio alla dominazione araba in Spagna, destinata a durare, sia pure man mano su territori più limitati, fino al 1492. I conquistatori, chiamati poi dagli Spagnoli i Mori e anche, più tardi, con significato spregiativo, Moriscos, erano in parte arabi veri e propri (nel preciso significato etnico della parola) e in parte molto maggiore popolazioni berbere, talune delle quali già arabizzate. Essi furono accolti assai bene dalla popolazione indigena, insofferente dell’esoso fiscalismo visigotico; la larga tolleranza religiosa agevolò il loro compito ed essi, occupata la penisola ad eccezione della regione asturiana, poterono varcare i Pirenei e dilagare nella Francia, trovando però un ostacolo insormontabile nei Franchi di Carlo Martelli (battaglia di Poitiers del 732). Dissidi violentissimi scoppiarono invece, tra il 732 e il 756, fra gli stessi invasori: la rivolta dei Berberi, malcontenti di aver avuto, nella divisione dei territori, le regioni più povere (Galizia, Asturia, León), repressa nel sangue, provocò l’emigrazione di costoro verso il sud. La linea di frontiera della Spagna musulmana, che aveva raggiunto la massima espansione al tempo di ‘Oqba (734-40), divenne così una linea che toccava Coimbra, Coria, Talavera, Toledo, Guadalajara, Tuleda e Pamplona e, nei Pirenei centrali, non oltrepassava Alquézar (Sobrarbe), Roda (Ribagorza), Ager (Pallás), lasciando fuori le regioni nord-occidentali della Penisola Iberica. La crisi tuttavia non ebbe seri contraccolpi per l’avvento dell’omayyade ‘Abd ar-Rahman I, che, fattosi riconoscere (756) emiro di Cordova, organizzò saldamente il paese, sottraendolo di fatto alla sovranità del califfo di Baghdad. Le gravissime crisi che successivamente lo sconvolsero (rivolta di “rinnegati”, cioè di cattolici convertiti alla religione musulmana, e di cattolici contro i fuqaha’ o giureconsulti assai potenti; attrazione sui cattolici sudditi dei Mori esercitata dai minuscoli stati cristiani salvatisi dall’invasione; insurrezioni di nobili Arabi e “rinnegati”; scorrerie dei Normanni iniziatesi nell’844; e ancora, la lotta fra Berberi e Arabi) non riuscirono a spezzare lo stato da lui creato, che resistette per due secoli e mezzo, fino al 1031. Dopo un periodo di quasi generale anarchia all’inizio del 9° secolo, l’unità fu salvata da ‘Abd ar-Rahman III, il più grande degli Omayyadi spagnoli (912-61), che, a Cordova nel 929, assunse addirittura il titolo di califfo. Fu, questa del califfato, l’epoca più splendida della Spagna musulmana: fiorì una grande civiltà, mirabile per lo sviluppo economico (agricolo, ma anche industriale), fastosa per splendide costruzioni, per il tono culturale; l’apice della potenza politica fu toccato, sotto il califfato di Hisham II (976-1008), con al-Mansur, grande generale, che invase il regno di León e conquistò Barcellona, giungendo nel 997 fino a Santiago de Compostela. Morto al-Mansur (1002), una spaventosa anarchia (lotte civili e razziali, rivolgimenti sociali a sfondo religioso, ecc.) sconvolse il califfato, che finì con l’essere travolto (1031); al suo posto sorsero i cosiddetti regni di Taifas, ossia vari staterelli governati da potenti famiglie, che giunsero ad essere più di venti (i più importanti furono quelli di Saragozza, Valencia, Badajoz, Malaga, Almeria, Granada, Siviglia). [32121] Lo spezzettamento politico dei Mori permise agli stati cristiani del nord di procedere più risolutamente alla controffensiva per la riconquista. Questi stati si erano costituiti per il ritiro, al momento dell’invasione musulmana, di non pochi indigeni sui monti delle Asturie, dove, secondo una tradizione non del tutto sicura, il re Pelagio avrebbe battuto (718) gli Arabi a Covadonga e organizzato il primo regno cristiano di Oviedo, divenuto nel 740 regno delle Asturie. Ardite puntate offensive fatte dai successori di Pelagio, Alfonso I (739-56) e Alfonso II (792-842), aggiunsero la Galizia, e forse anche la città di León; nel 9° secolo la frontiera meridionale fu portata fino al fiume Duero e la capitale dello stato trasportata da Oviedo a León (dal 918 il regno assunse infatti il nome di regno di León). La vittoria di Ramiro II (931-51) sui musulmani a Simancas (939) ebbe risonanza europea. Nel periodo seguente però le lotte civili condussero anche qui a un notevole indebolimento dello stato: il conte di Castiglia si rese indipendente dal re di León; sul suo esempio altri potenti feudatari si mossero, sino al punto che il re Bermudo II (982-99) dovette invocare l’aiuto di al-Mansur, che mise a ferro e a fuoco tutto il paese. Il regno di León non era ormai, nel 10° secolo, l’unico regno cristiano in Spagna; l’offensiva condottavi da Carlomagno aveva creato la Marca Hispanica e, al disgregarsi di questa, era sorto il regno di Aragona con la contea di Barcellona. Sussisteva inoltre, d’incerta origine, il regno di Navarra, precedentemente detto di Pamplona. All’inizio dell’11° secolo tale era, dunque, la situazione degli stati cristiani, che, riunite le proprie forze, in un’arditissima incursione, avevano potuto spingersi fino a Cordova (1010). Legami di parentela, di matrimoni, ecc. resero possibile, in questo periodo, anche un primo raggruppamento di questi stati (riunione della Navarra, dell’Aragona, del León e della Castiglia sotto Sancio Garcés III di Navarra, circa 1000-1035), spezzatosi però poco dopo per la ripartizione del dominio tra i figli di Sancio III e le conseguenti, complicate lotte dinastiche. Dopo le prime vittorie, la penetrazione cristiana nella Spagna musulmana aveva subìto un arresto. Invocati dai re di Taifas, i Berberi almoravidi, guidati da Yusuf ibn Tashufin, erano passati in Spagna e avevano sconfitto Alfonso VI di Castiglia a Zallaqa (1086). Pochi anni dopo, si assisté al ritorno degli Almoravidi, che tra il 1091 e il 1110 riconquistarono gran parte delle antiche terre musulmane, compresa Saragozza, e instaurarono un nuovo regime di fanatica intolleranza religiosa. Una rivoluzione politico-religiosa, scoppiata nell’Alto Atlante per opera degli Almohadi, si ripercosse immediatamente nella Spagna, dove il dominio almoravida crollò di fronte alla spedizione dell’almohade `Abd al-Mù’min (iniziata nel 1146; Maiorca, ultimo baluardo degli Almoravidi, cadde nel 1202). Meno intolleranti dei loro predecessori, gli Almohadi riuscirono per qualche tempo a frenare l’avanzata dei re cristiani di Castiglia e di Aragona (1195, vittoria ad Alarcos); ma, indeboliti poi dal sopravvenire di lotte dinastiche, furono definitivamente battuti a Las Navas de Tolosa (1212). Apertasi la via del sud, le forze cristiane spazzarono in breve tempo i regni indipendenti almohadi, sorti in conseguenza della sconfitta (Valencia, Murcia, Niebla, ecc.), e verso il 1270 ridussero il dominio musulmano al solo regno di Granada, che durò tuttavia ancora fino al 1492. L’ultima fase della lotta contro i musulmani mostra chiaramente che la Penisola Iberica, nella quale bisogna considerare anche il Portogallo (staccatosi dalla Castiglia, contea dal 1097, regno dal 1143), è sotto l’effetto di due grandi forze motrici: l’Aragona e la Castiglia. L’Aragona, staccatasi dalla Navarra, aveva finito con l’aggregarsi nel 1076 la stessa Navarra, conservandola fino al 1134; nel 1137, infine, il matrimonio tra Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, e Petronilla, erede del trono di Navarra, aveva consentito l’unione fra Catalogna e Aragona in quella confederazione catalano-aragonese (generalmente nota, poi, sotto il semplice nome di regno d’Aragona), che successivamente fu, a volte, l’elemento più dinamico della storia della Spagna. Si condusse quindi una vigorosa politica di riconquista sui musulmani, specialmente sotto Raimondo Berengario IV (1131-62), Alfonso II (1162-96) e Giacomo I (1213-76): politica che portò alla conquista dei regni di Valencia, di Murcia, delle Baleari e alla sistemazione definitiva dei confini aragonesi. La monarchia di Castiglia e León, le cui due corone, unite dal 1037, si scissero nuovamente nel 1065-72 e nel 1157-1230, fu invece l’erede dell’opera della monarchia asturiana: raggiunta la linea del Tago, minacciò la Spagna meridionale e infine, sotto Ferdinando III (1217-52), conquistò Cordova, Jaén, Siviglia, l’Andalusia e si spinse fino a Cadice (1236-48); contemporaneamente il centro di gravità si spostava verso il sud (1085, trasferimento della capitale a Toledo) e, col 1230, l’unità era saldamente e per sempre costituita: poiché la Castiglia era ormai, e di gran lunga, la parte più importante del regno, questo fu ben presto chiamato, semplicemente, regno di Castiglia. [32131] A parte le frequenti alleanze contro i musulmani, non è una storia del tutto pacifica quella dei rapporti tra questi due regni, i quali anzi, nel passato, non avevano esitato nella loro lotta per l’egemonia a ricorrere, alle volte, agli stessi Mori. Divenuti marginali nella vita politica iberica il regno di Navarra, ormai territorialmente ridotto ed entrato nella sfera d’influenza francese, e quello di Portogallo, riconosciuto indipendente dopo lunghe lotte dalla Castiglia-León (1263), rimasero a contendersi l’egemonia i due regni di Castiglia e d’Aragona. Mentre la monarchia castigliana in politica estera rimaneva sul terreno della reconquista, cioè dell’espansione territoriale verso il sud, quella aragonese invece, costretta nel 1213 dalla sconfitta di Muret a rinunciare alla politica di espansione verso la Francia, si diede a svolgere una politica mediterranea in grande stile (Sicilia, Sardegna, imprese della Compagnia catalana in Grecia e in Asia Minore). L’uno e l’altro regno tuttavia furono travagliati nel corso dei secoli. 14° e 15° da violente discordie interne, spesso degeneranti in guerre civili (rivolte della nobiltà contro il potere regio, soprattutto in Aragona; guerre di successione, soprattutto in Castiglia durante il regno di Pietro I, 1350-69, che videro l’intervento di potenze straniere; lotta tra la fine del 13° secolo e la prima metà del 14° del potere monarchico con la Unión dei nobili, e della Unión di Aragona con quella di Valencia, ecc.). Nel corso di queste vicende, mutarono anche le dinastie: sul trono di Castiglia, nel 1369, si ebbe l’avvento dei Trastamara con Enrico II; su quello di Aragona, nel 1412, per il compromesso di Caspe, salì Ferdinando d’Antequera, reggente di Castiglia. Nella seconda metà del 15° secolo scoppiò una nuova guerra civile in Castiglia, alla morte di Enrico IV (1474), fra la sorella di lui Isabella I, dal 1469 moglie di Ferdinando il Cattolico, futuro re di Aragona, e i sostenitori di Giovanna la Beltraneja. Con la vittoria definitiva di Isabella (1479), iniziava una nuova fase nella storia spagnola: essendo in quello stesso anno salito al trono di Aragona il marito Ferdinando, si venne a realizzare un’unione fra i due regni fino a quel momento divisi. Si trattava ancora di un’unione puramente personale, destinata a diventare definitiva nella persona del nipote Carlo (Carlo V). [32141] L’epoca di Ferdinando e di Isabella fu l’età d’oro della storia spagnola: caduta Granada (1492) e conclusasi così la reconquista, la guerra contro i musulmani fu portata sul litorale nord-africano (presa di Orano e Bugia, 1509; di Tripoli, 1511; sottomissione di Algeri e di Tunisi). Ferdinando d’Aragona intervenne nella grande contesa europea per il predominio in Italia, conquistandone il Mezzogiorno (1504); nel 1512 fu annessa la Navarra spagnola e compiuta così l’unità anche dal lato dei Pirenei. I Re Cattolici individuarono inoltre nell’unificazione religiosa, perseguita a spese delle comunità ebraiche e musulmane, un ulteriore strumento per favorire la coesione nazionale e a tal fine, sullo scorcio del 15° secolo, venne gradualmente istituita l’Inquisizione spagnola. Negli stessi anni, le scoperte di C. Colombo offrirono alla Spagna nuovi e immensi domini: il sorgere dell’impero coloniale in America rafforzò anche la posizione europea del paese. Questa posizione sembrò diventare di assoluta egemonia sotto il regno di Carlo V (1516-56) per l’accomunarsi della Castiglia e dell’Aragona con l’Impero e coi domini ereditari degli Asburgo; anche quando, con l’abdicazione di Carlo V e l’avvento di Filippo II (1556), ritornò a essere una individualità politica distinta, la Spagna poté ancora per alcuni decenni essere alla testa della politica europea, realizzare l’assoluta unità peninsulare (1581, conquista del Portogallo) e, modellandosi sul tipo dello stato confessionale cattolico, associare i propri interessi egemonici al moto religioso della Controriforma. Ma in questo splendore si celavano motivi di profonda e rapida decadenza: sotto Carlo V, l’associazione con stati dalla struttura totalmente diversa costrinse la Spagna ad alimentare, con le ricchezze del Nuovo Mondo, conflitti che la distraevano dai suoi immediati interessi (guerre con la Francia, crollo del dominio in Africa, dove iniziò il predominio degli stati barbareschi, lotta ai movimenti religiosi luterani). Sotto Filippo II, l’accentramento statale, l’intolleranza religiosa (1566, rivolta dei Moriscos), l’accentuarsi della crisi economica, comune a tutta l’Europa e provocata dall’eccessivo affluire dei metalli preziosi americani, finirono col colpire a morte la stessa potenza spagnola. La politica di Filippo II, pertanto, falliva in Francia (avvento di Enrico IV, ex calvinista, e pace di Vervins del 1598), nei Paesi Bassi, ribellatisi da un trentennio, in Inghilterra (1588, distruzione della Invencible Armada). I successori Filippo III (1598-1621) e Filippo IV (1621-65) furono costretti a riconoscere l’indipendenza dei Paesi Bassi, quella del Portogallo (1640) e invano, dopo il trattato di Vestfalia (1648), cercarono di proseguire per proprio conto la guerra dei Trent’anni: con la pace dei Pirenei (1659) furono costretti ad abbandonare alla Francia l’Artois, il Lussemburgo, alcune piazzeforti delle Fiandre, il Rossiglione e la Cerdaña. E ciò mentre aumentava la crisi interna (1609, espulsione dei Moriscos con grave danno per l’agricoltura; commercio coloniale sempre più insidiato da Olandesi, Francesi e Inglesi; deficit gravissimo; governo dei grandi favoriti o privados). Tale situazione si aggravò ancora durante il regno di Carlo II (1665-1700), che dovette cedere alla Francia altre piazzeforti delle Fiandre e la Franca Contea, e alla sua morte – avvenuta senza eredi maschi – la guerra di successione di Spagna rivelò come il paese, un secolo prima potenza dominante in Europa, era scaduto a semplice “oggetto” di politica internazionale. [32151] Organizzato nelle sue linee generali entro la metà del 16° secolo, secondo il modello centralizzato che si andava affermando nella madrepatria, l’impero coloniale spagnolo ebbe nel Consejo de Indias il massimo organo legislativo, amministrativo e giudiziario. Costituito nel 1524, era composto prevalentemente di giuristi e aveva sede in Spagna. Rispettivamente nel 1535 e nel 1542 furono costituiti i vicereami della Nuova Spagna e del Perù, alla testa dei quali furono posti i viceré, funzionari nominati (dal Consejo de Indias con l’assenso del re) per un periodo determinato e revocabili, cui era conferita la suprema autorità civile e militare. Subordinati ai viceré, ma di fatto sensibilmente autonomi da essi, i capitani generali esercitavano le stesse prerogative su entità territoriali (capitanías generales) più ristrette, ricomprese nei vicereami. Viceré e capitani generali erano assistiti dalle Audiencias, organi collegiali dotati di competenze giudiziarie e consultive; le Audiencias non direttamente presiedute da un viceré o da un capitano generale erano guidate da un magistrato (presidente) ed esercitavano il potere su entità territoriali minori (presidencias). L’amministrazione provinciale era ordinata nei corregimientos o alcaldías mayores, retti da un corregidor o da un alcalde; a livello municipale fu trasferito nel Nuovo Mondo il cabildo (o ayuntamiento), sorta di consiglio cittadino, unico istituto coloniale del quale potevano far parte i Creoli (Spagnoli nati in America), essendo le principali cariche politiche, militari ed ecclesiastiche riservate agli Spagnoli. Nel 18° secolo, dopo l’avvento della dinastia dei Borbone, furono costituiti i vicereami di Nueva Granada e Río de la Plata, vennero create nuove Audiencias (alla fine del periodo coloniale se ne contavano 14) e fu introdotto il sistema delle intendenze, che sostituì le antiche ripartizioni provinciali. Dopo il 1756 fu inoltre abolito il monopolio di Cadice e Siviglia, i soli porti autorizzati al commercio con l’America ispanica, e furono finalmente autorizzati gli scambi commerciali intercoloniali, precedentemente proibiti. [32161] Le paci di Utrecht (1713) e di Rastatt (1714) diedero il trono al francese Filippo V di Borbone. Con la nuova dinastia ebbe inizio per la Spagna un periodo di ripresa sia all’interno (riforme di G. Patino, poi del conte P. P. Aranda e di J. Moñino di Floridablanca, che rafforzarono il potere centrale e stimolarono l’economia) sia, parzialmente, nella politica estera: anche dopo gli insuccessi in Italia del card. G. Alberoni, la politica dinastica di Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V, portò all’insediamento dei figli Carlo a Napoli e in Sicilia nel 1734, e Filippo a Parma e Piacenza nel 1748. Con Carlo III (1759-88) proseguirono e si estesero le riforme, e nella politica ecclesiastica si affermò il giurisdizionalismo, qui detto regalismo. Tuttavia le ferite provocate dalla guerra di successione non poterono essere tutte rimarginate: se Minorca fu riconquistata nel 1782, Gibilterra restò sempre in mano inglese, né a farla riavere alla Spagna valse il patto di famiglia del 1761, che legò la politica spagnola a quella francese con finalità antinglese e trascinò la Spagna nella guerra dei Sette anni e in quella per l’indipendenza degli Stati Uniti d’America. L’alleanza franco-spagnola si spezzò con la Rivoluzione francese; dopo un primo periodo di aperte ostilità, chiuse dalla pace di Basilea nel 1795, seguì, grazie anche all’influsso esercitato dal ministro M. Godoy su Carlo IV (1788-1808), un ritorno all’antica alleanza e a una politica antinglese rivelatasi fallimentare (1805, sconfitta di Trafalgar). Infine, anche in seguito ai contrasti scoppiati tra il monarca e suo figlio Ferdinando, la Spagna divenne uno stato vassallo della Francia con Giuseppe Bonaparte come re (1808). Contro lo straniero, la Spagna insorse compatta e, come nel vicino Portogallo, il popolo combatté a fianco delle truppe britanniche inviate nella Penisola Iberica per liberarla dai Francesi (guerra peninsulare, 1808-14). Nella parte del paese non occupata fu eletta un’assemblea nazionale (Cortes), che nel 1812 promulgò a Cadice una costituzione marcatamente liberale. La Spagna fu infine affrancata dall’occupazione francese grazie alle vittorie riportate, a partire dal 1812, dal duca di Wellington; nel frattempo, l’insurrezione scoppiata nel vicereame del Rio de la Plata (1810) aveva segnato l’inizio del processo che avrebbe portato in pochi anni le province dell’impero coloniale americano alla conquista dell’indipendenza. Salito al trono nel 1814, Ferdinando VII di Borbone abolì la costituzione del 1812 e perseguì una politica reazionaria; nel 1820 le truppe destinate in America insorsero, imponendo il ritorno alla costituzione del 1812, e nel 1823 solo l’aiuto della Santa Alleanza e le armi francesi consentirono di soffocare il movimento liberale. Da allora la vita politica spagnola fu per molti anni contrassegnata da uno stato d’instabilità interna, dovuto al profondo dissidio politico fra tendenze liberali e reazionarie, al ruolo preminente assunto dall’esercito, al sorgere del carlismo con la conseguente guerra civile, conclusasi nel 1839 con la vittoria della regina Maria Cristina. Intorno alla metà del 19° secolo la Spagna attraversò un periodo di relativa espansione economica: grazie ai crediti dall’estero (Francia soprattutto), fu potenziata la rete ferroviaria, si svilupparono l’industria tessile catalana e quella della lana nel Paese Basco, furono gettate le basi per una moderna industria siderurgica e mineraria. Le vecchie strutture agrarie frenarono però il processo di sviluppo: come era già successo nel 1836 con le riforme di J. A. Mendizábal, il latifondo uscì addirittura rafforzato dalla vendita dei beni ecclesiastici e di quelli comunali (1854-55), acquistati in massima parte dai grandi proprietari terrieri, che con le gerarchie ecclesiastica e militare e la nascente borghesia della finanza e dell’industria costituivano il gruppo di potere dominante. Nel settembre 1868 una ribellione di ufficiali liberali costrinse Isabella II (salita al trono nel 1843) a lasciare il paese e una nuova costituzione (1869) introdusse il suffragio universale maschile e una completa libertà religiosa. Il trono di Spagna fu offerto ad Amedeo di Savoia (1870), al cui breve regno, segnato dalla ripresa della guerra carlista e dall’opposizione repubblicana, fece seguito la proclamazione della repubblica (febbraio 1873). Fiaccata dalla rivolta carlista nel nord, dalle prime agitazioni anarchiche in Andalusia e Catalogna e dai contrasti emersi tra centralisti e federalisti, la repubblica fu travolta nel dicembre 1874 da un colpo di stato militare; la dinastia borbonica fu restaurata nella persona di Alfonso XII e una nuova costituzione (1876) reintrodusse il suffragio censitario e le posizioni di privilegio per la Chiesa cattolica. Dopo la sconfitta definitiva dei carlisti (1875), la vita politica della Spagna fu a lungo caratterizzata dalla pacifica alternanza al potere dei partiti conservatore e liberale, ma anche da una diffusa corruzione dell’apparato amministrativo e dal conseguente controllo esercitato da alcuni notabili locali sul corpo elettorale, controllo protrattosi anche dopo la reintroduzione nel 1890 del suffragio universale; negli stessi anni si andò organizzando il movimento operaio, con la nascita del Partido socialista obrero español (PSOE, 1879) e della socialista Unión general de trabajadores (UGT, 1888). La sconfitta patita nella guerra ispano-americana e la perdita di Cuba, di Puerto Rico e delle Filippine (1898) ebbero enormi ripercussioni su tutta la nazione: le strutture politiche e sociali del paese furono sottoposte a profonda critica da parte di un gruppo di intellettuali, noto collettivamente come Generazione del ’98, i cui principali esponenti furono J. Costa e M. de Unamuno; sul piano politico ripresero vigore la propaganda repubblicana e le rivendicazioni autonomistiche basche e catalane, mentre l’indirizzo reazionario assunto dalla monarchia (Alfonso XIII fu dichiarato maggiorenne nel 1902) e il perdurare degli squilibri nella distribuzione della proprietà terriera spinsero gli anarchici a ricorrere sempre più spesso all’arma del terrorismo. Durante la prima guerra mondiale, la richiesta di ferro e munizioni da parte dei paesi belligeranti favorì in Spagna, rimasta neutrale, una crescita della produzione industriale e delle esportazioni, cui però non corrispose alcun miglioramento nelle condizioni economiche dei lavoratori; al conseguente inasprimento dei conflitti sociali si aggiunsero le difficoltà incontrate nel tentativo di espansione coloniale in Marocco, culminate con la sconfitta patita per mano di Abd el-Krim ad Anoual (1921). Col sostegno della monarchia, preoccupata per il mantenimento dell’ordine sociale, nel 1923 il gen. M. Primo de Rivera operò un colpo di stato e instaurò un regime dittatoriale che lasciò irrisolti i problemi di fondo del paese. Tolto il suo appoggio al dittatore e ripristinato l’ordinamento costituzionale (1930), Alfonso XIII abbandonò la Spagna dopo la vittoria dei repubblicani nelle elezioni municipali dell’aprile 1931. [32171] Le elezioni per le Cortes costituenti del giugno 1931 furono vinte largamente da una coalizione di repubblicani di sinistra e PSOE e nel dicembre 1931 fu promulgata una costituzione di carattere democratico-sociale avanzato. Varato uno statuto di ampia autonomia per la Catalogna (1932), il governo del repubblicano M. Azaña cercò di limitare il peso della Chiesa e dell’esercito nella vita politica del paese, introdusse una più avanzata legislazione del lavoro, ma non riuscì ad arginare la crescente disoccupazione né a soddisfare la richiesta di terra proveniente dal proletariato agricolo. Le elezioni legislative del 1933 furono pertanto vinte dal partito radicale di A. Lerroux García e dalla Confederación española de derechas autónomas (CEDA), coalizione di partiti di destra nata per iniziativa di J. M. Gil Robles. Nell’ottobre 1934, contro l’ingresso di tre ministri della CEDA nel governo Lerroux, il PSOE proclamò uno sciopero generale, trasformatosi nella regione mineraria delle Asturie in un’insurrezione armata; quest’ultima fu ferocemente repressa dall’esercito, come il moto indipendentista scoppiato in Catalogna per timore che il governo centrale abrogasse lo statuto di autonomia e annullasse la legge di riforma agraria approvata dalla locale Generalitat. Il predominio delle destre fu interrotto nelle elezioni del febbraio 1936 dalla vittoria del Frente popular: l’annullamento delle riforme realizzate sino a allora e il timore dell’avvento di un regime di tipo fascista indussero repubblicani di sinistra, socialisti e comunisti (il Partido comunista de España, PCE, era nato nel 1922) a creare una coalizione elettorale, che poté contare anche sul tacito sostegno delle organizzazioni anarchiche (in particolare della potente Confederación nacional de trabajo, CNT, nata nel 1910). Mentre si moltiplicavano le occupazioni di terre da parte di contadini poveri, gli incendi e i saccheggi ai danni di chiese e monasteri, gli scontri tra formazioni paramilitari di destra e organizzazioni operaie, e il nuovo governo, composto esclusivamente da repubblicani, varava nuovi provvedimenti riformistici e anticlericali, il 17 luglio 1936 scoppiò in Marocco l’insurrezione del gen. F. Franco, propagatasi il giorno seguente nella madrepatria; l’intervento dei lavoratori in armi contro i militari nelle principali città impedì il successo degli insorti, che poterono impadronirsi solo di Vecchia Castiglia, Navarra, Aragona, Galizia e Andalusia. Seguì una violentissima guerra civile (1936-39), durante la quale gli insorti fecero affidamento su consistenti aiuti in uomini e materiali da parte di Italia e Germania, nonostante i due paesi avessero formalmente aderito agli accordi di non intervento promossi da Francia e Gran Bretagna, mentre il governo legittimo, oltre all’aiuto di migliaia di volontari accorsi da tutto il mondo e organizzati nelle Brigate internazionali, poté contare sul sostegno dell’URSS. Sul piano militare, dopo il fallimento di un primo assalto a Madrid (novembre 1936) e delle successive offensive contro la capitale (Jarama, febbraio 1937; Guadalajara, marzo 1937), Franco diresse i suoi sforzi contro le regioni industriali del nord, che riuscì a sottomettere entro l’ottobre 1937. Al vittorioso attacco repubblicano contro Teruel (dicembre 1937 - gennaio 1938), i franchisti risposero con la riconquista della città a febbraio e con un’offensiva che, raggiunte a primavera le foci dell’Ebro, tagliò in due la Spagna repubblicana (Catalogna e regione madrileno-mediterranea). Caduta la Catalogna (gennaio 1939), nel campo repubblicano si produsse una profonda spaccatura tra militari, favorevoli a trattare la resa, e comunisti, decisi a resistere a oltranza e dal 7 marzo 1939 infuriarono a Madrid violenti combattimenti tra esercito e comunisti; il 28 marzo Franco, il cui governo era già stato riconosciuto anche da Francia e Gran Bretagna, entrò in città e il 1° aprile 1939 poté annunciare la fine del conflitto, costato alla Spagna incalcolabili danni materiali, circa un milione di morti e centinaia di migliaia di esuli. [32181] Proclamato capo dello Stato da una giunta riunita a Burgos all’indomani dello scoppio della guerra civile (settembre 1936), Franco aveva consolidato il suo potere fondendo nell’aprile 1937 tutti i gruppi di destra in un’unica formazione, quindi, con una legge del gennaio 1938, aveva anche assunto il titolo di capo del governo e delle forze armate (caudillo). Terminato il conflitto, Franco instaurò un regime autoritario (soppressione dei partiti politici, ad eccezione della Falange), corporativo (creazione di un sindacato unico) e fortemente centralista (abolizione degli statuti di autonomia); il caudillo riuscì a mantenere la Spagna neutrale nella seconda guerra mondiale, nonostante le ripetute richieste di intervento da parte delle potenze dell’Asse. Un certo ridimensionamento del ruolo della Falange (l’allontanamento del ministro degli Esteri filonazista R. Serrano Suñer, 1942), l’istituzione di Cortes consultive (1942) e la concessione di una carta delle libertà individuali (Fuero de los Españoles, 1945) non impedirono nell’immediato dopoguerra l’isolamento internazionale della Spagna, che per la natura antidemocratica del suo regime vide respinta la domanda di adesione all’ONU (1946) e fu inizialmente esclusa dai benefici del piano Marshall. Restaurata nominalmente la monarchia con la legge di successione del 1947, che gli assegnava il ruolo di reggente a vita, Franco riuscì a riportare la Spagna nel consesso internazionale approfittando dei contrasti tra gli Alleati e dell’avvento della guerra fredda: accolto nella FAO (1950), il paese ottenne dagli S.U.A. ingenti aiuti finanziari in cambio della concessione di alcune basi militari (1953) e fu infine ammesso all’ONU (dicembre 1955). Parallelamente, l’autarchia economica e il controllo statale della produzione, sino allora perseguiti dai ministri della Falange, lasciarono il posto al liberismo economico propugnato dai sempre più influenti tecnocrati dell’Opus Dei; grazie agli aiuti internazionali e ai proventi di un settore turistico in forte espansione, a partire dal 1960 la Spagna conobbe un notevole sviluppo industriale, mentre il settore agricolo rimaneva stagnante e alimentava fenomeni di inurbamento o di emigrazione verso i paesi dell’Europa Occidentale. Afflitti da un’inflazione in forte crescita e mal tutelati dal sindacato unico, i lavoratori dell’industria iniziarono a costituire delle comisiones obreras e a ricorrere sempre più spesso allo sciopero, nonostante le proibizioni legislative; al contempo riprese vigore l’opposizione di studenti, intellettuali, PSOE e PCE, riformatisi in clandestinità, mentre, sostenute dal clero locale, tornarono a manifestarsi le istanze separatiste in Galizia, Catalogna e nel Paese Basco (dove si costituì nel 1959 l’ETA). Alla pressione popolare furono opposte delle timide riforme: riconosciuto il diritto di sciopero per motivi economici (1965) e sostituita la censura con una legge più permissiva sulla stampa (1966), con la legge organica dello Stato del novembre 1966 Franco separò le cariche di capo dello Stato e capo del governo, stabilì l’elezione diretta di un sesto delle Cortes e proclamò il principio della libertà religiosa, pur restando il cattolicesimo religione di stato; nel luglio 1969 il caudillo designò infine quale suo successore e futuro re di Spagna il principe Juan Carlos di Borbone, nipote di Alfonso XIII. Sul piano della politica estera, tra il 1956 e il 1975 la Spagna rinunciò pacificamente ai suoi possedimenti africani; nei primi anni Settanta tentò un avvicinamento al MEC e, nonostante l’anticomunismo del regime, avviò relazioni commerciali e diplomatiche con i paesi dell’Europa Orientale. All’interno, rivelatesi insufficienti le riforme, Franco tornò a una politica repressiva per fronteggiare le continue agitazioni operaie e studentesche e l’attività terroristica degli indipendentisti baschi (proclamazione dello stato di emergenza, gennaio 1969; sospensione di alcuni articoli del Fuero de los Españoles, dicembre 1970 - giugno 1971). Nel giugno 1973, attuando per la prima volta quanto stabilito dalla legge organica del 1966, Franco nominò primo ministro l’ammiraglio L. Carrero Blanco, vittima nel dicembre dello stesso anno di un attentato organizzato dall’ETA; al suo posto fu nominato C. Arias Navarro, il cui governo varò un ulteriore inasprimento della politica repressiva (all’esecuzione di un anarchico nel marzo 1974, la prima dal 1963, fece seguito nel settembre 1975, tra le proteste dell’opinione pubblica mondiale, quella di cinque terroristi baschi). Già costretto dalle sue precarie condizioni di salute a cedere temporaneamente a Juan Carlos le funzioni di capo dello Stato (estate 1974 e ottobre 1975), Franco morì il 20 novembre 1975 e due giorni dopo Juan Carlos divenne re di Spagna. [32191] La transizione alla democrazia fu opera soprattutto del governo presieduto da A. Suárez González (luglio 1976 - gennaio 1981), la cui UCD (Unión de centro democrático, coalizione di partiti moderati) si impose nelle elezioni per le Cortes costituenti del giugno 1977. Dopo la promulgazione di una nuova costituzione (dicembre 1978) e la vittoria nelle elezioni legislative del marzo 1979, Suárez dovette affrontare una difficile situazione economica e la persistente minaccia terroristica dell’ETA, i cui attentati proseguirono nonostante il varo di una riforma che prevedeva un moderato decentramento politico-amministrativo e l’elezione di parlamenti regionali. Nel febbraio 1981, il rifiuto di Juan Carlos di collaborare con i ribelli fece fallire un tentativo di colpo di stato attuato da militi della guardia civile col sostegno di alcuni settori delle forze armate. Un nuovo governo dell’UCD, affidato a L. Calvo Sotelo, ottenne nel maggio 1982 l’ingresso della Spagna nella NATO, nonostante la netta opposizione di PSOE, PCE e della destra nazionalista. Indebolita da contrasti e scissioni, l’UCD subì un drastico ridimensionamento nelle elezioni anticipate dell’ottobre 1982, che videro l’affermazione del PSOE (46% dei suffragi e maggioranza assoluta dei seggi al Congresso) e il buon risultato di Alianza popular (AP), espressione della destra franchista (25% dei voti). Le misure di politica economica varate dal governo costituito nel dicembre 1982 dal leader socialista F. González Márquez portarono a una diminuzione dell’inflazione, al miglioramento della bilancia commerciale e alla stabilizzazione del deficit pubblico, ma non riuscirono ad arginare la disoccupazione (22% della popolazione attiva nel 1984); i rapporti tra esecutivo e sindacati si deteriorarono e, a partire dal 1984, numerosi scioperi bloccarono l’attività produttiva, mentre proseguivano su tutto il territorio nazionale gli attentati dell’ETA. Sul piano internazionale, nel gennaio 1986 il governo socialista ottenne l’ingresso della Spagna nella CEE e nel marzo dello stesso anno un referendum sancì la permanenza del paese nella NATO sulla base di nuove condizioni, come proposto dal PSOE. Le difficoltà economiche e i mancati risultati nella lotta al terrorismo indussero González a ricorrere a elezioni anticipate nel giugno 1986 e nell’ottobre 1989; in entrambi i casi il PSOE subì una riduzione di consensi, mantenendo comunque la maggioranza assoluta dei seggi al Congresso. Nei primi anni Novanta la popolarità del governo González fu gravemente compromessa da una serie di scandali e dai sospetti di un coinvolgimento dell’esecutivo nell’organizzazione di gruppi paramilitari antiterrorismo, responsabili dal 1983 dell’eliminazione di numerosi esponenti dell’ETA. Dopo la ratifica del Trattato di Maastricht (1992), González, in difficoltà per le conseguenze di una nuova fase di recessione economica, dovette nuovamente far ricorso alle urne (giugno 1993); il PSOE perse la maggioranza assoluta (38% dei suffragi), il Partido popular (PP, coalizione di centro-destra nata nel 1989 dalla fusione di AP con il Partido liberal e la Democracia cristiana) ottenne il 34% dei voti e Izquierda unida (IU, coalizione di sinistra organizzata nel 1989 dal PCE) il 9% dei suffragi. Nel luglio 1993 González varò un esecutivo di minoranza con l’appoggio esterno dei nazionalisti moderati catalani (Convergencia i Unió, CiU) e baschi (Partido nacionalista vasco, PNV); i tagli alla spesa pubblica e ai sussidi di disoccupazione varati dal governo causarono una ripresa della conflittualità sociale nel corso del 1994, senza che gli indicatori economici facessero registrare segni di miglioramento. Perso il sostegno di CiU alla fine del 1995, González ha fatto nuovamente ricorso a elezioni anticipate (marzo 1996), vinte però dal PP, che ha ottenuto il 38,5% dei suffragi, ma non la maggioranza assoluta dei seggi, mentre il PSOE è sceso al 37,5% e IU ha ottenuto il 10,5% dei voti. Nel maggio 1996 il leader del PP, J. M. Aznar, ha costituito un nuovo governo, che ha ottenuto il sostegno di CiU, PNV e dei nazionalisti delle Canarie in cambio della promessa di un rafforzamento delle autonomie regionali. Il nuovo governo conservatore poneva come suo principale obiettivo la riduzione del deficit pubblico e dell’inflazione. Nonostante le proteste e le agitazioni sociali diffuse in tutto il paese (già tra ottobre e novembre del 1996 i dipendenti pubblici avevano manifestato contro il congelamento degli stipendi, mentre a dicembre studenti e insegnanti si erano schierati contro i pesanti tagli alle spese riservate all’istruzione), la politica di austerità varata da Aznar non incontrava forti opposizioni a livello politico e parlamentare, e il piano di stabilità economica presentato dall’esecutivo nell’aprile 1997 veniva approvato dal Congresso con il solo voto contrario di Izquierda unida. Intanto la politica di intransigenza del governo non frenava, nel corso del 1997, la spirale di violenza terroristica. In luglio l’assassinio di un giovane amministratore locale basco suscitava una forte ondata di protesta; a dicembre il tribunale supremo condannava a sette anni di reclusione 23 dirigenti dell’Herri Batasuna accusati di aver collaborato con l’ETA. In campo internazionale, nel corso degli anni Novanta la Spagna ha intensificato i rapporti col Portogallo e con i paesi dell’America Latina, in particolare attraverso i vertici ibero-americani, che si svolgono con cadenza annuale dal 1991. [32211] Fino al secolo 11° d. C. la storia delle popolazioni dell’odierno Portogallo si confonde con quella generale della Penisola Iberica. Nel secolo 11° la riconquista cristiana avvenne ad opera dei re di León, Ferdinando il Grande, che raggiunse il Mondego e fondò la contea di Coimbra, e Alfonso VI che raggiunse Santarém, Sintra e Lisbona (1093). Costituita così la contea di Portogallo (il cui confine meridionale variava a seconda delle vicende alterne della lotta contro i musulmani), ne fu affidato il governo a Enrico di Borgogna, genero di Alfonso VI di León di cui aveva sposato la figlia Teresa, che avrebbe tuttavia dovuto rimanere in sottordine a Raimondo di Borgogna, marito di Urraca, erede al trono di León. Ma, morto Alfonso VI e scoppiata la guerra civile nel regno di León, Enrico consolidò la propria indipendenza; alla sua morte (1114), la moglie Teresa assunse il potere ribellandosi apertamente alla sovranità leonese. La lotta tuttavia continuò ancora a lungo, anche per le ostilità sorte tra Teresa e il figlio Alfonso Henriques. In seguito, entrambi dovettero prestar omaggio ad Alfonso VII di Castiglia e di León, che aveva invaso la Galizia; finché nel 1143, dopo nuove ostilità, Alfonso VII si piegò a riconoscere ad Alfonso Henriques (che si dichiarò vassallo della Santa Sede e promise il pagamento di un censo annuo al papa) il titolo di re di Portogallo. Nel lungo regno di Alfonso Henriques (Alfonso I), fu portata avanti con straordinario successo la lotta contro i musulmani: conquistata Santarém nel 1146, ripresa l’anno successivo Lisbona che era andata perduta negli ultimi anni del governo di Enrico e condotte, negli anni seguenti, altre spedizioni, alla morte di Alfonso I, nel 1185, i confini del regno (il titolo di re era stato riconosciuto da papa Alessandro III solo nel 1179) si erano estesi sino a Beja, comprendendo cioè più di tre quarti del territorio attuale. La conquista proseguì sotto i regni di Sancio I (1185-1211), Alfonso II (1211-23), che aiutò Alfonso VIII di Castiglia nella battaglia di Las Navas di Tolosa (1212), Sancio II (1223-45) e Alfonso III (1248-79); la parte più meridionale, l’Algarve, fu presa nel 1249 e fu assicurata definitivamente al Portogallo, dopo lunghi contrasti con la Castiglia che avanzava pretese su di essa, col trattato di Alcañiz (1297), che fissò i confini territoriali quali sono ancor oggi. Sotto il regno di Sancio II, si verificò un tale stato di anarchia, a causa della nobiltà ribelle, che il papa Innocenzo IV lo depose, durante il Concilio di Lione (1245), e nominò al suo posto il fratello Alfonso. I regni di Dionigi (1279-1325), Alfonso IV (1325-57), Pietro I (1357-67), Ferdinando I (1367-83) furono caratterizzati soprattutto dal forte impulso dato alla marineria (cominciarono allora le spedizioni atlantiche, tra cui quella ordinata da Alfonso IV alle Canarie) e da uno sviluppo economico e agricolo del paese. Scomparso Ferdinando I, ultimo monarca della casa di Borgogna, senza eredi maschi, il re di Castiglia, sposo della sua unica figlia, si preparava a occupare il paese; ma i borghesi di Lisbona con alcuni nobili, insorgendo, acclamarono difensore del regno Giovanni, gran maestro dell’ordine militare di Aviz e bastardo del re Pietro I. Respinti i Castigliani, nel 1385 Giovanni era acclamato re dalle Cortes: con lui ebbe inizio la casa di Aviz, sotto il cui regno, che durò fino al 1585, fiorì il periodo più glorioso della storia portoghese. Respinti definitivamente i tentativi castigliani di impadronirsi del regno (vittoria di Giovanni ad Aljubarrota), assicurata l’indipendenza del Portogallo con la pace del 1411 (ratificata nel 1431) e concluso un trattato di amicizia e pace perpetua con l’Inghilterra, che aveva dato aiuto contro la Castiglia (Giovanni stesso sposò una principessa inglese, Filippa, figlia del duca di Lancaster), Giovanni I (1385-1433) e i suoi successori Edoardo (1433-38), Alfonso V (1438-81), Giovanni II (1481-95), Emanuele I (1495-1521), Giovanni III (1521-57) poterono creare l’impero coloniale portoghese. L’esplorazione marittima e commerciale fu metodicamente organizzata per merito soprattutto di un figlio di Giovanni I, l’infante Enrico (Enrico il Navigatore): favorita dalla borghesia delle città, che viveva del commercio marittimo, essa condusse a risultati grandiosi. Conquistata Ceuta nel 1415, i Portoghesi si impadronirono successivamente dell’isola di Madera (1418-20), delle Azzorre (1431 o 1432), delle isole del Capo Verde (1433), giungendo sino alla Sierra Leone (1460) e al Congo (1484): più tardi, nel 1487, con Bartolomeu Dias doppiarono il Capo delle Tempeste (poi Capo di Buona Speranza), entrando nell’Oceano Indiano. Il trattato di Tordesillas (7 giugno 1494), stipulato fra Giovanni II e i Re Cattolici, fissava la ripartizione fra Spagnoli e Portoghesi delle terre scoperte e da scoprirsi, stabilendo come linea di divisione il meridiano a 370 leghe a ovest delle isole del Capo Verde e lasciando ai Portoghesi le terre poste a oriente di esso. Nel 1498 Vasco da Gama giungeva sulla costa del Malabar, in India, nel 1500 P. A. Cabral scopriva il Brasile, e poi, proseguendo per l’India, stabiliva fattorie a Calicut; nel 1505 partiva per l’India il primo viceré, F. de Almeida, il cui successore, A. de Albuquerque, organizzava l’impero portoghese nelle Indie, stabilendo un triangolo strategico da Hormuz (1507) a Goa (1510) e Malacca (1511). Nel 1515 fu raggiunto il Giappone; tra il 1521 e il 1522 furono visitate le Molucche, quindi le isole della Sonda; nel 1526 fu compiuto uno sbarco nella Nuova Guinea. Nel 1520, intanto, i primi ambasciatori portoghesi erano giunti a Pechino. Sotto Giovanni III, che diede impulso soprattutto alla colonizzazione del Brasile, si ebbe un periodo di grande potenza politica e floridezza economica: Lisbona diveniva uno dei massimi empori del commercio internazionale, soppiantando Venezia e Genova. La monarchia portoghese era ormai così forte da poter tentare di unire alla propria anche la corona di Castiglia (matrimonio di Alfonso V con Giovanna la Beltraneja nel 1475, invasione della Castiglia, lotta contro i Re Cattolici, con esito negativo). Giovanni II, assumendo un atteggiamento deciso contro la potente nobiltà e appoggiandosi sulla borghesia delle città, potè instaurare l’assolutismo regio. Ma sotto il regno di Sebastiano (1557-78), la potenza portoghese subì il primo grave colpo: il tentativo del re di conquistare il Marocco venne frustrato nella disfatta di Alcázarquivir, dove egli stesso cadde sul campo (4 agosto 1578). Fatto tanto più grave, in quanto non avendo eredi diretti il trono toccò all’ormai vecchio cardinale Enrico, la cui morte nel 1580 aprì il problema della successione. Tra i molti candidati, fra i quali figurava anche Emanuele Filiberto duca di Savoia, figlio di Beatrice di Portogallo, prevalse il re di Spagna Filippo II, figlio di Isabella di Portogallo, che invase il paese, spezzò la resistenza del pretendente Antonio priore di Crato e si fece acclamare re dalle Cortes di Tomar (1581). L’unione di tutti i regni iberici, più volte vagheggiata nel passato, era divenuta un fatto compiuto, ma con la sottomissione del Portogallo alla Spagna. Iniziò quindi un periodo di decadenza per il Portogallo: la lotta fra Spagna da una parte e Inghilterra e Olanda dall’altra chiuse anche il Portogallo al commercio con queste due nazioni, rovinando economicamente Lisbona, e indusse gli Olandesi ad attaccare il dominio coloniale portoghese, impadronendosi delle Molucche, di Malacca, dell’Angola, di S. Jorge da Mina nel Golfo di Guinea, e finalmente invadendo il Brasile. Nel 1640, approfittando della ribellione della Catalogna, nobiltà e borghesia si sollevarono, acclamando re il duca di Braganza che prese il nome di Giovanni IV. Per 24 anni durò la guerra d’indipendenza, in cui il Portogallo ebbe alleati la Francia e l’Inghilterra: finalmente nel 1688, col trattato di Lisbona, la Spagna riconobbe l’indipendenza portoghese. Anche nelle colonie si poté condurre con successo la lotta contro gli Olandesi, che furono costretti ad abbandonare l’Angola e il Brasile. [32221] Il Portogallo libero dall’ingerenza spagnola non riconquistò più la potenza di una volta. Giovanni IV (1641-56) e Alfonso VI (1656-67) portarono vittoriosamente a conclusione la lotta per l’indipendenza: ma sotto i loro successori Pietro II (1683-1706), Giovanni V (1706-50) e Giuseppe I (1750-77) la vita del Portogallo fu quella di un piccolo stato, in cui l’assolutismo monarchico si esauriva in fasto di corte. Il trattato di Methuen (27 dicembre 1703), sotto l’apparenza di un trattato economico, comportò l’ingresso del Portogallo nella sfera d’influenza inglese. Unico fatto notevole in politica interna furono, sotto Giuseppe I, le riforme del marchese di Pombal, di netto stampo illuministico, che diedero per un momento nuova fama al Portogallo e alla sua dinastia. Sotto Maria I (1777-1816), inferma di mente, il Portogallo dovette dapprima subire una nuova invasione della Spagna, accordatasi con la Francia, nel 1801; poi, nel 1807, l’invasione francese. La regina, con il principe reggente Giovanni, si rifugiò allora in Brasile; ma quasi subito sbarcò nel Portogallo settentrionale l’esercito inglese, comandato da Wellington, ed ebbe inizio la guerra di liberazione. Dopo varie battaglie, la vittoria decisiva di Wellington su Massena costrinse i Francesi ad abbandonare il paese (1811). La dinastia, impersonata, dopo la morte di Maria, da Giovanni VI (1816-26), continuò, tuttavia, a risiedere in Brasile. Scoppiata nel 1820 a Porto una rivoluzione liberale, il re fu costretto a tornare in Portogallo e a giurare la Costituzione (1822); in questo stesso tempo il Brasile si dichiarò impero indipendente sotto il primogenito di Giovanni VI, il principe Pietro. Alla Costituzione del 1822 seguì una reazione assolutista che portò Giovanni VI ad abolire la Costituzione (1823). L’usurpatore che gli successe, Michele (che con un colpo di stato nel 1828 si proclamò re, invece di limitarsi a esercitare la reggenza per la nipote Maria, figlia di Pietro, imperatore del Brasile), accentuò ancora la reazione; ma gli emigrati liberali, raccolti intorno a Pietro, che aveva lasciato il Brasile abdicando (1831), sbarcati in Portogallo costrinsero l’usurpatore ad abbandonare il potere. La vita politica sotto gli ultimi re della casa di Braganza, Maria II (1833-53), Pietro V (1853-61), Luigi I (1861-89), Carlo I (1889-1908), fu caratterizzata in un primo tempo (con Maria) da frequenti pronunciamenti militari e sommosse; poi (con Pietro e Luigi) dalla pacificazione del paese e dalla ripresa dell’espansione oltremare, con la colonizzazione dei possedimenti africani (Angola e Mozambico); in ultimo (sotto il regno di Carlo) dal rapido propagarsi delle idee repubblicane. [32231] Carlo I perì assassinato il 1° febbraio 1908 e il suo successore, Emanuele II, il 5 ottobre 1910 fu deposto da una rivoluzione che proclamò la repubblica. Un governo provvisorio, guidato da J. F. T. Braga, varò una serie di provvedimenti anticlericali (soppressione degli ordini religiosi e confisca dei loro beni, laicizzazione dell’insegnamento, separazione tra Stato e Chiesa) e preparò l’elezione di un’Assemblea costituente; quest’ultima diede al Portogallo una nuova carta fondamentale, marcatamente liberale, ed elesse alla presidenza della Repubblica M. de Arriaga (agosto 1911). Espressione delle classi medie urbane, il nuovo regime mancò di rispondere alle richieste di trasformazione sociale avanzate dai lavoratori delle città, rimanendo lontano, con la sua politica anticlericale, anche dalla popolazione rurale, presso la quale restavano forti i sentimenti monarchici e religiosi. Il massiccio ricorso da parte dei sindacati all’arma dello sciopero, due falliti tentativi di restaurazione monarchica (1911 e 1912) e le divisioni nate all’interno del partito repubblicano tra correnti conservatrici, di centro e di sinistra, contribuirono ad accentuare il clima di instabilità che caratterizzò i primi anni della repubblica. Di tale clima approfittò nel gennaio 1915 il gen. Pimenta de Castro, esponente di una fazione filotedesca delle forze armate; l’effimero regime militare da questi instaurato fu però rovesciato da una rivoluzione democratica nel maggio successivo. Dopo le dimissioni di Arriaga, sostituito alla presidenza da B. L. Machado, il Portogallo entrò in guerra contro gli Imperi Centrali (1916), aggravando ulteriormente, col carico delle spese belliche, le già precarie condizioni economiche del paese. Dopo una nuova parentesi autoritaria, seguita al colpo di stato del gen. Sidónio Pais (dicembre 1917 - dicembre 1918), il ritorno al regime parlamentare non fu accompagnato dal miglioramento della situazione interna e sempre più frequenti si fecero i tentativi insurrezionali da parte delle forze armate. Nel maggio 1926 il gen. M. de Oliveira Gomes da Costa riuscì a deporre Machado (che era stato rieletto nel 1925) e a costituire una giunta militare, al vertice della quale fu però ben presto sostituito dal gen. A. Ó. de Fragoso Carmona; questi nel marzo 1928 fu eletto presidente della Repubblica, carica mantenuta con tre successive rielezioni sino alla morte (1951). Nell’aprile 1928 Carmona chiamò al ministero delle Finanze A. de Oliveira Salazar, concedendogli poteri straordinari in materia economica; Salazar se ne servì per accentuare la pressione fiscale e tagliare drasticamente le spese, riuscendo in pochi anni a risanare la difficile situazione finanziaria del paese. Il prestigio così guadagnato gli consentì di assumere nel 1932 la presidenza del Consiglio e di dare inizio a una dittatura di fatto: una nuova costituzione (1933) inaugurò il cosiddetto Estado novo, una repubblica corporativa e centralista, nella quale tutto il potere era in mano al capo del governo; sciolti nel 1934 i partiti politici (con l’unica eccezione della filofascista União nacional, creata nel 1930), Salazar avviò un programma di lavori pubblici per dotare il Portogallo delle necessarie infrastrutture economiche, reintrodusse nelle scuole l’insegnamento religioso e restituì alla Chiesa cattolica, col concordato del 1940, gran parte dei beni confiscati dai repubblicani nel 1910-11. Sul piano della politica internazionale, il regime di Salazar sostenne gli insorti di F. Franco nella guerra civile spagnola (1936-39), quindi proclamò la neutralità del Portogallo allo scoppio del secondo conflitto mondiale; la secolare alleanza con la Gran Bretagna fu comunque rinnovata nel 1943, quando Lisbona concesse agli Inglesi alcune basi nelle Azzorre. Entrato a far parte della NATO nel 1949, per il veto dell’URSS il Portogallo fu ammesso all’ONU solo nel 1955. Sul piano interno, nell’immediato dopoguerra il regime consentì la ricostituzione dei partiti politici; tuttavia, grazie alla censura sulla stampa e all’azione repressiva della polizia politica, l’União nacional poté aggiudicarsi tutte le consultazioni legislative svoltesi con cadenza quadriennale a partire dal 1945 e ottenere l’elezione di due suoi esponenti – il gen. F. Craveiro Lopes e l’amm. A. Tomás – alla presidenza della Repubblica, rispettivamente nel 1951 e nel 1958. La perdurante arretratezza economica del paese fu affrontata da Salazar con l’applicazione di due successivi piani quinquennali di sviluppo (1953-58 e 1959-64) e di un successivo piano di aggiustamento (1965-67), destinati a potenziare il settore agricolo e a sviluppare quello industriale. Gli sforzi in questa direzione furono però vanificati dal progressivo aumento delle spese militari per mantenere l’impero coloniale: subita nel 1961 la perdita dei possedimenti indiani di Goa, Diu e Damão, il governo del Portogallo dovette infatti fronteggiare di lì a poco la lotta armata intrapresa dai movimenti di liberazione nazionale in Angola, nella Guinea portoghese e in Mozambico. [32241] Colpito da emorragia celebrale nel 1968, Salazar fu sostituito alla presidenza del Consiglio da M. Caetano, che ne proseguì la politica, pur avviando una parziale liberalizzazione del regime. Nonostante l’adozione di un terzo piano di sviluppo (1968-73), la situazione economica rimase difficile: il perdurare della guerriglia nelle colonie africane impediva infatti con i suoi costi (oltre il 60% del bilancio statale nei primi anni Settanta) lo sviluppo economico del paese. Il 25 aprile 1974 alcuni ufficiali progressisti, riuniti nel Movimento das forças armadas (MFA), deposero Caetano e il presidente Tomás. A maggio, l’ex capo di stato maggiore A. R. de Spínola assunse la carica di presidente della Repubblica e a luglio fu costituito un governo di unità nazionale, guidato dal colonnello V. Gonçalves, la cui azione fu ispirata soprattutto dall’ala radicale del MFA e dal Partido comunista português (PCP); ciò portò presto a un contrasto con i partiti e i militari moderati: Spínola fu costretto a dimettersi nel settembre 1974, sostituito dal gen. F. da Costa Gomes. Mentre crescevano le divisioni tra le diverse componenti della stessa sinistra, il governo Gonçalves varò una serie di provvedimenti radicali (avvio della riforma agraria, nazionalizzazione di banche, assicurazioni, industrie petrolifere e metallurgiche), estese il suffragio a diciottenni e analfabeti e concluse le trattative con i movimenti di liberazione delle colonie africane, giunte all’indipendenza entro il 1975. Le elezioni per la costituente (25 aprile 1975), videro l’affermazione del Partido socialista português (PSP) sulle forze che maggiormente ispiravano l’azione del governo; nel settembre successivo Gonçalves dovette pertanto cedere la guida dell’esecutivo all’amm. J. Pinheiro de Azevedo. Dopo la promulgazione nell’aprile 1976 di una nuova costituzione di ispirazione socialista (che attribuiva ai militari – tramite il Consiglio della rivoluzione – il ruolo di garanti delle conquiste politiche e sociali della “rivoluzione dei garofani”), le elezioni legislative dello stesso mese confermarono il predominio del PSP (35% dei voti), seguito dai moderati del Partido democrático popular (PPD, 24%), dal Centro democrático social (CDS, 16%) e dal PCP (15%). Dopo aver sostenuto con PDP e CDS l’elezione a capo dello Stato del gen. A. Ramalho Eanes nelle presidenziali del giugno 1976, i socialisti costituirono un governo monocolore di minoranza, guidato da M. Soares, che impresse una svolta moderata alla politica portoghese, in particolare ponendo un freno alla riforma agraria. Soares dovette rinunciare all’incarico nell’agosto 1978, sostituito in autunno, da C. A. da Mota Pinto. Questi diede vita a un gabinetto di minoranza comprendente il Partido social democrata (PSD, denominazione assunta alla fine del 1976 dal PDP) e il CDS. Queste due formazioni e il piccolo Partido popular monárquico si presentarono sotto la denominazione di Aliança democrática (AD) alle elezioni anticipate del dicembre 1979, ottenendo il 45% dei voti e costituirono nel gennaio 1980 un nuovo esecutivo, guidato dal leader del PSD, F. Sá Carneiro. [32251] Nuove consultazioni politiche nell’ottobre 1980 rafforzarono ulteriormente la maggioranza conservatrice, decisa a far eleggere un proprio uomo alla presidenza della Repubblica e a cancellare dalla costituzione le norme di ispirazione socialista. La morte di Sá Carneiro rese però possibile la rielezione a capo dello Stato di Eanes, sostenuto dalle sinistre, nel dicembre 1980; inoltre, il tentativo del nuovo governo di AD, presieduto dal socialdemocratico F. Pinto Balsemão, di affrontare il peggioramento delle condizioni economiche del paese attraverso la riprivatizzazione dei settori di base portò a un conflitto istituzionale con il Consiglio della rivoluzione. Tale conflitto si concluse solo nell’agosto 1982: un accordo tra governo e PSP rese possibile l’abolizione del Consiglio della rivoluzione, un ridimensionamento dei poteri presidenziali e il reingresso dell’iniziativa privata nei settori nazionalizzati. L’amministrazione Balsemão cadde nel dicembre 1982 per l’incapacità di risolvere la difficile situazione economica (inflazione superiore al 20%, forte crescita dell’indebitamento estero e del disavanzo pubblico) e per i dissidi sorti all’interno di AD. Le elezioni anticipate dell’aprile 1983 fecero pertanto registrare una forte avanzata dei socialisti, che a giugno diedero vita a un governo di coalizione con il PSD, guidato da Soares. Il nuovo esecutivo perseguì una riduzione della spesa pubblica, svalutò l’escudo, riprivatizzò banche, assicurazioni e alcuni settori industriali e nel marzo 1985 concluse positivamente i negoziati per l’ingresso del Portogallo nella CEE a partire dal gennaio 1986. I contrasti sorti nella coalizione resero necessarie nell’ottobre 1985 nuove consultazioni anticipate, che segnarono una sconfitta socialista a vantaggio del PSD. L’instabilità del Portogallo fu confermata dopo che alla formazione di un monocolore socialdemocratico, guidato da A. Cavaco Silva, fece seguito l’inattesa elezione alla presidenza della Repubblica di Soares (febbraio 1986). Dimessosi in seguito a un voto parlamentare di censura della sua politica economica (aprile 1987), Cavaco Silva tornò alla guida del governo dopo il trionfale esito delle elezioni anticipate del luglio 1987, nelle quali il PSD ottenne il 50% dei consensi. Nell’ottobre 1988 i socialisti si accordarono con il PSD per apportare ulteriori modifiche alla costituzione, dalla quale fu eliminato ogni residuo elemento di ispirazione marxista. Il riavvicinamento tra PSP e PSD riguardò in seguito anche tematiche sociali (intesa dell’ottobre 1990 tra governo e la socialista Unione generale dei lavoratori per un incremento pluriennale programmato dei salari e la riduzione della settimana lavorativa), questioni economiche (avallo del PSP al programma di privatizzazioni del governo) e istituzionali (sostegno socialdemocratico a un secondo mandato per Soares, rieletto alla presidenza della Repubblica nel gennaio 1991). Le elezioni legislative dell’ottobre 1991 confermarono il predominio del PSD (50,4%); i socialisti, abbandonata dai primi dell’anno la linea di collaborazione con i socialdemocratici, ottennero il 30% dei voti, mentre il PCP raccolse appena l’8,8% dei consensi. L’ampia base parlamentare ha consentito al governo di Cavaco Silva di accentuare la sua politica di rigida ristrutturazione economica, causando nel paese crescenti tensioni sociali. Ottenuta dal parlamento la ratifica del trattato di Maastricht sull’unione europea (dicembre 1992), nel corso del 1993 il governo ha cercato di far fronte al peggioramento delle condizioni economiche del paese attraverso il varo di un piano regionale di sviluppo della durata di sei anni, in parte finanziato dalla Comunità Europea. La rinnovata rivalità tra i due maggiori partiti del Portogallo ha trovato conferma nel frequente ricorso al potere di veto da parte del presidente della Repubblica: tale potere è stato esercitato in particolare contro i disegni di legge del governo restrittivi del diritto di asilo politico (agosto 1993) e della libertà di stampa (agosto 1994). Le impopolari scelte economiche dell’esecutivo e il coinvolgimento di alcuni suoi esponenti in episodi di corruzione hanno quindi determinato il sorpasso del PSP ai danni dei socialdemocratici nelle elezioni per il Parlamento europeo del giugno 1994 e nelle legislative dell’ottobre 1995 (PSP, 39,4% dei voti; PSD, 34%). Alla costituzione (ottobre 1995) di un governo monocolore guidato dal leader socialista Antonio Goterres ha fatto seguito la vittoria del candidato socialista, Jorge Sampaio, nelle elezioni presidenziali del gennaio 1996. [32311] La storia dell’Austria propriamente detta affonda le sue radici remote nell’8° secolo, l’età della lotta tra le stirpi germaniche e quelle slave e uralo-altaiche nella regione danubiana; successivamente Carlomagno, dopo le sue vittorie sul ducato di Baviera e sugli Avari, fonda la marca orientale (Ostmark), col compito di proteggere l’Impero franco dall’assalto dei popoli provenienti dall’Oriente. Travolta dall’invasione degli Ungari, la marca fu ricostituita da Ottone I col medesimo scopo e assegnata dal figlio Ottone II a Leopoldo di Babenberg che fu il primo di una serie di dodici margravi, validi difensori contro Ungari e Boemi e fedeli vassalli dell’Impero (il nome di Ostarrichi, donde Österreich, compare in un documento del 996). L’ottavo di questi margravi, Enrico II, che trasferì la capitale da Pöchlarn a Vienna, ottenne nel 1156 il titolo ducale (col cosiddetto Privilegium minus); Leopoldo II ereditò nel 1192 la Stiria (ducato dal 1180) e Federico II aggiunse ai propri possessi la Pusteria e la contea d’Istria. Morto Federico II nella battaglia della Leitha (1246), i domini dei Babenberg furono contesi tra Bela IV d’Ungheria e Ottocaro II di Boemia: riuscì ad ottenerli quest’ultimo (1251), che s’impadronì anche della Carinzia. [32321] Fallito con la battaglia di Dürnkrut (1278) il tentativo di Ottocaro di fondare un impero slavo tra le Alpi e i Sudeti, l’Austria divenne possesso del re di Germania Rodolfo I d’Asburgo, che ne investì nel 1282 insieme con la Stiria e la Carniola i figli Alberto e Rodolfo. Gli Asburgo approfittarono della corona imperiale per consolidare questi loro possessi e, anche quando la corona passò alle case rivali dei Wittelsbach e dei Lussemburgo, continuarono la loro espansione (1335 Alberto II ottiene la Carinzia; 1364: Rodolfo IV la contea del Tirolo), talché dalla fine del 14° alla metà del 15° secolo essi divennero padroni di tutti i paesi delle Alpi orientali, giungendo all’Adriatico (possesso di Trieste nel 1382). Questo sviluppo fu interrotto dalla divisione della casa nella linea albertina e leopoldina la quale compromise l’autorità dei duchi anche di fronte alla nobiltà riunita negli Stände regionali, sicché quando Federico V (III come imperatore) volle riunire nelle sue mani i domini della casa (1439), non poté affermarsi. Nel 1485 Mattia Corvino, re d’Ungheria, occupò Vienna e soltanto alla sua morte (1490) Federico poté riprendere i territori perduti. [32331] La fortuna degli Asburgo si risollevò per una serie di abili matrimoni. Il figlio di Federico III, Massimiliano (1493-1519), sposando Maria di Borgogna, erede di Carlo il Temerario, otteneva i territori già borgognoni delle Fiandre e dei Paesi Bassi; inoltre, facendo sposare il figlio Filippo il Bello con Giovanna d’Aragona e di Castiglia, poneva la candidatura della propria dinastia ai troni iberici e, concludendo i matrimoni dei nipoti, Ferdinando e Maria, con i figli di Vladislao re di Boemia e d’Ungheria, Anna e Luigi, avviava a realizzazione le vecchie aspirazioni asburgiche su quei regni. Mentre allargava i suoi domini con la contea di Gorizia e altre terre nel Tirolo, Massimiliano intraprese l’organizzazione centralistica dei suoi stati secondo il modello borgognone (creazione d’una Camera aulica, di un Consiglio aulico e delle due cancellerie della corte e dell’Impero). Inseriti dal nipote Carlo V entro un immenso Impero “su cui non tramontava il sole”, i domini ereditari degli Asburgo furono, al momento dell’abdicazione dello stesso Carlo V (1556), definitivamente affidati, con la successione alla corona d’imperatore del Sacro Romano Impero, al fratello Ferdinando I, già dal 1526 re di Boemia (gli era sfuggita invece la corona d’Ungheria, caduta nelle mani del magnate transilvano Giovanni Szapolyai). L’Austria poteva così riprendere la primitiva funzione di baluardo della cristianità, che la minaccia turca (1529: comparsa del sultano Solimano sotto Vienna) rendeva attuale. Un grave pericolo interno, in questa lotta, era rappresentato dalle discordie religiose: in Austria si era diffusa la riforma e in Boemia si erano risvegliate le idee di J. Hus; alla politica conciliante di Ferdinando I (1562: Libello di riforma) e poi del figlio Massimiliano II (1564-76), seguì il tentativo controriformista di Rodolfo II (1576-1612), il quale provocò un vivo fermento, che indusse gli arciduchi a riconoscere come capo della casa il fratello di Rodolfo, Mattia (1612-19), al quale furono affidate l’Austria, l’Ungheria e la Moravia (1608), e successivamente anche la Boemia e la Slesia. Tuttavia anche Mattia non riuscì a sedare la lotta ormai aperta tra le confessioni religiose, e con l’atto di rivolta del 1618 dei protestanti boemi, noto col nome di “defenestrazione di Praga”, ebbe inizio la guerra dei Trent’anni (1618-48). Con la pace di Vestfalia (1648) l’imperatore Ferdinando III (1637-57) uscì vinto dalla lotta e dovette rinunciare al suo sogno di predominio in Germania e in Europa. Però la monarchia era riuscita, nell’interno, a far trionfare il principio cattolico e, insieme, la sua autorità assoluta e, sul piano internazionale, poteva riprendere la sua spinta verso l’Oriente balcanico, contenendo prima l’offensiva turca (1664: vittoria di R. Montecuccoli a San Gottardo sulla Raab) e – dopo la triste parentesi del 1683 in cui Vienna fu salvata dalla minaccia ottomana dall’intervento del re di Polonia, Giovanni Sobieski – annettendo definitivamente l’Ungheria (1687). Il felice esito di queste campagne consentì all’Impero di riprendere una politica attiva nel resto dell’Europa e, attraverso la guerra di successione spagnola (1700-14), Carlo VI (1711-40), se era costretto a rinunziare alle sue pretese alla corona di Spagna, si assicurava il possesso di Milano, di Napoli, della Sardegna (nel 1720 scambiata con la Sicilia) e dei Paesi Bassi spagnoli. Poco dopo, la vittoria riportata a Pietrovaradino dal principe Eugenio di Savoia sui Turchi e la conseguente pace di Passarowitz (1718) diedero all’Austria il banato di Temesvár, la Piccola Valacchia e la Serbia settentrionale (questi due ultimi acquisti andarono persi con la pace di Belgrado del 1739). Un grave pericolo però minacciava la monarchia: la mancanza di figli maschi di Carlo VI, il quale nel 1713 promulgò la Prammatica sanzione, in cui, stabilendo l’indivisibilità dello stato, garantiva la successione alla figlia Maria Teresa, e nella guerra di successione polacca (1733-38) condizionò tutto il proprio comportamento alla necessità di veder riconosciuta la Prammatica sanzione (appoggio in Polonia di Augusto di Sassonia, cessione alla Francia della Lorena, attribuzione a Francesco Stefano di Lorena del granducato di Toscana a titolo di compenso; cessione alla Spagna di Napoli e Sicilia in cambio del ducato di Parma e Piacenza). [32341] Nella guerra di successione austriaca (1740-48) Maria Teresa aveva assicurato la corona imperiale al marito Francesco (I) di Lorena, ma aveva dovuto cedere la Slesia a Federico II di Prussia e i ducati di Parma e Piacenza ai Borboni di Spagna. Successivamente, nonostante la parentesi bellica della guerra dei Sette anni, Maria Teresa diede allo stato una nuova struttura con una serie di importanti riforme: obbligo generale delle imposte, limitazione della servitù dei contadini, Codex Theresianus del 1758, riordinamento delle università, creazione di un Consiglio di stato, ecc. Tale linea riformatrice venne proseguita dal suo successore, Giuseppe II, uno dei rappresentanti più tipici del dispotismo illuminato: libertà di stampa, tolleranza religiosa, abolizione della servitù della gleba, subordinazione del clero. L’Austria conseguì nuovi ingrandimenti territoriali: nella prima spartizione della Polonia (1772) ottenne la Galizia e la Lodomiria, nel 1775 dalla Turchia la Bucovina. L’attività riformatrice di Giuseppe II provocò tuttavia grave malcontento (Paesi Bassi, Lombardia, Boemia, Ungheria) e il fratello Leopoldo II (1790-92) dovette affrettarsi a revocare tali misure senza però riuscire a mantenere i Paesi Bassi, dichiaratisi indipendenti il 13 dicembre 1789. Divampava intanto la Rivoluzione francese e, sebbene nel 1795 l’Austria con la terza spartizione della Polonia realizzasse un nuovo ingrandimento verso est, dal 1792 (convegno di Pillnitz) al 1815 tutte le forze del paese furono indirizzate contro la marea rivoluzionaria prima, napoleonica dopo: persi i Paesi Bassi e la Lombardia col trattato di Campoformido del 1797 (ottenne però in cambio gran parte del territorio della Repubblica veneta), e l’intera riva sinistra del Reno con la pace di Lunéville (1801), mutilata dopo Austerlitz (1805) del Veneto, dell’Istria e della Dalmazia, l’Austria, che nel 1804 si era trasformata in Impero d’Austria, distinto dal vecchio rudere ormai in frantumi del Sacro Romano Impero, con la sconfitta di Wagram e la pace di Vienna (1809) fu alla mercé di Napoleone: Maria Luisa, figlia di Francesco (I come imperatore d’Austria), gli fu data in sposa (1810) e le truppe austriache dovettero partecipare alla spedizione di Russia. Riacquistata la propria autonomia col disastro della spedizione, dopo aver nuovamente dichiarato guerra a Napoleone il 12 agosto 1813, l’Austria, sotto la guida di Metternich, raggiunse l’apogeo della propria potenza nel congresso di Vienna (1814-15): veniva ricostituita la compagine dell’Impero austriaco (Milano e il Veneto quale Regno lombardo-veneto, la Toscana quale secondogenitura, Parma e Piacenza quale terzogenitura, la Galizia, le province illiriche, il Tirolo e Salisburgo), assicurata la sua supremazia in Italia e, mercé la presidenza del Bundestag di Francoforte, in Germania. Attraverso la Santa Alleanza e il predominio che in essa ebbe Metternich, l’Austria fu dopo il 1815 l’assertrice d’una rigida politica di repressione dello spirito rivoluzionario (congressi di Carlsbad, di Troppau, di Lubiana, di Verona; interventi armati contro i moti liberali di Napoli e del Piemonte). Scosso dopo il 1822 questo sistema dal delinearsi della “questione d’Oriente”, che poneva di fronte l’Austria e la Russia, battuto in breccia dal sorgere in Francia della monarchia di Luigi Filippo (1830), la politica del Metternich non riuscì a comporre gl’interni dissidi nazionali della monarchia, che si manifestano in piena luce nel 1848: da Vienna (13 marzo) i moti liberali e nazionali dilagano nelle varie regioni assumendo in Italia anche l’aspetto di una guerra di stati (intervento del regno di Sardegna e prima guerra d’indipendenza); il sacrificio del Metternich e la costituzione del 25 aprile non calmano gli spiriti: i Cechi rifiutano di partecipare al parlamento di Vienna, l’Ungheria si schiera con Kossuth, i Croati in odio agli Ungheresi vogliono un regno autonomo. La vittoria di Radetzky a Custoza (25 luglio) ridà vigore al potere centrale: il Windischgrätz, che aveva soffocato a Praga il moto autonomista cèco, ristabilisce l’ordine a Vienna; il 21 novembre l’energico principe Schwarzenberg assume il governo e il 2 dicembre l’inetto Ferdinando I (1815-48) abdica in favore del nipote Francesco Giuseppe (1848-1916), al quale la convenzione di Olmütz (29 novembre 1850) col re Federico Guglielmo IV di Prussia ridà l’egemonia in Germania, la vittoria di Novara (28 marzo 1849) su Carlo Alberto quella in Italia, e l’intervento armato dello zar Nicola I assicura il ristabilimento della propria autorità in Ungheria. Dal 1849 al 1859 – attraverso lo Schwarzenberg, e poi (1852) A. Bach – Francesco Giuseppe assume un atteggiamento nettamente reazionario; ma, di fronte alle ripercussioni della sconfitta riportata in Italia nel 1859 (perdita della Lombardia, scomparsa del granducato di Toscana e dei ducati di Modena e Parma), tenta col diploma del 20 ottobre 1860 di riordinare l’Impero su basi costituzionali. Il tentativo fallì per l’opposizione dei Magiari, che esigevano la restaurazione della costituzione del 1848 e dei loro “diritti storici” (ossia, lo stato ungherese di prima del 1526). [32351] Con la guerra del 1866 l’Austria era definitivamente esclusa dalla Germania e in Italia perdeva il Veneto. Restava la questione ungherese: la necessità di un rafforzamento interno e l’influenza dell’imperatrice Elisabetta e del patriota ungherese Giulio Andrássy indussero l’imperatore al compromesso del 1867, che creò due stati distinti, l’Impero d’Austria e il Regno d’Ungheria, uniti però dal vincolo dinastico e da tre ministeri (Esteri; Esercito e Marina; Finanze, per le spese comuni). Alla denominazione “Impero d’Austria” fu sostituita quella di “Monarchia austro-ungarica”. L’integrale accoglimento delle rivendicazioni magiare sollevò subito la reazione dei Cechi e la richiesta della costituzione dello stato boemo; questo il 12 settembre 1871 venne promesso (ministero Hohenwart), ma non fu attuato, e la legge elettorale del 1873 assicurò la maggioranza ai Tedeschi. Una netta conversione avviene ora anche sul piano della politica internazionale: tramontati, dopo la guerra franco-prussiana, i piani di rivincita sulla Prussia del Beust, assunta la politica estera dall’Andrássy (1871), l’Austria accettò le iniziative diplomatiche del Bismarck, che, scongiurato un conflitto austrorusso nel 1875 e riconosciuto il diritto dell’Austria a occupare la Bosnia-Erzegovina (1877), riusciva a realizzare il trattato segreto d’alleanza fra l’Austria e la Germania del 1879, l’alleanza dei tre imperatori del 1881 e la Triplice Alleanza del 1882 con l’Austria e l’Italia, con cui i contraenti s’impegnavano a difendersi l’un l’altro nel caso di attacco da parte russa, mantenendo invece la neutralità se attaccati da altre potenze. All’interno, intanto, il dualismo austro-ungarico si rivelò suscitatore di nuove lotte nazionali: il conte Taaffe (1879-93) riuscì a governare solo con l’appoggio dei cattolici e degli slavi; il ministero Badeni (1895-97) concesse in Boemia la parità della lingua ceca, ma in seguito alle proteste del movimento pangermanista e a pressioni da Berlino dovette ritirarsi e le sue ordinanze furono abrogate. In questo momento cominciò a far sentire la sua influenza l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando, acquisito, pare, a una soluzione trialistica a vantaggio delle aspirazioni slave. Egli fece costituire l’effimero ministero Beck (maggio 1907), che introdusse il suffragio universale diretto e pertanto assicurò la maggioranza agli Slavi. La proclamazione dell’annessione della Bosnia-Erzegovina (1908), effettuata dal ministero Aehrenthal, provocò, però, in Serbia una forte agitazione, che, aggravata dalle successive guerre balcaniche, sfociò nell’assassinio a Serajevo dello stesso arciduca Francesco Ferdinando (28 giugno 1914). I circoli militari austriaci ritennero giunta l’occasione per schiacciare la Serbia e, con l’ultimatum del 23 luglio 1914, accendevano il fuoco della prima guerra mondiale, nel corso della quale la monarchia rivelò tutta la sua interna debolezza. Quando, il 21 novembre 1916, Francesco Giuseppe moriva, il successore Carlo I si trovò ad essere il liquidatore d’una eredità fallimentare: fallito il tentativo di pace separata con l’Intesa, rimaste senza effetto alcune concessioni liberali all’interno, il 28 ottobre 1918 il comitato nazionale di Praga proclamava l’indipendenza ceco-slovacca, il 29 avveniva il distacco dei Serbi, Croati e Sloveni, e il 7 novembre si costituiva un governo repubblicano polacco. Andato distrutto l’esercito austriaco nella battaglia di Vittorio Veneto, Carlo, che il 3 novembre aveva firmato l’armistizio, l’11 abbandonava l’esercizio del potere; il 12 l’Assemblea nazionale dell’Austria tedesca proclamava la repubblica e il 16 l’Ungheria faceva altrettanto. [32361] Nella nuova repubblica, proclamata il 16 novembre 1918, prevalsero i partiti socialdemocratico, cristiano-sociale e tedesco-nazionale; l’Assemblea costituente, eletta il 16 febbraio 1919, votò l’annessione dell’Austria alla Germania ma, di fronte all’opposizione delle potenze dell’Intesa e per frenare le tendenze centrifughe di alcune regioni (il Tirolo soprattutto), finì col votare una costituzione federale con larghe autonomie per i 9 Länder costituenti la nuova Austria, con un presidente e due camere (Consiglio nazionale o Nationalrat, e Consiglio federale o Bundesrat). Con tale sistema si volle arginare il predominio di Vienna, roccaforte socialista (socialisti erano stati i più autorevoli esponenti dei governi di coalizione: O. Bauer, K. Renner); poi il potere passò ai cristiano-sociali mentre l’Austria cadeva nell’inflazione e nel caos finanziario. Grazie all’intervento della Società delle Nazioni, il gabinetto di mons. I. Seipel (formato nel maggio 1922) poté sanare la crisi finanziaria, non quella economica, che divenne cronica. E ciò mentre si acuiva il dissidio tra Vienna e le province, ove si erano costituite le milizie delle Heimwehren, e il miraggio dell’unione alla Germania (Anschluss) si faceva sempre più insistente. La lotta su base sociale dominò i vari gabinetti Seipel (1922-24), R. Ramek (1924-26) e nuovamente Seipel (1926-1929) e culminò nella sommossa socialista di Vienna del 15 luglio 1927, repressa dal prefetto di polizia H. Schober. Divenuto questi capo del governo (26 settembre 1929), si ebbe una riforma costituzionale in senso autoritario e accentratore; sebbene pangermanista, Schober cercò un riavvicinamento all’Italia firmando nel 1930 un trattato di amicizia. La questione dell’Anschluss tornò, invece, ad essere di primo piano con l’avvento in Germania del regime nazionalsocialista (1933); il nuovo cancelliere austriaco, il cattolico E. Dollfuss (1932-34), venne pertanto a trovarsi tra due fuochi, quello socialista (insurrezione viennese del 12-15 febbraio 1934; al socialismo Dollfuss oppose il corporativismo cattolico che mise alla base della nuova costituzione del 1934) e quello nazionalsocialistico, agente e dall’esterno (pressione della Germania) e dall’interno (sorgere di un partito nazionalsocialista austriaco). Il 25 luglio 1934 un gruppo di nazionalsocialisti assalì il palazzo della Cancelleria e uccise Dollfuss; il putsch fallì però dinanzi all’invio di divisioni italiane al Brennero e alla reazione franco-inglese. Il nuovo cancelliere K. Schuschnigg poté riprendere il programma politico di Dollfuss; ma la sua posizione divenne sempre più precaria, e il sorgere dell’Asse Roma-Berlino fece precipitare la situazione: nel febbraio 1938 un nazionalsocialista, Seyss-Inquart, fu imposto da Hitler come ministro dell’Interno, l’11 marzo Schuschnigg veniva defenestrato e l’indomani l’esercito tedesco procedeva con la forza all’Anschluss. La storia dell’Austria, che ebbe l’antico nome carolingio di Ostmark, è legata fino al 1945 a quella della Germania; liberata dalle truppe alleate tra l’aprile e il maggio 1945, fu divisa in quattro zone d’occupazione (S.U.A., Inghilterra, URSS, Francia) e Vienna fu sottoposta ad amministrazione quadripartita. Dopo la formazione (aprile 1945) di un governo provvisorio (socialisti, cattolici, comunisti), guidato dal socialista K. Renner, e il ripristino della costituzione del 1920, le elezioni del 25 novembre diedero la maggioranza al Partito popolare (Österreichische Volkspartei, erede dei cristiano-sociali), seguito a poca distanza dal Partito socialista (Sozialdemokratische Partei Österreichs). In dicembre veniva formato un governo di coalizione fra ÖVP e SPÖ, presieduto dal popolare L. Figl, mentre Renner era eletto dal parlamento presidente della Repubblica. I problemi insorti in seguito allo sviluppo della guerra fredda prolungarono il regime di occupazione fino all’ottobre 1955: esso ebbe termine dopo la firma (maggio), tra l’Austria e le 4 potenze occupanti, del Trattato di stato che ridava al paese piena indipendenza entro i confini del 1938, proibendo la riunificazione con la Germania e la restaurazione degli Asburgo; in ottobre il parlamento approvava l’inserimento nella costituzione della clausola del trattato che conferiva all’Austria la neutralità permanente. La questione dell’Alto Adige, nonostante gli accordi De Gasperi-Gruber del settembre 1946, rimase un fattore di attrito con l’Italia fino all’accordo MoroWaldheim del novembre 1969, che ampliò i poteri amministrativi della provincia, stabilendo una serie di garanzie per il gruppo linguistico tedesco. La “grande coalizione” fra popolari e socialisti inaugurata nel 1945 proseguì per oltre 20 anni, garantendo all’Austria, nelle difficili condizioni economiche e politiche del dopoguerra, una elevata stabilità interna (in contrasto con i violenti conflitti del periodo fra le due guerre) e il consolidamento della sua nuova collocazione internazionale. Mentre i rapporti di forza tra i due partiti non subivano modificazioni di rilievo (la ÖVP mantenne il cancellierato, la SPÖ la presidenza della Repubblica), questi procedevano a un’accurata spartizione delle cariche dell’apparato statale e dell’economia pubblica sulla base del rispettivo peso elettorale (la cosiddetta Proporz), dando così vita a un sistema destinato a sopravvivere alla stessa coalizione governativa. A metà degli anni Sessanta la mutata situazione interna e internazionale poneva le premesse per l’apertura di una maggiore dialettica politica; con la conquista della maggioranza assoluta nelle elezioni del 1966 l’ÖVP poté porre termine all’esperienza della grande coalizione e formare un governo monocolore presieduto da J. Klaus. Nel 1970 la vittoria della SPÖ (maggioranza relativa) consentiva la formazione di un governo socialista minoritario guidato da B. Kreisky. Questi indisse elezioni anticipate e, conquistata la maggioranza assoluta (1971) sulla base di un programma di riforme, diede inizio a una lunga fase di egemonia socialista, confermata dalle elezioni legislative del 1975 e del 1979 e dalle presidenziali del 1974 e del 1980 (entrambe vinte dal candidato della SPÖ R. Kirchschläger). I governi presieduti da Kreisky perseguirono un’espansione della spesa sociale e dell’occupazione, una maggiore “democrazia economica”, un allargamento dei diritti civili; in politica estera, il tradizionale neutralismo dell’Austria – che trovò fra l’altro un riconoscimento internazionale nell’elezione dell’ex ministro degli Esteri K. Waldheim a segretario generale dell’ONU (1972-82) – si caratterizzò in senso più attivo e fu accentuata, in particolare, l’attenzione per la questione mediorientale e l’apertura verso il mondo arabo e la resistenza palestinese. Principali partners economici dell’Austria rimasero Repubblica Federale di Germania e Italia, ma furono sviluppati anche i rapporti con gli altri paesi della CEE (accordo di libero scambio, 1972), con l’URSS e con diversi paesi dell’Europa orientale. Nelle elezioni dell’aprile 1983 la SPÖ perse la maggioranza assoluta dei voti, mentre la ÖVP ottenne un leggero incremento a spese del piccolo Partito liberale (Freiheitliche Partei Österreichs). Dopo tredici anni Kreisky dava le dimissioni dalla carica di cancelliere (aprile) e il suo successore, F. Sinowatz, formava (maggio) un gabinetto di coalizione tra socialisti e liberali, il primo del genere nella storia della repubblica. Negli anni successivi la SPÖ subiva un certo logoramento, anche per il condizionamento esercitato sul governo dai liberali, mentre sempre maggior rilievo assumevano, in concomitanza con la crescita del movimento verde, le tematiche ambientali. Un danno all’immagine internazionale dell’Austria arrecava nel giugno 1986 l’elezione alla presidenza della repubblica dell’ex segretario generale dell’ONU e candidato indipendente dell’ÖVP, Waldheim, accusato nei mesi precedenti di essere coinvolto in atrocità naziste commesse durante la guerra. Dopo le dimissioni di Sinowatz e la formazione (giugno) di un nuovo gabinetto social-liberale, presieduto dal socialista F. Vranitzky, la coalizione di governo andava in crisi in settembre, quando un congresso straordinario della FPÖ sanciva la vittoria della sua ala nazionalista di destra e l’avvento del leader di quest’ultima, J. Haider, alla testa del partito. Le successive elezioni anticipate del novembre 1986 vedevano una flessione dei socialisti e dei popolari e un notevole successo dei liberali e dei verdi (che per la prima volta entravano nel Nationalrat); a seguito di lunghe trattative SPÖ e ÖVP davano infine vita, dopo oltre vent’anni, a un governo di “grande coalizione”, ancora presieduto da Vranitzky. Questi condusse una politica di contenimento della spesa pubblica e di parziali privatizzazioni, mentre in campo internazionale, con la fine del blocco sovietico, l’Austria avviava una ridefinizione della propria neutralità (nel novembre 1990 dichiarava non più applicabili alcune clausole del Trattato di stato) e nel 1989 faceva richiesta di ammissione alla CEE. Nuove tensioni sociali provocava l’afflusso di immigrati dall’Europa orientale e la crescita delle tendenze xenofobe rafforzava la FPS di J. Haider: nelle elezioni dell’ottobre 1990 questa più che raddoppiava la sua presenza parlamentare ai danni della ÖVP (che conseguiva il peggior risultato dal 1945), mentre un limitato successo ottenevano verdi e socialisti. La “grande coalizione” veniva comunque confermata (dicembre 1990), ancora sotto la direzione di Vranitzky. Dopo la vittoria del popolare Th. Klestil nel secondo turno delle elezioni presidenziali, svoltesi nell’aprile-maggio 1992, la netta affermazione dei sì nel referendum del giugno 1994 sull’adesione dell’Austria all’Unione Europea, avversata dalla FPÖ, sembrò confermare il sostegno popolare alle scelte di politica estera della compagine governativa. Le elezioni, tenutesi nell’ottobre dello stesso anno, segnarono, però, la sconfitta della coalizione di governo (SPÖ da 81 a 66 seggi e ÖVP da 60 a 52 seggi) e l’affermazione della FPÖ (42 seggi), dei verdi (13 seggi) e di LF (10 seggi). Nonostante la perdita di consensi SPÖ e ÖVP formarono un nuovo gabinetto di coalizione che apparve immediatamente contrassegnato da forti contrasti interni, soprattutto riguardo alle misure di contenimento della spesa pubblica e di riforma dello stato sociale, e che non riuscì a evitare il ricorso a nuove elezioni. Svoltesi nell’ottobre del 1995, le consultazioni anticipate portarono a una relativa affermazione delle forze di governo (SPÖ 71 seggi, ÖVP 53) e a una flessione dei verdi, confermarono la sostanziale tenuta della destra e condussero a un nuovo governo ancora composto da SPÖ e ÖVP e guidato, come il precedente, da Vranitzky. Nell’ottobre 1996, le prime elezioni europee successive all’ingresso dell’Austria nell’UE (1°gennaio 1995), rappresentarono una netta indicazione di sfiducia nei confronti del primo ministro e in particolare della SPÖ, che per la prima volta perse la maggioranza relativa divenendo il secondo partito del paese dopo la ÖVP, e registrarono il netto successo dei liberali di Die Freiheitlichen, nuova denominazione assunta dalla FPÖ. Nel gennaio 1997, per dissensi riguardo alla privatizzazione di un’importante banca, Vranitzky si dimise dalla carica di cancelliere, che fu assunta, alla guida di un governo formato da SPÖ e ÖVP, dal socialdemocratico V.Klima. [32411] Dall’inizio dell’era cristiana i Lapponi, primi abitanti del territorio, furono lentamente sospinti verso nord dalle migrazioni di popolazioni finniche che occuparono stabilmente la regione compresa tra il Golfo di Botnia e il Mar Bianco, disponendosi prevalentemente nelle zone orientale e meridionale; tra queste, i Kvani (Kainulaiset) sulla riva del Golfo di Botnia, i Tavasti (Hämäläiset) attorno ai laghi interni, i Suomi (Varsinais Suomalaiset) a sud-ovest, i Careli (Karjalaiset) attorno ai laghi Onega e Ladoga. Le tribù, collettivamente chiamate Suomi, si organizzarono in un’ampia rete di fattorie, senza dar luogo a centralizzazione politica e restando esposte alle iniziative politico-militari di Svedesi e Russi che a lungo furono determinanti per i destini del territorio. Già presenti all’incirca dal 6° secolo colonie di commercianti svedesi installatisi attraverso l’arcipelago di Åland nella zona meridionale, l’inizio del predominio svedese si ebbe con Erik IX il Santo, re di Svezia, attorno al 1157, ed ebbe un carattere di crociata che venne rafforzato dalla Chiesa nel 13° secolo, allo scopo di contrastare i Russi di Novgorod, che stavano operando la conversione della Carelia al cristianesimo ortodosso. Ma la conquista politica del territorio avvenne successivamente: nel 1293 gli Svedesi si spinsero a costruire un avamposto fortificato a Viborg (finnico Viipuri), che i Russi consideravano proprio territorio; la rivalità che ne derivò si concluse con la pace di Pähkinälinna (sved. Nöteborg, oggi Petrokrepost’, in Russia), nel 1323, che stabiliva il confine orientale della Finlandia dall’Istmo di Carelia al Golfo di Botnia, a sud di Oulu, e ne sanciva l’appartenenza al regno di Svezia: nel corso del 14° secolo furono introdotti il diritto e l’amministrazione svedesi, e la Finlandia poté partecipare dal 1362 all’elezione del re. La colonizzazione portò al formarsi di una struttura sociale a carattere feudale e di una rete di agglomerati urbani che costituirono la base dell’organizzazione amministrativa, al cui vertice era un membro della famiglia reale (col titolo di duca di Finlandia) e i cui quadri militari provenivano dalla nobiltà svedese. Struttura rilevante fu anche la Chiesa, rappresentata dal vescovo di Turku (sved. Åbo), che aderì nel 1520 alla Riforma; nel 1548, con la versione del Nuovo Testamento del vescovo Michele Agricola, la Chiesa diede avvio alla tradizione letteraria nazionale. I secoli tra il 16° e il 19° furono caratterizzati da una serie di conflitti sociali, dinastici e nazionali che minarono la stabilità politica e il predominio svedese; in particolare, furono decisive le guerre contro la Russia che, a partire dal 18° secolo, da un lato ridimensionarono in favore dei Russi i confini finnici della Svezia (già uscita indebolita dalla guerra nordica del 1700-21 e ulteriormente penalizzata dal trattato di Turku, che poneva fine alla guerra del 1741-43), dall’altro si accompagnarono alla nascita del nazionalismo finlandese, sollecitato altresì dalla ripresa della tradizione letteraria finnica. Il tempo lavorava contro la Svezia e, indirettamente, in favore della Russia: la guerra del 1788-90 rafforzò infatti il movimento indipendentista, mentre la guerra napoleonica del 1808 si concludeva con la rescissione del plurisecolare legame con la Svezia e la Finlandia veniva ammessa come granducato all’impero russo, pur con la concessione di una larga autonomia da parte dello zar Alessandro I (trattato di Hamina, sved. Fredrikshamn, 1809). La politica russa rese al granducato di Finlandia le terre cedute dalla Svezia nel 18° secolo e trasferì la capitale da Turku a Helsinki (1812); essa inoltre consentì il mantenimento della costituzione (che era di fatto la costituzione svedese del 1772, emendata nel 1789) e della dieta (formata da quattro stati), nonché lo sviluppo di un’organizzazione amministrativa a base nazionale benché di nomina imperiale, favorendo la formazione di un’identità nazionale finlandese che venne ulteriormente rafforzata dalla graduale legittimazione della lingua finnica, a pari diritto con lo svedese che era rimasto l’unico idioma consentito nella burocrazia e il più diffuso nella classe dirigente. [32421] La maturazione di un’identità nazionale permise alla Finlandia di opporre resistenza alla politica di russificazione inaugurata negli ultimi anni dell’Ottocento dallo zar Alessandro III; in questo quadro di tensioni etniche, dopo la stretta repressiva del 1899, il grande sciopero del 1905 portò all’istituzione di un moderno parlamento eletto a suffragio universale, che divenne di fatto organismo di autogoverno sulla prospettiva dell’indipendenza nazionale. Fu la rivoluzione bolscevica l’occasione per l’unilaterale proclamazione dell’indipendenza (6 dicembre 1917); questa, pur riconosciuta dal governo sovietico, fu seguita da una violenta contrapposizione politica interna tra Bianchi e Rossi, rispettivamente sostenuti da Tedeschi e Sovietici, che sfociò in una sanguinosa guerra civile, terminata con la vittoria dei Bianchi nel maggio 1918. Caduta con la sconfitta della Germania l’ipotesi di uno stato monarchico filotedesco, il 17 febbraio 1919 fu proclamata la costituzione repubblicana che, con alcuni emendamenti, è tuttora in vigore. Nel ventennio tra le guerre mondiali, la politica interna fu segnata da forti tensioni che videro, specie tra gli anni Venti e i Trenta, l’affermazione di un forte movimento antidemocratico di destra e la messa fuori legge del Partito comunista; in politica estera, la Finlandia seguì una linea di neutralità, intensificando i contatti con i paesi scandinavi. Già iniziata la seconda guerra mondiale, la Finlandia resistette alle richieste territoriali sovietiche (cessione della Carelia, della Penisola dei Pescatori, concessioni delle basi militari nella Baia di Hankö) e fu pertanto attaccata dall’URSS il 30 novembre 1939. La Finlandia si difese strenuamente – adottando una strategia di logoramento e sfruttando la natura del terreno e le fortificazioni sull’Istmo di Carelia – ma l’avanzata sovietica (19 gennaio - 2 marzo 1940) portò alla caduta di Viipuri, chiave della Finlandia meridionale, e alla pace di Mosca (marzo 1940). Alleata della Germania, con propositi di rivincita, la Finlandia entrò in guerra con l’URSS nel giugno 1941 e in capo a cinque mesi di combattimenti, coadiuvati da due corpi d’armata tedeschi, i Finlandesi riuscirono ad occupare buona parte della Carelia, stabilizzando il fronte ai primi del dicembre 1941. Le operazioni militari ripresero nella primavera 1944 per iniziativa dei Sovietici, che riconquistarono tutto il territorio perduto nel 1941, compresa Viipuri, costringendo la Finlandia all’armistizio del settembre 1944; con la pace di Parigi (10 febbraio 1947), la Finlandia – oltre a dover pagare pesanti riparazioni – dovette cedere all’URSS il territorio di Petsamo (per cui veniva esclusa dal Mar di Barents), l’Istmo di Carelia, il territorio a nord del Lago Ladoga (con le città di Viipuri e Sortavala) e una fascia di territorio lungo il confine orientale (saliente del Salla); inoltre, dovette concedere in fitto ai Sovietici la base navale di Porkkala, presso Helsinki. Sul piano della politica internazionale, dal dopoguerra la Finlandia ha seguito da un lato una linea di stretta neutralità tra i blocchi, associandosi ai paesi scandinavi attraverso il Consiglio nordico (costituito nel 1952, la Finlandia vi ha aderito nel 1955: l’anno stesso veniva ammessa come stato membro delle Nazioni Unite); dall’altro è stato rilevante il rapporto con un vicino quale l’URSS (divenuta anche il maggior partner negli scambi commerciali), con cui la Finlandia ha sempre mantenuto impegnative relazioni diplomatiche; tra i due stati fu sottoscritto nel 1948 un patto decennale di amicizia, cooperazione e mutua assistenza, che venne rinnovato con scadenza ventennale nel 1955 (in quell’occasione i Sovietici restituirono la base di Porkkala) e, nuovamente in anticipo sulla scadenza, nel 1970 e nel 1983. Sul piano della politica interna, dopo la seconda guerra mondiale si sono alternate al governo coalizioni di partiti, ora di centrodestra ora di centrosinistra (spesso instabili e di breve durata a motivo del gran numero delle forze politiche, senza che ciò mettesse peraltro in discussione il quadro istituzionale), nella maggioranza dei casi comprendenti i due maggiori partiti – l’Unione agraria (dal 1965 Partito di centro) e il Partito socialdemocratico finlandese – ai quali si sono associati alternativamente la Lega democratica del popolo finnico (cartello elettorale permanente inaugurato nel 1944, comprendente comunisti e sinistra socialdemocratica) e, più raramente, il Partito di coalizione nazionale. Nell’immediato dopoguerra ebbero particolare risalto i problemi relativi alla ricostruzione e alla riconversione industriale, accentuati dalle forti spese per le riparazioni e dall’immigrazione di circa trecentomila abitanti provenienti dalla Carelia ceduta ai Sovietici. Alle dimissioni del presidente C. G. Mannerheim (1946), seguì l’elezione di J. K. Paasikivi, durante i cui mandati fu elaborata la linea di politica estera alla quale il paese si sarebbe ispirato anche negli anni successivi (chiamata linea Paasikivi-Kekkonen per il contributo del successivo presidente, già più volte primo ministro nella prima metà degli anni Cinquanta). Nel 1948, allorché emersero le trame di un colpo di stato comunista, una crisi politica di una certa gravità portò alle dimissioni del ministro dell’Interno, comunista. Nel 1956 U. K. Kekkonen assunse per la prima volta la presidenza della repubblica. Una nuova grave crisi politica si ebbe nel 1958, allorché la formazione del governo provocò tensione diplomatica con l’URSS che riteneva antisovietici alcuni dei suoi membri. Dopo Kekkonen assunse la presidenza M. Koivisto (1982-94), socialdemocratico già capo del governo. Nel 1994 diveniva presidente il socialdemocratico M. Ahtisaari. Le consultazioni del marzo 1995 segnarono quindi la sconfitta del Partito di centro, che ottenne 44 seggi contro 63 del Partito socialdemocratico, 39 del Partito della coalizione nazionale e 22 dell’Alleanza di sinistra; queste tre formazioni diedero vita a un nuovo esecutivo, presieduto dal socialdemocratico P. Lipponen e comprendente anche il Partito popolare svedese e i Verdi. Sul piano della politica estera, la Finlandia proseguì nella sua scelta di neutralità e svolse in questi anni un ruolo attivo nelle iniziative per il disarmo e la distensione internazionale, prima mantenendo buoni rapporti con l’Unione Sovietica, poi stipulando, nel gennaio 1992, un trattato di amicizia di durata decennale con la Russia. La Finlandia entrò a far parte dell’Unione Europea il 1° gennaio 1995, dopo l’esito positivo di un referendum svoltosi nell’ottobre 1994 (56,9% dei votanti si pronunciò a favore dell’adesione). [32511] Della Svezia è fatta già menzione dagli autori latini: Tacito ricorda le stirpi degli Svioni (Suiones), più tardi Giordane e Procopio nominano altre genti di quella terra: gli Svioni (Svear) nella provincia di Uppsala; i Gauti a sud del Lago Vänern; gli Skridfinni nella Svezia settentrionale. Popolata da diverse stirpi nel periodo delle migrazioni germaniche, e suddivisa in vari piccoli regni indipendenti, la Svezia acquistò una certa unità nei secoli successivi, allorché i re degli Svear estesero a poco a poco il loro dominio su tutta la Svezia, sulle rive del Mar Baltico e sulle isole baltiche. A tale opera di unificazione contribuirono fattori di carattere religioso ed economico. A Uppsala vi era infatti un grande tempio pagano, noto in tutto il Nord, e su un’isola del Lago Mälaren era sorta la città di Birka, importante centro di transito commerciale verso l’odierna Russia e l’Oriente arabo. Questa fioritura commerciale decadde intorno al 1000, con la fine delle spedizioni vichinghe. Legami sempre più intensi furono quindi stretti con l’Europa, e il cristianesimo cominciò a diffondersi nel paese, dove si affermò definitivamente soltanto nel 1089, trionfando su un estremo tentativo di reazione pagana. Nel secolo 12° il potere dei re, già di per sé molto disorganico per l’estesa autonomia delle assemblee popolari (ting) delle singole province, si ridusse ancora di più per le continue lotte tra i pretendenti alla successione al trono: dalla metà del secolo 12° si contesero infatti la corona i discendenti del re Sverker e quelli di Erik il Santo. Tale stato di cose conferì una posizione sempre più importante alla dignità dello jarl, che, da comandante della flotta quale era in origine, assunse prerogative sempre più estese fino a diventare il vero e proprio responsabile della politica del regno. In massima parte gli jarl appartennero alla famiglia dei cosiddetti Folkungar e l’esercizio del potere regio rese ad essi facile la loro personale ascesa sul trono nel 1250 con Valdemaro (1250-75), il cui padre, Birger jarl, resse effettivamente il governo fino alla morte (1266). La dinastia dei Folkungar conservò la corona per un secolo. Valdemaro fu deposto dal proprio fratello, Magnus Ladulås (1275-90), che, appoggiandosi alla Chiesa da lui dotata di molti privilegi, lottò accanitamente contro gli aristocratici, ai quali peraltro conferì una più attiva partecipazione all’azione di governo mediante herredag (assemblee aristocratiche) e l’istituzione del Consiglio del regno. Morto Magnus, essendo ancora minorenne il figlio Birger, il governo fu retto da uno dei nobili, Torgils Knutsson. Gli aristocratici, nuovamente influenti, si fecero fautori di una politica di espansione territoriale, soprattutto verso la Finlandia. Giunto alla maggiore età Birger, Torgils Knutsson non volle cedere il potere e fu perciò rovesciato da una congiura, ordita nel 1305 dai fratelli del re legittimo, che successivamente esclusero dalla successione anche Birger. I due fratelli, Erik e Valdemaro, si spartirono il paese, ma alcuni anni dopo, nel 1317, Birger riprese il sopravvento e li fece morire in prigione. I fautori dei due fratelli, ribellatisi, costrinsero Birger a lasciare la Svezia e il figlio minore del duca Erik, Magnus Eriksson, fu eletto re nel 1319. La sua politica antiaristocratica gli alienò le simpatie di coloro che l’avevano eletto. Una prima ribellione del proprio figlio, Erik Magnusson, portò allo smembramento del regno in due parti, e successivamente, morto Erik, alla chiamata di Alberto di Meclemburgo, proclamato re nel 1363. In seguito alla successiva rottura dei rapporti di costui con l’aristocrazia, i nobili si rivolsero a Margherita, reggente della Danimarca e della Norvegia, vedova di re Haakon VI, figlio minore di Magnus Eriksson. Costei, vittoriosa in battaglia a Falköping (1389), divenne signora della Svezia e riunì nell’unione di Kalmar i tre regni nordici, dei quali Erik di Pomerania, nipote di Margherita, fu eletto re. L’Unione, fin dall’inizio, non riuscì di particolare gradimento agli Svedesi, perché Erik di Pomerania, in continua guerra contro le città anseatiche e i principi della Germania settentrionale, opprimeva fiscalmente ed economicamente il regno. L’interesse personale del sovrano era incompatibile con quello degli Svedesi i quali, nel 1434, sotto la guida di Engelbrekt Engelbrektsson, si ribellarono. Nel 1435 Engelbrekt convocò il primo Riksdag, sorta di assemblea nazionale nella quale erano rappresentati i vari ordini della società svedese (clero, nobiltà, contadini e artigiani), dal quale fu proclamato reggente. Dopo l’assassinio di Engelbrekt (1436), la rivolta si esaurì e si trasformò da movimento popolare in lotta delle aristocrazie svedese e danese contro Erik. Il partito dell’Unione ebbe ancora il sopravvento quando, detronizzato Erik, Cristoforo di Baviera fu eletto re in tutti e tre i paesi nordici (1440). Alla sua morte (1448) fu eletto re di Spagna Carlo Knutsson, che rimase sul trono, tranne qualche interruzione, fino al 1470. Knutsson, capo del partito contrario all’Unione, ebbe a sostenere lunghe lotte con i fautori aristocratici dell’Unione, che nel 1457, cacciatolo dal trono, elessero re Cristiano I di Danimarca. L’Unione fu però di breve durata. Sorsero dissapori tra gli aristocratici e il nuovo re, e Knutsson ne approfittò per ritornare al potere. Alla sua morte (1470), Cristiano I tentò di riprendere la corona, ma i suoi sforzi riuscirono vani a causa della dura sconfitta subita presso Brunkeberg (1471) da parte degli Svedesi condotti da Sten Sture il Vecchio, reggente del regno fino al 1503, con un’interruzione dal 1497 al 1501, quando Giovanni, re di Danimarca e successore di Cristiano I, ebbe la corona svedese, illudendosi di essere riuscito a ricostituire l’Unione. Neppure la morte di Sten Sture favorì il ritorno di Giovanni, perché il Riksdag procedette subito all’elezione di un nuovo reggente nella persona di Svante Nilsson (1503-12) e, successivamente, di Sten Sture il Giovane (1512-20). Tra quest’ultimo e l’arcivescovo Gustav Trolle, schierato come gran parte del clero locale dalla parte dell’Unione e dei Danesi, scoppiò un durissimo conflitto. La lotta si concluse con la sconfitta e la morte di Sten Sture nel 1520. Cristiano II di Danimarca, conquistata Stoccolma, celebrò la sua vittoria mandando a morte più di ottanta persone, che avevano avversato l’arcivescovo (il “bagno di sangue” di Stoccolma, Stockholms blodbad). Nello stesso anno Gustavo Eriksson Vasa diede allora inizio a una rivolta contro i Danesi; il movimento si propagò celermente in tutta la Svezia: eletto re dal Riksdag il 7 giugno del 1523, Gustavo Vasa conquistò con l’aiuto di Lubecca la capitale e cacciò i Danesi dal paese. La guerra dell’indipendenza aveva ridotto la Svezia in condizioni disastrose, aggravate da una larvata forma di vassallaggio finanziario verso Lubecca, il cui aiuto era stato concesso a Gustavo a condizioni onerose, lesive del prestigio politico del regno sotto l’aspetto commerciale. Re Gustavo I (questo è il nome con il quale passò alla storia) diede l’avvio a un ampio programma di risanamento finanziario mediante nuove imposte e l’incameramento dei beni dell’alta aristocrazia e della Chiesa e favorì il diffondersi della Riforma. La sudditanza verso Lubecca terminò nel 1537, dopo la guerra condotta da Gustavo, in alleanza con Cristiano III di Danimarca, contro la potente città anseatica. Negli anni successivi Gustavo si preoccupò di adottare misure atte a impedire, alla sua morte, lo smembramento del regno tra i figli: raggiunse lo scopo con la proclamazione della monarchia ereditaria, secondo il diritto di primogenitura, nel Riksdag di Västerås nel 1544 e con il giuramento di fedeltà da parte degli ordini al principe ereditario Erik nel giugno 1560, pochi mesi prima della morte. [32521] Il nuovo sovrano, Erik XIV, nel 1561 estese la sovranità svedese su Reval e su parte dell’Estonia; in seguito, per motivi commerciali, scoppiò una guerra con la Polonia, la Danimarca e Lubecca (guerra nordica dei Sette anni), durante la quale il re diede segni sempre più evidenti di squilibrio mentale. Nel 1568 i fratelli Giovanni e Carlo, postisi a capo di un movimento di rivolta, rovesciarono il sovrano. L’ascesa al trono di Giovanni (Giovanni III) favorì la fine della guerra dei Sette anni, essendo sua moglie Caterina Iagellone, sorella di Sigismondo II re di Polonia. Un aspro conflitto confessionale scoppiò dopo la morte di Giovanni, con la successione al trono, nel 1592, del figlio Sigismondo, educato nella religione cattolica e re di Polonia fin dal 1587. Lo zio di Sigismondo, il duca Carlo, fervente protestante, approfittò subito della lontananza del nuovo sovrano per convocare nel 1593 un concilio ad Uppsala, in cui fu abrogata la liturgia filocattolica fatta adottare nel 1576 da Giovanni III e fu riconosciuta la confessione augustana. Sigismondo promise di rispettare tale mutamento, ma la sua pretesa di voler governare la Svezia da Varsavia attraverso luogotenenti facilitò i piani di Carlo, che nel Riksdag di Söderköping (1595) si fece eleggere reggente. Scoppiata la guerra tra zio e nipote, quest’ultimo ebbe la peggio e fu dichiarato decaduto dal trono (1599). Nel Riksdag di Norrköping (1604) Carlo fu eletto re; alla sua morte nel 1611, lasciò in eredità al proprio figlio e successore Gustavo II Adolfo un regno in condizioni assai critiche, in guerra con la Polonia e, dal 1611, anche con la Danimarca. Gustavo Adolfo concluse nel 1613, con non lievi sacrifici economici, la pace con la Danimarca, quindi mosse guerra alla Polonia, occupò la Livonia e si insediò stabilmente nella Prussia orientale. Con l’armistizio di Altmark (1629) creò le premesse per assicurare alla Svezia l’egemonia sul Mar Baltico. Il conflitto svedese-polacco fu tuttavia solo una fase della lotta tra il cattolicesimo e il protestantesimo, che allora divampava nell’Europa centrale. La partecipazione della Svezia alla guerra dei Trent’anni divenne inevitabile dopo la vittoriosa campagna della Lega cattolica e degli Imperiali contro la Danimarca. Sbarcato nel 1630 in Pomerania, Gustavo II Adolfo penetrò in Germania, assunse la direzione del protestantesimo tedesco e ottenne la vittoria nella battaglia di Breitenfeld (1631) e in quella di Lützen (1632), nella quale trovò però la morte; i frutti della sua azione militare e politica furono innegabili: grazie a lui la Svezia era diventata una delle massime potenze europee, mentre, sul piano della politica interna, egli attuò molte riforme, che modificarono radicalmente gli istituti tradizionali. L’aristocrazia cessò di essere una classe nello stato, spesso in opposizione al monarca, per costituire invece l’intelaiatura fondamentale della pubblica amministrazione. Il Consiglio di stato divenne un organo permanente, composto di esperti funzionari, con sede a Stoccolma. L’importanza di queste riforme interne apparve subito evidente alla morte di Gustavo II Adolfo, quando Axel Oxenstierna, cancelliere del regno e capo della reggenza, riuscì a mantenere intatto e a rafforzare il prestigio politico della Svezia, priva di un re maggiorenne. Durante la minorità della regina Cristina la guerra continuò in Germania, e nel 1645 (pace di Bromsebro con la Danimarca) e nel 1648 (pace di Vestfalia) il peso politico della Svezia negli affari europei venne definitivamente sanzionato. Cristina abdicò nel 1654 in favore del cugino Carlo X Gustavo, le cui doti militari rifulsero particolarmente in nuove guerre contro la Polonia e la Danimarca. Per merito suo la Scania, fino allora danese, divenne parte integrante della Svezia con la pace di Roskilde (1658). Dopo la sua morte prematura (1660), una nuova reggenza dovette concludere nuovi accordi con la Danimarca, che il sovrano aveva aggredita, poco prima della morte, con risultati parzialmente negativi: alcuni acquisti territoriali della pace di Roskilde (Bornholm e parte della Norvegia) dovettero essere restituiti alla Danimarca. La Scania tuttavia rimase svedese, né la Danimarca poté recuperarla con una nuova guerra (1676-79). Carlo XI, raggiunta la maggiore età nel 1672, assunse il governo in una situazione poco piacevole per il pessimo stato delle finanze, depauperate a motivo delle guerre; mancando di denaro e crediti sufficienti, la corona era stata infatti costretta, nel corso del secolo 17°, a cedere la maggior parte delle terre demaniali e dei suoi beni ai nobili, che di conseguenza avevano visto crescere il loro potere politico a scapito di quello del re. Carlo XI ricorse a riforme radicali, che migliorarono la situazione finanziaria e riattribuirono alla monarchia un potere quasi assoluto: la cosiddetta riduzione dei beni decisa dal Riksdag (1680) costrinse la nobiltà a restituire alla corona tutti i beni ottenuti durante il secolo 17° per donazione o acquisto. Nel 1700, la comune opposizione di Russia, Danimarca, Sassonia e Polonia alla supremazia svedese nel Baltico portò allo scoppio della seconda guerra del Nord, nella quale il figlio di Carlo XI, Carlo XII, fu impegnato per quasi tutta la durata del suo regno (1697-1718). Dopo alterne vicende, la guerra volse nettamente a sfavore della Svezia: essa dovette infatti subire forti perdite territoriali, sanzionate dai trattati di Stoccolma (1720) con Danimarca, Sassonia, Brandeburgo e Hannover (questi ultimi due entrati nella coalizione antisvedese nel 1714) e da quello di Nystad con la Russia (1721), che segnarono il definitivo declino della preponderanza svedese nel Baltico. La lunga guerra e la sconfitta comportarono anche la fine dell’assolutismo reale. Nel 1719 il Riksdag rifiutò di riconoscere la sorella di Carlo XII, Ulrica Eleonora, come monarca per diritto ereditario, eleggendola regina solo dietro promessa che essa avrebbe regnato secondo una costituzione approvata dal Riksdag stesso. Nel 1720 Ulrica Eleonora abdicò in favore del marito Federico d’Assia, sotto il cui regno (1720-51) la Svezia si dotò di una forma di governo rigidamente parlamentare: le leggi costituzionali del 1720-23 privarono in pratica il sovrano di ogni potere, a beneficio del Riksdag. Per circa un ventennio la vita politica fu dominata da Arvid Horn, presidente della cancelleria, che si adoperò per la ripresa economica del paese, conducendo una politica estera prudente, soprattutto nei confronti della Russia. Incontrata una crescente opposizione da parte del partito dei cosiddetti hattar (“cappelli”), che si organizzò a partire dal 1730 invocando una politica estera più decisa verso la Russia e un più rigido mercantilismo, Horn dovette dimettersi (1738); gli hattar giunsero al potere e, fedeli al loro programma, nel 1741 dichiararono guerra alla Russia. Pur sconfitta, con la pace del 1743 la Svezia subì solo limitate cessioni territoriali in Finlandia, poiché l’anno precedente il Riksdag aveva accettato di eleggere come successore al trono Adolfo Federico di Holstein-Gottorp, favorito dell’imperatrice di Russia, Elisabetta. Mantenutisi al governo anche dopo l’ascesa al trono di Adolfo Federico (1750-71), gli hattar strinsero un’alleanza con la Francia, conducendo la Svezia nella dispendiosa guerra dei Sette anni contro la Prussia (1757-62); i costi del conflitto e il fallimento della politica economica trascinarono il paese al collasso finanziario; se ne avvantaggiò il partito avversario dei cosiddetti mössor (“berretti”), che nel 1765 riuscì a prevalere. A causa dell’aggravarsi della crisi economica, nel 1769 i mössor dovettero però cedere di nuovo il governo agli hattar. La lotta tra i due partiti aveva ridotto la Svezia a oggetto della politica europea; le due fazioni rappresentavano infatti nel paese i contrastanti interessi delle potenze europee (i mössor quelli della Russia, della Gran Bretagna e della Danimarca, gli hattar quelli della Francia) dalle quali erano sovvenzionate. Nel 1772 il nuovo re, Gustavo III, riuscì a imporre una nuova costituzione, che riaffermava l’autorità del sovrano rispetto al Riksdag; immancabile fu il formarsi di un’opposizione contro questa forma di autocrazia. Gustavo III credette di poter allontanare il malcontento mediante una vittoriosa guerra contro la Russia, ma molti ufficiali svedesi preferirono far causa comune col nemico contro il proprio sovrano. Per venire a capo dell’opposizione, in massima parte formata dai nobili, il re si appoggiò agli altri ordini del Riksdag e nel 1790 riuscì a concludere con la Russia una pace che ristabilì lo statu quo. [32531] Nel 1792 Gustavo III cadde vittima di una congiura di nobili; il figlio, Gustavo IV Adolfo, divenuto re al raggiungimento della maggiore età (1800), si fece promotore di una grande riforma agraria: sciolto l’antico sistema del comune rurale, la riforma stabilì che i possedimenti dei contadini fossero costituiti da appezzamenti contigui. Meno fortunata fu la sua politica estera, che sfociò in una nuova guerra con la Russia, conclusasi con una sconfitta (1808). Ispirato dall’esercito, che sperava di ottenere dalla Russia condizioni di pace più clementi, il Riksdag detronizzò il monarca, eleggendo al suo posto lo zio, Carlo XIII (1809), e nominando principe ereditario il maresciallo francese J.-B. Bernadotte (1810). Nel 1809 fu anche promulgata una nuova costituzione, basata su una rigida separazione dei poteri. Il rivolgimento interno non alleviò tuttavia le condizioni di pace poste dalla Russia: la Finlandia divenne un granducato autonomo, soggetto alla sovranità dello zar. Il principe ereditario, assunto il nome di Carlo Giovanni, divenne ben presto il vero artefice della politica svedese; alla ricerca di un compenso per la perdita della Finlandia, promosse l’adesione del paese alla coalizione antinapoleonica, con l’assicurazione dell’acquisto della Norvegia. Quest’ultima, riconosciuta regno indipendente, nel 1814 costituì un’unione con la Svezia, dopo formale atto di cessione da parte della Danimarca, che vi aveva esercitato fino ad allora la propria sovranità. Carlo Giovanni ascese al trono col nome di Carlo XIV nel 1818 e il suo regno, caratterizzato da una tranquillità pressoché totale, durò sino al 1844. Avanzate riforme liberali in politica interna e in economia furono introdotte da Oscar I (1844-59); in politica estera egli allentò i legami con la Russia e puntò ad assorbire nell’unione svedese-norvegese la Danimarca, tentando di stringere con essa un’alleanza e appoggiando il movimento per l’unità del nord scandinavo, diffusosi verso la metà del secolo 19° fra studenti e intellettuali. Stesso disegno fu coltivato da Carlo XV (1859-72), che promise aiuto militare alla Danimarca, spingendola alla guerra per i Ducati con la Prussia (1864), ma mancò poi alla promessa per l’opposizione del suo stesso governo. Nel 1866 fu introdotta la riforma della rappresentanza: il Riksdag con i suoi 4 stati (nobiltà, clero, borghesia e contadini) fu sostituito da un parlamento bicamerale (denominato sempre Riksdag) eletto su base censitaria (la prima camera veniva eletta dalle corporazioni comunali, la seconda dal voto popolare diretto). Sotto il regno di Oscar II (1872-1907) fu abolita l’imposta fondiaria e si pose mano alla riforma dell’esercito. Dal punto di vista delle condizioni economiche, la fine del secolo 19° costituì per la Svezia un periodo di forte espansione, grazie alla costruzione di linee ferroviarie, la creazione di numerosi istituti di credito, il rinnovamento della tradizionale industria siderurgica (specializzatasi nella produzione dell’acciaio) e il grande incremento nelle esportazioni di legname e dei suoi derivati. Nelle campagne lo sviluppo fu però più lento: la crescita demografica verificatasi nel corso dell’Ottocento contribuì a creare un numeroso proletariato agricolo, cui non rimase altra risorsa, specialmente nel decennio 1880-90, che l’emigrazione in America. Alla crisi delle campagne il governo reagì con l’adozione di misure protezionistiche (1888), mentre tra i contadini si diffondeva il movimento cooperativo; quest’ultimo contribuì, insieme ai sindacati operai, alla nascita del Partito socialdemocratico (1889). [32541] Nei primissimi anni del secolo 20° si costituirono altre due importanti formazioni politiche, in seguito all’unione elettorale delle forze liberali (1900) e a quella delle forze conservatrici (1904). Legati alla monarchia e all’esercito, i conservatori tentarono invano di opporsi alla fine dell’unione della Norvegia, la cui indipendenza fu sancita di comune accordo dai due regni con la convenzione di Karlstad (1905). Durante il regno di Gustavo V, salito al trono nel 1907, fu affrontato il problema dell’allargamento del suffragio: la riforma costituzionale del 1909 abbassò il censo per l’eleggibilità alla prima camera e introdusse per la seconda il suffragio universale maschile. La crisi della prima guerra mondiale raggiunse solo di riflesso il paese, rimasto neutrale tra i due blocchi in lotta. Nel 1918 il processo di democratizzazione fu completato con l’estensione del suffragio alle donne, mentre, sul piano delle conquiste sociali, fu introdotta la giornata lavorativa di otto ore. Al potere col sostegno dei socialdemocratici (1920-26), quindi dei conservatori (1926-32), i liberali non poterono impedire il crollo delle esportazioni e l’aumento della disoccupazione, soprattutto nel settore primario, conseguenti alla crisi economica internazionale del 1930; dopo le elezioni del 1932 il governo fu pertanto assunto dal Partito socialdemocratico, da allora ininterrottamente al potere sino al 1976; guidati da Per Albin Hansson, i socialdemocratici si imposero con un programma che prevedeva un maggior intervento dello stato in campo economico e sociale; ottenuta la maggioranza assoluta dei seggi nelle elezioni del 1936, i socialdemocratici, sostenuti dal Partito agrario (nato nel 1910), attuarono la loro politica di sostegno all’occupazione e all’agricoltura mediante un forte aumento della pressione fiscale, e inaugurarono con un accordo del 1938 la prassi della contrattazione collettiva tra organizzazioni padronali e dei lavoratori. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Hansson costituì un esecutivo di unità nazionale, comprendente tutti i partiti politici, che mantenne il paese neutrale; tuttavia, dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca, il governo svedese dovette concedere il diritto di transito alle truppe del Reich dirette in Norvegia. Alla morte di Hansson (1946), la guida del partito e del governo fu assunta da T. F. Erlander, che proseguì l’opera di consolidamento del cosiddetto stato sociale; in politica estera, dopo l’ingresso nell’ONU (1946), nell’OECE (1948) e nel Consiglio d’Europa (1949), la Svezia, fedele alla sua tradizionale neutralità, preferì non aderire alla NATO. [32551] Gli ultimi anni di regno di Gustavo VI Adolfo (salito al trono nel 1950) e i primi del suo successore, Carlo XVI Gustavo (re dal 1973), videro la realizzazione di importanti riforme: nel gennaio 1970 il Riksdag fu trasformato in un’assemblea unicamerale di 350 deputati (portati a 349 nel 1976), il cui mandato venne ridotto da quattro a tre anni; nel 1975 entrò in vigore una nuova costituzione, che ha sottratto al re anche la sua ultima prerogativa politica, la nomina del primo ministro, affidata al presidente del parlamento; infine nel 1979, in ossequio al principio dell’uguaglianza tra i sessi, fu permessa la successione al trono in linea femminile. Guidato dal 1969 da S. O. Palme, il governo socialdemocratico dovette fronteggiare un crescente malcontento per l’elevato livello della tassazione e la crescita di inflazione e disoccupazione, dovuta alle conseguenze della crisi economica internazionale; iniziato nel 1970, il declino elettorale del partito di governo proseguì nel 1973, quando i socialdemocratici, insieme al Partito comunista (nato nel 1921), ottennero lo stesso numero di seggi del cosiddetto blocco borghese, formato da liberali, conservatori e Partito di centro (denominazione dal 1958 degli agrari), culminando infine nella sconfitta, la prima dal 1932, nelle elezioni del 1976. Le coalizioni di governo costituite da allora dai partiti del blocco borghese, guidate rispettivamente dal centrista T. Fälldin (1976-78; 1979-82) e dal liberale O. Ullsten (1978-79), concordi nel perseguire una politica di austerità e di disimpegno dello stato in economia, si mostrarono meno compatte sulla questione del programma energetico da adottare; sul tema fu chiamato a esprimersi l’elettorato, che a maggioranza si pronunciò in un referendum per un’espansione moderata e limitata nel tempo dell’energia atomica (marzo 1980). Le persistenti difficoltà economiche e la scarsa coesione delle forze della maggioranza favorirono il ritorno al potere dei socialdemocratici, vittoriosi nelle elezioni del 1982, del 1985 e del 1988; sostenuto esternamente dai comunisti, un nuovo governo Palme riuscì a contenere l’inflazione e a favorire una certa ripresa economica, senza trascurare la politica di sviluppo dei pubblici servizi e di lotta alla disoccupazione, caratterizzandosi in politica internazionale per alcune iniziative a favore del disarmo e della distensione. Ucciso in un attentato di oscura matrice (febbraio 1986), Palme fu sostituito dal vice premier I. Carlsson, il cui governo raggiunse nel gennaio 1988 un accordo con l’URSS sui limiti delle acque territoriali e sui diritti di pesca nel Baltico, chiudendo una fase di difficili rapporti tra i due paesi, iniziata nei primi anni Ottanta dopo una serie di violazioni delle acque svedesi da parte di sommergibili sovietici. Carlsson impresse una svolta moderata alla tradizionale politica del suo partito, introducendo misure per ridurre la spesa pubblica e l’intervento statale in economia. Simili scelte e le conseguenze della recessione economica che colpì la Svezia a partire dal 1990 determinarono la sconfitta, nelle elezioni del 1991, dei socialdemocratici e del Partito della sinistra (denominazione assunta l’anno precedente dai comunisti) e l’affermazione di una coalizione a guida conservatrice, comprendente anche liberali, centristi ed esponenti del Partito cristiano-democratico (nato nel 1964). Un governo di coalizione, presieduto dal conservatore Carl Bildt, procedette alla privatizzazione delle imprese statali, alla riduzione del prelievo fiscale e a una serie di tagli alle spese sociali, senza riuscire a migliorare le condizioni economiche del paese, né a impedire un aumento della disoccupazione. Nelle elezioni del settembre 1994 per il rinnovo del Riksdag (la cui durata è stata riportata a quattro anni da un emendamento costituzionale), la coalizione conservatrice scese complessivamente da 170 a 148 seggi; i socialdemocratici passarono da 138 a 161, il Partito della sinistra da 16 a 22 e i Verdi (formazione nata nel 1981) ottennero 18 seggi. Nell’ottobre 1994 Carlsson costituì un esecutivo di minoranza, la cui politica di austerità economica, temperata da una redistribuzione del carico fiscale e da iniziative per favorire l’occupazione giovanile, ottenne nell’aprile 1995 il sostegno esterno del Partito di centro. Sul piano dei rapporti internazionali, nel gennaio 1995 la Svezia è entrata a far parte dell’Unione Europea, dopo che il 52% dell’elettorato si era espresso in tal senso in un referendum svoltosi nel novembre 1994. Nel marzo 1996, come preannunciato alcuni mesi prima, Carlsson si dimise dalle sue cariche di governo e di partito, e fu sostituito da Goran Persson. Nel febbraio 1998 il governo ha dato via libera al piano di smantellamento della centrale nucleare di Barsebäck, nel sud del paese, come primo passo per l’uscita definitiva dal nucleare. [33111] Il Consiglio dell’Unione Europea è l’organo decisionale della Comunità Europea ed ha finalità di coordinamento delle politiche economiche generali. Esso esercita un potere legislativo, dispone di competenze di esecuzione e costituisce la sede in cui i quindici Stati membri possono far valere i loro interessi nazionali. È inoltre responsabile della cooperazione intergovernativa degli Stati in ambito di politica estera, di sicurezza comune, di giustizia e di affari interni. Nel settore economico il Consiglio è responsabile del coordinamento e della sorveglianza multilaterale delle politiche nazionali di bilancio. Il rapido aumento delle funzioni della Comunità Europea ha portato alla moltiplicazione dei settori in cui è prevista la partecipazione dell’istituzione, che attualmente si riunisce in oltre venti “consigli settoriali” composti dai ministri competenti per le varie materie. Il Consiglio dell’Unione Europea è composto da un rappresentante di ciascun Stato membro a livello ministeriale, abilitato a impegnare il proprio governo. Le decisioni sono adottate a maggioranza semplice ogniqualvolta non sia espressamente indicato diversamente. In determinate decisioni di rilievo costituzionale oltre all’approvazione unanime è richiesta la ratifica da parte degli Stati membri, in conformità delle loro rispettive norme costituzionali. La presidenza del Consiglio è assunta semestralmente a turno dagli Stati membri. Assistita dalla Segreteria generale, la presidenza prepara i lavori del Consiglio, conduce le discussioni e verifica la possibilità di compromessi tra le nazioni. Le riunioni del Consiglio dell’Unione Europea costituiscono un avvenimento di grande rilievo nella vita politica comunitaria; in quell’occasione i ministri sono accompagnati e assistiti da esperti. Per risolvere problemi di particolare gravità hanno luogo i cosiddetti “Supervertici”, ai quali partecipano i ministri responsabili di più dicasteri di ciascun Stato. Orientato alla ricerca del consenso tra gli Stati membri, il processo decisionale di questa istituzione si svolge su tre distinti livelli, nei quali prevale la ricerca dell’unanimità. Gruppi di lavoro composti da funzionari nazionali sono chiamati a discutere gli aspetti tecnici delle proposte elaborate dalla Commissione europea, per poi trasmettere i testi da loro esaminati al Comitato dei Rappresentanti permanenti, il Coreper, che cerca di risolvere le divergenze di interessi ancora esistenti tra gli Stati e di produrre un testo di delibera per la sessione del Consiglio. [33121] In origine il Consiglio dell’Unione Europea disponeva di un potere esclusivo di decisione in tutti i settori della politica comunitaria e gli erano demandate anche le competenze di esecuzione. Oggi il Consiglio è tenuto a delegare le competenze esecutive alla Commissione europea e a condividere la funzione decisionale con il Parlamento europeo in materie come il bilancio e l’associazione di Stati terzi. Il Parlamento è consultato anche durante il processo legislativo in vari settori, tra i quali la tutela dei consumatori, le reti transeuropee, l’istruzione, la sanità, per i quali è stata introdotta la “procedura di codecisione”, secondo cui la normativa comunitaria è adottata nel contempo da Consiglio e da Parlamento. Nella sfera delle politiche comunitarie il Consiglio può agire soltanto sulla base di una proposta della Commissione. Ad ogni sua riunione prendono parte anche rappresentanti della Commissione, i quali hanno la facoltà di modificare le proposte in qualsiasi momento. Le parti sociali e gli altri gruppi di interesse sono consultati a loro volta attraverso il Comitato economico e sociale, così come le autorità locali attraverso il Comitato delle Regioni. Sulla scia del dibattito sulla trasparenza avviato dopo il Trattato di Maastricht, il Consiglio dell’Unione Europea si è impegnato ad un’informazione più completa sulle sue attività nei confronti dei cittadini, tenendo anche riunioni pubbliche. La normativa europea e gli altri atti adottati dal Consiglio sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, mentre al termine di ciascuna sessione di lavoro sono predisposti i comunicati stampa. Il Consiglio cura inoltre pubblicazioni sulle sue attività, nonché la documentazione sugli eventi importanti dell’evolversi dell’Unione Europea. [33131] Il Consiglio dell’Unione Europea ha sede nell’edificio Justus Lipsius a Bruxelles. Le riunioni dei mesi di aprile, giugno e ottobre si svolgono presso il Centro europeo del Kirchberg a Lussemburgo. Esso consta di due parti distinte e tra loro collegate: il centro conferenze, in cui si svolgono le sessioni del Consiglio, le riunioni del Comitato dei Rappresentanti permanenti e di tutti gli altri gruppi di lavoro e il Segretariato Generale del Consiglio, i cui locali si trovano tutti in un vasto fabbricato amministrativo. Il complesso architettonico è sito sul luogo attraversato un tempo dalla via dedicata a Justus Lipsius (Bruxelles, 1547 – Lovanio, 1606), un illustre umanista fiammingo dotato di conoscenze enciclopediche, grande filologo, editore di testi latini e studioso dello stoicismo antico, che ebbe legami con vari centri dell'Europa del Cinquecento. Reso celebre dai suoi scritti sulla tolleranza, egli cercò di conciliare la “politica” con la “morale”, additando ai governanti quale unica strada da seguire per il bene del proprio Stato la via della “prudenza”. Indirizzo: Rue de la Loi, 175 B-1048 Bruxelles Telefono: (0032) 2 2856111 Indirizzo Internet: http://ue.eu.int/ [33211] La Commissione europea garantisce il funzionamento e lo sviluppo del mercato comune e rappresenta gli interessi dell’Unione Europea. Essa si occupa, inoltre, della concreta attuazione dei Trattati. Dotata di diritto di iniziativa in seno al processo legislativo dell’Unione, fu istituita dopo la ratifica del Trattato di Roma del 1957 con il nome di “Commissione della Comunità economica europea”. Le venne allora affidata l’esecuzione di una serie di compiti concreti che possono essere ricondotti a tre funzioni essenziali: 1) la funzione di iniziativa in seno al processo decisionale della Comunità; 2) la funzione legislativa con la quale emanare atti e concludere accordi internazionali; 3) la funzione amministrativa e di controllo che le conferisce il potere di dare attuazione agli atti comunitari e di controllare l’applicazione dei Trattati da parte degli Stati membri. Un collegio di 20 commissari, nominati per un periodo di cinque anni dai governi degli Stati membri previa approvazione da parte del Parlamento europeo, dirige la Commissione e sovrintende all’operato delle direzioni generali e dei servizi specializzati. Due sono i membri che rappresentano la Francia, la Germania, l’Italia, il Regno Unito e la Spagna; ciascuno degli altri Stati della Comunità è rappresentato da un solo membro. La Commissione è presieduta da uno dei venti commissari ed è organizzata in ventiquattro direzioni generali e quindici servizi specializzati in un singolo ambito. L’italiano Romano Prodi ricoprirà la carica di presidente della Commissione fino al 2004. Le direzioni generali sono strutturate secondo principi gerarchici e di competenza e si articolano ulteriormente in direzioni e divisioni. Oltre ai funzionari comunitari lavorano nella Commissione anche esperti in vari settori assunti a tempo determinato e funzionari nazionali ‘in prestito’ per un periodo limitato. La Commissione dispone di proprie rappresentanze negli Stati membri dell’Unione e di numerose delegazioni presso paesi terzi e organizzazioni internazionali. [33221] La Commissione europea si articola in ventiquattro direzioni generali affiancate da altri servizi quali il segretariato generale, il servizio giuridico, l’Ufficio delle pubblicazioni ufficiali della Comunità Europea, l’Ufficio statistico, il servizio di traduzione e altri ancora. Essa si esprime sempre in modo collegiale, previa deliberazione interna. Quando uno dei venti commissari che compongono la Commissione ritiene di dover fare una proposta in un settore di propria competenza incarica una o più direzioni generali di elaborarla. Egli la sottopone quindi al collegio, affinché gli altri commissari la discutano e prendano una decisione in merito. Una volta adottata, la proposta viene presentata a nome dell’intera Commissione e trasmessa alle altre istituzioni. Il Consiglio dell’Unione Europea può prendere decisioni solo su proposta della Commissione, la quale viene interrogata anche in relazione alla politica estera e alla sicurezza comune, nonché alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni. L’azione della Commissione interessa tutti i settori della vita quotidiana e si prefigge lo scopo di fare applicare integralmente ogni trattato comunitario. Essa si trova infatti al centro del processo di preparazione, realizzazione, attuazione e controllo della normativa dell’Unione Europea. [33231] Il nuovo Collegio della Commissione europea è stato nominato nel settembre 1999. Esso è costituito da venti Commissari, ad ognuno dei quali spettano competenze specifiche. L’incarico di presidente della Commissione è stato affidato a Romano Prodi, già presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana. Rivestono il ruolo di vicepresidenti l’inglese Neil Kinnock, il quale si occupa anche della Direzione generale amministrativa e la spagnola Loyola de Palacio, addetta pure alle Relazioni col Parlamento europeo, ai Trasporti e all’Energia. A Mario Monti compete la Direzione generale della Concorrenza, all’austriaco Franz Fischler quella relativa all’Agricoltura e alla Pesca, al finlandese Erkki Liikanen la Direzione generale delle Imprese e Società di informazione. L’olandese Frits Bolkestein si occupa del Mercato interno, il belga Philippe Busquin della Ricerca, lo spagnolo Pedro Solbes Mira delle Questioni economiche e monetarie, il danese Poul Nielson dello Sviluppo e degli aiuti umanitari, il tedesco Günter Verheugen dell’Allargamento dell’Unione Europea ad altri Paesi, l’inglese Chris Patten delle Relazioni esterne, il francese Pascal Lamy del Commercio, l’irlandese David Byrne della Sanità, il francese Michel Barnier delle Politiche regionali, la lussemburghese Viviane Reding dell’Istruzione e della Cultura. Alla tedesca Michaele Schreyer compete la Direzione generale del Bilancio, alla svedese Margot Wallström quella dell’Ambiente, al portoghese Antonio Vitorino quella della Giustizia e degli Affari interni, alla greca Anna Diamantopoulou la Direzione generale dell’Occupazione e degli Affari sociali. Indirizzo Internet: http://europa.eu.int/comm/commissioners/index_it.htm [33241] Le proposte avanzate dalla Commissione europea sono soggette alle deliberazioni del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea. La Commissione può adire la Corte di Giustizia per garantire l’osservanza dei trattati e della legislazione europea che ne deriva da parte degli Stati membri. Ogniqualvolta una sua proposta presenti un’incidenza sugli aspetti economici e sociali, la Commissione consulta il Comitato economico e sociale. Se le proposte attengono alle politiche locali o regionali essa le sottopone invece al giudizio del Comitato delle regioni. La Commissione europea prende quotidianamente posizione su argomenti di interesse comunitario. Un migliaio di giornalisti accreditati segue lo svolgimento dei lavori. Ognuna delle ventiquattro direzioni generali pubblica un’abbondante documentazione sulla propria attività e le notizie più salienti vengono trasmesse da Europe by Satellite (EbS), un servizio di informazione per le reti televisive che offre in diretta tutte le cronache delle vicende europee. Tra un programma e l’altro il teletext della rete presenta continue e aggiornate informazioni sull’attualità e sull’agenda degli appuntamenti istituzionali. Indirizzo: Rue de la Loi, 200 B-1049 Bruxelles Indirizzo Internet: http://europa.eu.int/ Telefono (0032) 2 2991111 [33311] Il Parlamento europeo è il luogo dove si esprime la volontà politica dei cittadini europei. È la sola istituzione comunitaria eletta a suffragio universale diretto ed è anche la più grande assemblea parlamentare multinazionale del mondo. Il Parlamento europeo partecipa alla formazione della legislazione comunitaria, adotta il bilancio dell’Unione Europea controllandone l’esecuzione e esercita un controllo su tutte le attività comunitarie. Esso è composto oggi da 626 deputati, suddivisi in aula in gruppi politici transnazionali, i quali, attualmente, sono otto: il partito popolare europeo, il partito socialista europeo, il partito europeo dei liberali democratici e riformatori, l’Unione per l’Europa, la Sinistra unitaria europea, l’Alleanza radicale europea, gli Indipendenti per l’Europa delle Nazioni, i Verdi. I deputati sono eletti ogni cinque anni da tutti i cittadini dell’Unione che dispongono del diritto di voto. Nei trattati istitutivi della Comunità le sue competenze si limitavano alla semplice consulenza del Consiglio dell’Unione Europea e al controllo della Commissione. In varie fasi successive tali competenze sono state ampliate. Con il Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel novembre 1993, il Parlamento ha ottenuto potere deliberativo e possibilità di approvare l’insediamento della nuova Commissione europea, nonché diritto di decisione per quanto riguarda le spese non obbligatorie del bilancio. Nel giugno 1999 il Parlamento ha iniziato la quinta legislatura: la prima elezione diretta ebbe luogo nel 1979. [33321] Tutte le attività del Parlamento europeo si svolgono sotto la direzione dell’Ufficio di presidenza, formato dal presidente e da quattordici vicepresidenti. Il presidente, designato tra i membri del Parlamento, rappresenta questa istituzione a livello internazionale. Venti commissioni parlamentari preparano i lavori: - commissione per gli affari esteri, la sicurezza e la politica di difesa; - commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale; - commissione per i bilanci; - commissione per i problemi economici, monetari e la politica industriale; - commissione per la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’energia; - commissione per le relazioni economiche esterne; - commissione giuridica e per i diritti dei cittadini; - commissione per gli affari sociali e l’occupazione; - commissione per la politica regionale; - commissione per i trasporti e il turismo; - commissione per la protezione dell’ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori; - commissione per la cultura, la gioventù, l’istruzione e i mezzi d’informazione; - commissione per lo sviluppo e la cooperazione; - commissione per le libertà pubbliche e gli affari interni; - commissione per il controllo dei bilanci; - commissione per gli affari istituzionali; - commissione per la pesca; - commissione per il regolamento, la verifica dei poteri e le immunità; - commissione per i diritti della donna; - commissione per le petizioni. Il Parlamento può anche istituire commissioni temporanee e particolari con poteri di inchiesta su temi specifici. Di norma, il Parlamento vota a maggioranza semplice; in caso di decisioni importanti, quali la sfiducia alla Commissione, l’emendamento o il rigetto di una posizione comune del Consiglio dell’Unione, è tuttavia necessaria la maggioranza assoluta dei membri. [33331] Il Parlamento europeo svolge un ruolo di primo piano nel designare il presidente e i membri della Commissione europea, della quale controlla le attività grazie alle numerose relazioni che essa gli trasmette regolarmente. All’apertura di ciascun semestre di presidenza, il presidente del Consiglio dell’Unione Europea espone il suo programma di lavoro al Parlamento europeo e, successivamente, riferisce sui risultati. In alcuni settori queste due istituzioni dispongono di un potere di codecisione. All’inizio di ogni riunione del Consiglio europeo, il quale riunisce almeno due volte all’anno i capi di Stato o di governo dei quindici paesi membri, il presidente del Parlamento europeo espone la posizione parlamentare sulle principali questioni comunitarie. [33341] Il Parlamento europeo, eletto a suffragio universale da tutti i cittadini della Comunità che dispongono del diritto di voto, rappresenta il garante degli interessi dell’Unione Europea. Ogni cittadino può rivolgere al Parlamento richieste per iscritto o trasmettere esposti e denunce. Gli atti legislativi adottati dal Parlamento europeo riguardano tutti gli aspetti della vita dei cittadini, dalla sanità alla tutela dei consumatori, all’ambiente e numerosi altri ambiti ancora. Dalle prime elezioni europee del 1979 il Parlamento ha iniziato a sviluppare un’ampia gamma di nuove attività e ad assumere numerose iniziative contro la violazione dei diritti umani in varie parti del mondo, affrontando questioni connesse con i paesi sottosviluppati e con avvenimenti di attualità dell’Unione europea. Il Parlamento europeo è la sola istituzione comunitaria che si riunisce e discute in presenza del pubblico. Le sue risoluzioni sono pubblicate nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, l’organo di stampa ufficiale dell’Unione che edita quotidianamente le decisioni, i regolamenti e le direttive delle istituzioni europee nelle undici lingue comunitarie. Gli uffici di presidenza dei Parlamenti dei singoli Stati membri e la Direzione generale dell’informazione e delle relazioni pubbliche del Parlamento europeo hanno il compito di fornire ogni informazione sulle attività svolte che venga loro richiesta. Indirizzi: Parlamento Europeo Segretariato Generale L-2929 Lussemburgo Telefono: (00352) 43001 Rue Wiertz, 43 B-1047 Bruxelles Telefono: (0032) 2 2842111 Allée du Printemps F-67070 Strasburgo Telefono: (0033) 3 88174001 Indirizzo Internet: http://www.europarl.eu.int/ [33411] Il Comitato delle Regioni è stato istituito dal Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht nel febbraio 1992 dopo due conferenze intergovernative ed entrato in vigore il 1° novembre 1993. Il Comitato deve garantire la rappresentanza degli interessi degli enti locali e regionali nell’Unione e la loro partecipazione al processo di integrazione europea. Portavoce degli interessi regionali e locali al livello del processo decisionale, ad esso spetta la funzione di organo consultivo del Consiglio dell’Unione Europea e della Commissione europea. Non ha tuttavia alcuna possibilità formale di far valere le proprie opinioni e non può intraprendere iniziative in caso di violazione del suo diritto a essere consultato. Attento alla compatibilità delle normative dell’Unione Europea coi problemi regionali e locali, esso ha il compito di trasmettere alle istituzioni europee il punto di vista locale e regionale sulle proposte presentate e quello di informare i cittadini sul processo di integrazione europea. Tale Comitato è la più giovane delle istituzioni dell’Unione Europea e la sua creazione riflette la volontà degli Stati membri di rispettare le identità degli enti regionali e locali, rendendoli partecipi dello sviluppo e dell’attuazione delle politiche europee. Il Comitato delle Regioni delibera su argomenti che riguardano direttamente i cittadini, prendendo posizione su argomenti quali lo sviluppo delle reti di telecomunicazione e di energia, il diritto all’istruzione, la tutela dei parchi naturali regionali. I pareri espressi dal Comitato denotano l’importanza delle collettività locali nell’elaborazione, gestione e valutazione delle politiche comunitarie. [33421] Il Comitato delle Regioni è formato da 222 rappresentanti di enti regionali e locali dell’Unione Europea: ventiquattro sono gli esponenti di Germania, Francia, Regno Unito e Italia; ventuno di Spagna; dodici di Belgio, Paesi Bassi, Grecia, Austria, Portogallo e Svezia; nove di Danimarca, Finlandia e Irlanda; sei di Lussemburgo. Le sessioni annuali sono cinque. Per la maggior parte i membri del Comitato sono presidenti di regioni, sindaci di grandi città o presidenti di enti territoriali, i quali esercitano funzioni elettive che li pongono a stretto contatto con i cittadini. Vi sono inoltre 222 sostituti, che vengono nominati all’unanimità dal Consiglio dell’Unione Europea su proposta degli Stati membri per un mandato di quattro anni. Durante il suo primo mandato (1994-98) il Comitato è stato composto per circa la metà da rappresentanti regionali e per l’altra metà da rappresentanti di collettività locali. [33431] I membri del Comitato delle Regioni partecipano ai lavori di otto commissioni specializzate e di quattro sottocommissioni che hanno l’incarico di preparare i pareri del Comitato stesso. I lavori del Comitato e delle sue commissioni sono organizzati dall’ufficio di presidenza, costituito da 36 membri, tra i quali il presidente, il primo vicepresidente ed un vicepresidente per ognuno dei 15 Stati costituenti l’Unione Europea. Al vertice dell’amministrazione del Comitato delle Regioni è il Segretario generale. La cooperazione tra i membri ha formalmente luogo nell’ambito di gruppi politici, i quali possono prescindere dal gruppo politico nazionale di appartenenza. Il Comitato delle Regioni deve essere consultato dalla Commissione europea o dal Consiglio dell’Unione Europea in cinque settori collegati direttamente alle competenze riconosciute alle collettività locali e regionali: la coesione economica e sociale; le infrastrutture di trasporto; le telecomunicazioni; il settore sanitario; la politica dell’istruzione per i giovani e la cultura. Il Comitato delle Regioni offre un contributo particolare alle iniziative di informazione dei cittadini europei grazie alla sua posizione di nucleo centrale di una vasta rete di diffusori di opinione che si allarga alle collettività e ai mezzi di comunicazione locali e regionali. La Direzione della comunicazione e della stampa del Comitato partecipa attivamente alle iniziative politiche, promuovendo seminari sulla politica del territorio e sui patti regionali e locali per l’occupazione, nonché conferenze e incontri con il Parlamento europeo sul futuro delle collettività locali. Le numerose pubblicazioni edite sono disponibili su semplice richiesta. Indirizzo: Rue Belliard, 79 B-1049 Bruxelles Telefono (0032) 2 2822211 Indirizzo Internet: http://www.cor.eu.int/ [33511] Il Comitato economico e sociale rappresenta gli interessi delle varie categorie della vita economica e sociale degli Stati membri. Esso è un organo consultivo che esprime pareri sulle proposte legislative della Commissione europea e su ogni questione di interesse comunitario. Formato dai rappresentanti delle varie categorie sociali, il Comitato consente la partecipazione di queste parti al processo di costruzione europea. In ottemperanza agli accordi stabiliti nel marzo 1957 dal Trattato di Roma, su richiesta del Consiglio dell’Unione Europea e della Commissione europea il Comitato economico e sociale esprime pareri sulle proposte legislative che incidono sul settore economico e sociale. Questi organi sono tenuti a consultare il Comitato in merito alle misure necessarie alla libera circolazione dei lavoratori, alle questioni relative alla formazione professionale e alla protezione dei consumatori. Dotato dal 1972 del diritto di iniziativa, il Comitato può adottare personali pareri su questioni di interesse comunitario anche se non consultato. Esso è composto da 222 consiglieri in rappresentanza dei datori di lavoro, dei lavoratori dipendenti, dei liberi professionisti, degli agricoltori, delle piccole e medie imprese, nonché da esponenti di varie categorie economico - sociali quali cooperative, camere di commercio e associazioni dei consumatori. Ventiquattro sono i membri provenienti dalla Germania, Francia, Regno Unito e Italia; ventuno dalla Spagna; dodici dal Belgio, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Portogallo; nove dalla Danimarca, Finlandia e Irlanda; sei dal Lussemburgo. I consiglieri sono ufficialmente nominati dal Consiglio dell’Unione Europea su proposta dei governi degli Stati membri. Il mandato dura quattro anni, al termine dei quali possono essere rieletti. Le riunioni hanno luogo una volta al mese. Il Comitato è guidato da un presidente e da un ufficio di presidenza il cui mandato dura due anni ed è composto da 30 membri, assistiti nella loro attività da un segretario generale. Il presidente dirige e coordina le attività dei diversi organi di lavoro del Comitato, tra i quali le nove sezioni specializzate che coprono ogni settore in cui tale istituzione opera: questioni economiche, finanziarie e monetarie; relazioni esterne; settore sociale; tutela dell’ambiente; sanità e protezione dei consumatori; agricoltura e pesca; sviluppo regionale; industria e commercio; trasporti e comunicazioni; energia e ricerca. [33521] Il Comitato economico e sociale si riunisce in seduta plenaria dieci volte all’anno. I pareri espressi dai suoi 222 membri sono adottati a maggioranza semplice e trasmessi alla Commissione europea, al Consiglio dell’Unione Europea ed al Parlamento europeo, affinché gli atti legislativi comunitari tengano conto degli interessi espressi in concertazione dalle parti sociali. I pareri sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, che esce ogni giorno nelle undici lingue ufficiali della Comunità. Organizzato in nove sezioni corrispondenti ai settori in cui esso deve essere consultato a norma del Trattato di Roma del 1957, il Comitato economico e sociale ha istituito un osservatorio del mercato unico col compito di individuare le difficoltà alla piena attuazione di un solo mercato europeo e di contribuire alla ricerca di soluzioni concrete. Il Comitato promuove un programma di conferenze dal titolo L’Europa dei cittadini, che ha lo scopo di valutare il processo di attuazione del mercato unico negli Stati membri, circoscrivendo l’analisi e il dibattito agli aspetti specifici del paese ospitante. Esso ha inoltre istituito relazioni con le parti sociali di paesi extracomunitari, quali l’Africa, l’America Latina, i Caraibi e gli Stati del Pacifico. [33531] Il Comitato economico e sociale può essere consultato nell’ambito delle procedure decisionali della Commissione europea e del Consiglio dell’Unione Europea in tutti i casi in cui tali istituzioni lo ritengano opportuno. I pareri espressi dal Comitato sono trasmessi al Consiglio, alla Commissione ed al Parlamento europeo, affinché gli atti legislativi emanati tengano conto degli interessi delle parti sociali. Nel caso in cui i pareri siano stati votati a larga maggioranza, essi influiscono sulle decisioni degli organi legislativi. Il contributo del Comitato è destinato in primo luogo alla Commissione europea e al Consiglio dell’Unione Europea, che, nella delibera degli atti comunitari, ricevono attraverso il Comitato le proposte delle varie categorie. Il Comitato economico e sociale esprime pareri che vengono pubblicati nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Prepara inoltre comunicati stampa per informare sulle attività in corso o in progetto ed è fornito di una banca di dati contenente tutti i pareri adottati dal gennaio 1995 tradotti in tutte le lingue della Comunità. Indirizzo: Rue Ravenstein, 2 B-1000 Bruxelles Telefono: (0032) 2 5469011 Indirizzo Internet: http://www.ces.eu.int/ [33611] La Corte di Giustizia garantisce l’osservanza del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati della Comunità Europea. Essa è composta da quindici giudici e da nove avvocati generali nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri per un periodo di sei anni. I giudici designano tra di loro, per tre anni, il presidente della Corte. Quale unico organo giurisdizionale dell’Unione Europea, alla Corte sono stati demandati numerosi compiti istituzionali non riconducibili all’esercizio della semplice funzione giudiziaria. Essa può infatti agire in qualità di giudice costituzionale, che definisce e chiarisce i diritti e gli obblighi delle istituzioni europee e dei rapporti che intercorrono tra Stati membri e Unione Europea; di giudice della legittimità, che esamina la compatibilità degli atti di diritto emanati dal Consiglio dell’Unione Europea e dalla Commissione europea con i trattati e i fondamenti principali del diritto; di giudice amministrativo, il quale esamina i ricorsi di persone fisiche e giuridiche contro provvedimenti dell’Unione che li riguardano e le cause del personale; di giudice civile, che accerta la responsabilità extracontrattuale e esamina le cause per il risarcimento dei danni cagionati dalle istituzioni comunitarie o dai loro dipendenti nell’esercizio delle loro funzioni amministrative. Gli avvocati generali della Corte di Giustizia preparano parallelamente ai giudici relatori le cause pendenti, esprimono su di esse la loro posizione e presentano le proprie conclusioni in forma di parere giuridico insieme a concrete proposte di decisione. Gli avvocati generali, pur essendo membri della Corte, non prendono parte né alla formazione delle sentenze, né alle votazioni. La posizione eminente di questa istituzione in seno al sistema comunitario e la sua autorità nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto derivano dal fatto che essa decide a maggioranza, seguendo esclusivamente la propria concezione del diritto e della giustizia e agendo come un autentico organo sovrannazionale, svincolato dagli interessi degli Stati membri. [33621] Con decisione del Consiglio dell’Unione Europea del 24 ottobre 1988 alla Corte di Giustizia è stato affiancato un “Tribunale di primo grado”, che, in determinate materie quali lo statuto dei funzionari e le questioni di concorrenza, funge da giudice di merito. Il Tribunale, la cui base giuridica è stata fornita dall’Atto unico europeo, ha iniziato la propria attività il 31 ottobre 1989. Esso è composto da quindici membri che esercitano l’attività giudicante e possono assolvere pure alle funzioni di avvocato generale; la durata del loro incarico è di sei anni. Le competenze del Tribunale sono state estese a tutti i tipi di ricorso proposti da persone fisiche e giuridiche contro atti emanati dalle istituzioni europee, al fine di smaltire il numero crescente di provvedimenti promossi dinanzi alla giurisdizione europea e di alleviare il carico di lavoro della Corte di Giustizia. [33631] La maggior parte delle sentenze emesse dalla Corte di Giustizia ha per oggetto il diritto commerciale, la concorrenza e l’attuazione delle politiche comuni unitarie. Le sentenze sono pubblicate integralmente nella Raccolta ufficiale della Corte di Giustizia; i loro estremi e il dispositivo anche nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Oltre alle sentenze in merito al diritto dei trattati e alla legittimità dei singoli atti di diritto derivato, la Corte di Giustizia si pronuncia sempre più spesso in via pregiudiziale, ovvero dietro richiesta di una giurisdizione nazionale, sull’interpretazione e sulla validità di disposizioni del diritto comunitario che tale giurisdizione reputi rilevanti per la definizione di un procedimento pendente dinanzi ad essa. La pronuncia pregiudiziale della Corte è vincolante per il tribunale nazionale che ha posto il quesito pregiudiziale. Dal 1993 questa istituzione ha il potere di infliggere ammende agli Stati membri che non si conformano alle sue sentenze. Indirizzo: Boulevard Konrad Adenauer L-2925 Lussemburgo Telefono: (00352) 43031 Indirizzo Internet: http://europa.eu.int/cj/index.htm [3411] Il programma Socrates ha iniziato le sue attività nel 1995, dopo che l’articolo 126 del Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel novembre 1993, aveva sancito il dovere della Comunità Europea di contribuire allo sviluppo della qualità dell’educazione. Il programma comprende tutte le iniziative dell’Unione attinenti al campo dell’educazione. Esso si occupa di scuole, di università e di istituti educativi in genere, promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri. È aperto non soltanto agli studenti e agli insegnanti, ma anche a tutti coloro che si interessano di questioni legate all’istruzione. Suddiviso in tre progetti - Erasmus, Comenius e Lingua – Socrates favorisce la ricerca e lo sviluppo di nuovi sistemi educativi, quali ad esempio l’apprendimento a distanza. Particolare attenzione è rivolta ai sistemi di insegnamento per disabili e all’istruzione delle categorie sociali più deboli, alle quali devono essere fornite pari opportunità di studio. Socrates favorisce la cooperazione europea in tutti i campi educativi e lo scambio di informazioni e di esperienze sui metodi e sulla politica dell’istruzione nei quindici Paesi della Comunità, comprendendo anche la Norvegia, l’Islanda, il Liechtenstein e varie altre nazioni dell’Europa centrale e orientale. Indirizzo: BAT Socrates & Jeunesse Rue Montoyer, 70 B-1000 Bruxelles Telefono: (0032) 2 2330111 Fax: (0032) 2 2330150 E:mail: info@socrates-youth.be Indirizzo Internet: http://europa.eu.int/en/comm/dg22/socrates.html [34111] All’interno del programma Socrates, grande importanza riveste il progetto Erasmus. Esso si rivolge agli studenti universitari che desiderano ampliare i loro orizzonti e le loro conoscenze frequentando gli atenei europei da un minimo di tre ad un massimo di dodici mesi. Attivo fin dal 1987, l’Erasmus ha permesso a migliaia di giovani universitari di soggiornare in un altro Paese comunitario a loro scelta. Sono circa 80.000 gli studenti che partecipano ogni anno a questa iniziativa. Promuovendo la cooperazione tra le università europee, il progetto Erasmus si rivolge anche agli insegnanti, consentendo loro la frequentazione di atenei stranieri e l’approccio con le diverse metodologie didattiche. Prendono parte al programma, oltre ai quindici Stati membri dell’Unione, alcune nazioni del centro e dell’est europeo, oltre a Cipro, l’Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia. L’aiuto finanziario della Comunità Europea copre le spese di viaggio, il perfezionamento della lingua del Paese ospitante, le rette dell’università e parte dei costi di soggiorno, ai quali devono concorrere anche i partecipanti. I corsi seguiti e gli esami affrontati sono generalmente riconosciuti nel Paese di origine. L’Erasmus offre anche a coloro che non partecipano attivamente al progetto l’opportunità di dare una dimensione europea ai loro studi. Tutte le università sono infatti invitate a stabilire rapporti con atenei di altre nazioni comunitarie, finalizzati ad una ‘europeizzazione’ della cultura attraverso lo scambio ed il confronto tra docenti volto alla ricerca di nuovi corsi di studio. [34121] Mentre l’Erasmus si rivolge agli studenti e ai docenti universitari, il progetto Comenius è stato approntato al fine di promuovere la cooperazione nel campo dell’educazione tra gli allievi e gli insegnanti delle scuole primarie e secondarie dei Paesi dell’Unione Europea. Esso si prefigge numerosi obiettivi, rivolti alla collaborazione transnazionale tra le scuole europee, all’educazione dei giovani allievi figli di lavoratori emigrati, alla promozione dell’insegnamento attraverso scambi di informazioni e di esperienze tra gli insegnanti. Di particolare rilevanza sono i progetti volti all’integrazione degli alunni nella vita sociale del Paese ospitante, diverso spesso per cultura e lingua da quello di origine, e alla cooperazione tra docenti di diversa nazionalità. [34131] Il progetto Lingua è stato realizzato con lo scopo di promuovere l’apprendimento e la conoscenza delle lingue straniere comunitarie e degli altri Paesi associati al progetto. Lingua permette lo studio delle undici lingue ufficiali dell’Unione Europea – danese, francese, inglese, italiano, olandese, tedesco, finlandese, greco, portoghese, spagnolo e svedese. Aderiscono all’iniziativa pure nazioni extracomunitarie quali l’Islanda, il Liechtenstein, la Norvegia. La priorità nel progetto è data a quegli idiomi meno utilizzati e conosciuti. Il programma si rivolge non soltanto agli studenti, ma anche a tutti coloro che si accingono a lavorare in un Paese comunitario o che desiderano migliorare la conoscenza di una lingua, fondamentale per la comprensione e l’interazione tra gli individui in un contesto che vedrà presto abolite tutte le barriere tra gli Stati d’Europa. Al progetto possono partecipare anche istituzioni e persone extraeuropee, provenienti da Paesi come la Romania, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Polonia, la Slovacchia, l’Estonia, la Lituania, la Bulgaria e la Slovenia. [3421] Le norme per l’ammissione alle università europee sono assai diverse e regolate dalle leggi vigenti nei singoli Paesi. Nella maggior parte dei casi non è sufficiente presentare il diploma di scuola media superiore per avere il permesso di accedere ai corsi dell’ateneo prescelto. Alcune università richiedono un colloquio con il candidato per valutare la conoscenza della lingua straniera e la preparazione nella materia relativa al corso di studi da intraprendere. Altri atenei sottopongono lo studente ad un esame di ammissione con relativa votazione finale in base alla quale stabilirne o meno l’idoneità. Presso ogni università italiana sono a disposizione degli studenti dépliants, indirizzi postali ed in rete nei quali sono ampiamente illustrate le norme che regolano l’accesso degli studenti desiderosi di compiere una parte dei loro studi in un ateneo di un altro Paese dell’Unione Europea. [3431] Non sussistono differenze tra i vari Paesi aderenti all’Unione Europea nel riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche accademiche dei candidati che desiderano studiare in un’università straniera con il progetto comunitario Erasmus. Gli esami sostenuti nelle università del paese dell’Unione prescelto dallo studente sono riconosciuti validi dagli atenei italiani ai fini del conseguimento del diploma di laurea. Esiste inoltre una rete di centri, denominata NARIC e situata sotto l’egida del programma Erasmus, specializzata nelle procedure di riconoscimento dei titoli di studio conseguiti nei Paesi comunitari. Indirizzi NARIC in Italia: CIMEA – Fondazione Rui Viale XXI Aprile, 36 00162 Roma Telefono: 06 86321281 Fax: 06 86322345 E:mail: cimea@fondazionerui.it Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento Coordinamento Politiche Comunitarie Via Giardino Theodoli, 66 00186 Roma Telefono 06 67795322 Fax: 06 67795342 Indirizzo Internet: http://europa.eu.int/en/comm/dg22/socrates/agenar.html [3441] Gli studenti hanno il diritto di risiedere in ogni Stato dell’Unione Europea. Tuttavia, se il soggiorno è superiore a tre mesi, è richiesto un permesso, il cui rilascio è legato alla presentazione al locale posto di polizia dell’iscrizione all’università, di un’assicurazione sanitaria e della prova della capacità di sostentamento durante tutto il periodo di residenza all’estero. Gli studenti possono essere accompagnati dai loro consorti e dai figli, qualunque sia la loro nazionalità. Il permesso di soggiorno è valido per tutta la durata dei corsi intrapresi e può essere rinnovato. Il materiale illustrativo del programma Erasmus fornisce gli indirizzi dei luoghi dove gli studenti possono trovare alloggio: la scelta varia dalla sistemazione presso famiglie a quella nei campus universitari o in stanze e appartamenti in locazione. [35111] Dal 1995 tutti i progetti comunitari relativi alla formazione professionale sono stati riuniti sotto il programma Leonardo da Vinci. Inizialmente attivo nei quindici Paesi dell’Unione, nel 1997 il programma è stato ampliato all’Ungheria, alla Repubblica Ceca e a Cipro, e dal 1998 coinvolge anche la Polonia e la Slovacchia. I principali obiettivi del programma sono quelli di innovare i sistemi nazionali di formazione professionale, di sviluppare la conoscenza delle lingue, di promuovere le pari opportunità tra i sessi e di lottare contro la disoccupazione. Tra gli scopi vi sono anche quelli di incoraggiare le misure di formazione degli adulti privi di qualifiche e, soprattutto, dei giovani, forniti di qualsiasi titolo di studio, che si affacciano al mondo del lavoro. Possono prendere parte a questo programma d’azione comunitaria imprese e istituti del settore privato e pubblico, organismi nazionali di formazione, università, centri e istituti di ricerca, nonché singoli cittadini nel quadro di una proposta presentata da organizzazioni quali sindacati e associazioni. Ogni anno oltre 20.000 giovani partecipano a questo programma formativo, che offre loro il vantaggio di acquisire esperienze lavorative all’estero ed una conoscenza linguistica tale da costituire un ottimo titolo nella ricerca di un futuro impiego nel proprio Paese. I periodi di soggiorno variano dalle tre settimane ai nove mesi; l’età massima per partecipare al programma è di 28 anni. Indirizzo Internet: http://europa.eu.int/en/comm/dg22/leonardo.html [35121] Le istituzioni della Comunità Europea offrono varie possibilità di impiego per i giovani laureati. La Commissione europea e il Parlamento europeo mettono al bando borse di studio e incarichi di lavoro a tempo determinato per laureati in varie discipline, per lo più economiche e giuridiche, che non abbiano compiuto i 30 anni di età. La Commissione europea offre l’occasione di lavorare con una contratto formativo per un periodo di sei mesi nel settore amministrativo. Gli incarichi semestrali hanno inizio il 1° ottobre ed il 1° marzo di ogni anno. Il Parlamento europeo bandisce un concorso per laureati in discipline attinenti alle attività parlamentari europee per impieghi della durata di tre mesi. Tutti gli aspiranti devono avere un’età inferiore ai 35 anni e possedere una perfetta padronanza di almeno una lingua della Comunità ed una discreta conoscenza di una seconda lingua. Anche chi non ha ancora conseguito il diploma di laurea può aspirare ad un incarico della durata da uno a tre mesi presso il Parlamento. Tali incarichi non sono retribuiti, tuttavia consentono ai giovani di conoscere più a fondo questa istituzione. Numerose opportunità di impiego sono offerte pure dalle organizzazioni che ruotano attorno alle istituzioni ufficiali comunitarie, nelle quali lavorano migliaia di persone, molte delle quali impegnate come interpreti e traduttori. Per informazioni: ISFOL Via G.B. Morgagni, 33 00161 Roma Telefono: 06 44590490 Fax: 06 44590475 E:mail: leoprojet@insfol.it [3521] Dopo avere completato gli studi e prima di iniziare la vita lavorativa molti giovani usufruiscono della possibilità di trovare un impiego in un Paese europeo diverso dal proprio. All’esperienza di lavoro si uniscono infatti i vantaggi del perfezionamento della conoscenza di una lingua e di una personale esperienza di vita. Ogni lavoratore straniero ha, all’interno della Comunità, gli stessi diritti e gli stessi doveri di un lavoratore locale. Egli gode infatti della stessa legislazione e dello stesso salario. In linea di massima, chiunque lavori in un Paese comunitario, anche per un breve periodo di tempo, deve versare a questo Stato i propri contributi per la previdenza sociale. Tali contributi non saranno persi al momento del ritorno nel Paese di origine. La pensione sarà concertata tra le autorità preposte dei Paesi interessati. Secondo gli accordi sanciti dalla legislazione europea sulla previdenza sociale, un lavoratore deve essere protetto dal sistema previdenziale del Paese nel quale lavora e vive. In caso di perdita del lavoro egli non può essere obbligato a lasciare il Paese. Chiunque desideri cercare un impiego in uno dei Paesi dell’Unione Europea può rivolgersi agli uffici dell’EURES, un servizio creato dalla Commissione europea allo scopo di facilitare la ricerca di un lavoro all’interno della Comunità. Esso fornisce informazioni e assistenza in materia di collocamento e di condizioni lavorative nei Paesi stranieri. Il progetto EURES riunisce oltre quattrocento specialisti in questioni di lavoro di tutta Europa. Per quello che riguarda le professioni, in linea di massima i titoli di studio conseguiti nei Paesi comunitari sono riconosciuti da tutti gli Stati membri. Tuttavia, nel caso che si desideri esercitare una professione all’estero, valgono direttive particolari a seconda delle diverse attività, essendo spesso necessario sostenere in loco un esame di abilitazione o un periodo di tirocinio supervisionato dalle autorità preposte. Non esistono invece restrizioni per chiunque voglia intraprendere un’attività commerciale o esercitare un lavoro in qualità di dipendente. Per informazioni su EURES: http//europa.eu.int/comm/dg05/elm/eures/index.htm [3531] Una buona opportunità di impiego per i giovani è offerta dal lavoro alla pari. In cambio di piccole mansioni domestiche o dell’accudimento dei bambini, la famiglia presso la quale si svolge il lavoro offre una camera, il vitto ed un minimo compenso in denaro. In genere l’orario lavorativo è di cinque o sei ore giornaliere; un giorno alla settimana è libero. Tale tipo di impiego permette di avere tempo a disposizione per seguire un corso di lingua e per conoscere il Paese. Esistono varie agenzie che provvedono a queste sistemazioni. Le referenze necessarie nei Paesi della Comunità sono quelle di avere un’età compresa tra i 18 e i 29 anni, di possedere qualche esperienza nella cura dei bambini e qualche conoscenza di base della lingua del Paese nel quale si lavorerà. Non indispensabile, ma assai utile è il possesso della patente di guida, la cui validità è riconosciuta in tutti gli Stati dell’Unione Europea. [3541] L’European Voluntary Service è un programma della Comunità Europea rivolto ai giovani tra i 18 e i 25 anni che risiedono in uno dei quindici Paesi dell’Unione, in Islanda e in Norvegia. Esso offre loro la possibilità di vivere in un Paese straniero per periodi che variano da tre settimane a dodici mesi, impegnandosi in un lavoro di volontariato nei servizi sociali o in iniziative no-profit legate alla tutela dell’ambiente e alla salvaguardia del patrimonio artistico e culturale. Attivo dal 1998, dopo un progetto pilota durato due anni, l’iniziativa ha riscosso grande successo, permettendo ai giovani che hanno usufruito di questa opportunità di risiedere in uno Stato diverso dal proprio e di contribuire allo sviluppo sociale della nazione ospitante. [3551] Il lavoro in un altro Paese della Comunità Europea dà diritto al permesso di soggiorno, obbligatorio per chi risiede in uno Stato comunitario per più di tre mesi. Per ottenere il permesso è necessario presentare al locale posto di polizia la propria carta di identità assieme al contratto di impiego o ad un certificato rilasciato dal datore di lavoro. Tuttavia, per cercare un lavoro e firmare un contratto di impiego non è necessario alcun tipo di permesso, la cui concessione è obbligatoria per legge e avviene soltanto dopo il conseguimento del posto. A coloro che lavorano è consentito condurre con sé la propria famiglia, il cui permesso di soggiorno ha la stessa durata di quello del lavoratore.